Nicola Abbagnano
ESISTENZIALISMO POSITIVO
PARTE I - CHE COS'E' L'ESISTENZIALISMO?
1. LA RICERCA
In tutti i suoi aspetti, umili o alti che siano,
l'esistenza dell'uomo è la ricerca dell'essere. La tendenza volgare al
godimento e al benessere e lo slancio religioso verso Dio (per considerare gli
atteggiamenti più opposti) sono ugualmente, come tutti gli altri atteggiamenti
della concreta umanità, la ricerca di uno stato, cioè di una condizione
o di un modo d'essere, nel quale venga garantita la realizzazione di esigenze
o bisogni considerati fondamentali. L'uomo cerca in ogni caso un appagamento,
un completamento, una stabilità che gli mancano.
Cerca l'essere. Questa condizione è caratteristica
della sua finitudine. Se egli cerca l'essere, non lo possiede, non
è, lui, l' essere. Rendersi conto di questa finitudine, scrutarne a
fondo la natura è il compito fondamentale dell'esistenzialismo. Ma rendersene
conto o scrutarla non significa soltanto farne oggetto di speculazione ma
prenderne atto e decidere di conseguenza. Qui appare chiaramente la
prospettiva nuova dell'esistenzialismo. Esso esige dall'uomo impegno
nella propria finitudine. Esige che nella ricerca dell'essere che
costituisce la sostanza di ogni suo quotidiano o eccezionale
atteggiamento, egli non dimentichi o disconosca per l'appunto questa sostanza:
non dimentichi e disconosca che tale ricerca ha un senso o un fondamento solo
in virtù della sua limitazione costitutiva, solo in virtù della sua
insufficienza ed instabilità e che pertanto ogni passo in quella ricerca non
fa che consolidarlo nella finitudine della sua natura.Tale esigenza gli chiude
certe prospettive, ma gliene apre subito altre, molto più feconde. Gli chiude
la prospettiva di un appagamento finale, di un possesso definitivo e
inalienabile, di una attesa troppo fiduciosa ed inerte; ma gli apre quella
della lotta, della realizzazione di sé e della conquista. E in tale
prospettiva le cose cambiano. L'uomo non deve lanciarsi verso l'essere con la
pretesa di captarlo e di poterlo, quandocchesia, dominare tutto, non deve
nutrire l'illusione di convertirsi in esso e di identificarsi con esso, -
illusione che gli prepara la caduta inevitabile nello smarrimento e nella
disperazione. Deve invece consolidarsi nella sua capacità di ricerca e di
acquisizione, accettando e riconoscendo i propri limiti e lavorando entro
questi limiti in profondità, con la rinunzia a ogni dispersione. Questo
impegno è nello stesso tempo il riconoscimento della natura ultima dell'uomo e
l'autodefinizione metafisica dell'uomo in quanto finitudine: l'uomo è
l'originaria, trascendentale possibilità della ricerca dell'essere.
Appare qui chiaramente il secondo motivo fondamentale
dell'esistenzialismo. Il filosofare non è privilegio dei filosofi. E'
l'impegno dell'uomo verso la propria finita condizione di uomo, verso i limiti
che lo condizionano e lo stimolano. Questo impegno può realizzarsi nella fede
come nell'azione, nella speculazione come nell'arte. Esso non esclude nessun
compito, nessuna condizione umana. Esclude solo il suo contrario, cioè il
non-impegno, il disconoscimento della finitudine. Ma questo imprime già una
direttiva sicura all'esistenza, le dà già la norma della sua
costituzione autentica. Esclude la distrazione, la dispersione, esclude tutto
ciò che rompe il vincolo esistenziale dell'uomo con se stesso e con gli altri;
giacché esige il raccoglimento delle proprie forze e la solidarietà fattiva
con gli altri. La finitudine, come sostanza dell'esistenza,
diventa norma dell'esistenza. E questa norma portando l'uomo a
realizzarsi come finito, lo porta nello stesso tempo continuamente al di là di
sé, giacché lo consolida nella sua capacità di ricerca, nella possibilità del
suo rapporto con l'essere.
Così quella che a prima vista appare la debolezza
dell'uomo, l'impotenza della sua natura finita, si converte in forza e
in potenza. Il riconoscimento, l'accettazione e la scelta operano la
trasformazione. Ma questa trasformazione è in realtà una fondazione.
L'uomo realizza fino in fondo la sua natura finita perché ha deciso di
sceglierla. La scelta decisa significa l'appassionarsi dell'uomo al suo
compito, la sua risoluzione di essere sino in fondo esclusivamente se stesso.
E il se stesso non è dato all'uomo anteriormente alla scelta e
alla decisione. La scelta e la decisione lo costituiscono; la ricerca
dell'essere è la ricerca del proprio essere, del proprio se stesso, dell'io.
L'io è l'unità fondamentale dell'essere dell'uomo. Ma di tale unità l'uomo non
gode come di un privilegio che non può perdersi: egli deve realizzarla
ritraendosi dalla dispersione degli atteggiamenti impropri e raccogliendosi
nell'unità di un compito unico. L'io non è un dato psicologico o
antropologico, non è un fatto oggettivamente osservabile; è l'esigenza
fondamentale verso cui l'uomo muove nella sua ricerca dell'essere, il termine
che egli tende a costituire e a fondare nel suo rapporto con l'essere.
L'io stesso è perciò trascendente. L'uomo non lo
ritrova finché rimane immerso e disperso nella finitudine, cioè nel molteplice
eterogeneo dei suoi atteggiamenti insignificanti, ma lo ritrova solo quando
assume, su di sé la finitudine e convoglia il molteplice degli atteggiamenti
verso l'unità di un compito. E anche quando l'ha ritrovato può ancora
perderlo, sicché la sua decisione non è un atto puntuale ma una continuità di
processo nel quale il rischio della dispersione e della perdita è sempre
presente.
Si presenta qui il terzo tema fondamentale
dell'esistenzialismo: la trascendenza. L'eliminazione di ogni dato, la
risoluzione di tutto l'essere nella sua essenza problematica, fa apparire in
tutta la sua enorme importanza il movimento della trascendenza. Giacché, come
l'io è continuamente trascendente per l'uomo in quanto deve continuamente
rapportarsi ad esso per realizzarlo, così è trascendente l'essere del
mondo. Realizzarsi come io significa appassionarsi al proprio compito e
appassionarsi al proprio compito significa far uscire il mondo dalla
dispersione degli avvenimenti insignificanti e riconoscerlo nella serietà e
nella consistenza del suo ordine, nel quale ogni cosa è un mezzo o un ostacolo
per la realizzazione dell'io. Il mondo appare come un complesso di vicende
insignificanti, uno spettacolo variopinto, ma privo di consistenza e di
serietà, a chi non ha scelto il suo compito, a chi non ha ritrovato se stesso.
Ma a chi è impegnato sino in fondo nella realizzazione di sé, il mondo appare
come un'unità compatta; la quale deve fornire gli strumenti
indispensabili della realizzazione, ma può anche costituire l'ostacolo
insormontabile e la possibilità di uno scacco. L'accettazione del mondo
nell'essere che gli è proprio, nel suo ordine lucidamente riconosciuto, è la
condizione indispensabile per la realizzazione di sé ed è quindi
essenzialmente connessa a tale realizzazione. Neppure il mondo è dunque un
fatto o un complesso di fatti. Il suo essere autentico si costituisce soltanto
come termine della trascendenza esistenziale.
4. LA COESISTENZA
Ma il significato ultimo della trascendenza si rivela
soltanto nella coesistenza. Questa è il quarto tema fondamentale
dell'esistenzialismo. Potrebbe sembrare che l'uomo che viva nella passione del
suo compito e nello sforzo della realizzazione di sé si ponga in uno
splendido isolamento; in realtà il legame dell'uomo con gli altri uomini è
essenziale all'esistenza e si rivela nei suoi due aspetti fondamentali: la
nascita e la morte. Nascita e morte non sono fatti; non sono, come
si ritiene comunemente, i termini obbligati dell'esistenza umana, o
della vita in generale. Sono possibilità che sta all'uomo di riconoscere e
accettare o disconoscere ed ignorare. Riconoscere che si nasce significa per
me riconoscere che la mia esistenza non è tutta l'esistenza, che
essa è legata, quanto alla sua stessa origine, all'esistenza degli altri: e
significa perciò riconoscere la comunità con la quale coesisto e che mi
ha dato origine. Rendersi conto del fatto originario, (che tutti verbalmente
ammettono ma che non tutti realizzano nel suo significato esistenziale) che
si nasce, significa rendersi conto della natura essenziale, costitutiva
dei vincoli che legano l'uomo alla comunità e del carattere concreto e
individuale della propria esistenza; il che significa riconoscere la dignità e
l'importanza degli altri rispetto alla mia stessa esistenza.
L'esistenza non basta a se stessa: alla sua origine deve essere posto un atto
di trascendenza verso l'esistenza: la trascendenza verso l'esistenza è la
coesistenza. L'uomo nasce dall'uomo. Questo esprime tipicamente la
necessità della coesistenza per l'esistenza: l'insufficienza dell'esistenza a
se stessa, la necessità del suo ritrovarsi nella coesistenza. Da quel
riconoscimento scaturisce la possibilità esistenziale della solidarietà
umana che è a fondamento delle comunità storiche e degli aspetti propriamente
umani dell'esistenza: l'amore e l'amicizia. Il rapporto esistenziale si rivela
come un vincolo di solidarietà che sorregge l'uomo nella sua debolezza e nella
sua insufficienza e lo obbliga a rendere agli altri ciò che a lui è stato
dato. L'esistenza del singolo è riconosciuta così legata a quella dell'altro,
da non poterne stare senza. L'amore è la forma
tipica del riconoscimento dell'altro come di un altro se stesso.
Esso suppone la trasparenza evidente dell'uno all'altro, trasparenza per la
quale l'uno è per l'altro proprio ciò che è per se stesso. L'amicizia
moltiplica a sua volta le possibilità di intesa e di incontro fra l'uomo e
l'uomo e, come già vide Aristotele, è costituita da una comunità fondamentale
di interesse e di direttive.
Tutte le forme della coesistenza si fondano sulla natura
finita dell'uomo come possibilità del rapporto con l'essere. L'uomo non può
ricercare l'essere o rapportarsi all'essere, se non coesistendo. L'uomo non
può ritrovare se stesso e costituirsi come io nè riconoscere la realtà e
l'ordine del mondo, se non nell'atto di rapportarsi agli altri, di riconoscere
l'originarietà e l'essenzialità del suo vincolo con gli altri e di decidersi
conseguentemente, alla fedeltà verso la comunità alla quale appartiene,
verso l'amore e verso l'amicizia.
Dall'altro lato la morte. esprime la possibilità
della risoluzione del vincolo coesistenziale. Dalla morte io posso essere
tolto agli altri, al mondo ed a me stesso. La morte non è una fine o un
compimento, ma una possibilità che accompagna tutte le altre e ne
costituisce l'intrinseca limitazione. Essa è la possibilità del non-possibile,
che domina e determina dall'interno ogni opera umana e ne fa un appello
all'avvenire, cioè appunto una possibilità. L'uomo deve in ogni caso fare i
conti con l'avvenire; e in ogni caso l'avvenire include per lui una
minaccia latente: la possibilità che la sua opera o lui stesso vada perduto.
Questa minaccia, se è riconosciuta ed accettata, diventa un rischio, il
rischio deIla riuscita e della perdita. Ma come rischio è ineliminabile.
Proprio dal rischio nasce infatti la necessità di decidere, l'esigenza della
fedeltà.
5. IL DESTINO
Qui si incontra il quinto tema fondamentale
dell'esistenzialismo. Se l'avvenire fosse già incluso e precostituito nel
passato, se la storia fosse un progresso continuo, un ordine necessario dal
quale ogni conquista fosse resa definitiva e ogni valore garantito in eterno,
nessuna dispersione, nessuno sbandamento di singoli potrebbero impedirlo o
turbarlo. Ma in realtà l'uomo deve sollevarsi alla storia, cioè all'ordine nel
quale si ritrova il significato del suo essere come dell'essere del mondo e
della comunità, muovendo faticosamente dalle vicende insignificanti e
dispersive del tempo. L'uomo non è storia: deve farsi storia ritrovando
se stesso nel mondo e nella comunità. Deve sottrarsi alla minaccia del tempo,
che è sempre pronto a sommergerlo nella insignificanza delle sue vicende
banali, e affrontare il rischio della sua riuscita nella storia. Ora questo
rischio può affrontarlo solo disponendosi alla fedeltà: muovendo verso
l'avvenire con la decisione di rinsaldarlo al passato e di ritrovare nel
passato il suo vero se stesso e la vera forma della sua coesistenza con gli
altri. Questa fedeltà è il destino.
Nel mito di Er, Platone immagina che le anime prima
di incarnarsi siano condotte a scegliere il loro destino; e che siano poste
dinanzi a tanti modelli di vita, tra i quali ognuna liberamente può scegliere
quello al quale rimarrà poi necessariamente legato. Ma accade che ogni anima
scelga in base all'esperienza della vita anteriore e che ad esempio Ulisse,
ammaestrato dagli antichi travagli e spoglio ormai da ogni ambizione, scelga
per sé la vita più oscura e più umile. Questo mito platonico nasconde un
insegnamento vitale. Sembra che nella scelta del proprio compito,
nell'accettazione e nel riconoscimento di quello che per ognuno è il proprio
destino, l'uomo abbia dinanzi infinite possibilità tra le quali la scelta sia
indifferente. In realtà, non c'è possibilità di scelta indifferente. Una sola
è la possibilità che mi è propria ed è quella alla quale posso dedicarmi con
un impegno appassionato e totale. Non è possibile riconoscerla se non per la
possibilità di questo impegno. Non è possibile esaminare dall'esterno le varie
possibilità indifferenti che mi sembrano offerte: in realtà tutte le altre ci
sono soltanto perché io scelga la mia, che è quella in fondo alla quale
ritroverò me stesso e il mio vero rapporto con gli altri e col mondo. E la
decisione non è un atto puntuale, ma una ricerca continua, un processo di
approfondimento, che scopre nella possibilità che ho scelta una sempre nuova
ricchezza, distogliendomi da ciò che può distrarmi, concentrandomi e
consolidandomi in ciò che mi è proprio. Né io sono io, né sussiste per me una
possibilità qualsiasi, al di fuori dell'impegno, della decisione e della
scelta. L'unità che mi fa io è quella dell'impegno esistenziale, è l'unità del
compito nel quale mi riconosco. Le altre possibilità mi si prospettano sullo
sfondo di questo compito fondamentale che debbo lavorare a chiarire e a
riconoscere. E in questo lavoro gli altri mi possono aiutare, come io posso
aiutarli; ma, da ultimo, la decisione spetta a me solo.
Certamente, io posso ingannarmi. Come le anime del mito
platonico, posso essere ammaliato o lusingato dal luccicore esterno di certe
possibilità dispersive e posso nel vano tentativo di rincorrerle, mancare al
ritrovamento di me stesso e del mio vero rapporto con gli altri. Ma in questo
caso l'errore mi si farà chiaro, prima ancora che con lo scacco, con la mia
incapacità di consolidare e mantenere l'impegno. Questa incapacità produrrà
immediatamente la caduta nella dispersione e nell'insignificanza. Io non mi
ritroverò in quello che faccio, perché non sarò quello che debbo essere. Avrò
mancato alla sostanza del mio essere, alla natura ultima della mia finitudine,
sarò stato infedele a me stesso ed agli altri. Al limite di questa caduta, se
nulla mi redime e mi fa ritornare a me stesso, non solo svaniranno nel nulla
le possibilità che sembravano più promettenti, ma tenderà a disperdersi e a
svanire lo stesso mio io ed il mio rapporto con gli altri: il vincolo
esistenziale e coesistenziale sarà minacciato dalla rottura definitiva
dell'isolamento e della follia. Ma già molto al di qua di questo limite, l'io
non avrà la sua unità propria e non avrà un destino: incapace di fedeltà, sarà
schiavo di vicende insignificanti e si lascerà vivere come un'unità anonima,
senza destino.
L'esistenzialismo tende a sottrarre l'uomo all'indifferentismo
anonimo, alla dissipazione, all'infedeltà a se stesso e altri altri: tende a
restituirlo al suo destino, a reintegrarlo nella sua libertà. La libertà
è l'ultimo e conclusivo suo tema fondamentale. L'uomo libero è l'uomo che ha
un destino. Il destino è la fedeltà al proprio compito storico, cioè a se
stesso, alla comunità e all'ordine del mondo. La libertà è l'atto di decisione
della fedeltà, è la scelta del proprio compito e la fiducia incrollabile nel
suo valore trascendentale, è la passione spassionata che tutto lucidamente
vede e giudica per poter tutto affrontare.
6. STORICITA' DELL'ESISTENZIALISMO
Storicamente, l'esistenzialismo è sulla linea delle grandi
metafisiche dell'occidente, da Platone a S. Tommaso, da Cartesio e Vico a Kant.
Ma queste grandi figure, e tutte le altre che in qualsiasi modo hanno detto
una loro parola nella storia, l'esistenzialismo non le considera imbalsamate e
chiuse nei loro sistemi, ma come personalità vive e potenti che hanno offerto
per secoli agli uomini un modo di intendersi e di ritrovarsi e che ancora
possono e potranno dare, alle urgenti e vitali domande degli uomini, risposte
chiarificatrici. Egualmente lontano dal dogmatismo e dallo scetticismo,
l'esistenzialismo ritorna ad interrogare i maestri del passato e ne vaglia,
rispettoso e fermo, le risposte. La parola di cui l'uomo è vissuto ieri sarà
forse ancora quella di cui vivrà domani. Ma accorre ritrovarla e farla
risuonare chiaramente, perché la si possa ascoltare. Il compito di
chiarificazione esistenziale è strettamente connesso a un compito di ricerca e
di chiarificazione storiografica. L'uno e l'altro richiedono impegno, lavoro,
fedeltà e tenacia.
L'esistenzialismo non è una scuola e ripudia il
proselitismo. Non essendo pura dottrina ma richiedendo a fondamento della
dottrina un atteggiamento esistenziale, cioè dell'uomo totale, esso può
costituire per l'uomo un richiamo o un aiuto, ma non può sostituirsi alla sua
decisione e al suo impegno. Esso costruisce una via, non impone una formula.
In fondo a questa via, c'è la possibilità per ognuno di riconoscersi
nella sua vera natura e per tutti di comprendersi e di realizzarsi in una
comunità solidale.
PARTE II -
L'ESISTENZIALISMO E' UNA FILOSOFIA POSITIVA
- LA FILOSOFIA COME PROBLEMA
Ha l'esistenzialismo una caratteristica propria di fronte
alla filosofia tradizionale? E giustifica questa caratteristica, l'interesse
che esso suscita anche fuori della cerchia dei filosofi, e la sua pretesa di
permeare di sé la letteratura, l'arte, e in generale la cultura contemporanea?
Cominciamo, per rispondere a questa domanda, col
considerare l'atteggiamento dell'esistenzialismo di fronte al problema
della filosofia. C'è stato sempre un problema della filosofia; mai questa
disciplina ha potuto semplicemente presupporre la sua natura, il suo
metodo e i suoi oggetti, ed ha sempre dovuto cominciare dalla definizione di
se stessa. Ma non sempre, anzi assai raramente, essa è riuscita alla
giustificazione del suo problema. Il problema di ciò che è la filosofia
è apparso più spesso come uno stato provvisorio d'incertezza e di dubbio
proprio degli inizi di questa disciplina, stato che il costituirsi e i
successivi avanzamenti di essa avrebbero eliminato e distrutto. La filosofia
ha sempre avuto la pretesa di spiegare e giustificare tutti gli aspetti
della realtà, l'uomo, il mondo e Dio; ma il più delle volte ha dimenticato o
trascurato di spiegare e giustificare proprio ciò che la riguarda più da
vicino: il suo stesso problema, e con esso l'incertezza, l'instabilità e il
dubbio che accompagnano i suoi inizi, i suoi progressi e le sue conclusioni, e
che ripropongono ancora e sempre come un problema ogni suo risultato più
certo.
Che la filosofia debba incessantemente lottare per la sua
stessa vita, che essa debba cominciare dal darsi una figura e un volto, e che,
anche dopo essersi data una figura ed un volto, debba battagliare per
difenderli e mantenerseli, questo fatto, o meglio questo destino della
filosofia, deve proprio cadere fuori della stessa filosofia? 0 deve invece
costituirne l'anima e la vita? Ecco l'alternativa dalla quale nasce
l'esistenzialismo. L'esistenzialismo è su questo punto la rottura definitiva
con l'ingenuità filosofica. Posizioni e sistemi filosofici caratterizzati
dall'ignoranza di quell'alternativa sono per esso impossibili. Quando, per
esempio, Hegel afferma l'intrinseca, totale e necessaria identità del reale e
del razionale, toglie ogni fondamento alla sua stessa filosofia, giacché se il
reale è identico al razionale, il problema della loro identità non può
nascere, e la filosofia che se lo propone e combatte per esso non ha scopo né
significato. Quando dall'altro lato lo scetticismo afferma l'equivalenza
di tutte le vedute o concezioni del mondo, toglie al suo problema ogni
possibile fondamento giacché, se l'equivalenza ci fosse, non avrebbe senso il
dimostrarla. In una totalità di prospettive equivalenti, ogni scelta è
giustificata in anticipo, e il problema da cui lo scetticismo si origina,
risulta privo di senso. Di fronte ad ogni filosofia, bisogna chiedersi se il
concetto della realtà, cui essa mette capo, rende possibile il problema,
da cui essa nasce. Se non lo rende possibile, il risultato implicito è sempre
la totale e irrimediabile vacuità della filosofia. Ora a questa vacuità
l'esistenzialismo intende sottrarsi. Esso esige che la filosofia debba da
ultimo giungere a giustificare il proprio problema, a dimostrarne l'intrinseca
possibilità. Tale è, si può dire, la caratteristica fondamentale
dell'esistenzialismo.
2. PROBLEMATICITA' DELLA FILOSOFIA
Da questa caratteristica scaturiscono la sua natura e il
suo metodo. E' evidente che il primo problema di una tale filosofia è quello
che concerne la stessa forma problematica della filosofia. Perché la filosofia
è sempre a se stessa un problema? Nella sua apparente semplicità e astrattezza
questa domanda è ricca di conseguenze e di risonanze, non tutte facili a
percepirsi a prima vista. E' sullo stesso porsi della domanda, sul suo
significato interiore, che, deve fermarsi la nostra considerazione. Si vede
subito allora che essa è tanto una domanda quanto una risposta, e che può
essere assunta, senza alcun mutamento, come la definizione stessa della
filosofia. "Perchè la filosofia è sempre a se stessa un problema?" può
significare che la filosofia è essenzialmente il suo proprio problema.
In tal caso, la sua forma problematica non è apparenza e provvisorietà, ma
sostanza. Consideriamo le implicazioni di questo riconoscimento. Un problema è
in generale uno stato di indeterminazione, nel quale possibilità
diverse e contrastanti si bilanciano. La soluzione di un problema è in
generale la scelta di quella possibilità che giustifica (o rende possibile) il
problema stesso. Questi chiarimenti diventano ovvi se si abbandona il radicato
pregiudizio che la soluzione di un problema sia l'eliminazione di esso. In
realtà un problema risolto è un problema giustificato come problema e quindi
fondato e reso autentico dalla stessa soluzione. I problemi insolubili (costitutivamente
insolubili) non sono problemi ma rompicapi e costituiscono la gioia e il
tormento dei dilettanti di qualsiasi disciplina. Nella scienza, per esempio,
un problema risolto si ripresenta incessantemente come problema nel corso
della ricerca e sui riproduce e vive in tutte le sue possibili diramazioni. In
matematica un problema è un vero problema quando è stato risolto, cioè quando
la sua soluzione può valere come soluzione di tutti gli altri problemi, dentro
e fuori della matematica, ai quali è applicabile. Queste osservazioni, e altre
che si potrebbero fare, chiariscono che la soluzione di un problema non è
altro che la dimostrazione della sua possibilità; che pertanto essa, nonché
eliminare, distruggere o togliere di mezzo il problema stesso, lo fonda e ne
giustifica l'autenticità.
Stando a ciò, la forma problematica della filosofia non
implica per nulla che essa debba lasciare in sospeso la soluzione del suo
problema o che debba mantenersi continuamente in bilico tra le possibili
soluzioni di esso, ma solo che la soluzione, quale che sia, debba giustificare
la possibilità del problema. Questo basta a chiarire in modo preciso il
soggetto, l'oggetto e il metodo della filosofia.
3. LA FILOSOFIA COME ESISTENZA
E' immediatamente evidente che, per la sua natura
problematica, la filosofia non è e non può essere un sapere divino del
mondo. Non è cioè il possesso saldo, definitivo, totale di tutto il sapere
possibile; non è neppure il possesso di un sapere qualsiasi; è
piuttosto il problema del sapere, un problema che continuamente rinasce
dalle proprie soluzioni. Se si accettano i chiarimenti addotti sulla natura
della filosofia, bisogna respingere come illusoria ogni filosofia
divineggiante, cioè ogni filosofia che consideri se stessa come l'attività di
un intelletto puro, di una ragione assoluta o di una intuizione intellettuale.
Ogni filosofia di questo genere rende infatti impossibile il problema della
filosofia, e priva di qualunque significato la ricerca stessa su cui si fonda.
Ma con quelle negazioni non si precipita, come si potrebbe temere, nel baratro
dell'irrazionale. Si può continuare a dire (sebbene questa terminologia non
sia strettamente indispensabile, ma soltanto comoda e ovvia) che la filosofia
sia ragione o pensiero; purché si aggiunga che è ragione o pensiero
problematico. La problematicità si contrappone qui alla necessità
propria della ragione assoluta o divineggiante. Un sapere necessario è quello
che si realizza come concatenazione immutabile di determinazioni universali,
sicché possa essere compreso e dominato da un solo colpo d'occhio, che ne
abbracci l'assoluta totalità. Un sapere siffatto esclude, per la necessità
delle sue concatenazioni, ogni problema dentro di sé e non costituisce un
problema nella sua totalità. Un sapere problematico invece esclude la
necessità, include l'indeterminazione, il dubbio, la decisione e la scelta, e
ha come sua norma e sua suprema categoria quella della possibilità.
Un sapere problematico è un sapere possibile, che
implica la possibilità del non sapere. Esso è quindi incessantemente
accompagnato dal dubbio che è il riconoscimento appunto della
possibilità negativa implicita in ogni sapere positivo: la possibilità
dell'errore, della perdita e dello smarrimento del sapere possibile. Il sapere
necessario definisce la vita pensante di un essere infinito. Il
sapere problematico definisce la vita pensante di un essere finito.
Finitudine non significa qui che problematicità: non esprime che la
problematicità costitutiva di un sapere che è sempre possibilità del
non-sapere.
L'uomo è il solo essere pensante finito; il sapere
problematico costituisce perciò la condizione e il modo d'essere dell'uomo. Se
si chiama esistenza il modo d'essere dell'uomo, il sapere problematico
definisce ed esprime l'esistenza. Si rivela a questo punto quel tratto da cui
l'esistenzialismo prende nome: l'identità tra esistenza e filosofia. Questo
non è certo una novìtà. Che altro è mai stata la filosofia se non lo sforzo
incessante dell'uomo di giungere a una qualche chiarezza intorno all'essere
che gli è proprio? Ma se questa è stata sempre la filosofia, non sempre è
stato questo il problema esplicito della filosofia. E se e quando non è
stato il problema esplicito, è mancato con ciò il chiarimento fondamentale
intorno all'uomo: quello d'essere, l'uomo, problema a se stesso. Questo è
appunto il significato ultimo del riconoscimento che la filosofia è un sapere
problematico, che definisce e esprime la condizione o il modo d'essere
dell'ente finito. La filosofia si connette immediatamente alla costituzione
stessa dell'uomo; la quale risulta investita e illuminata dalla problematicità
riconosciuta propria di essa. Immediatamente, dallo stesso chiarimento
preliminare della natura della filosofia scaturisce un chiarimento preliminare
intorno alla natura dell'uomo. Questa natura non è uno stato immobile, né una
realtà oggettiva, né una soggettività universale; ma è soltanto l'originaria,
trascendentale problematicità dei suoi problemi.
La filosofia, considerata inizialmente nel suo significato
ristretto e nelle sue manifestazioni tecniche, si rivela a questo punto
connessa intimamente e essenzialmente col modo d'essere dell'uomo, con
l'esistenza. Alla sua origine, non c'è una gratuita e vana curiosità di
conoscere, ma un movimento vitale, quello per cui l'uomo, nell'instabilità
della sua natura problematica, cerca l'essere che gli è proprio e si sforza di
raggiungerlo e di possederlo in qualche modo. La serietà e il valore della
ricerca filosofica sono così garantite nel modo più saldo. Questa ricerca non
è un lusso che possa essere tralasciato o ritenuto superfluo; è la
costituzione intrinseca dell'esistenza in quanto tale. Dall'altro lato l'
elaborazione tecnica della filosofia, che è sostanzialmente la costruzione
di un linguaggio che esprima nella forma più rigorosa e precisa
possibile il filosofare autentico che è l'esistenza, acquista anch'esso un
nuovo significato. L'insopportazione e l'insoddisfazione generate a volte
dalla cosiddetta "astrusità" della tecnica filosofica vengono rese impossibili
dal riconoscimento esplicito che in quella tecnica cercano la loro espressione
e la loro sistemazione logico-linguistica le esperienze e gli atteggiamenti
fondamentali dell'uomo. Il lavoro dei filosofi non è chiuso nella loro
specializzazione, ma interessa tutti gli uomini perché trova la sua radice
nella stessa condizione umana. In virtù di questo riconoscimento,
l'esistenzialismo, che pure si avvale di una tecnica rigorosa e difficile,
tende a oltrepassare la cerchia ristretta dei filosofi e a investire del suo
spirito le manifestazioni più varie della cultura contemporanea.
4. LA FILOSOFIA N O N E' CONTEMPLAZIONE
Il riconoscimento della natura problematica della filosofia
ha consentito di determinare subito il soggetto di essa; questo
soggetto è l'uomo. Consente anche di circoscriverne e determinarne l'oggetto?
Una domanda preliminare si impone a questo proposito: ha la filosofia,
propriamente parlando, un oggetto? Per oggetto si deve intendere ciò che sta
contro o si oppone all'attività che lo investiga, quindi ciò che, dà validità
o verità ad ogni tipo o forma di conoscenze. La domanda precedente può dunque
assumere questa forma: è la filosofia riducibile a conoscenza? E in questa
forma la domanda può avere una risposta negativa o affermativa, secondo che si
ritenga possibile o impossibile per l'uomo essere o diventare lo spettatore
disinteressato di se stesso.
L'ideale di una conoscenza disinteressata di sé e quindi
della filosofia come scienza rigorosa dei significati oggettivi caratterizza
alcune correnti della filosofia contemporanea, prima fra tutte la
fenomenologia. Comunque presentato o difeso, questo ideale costituisce
tuttavia una grave deroga alla struttura problematica della filosofia. Si
ammetta pure che l'uomo possa diventare spettatore disinteressato del suo
proprio io e che possa contemplare la sua stessa vita senza confondersi
con essa. Bisogna subito riconoscere che si tratta appunto di una
possibilità, costitutiva della condizione problematica dell'uomo, e messa
in atto da una decisione e da una scelta. Ora proprio questa costituzione
problematica, con le possibilità che la costituiscono e con la scelta e la
decisione che essa rende possibile, cadono totalmente fuori da una filosofia
intesa come scienza o conoscenza perché non sono atteggiamenti o esperienze
riducibili a significati oggettivi. L'ideale della filosofia come scienza
oggettiva, anche ripresentata nella forma più moderna e critica della
fenomenologia, taglia fuori di sé l'atto originario, il problema, di
questa stessa filosofia. Costituisce dunque una manifestazione dell'ingenuità
filosofica e una forma di filosofare che non riesce al possesso critico di se
stesso.
La filosofia non può fondarsi sull'illusione di rendere
l'uomo spettatore disinteressato di sé. Ogni chiarimento che l'uomo riesce a
conseguire intorno a se stesso e anche quello che soltanto s'illude di
conseguire, entra immediatamente a costituire la sua esistenza, che ne risulta
modificata. Il che vuol dire che la filosofia non ha un oggetto, nel
significato proprio del termine; ma soltanto un compito, e che questo
compito consiste nell'impegnare l'uomo a quella forma o a quel modo dì essere
che egli giunge a ritenere suo proprio. Ciò non implica d'altronde che la
filosofia sia piuttosto pratica che teoretica e che concerna l'azione
più che la specuIazione. Teoria e pratica, azione e speculazione, sono
modi di classificazione convenzionali e inservibili per la filosofia. La quale
concerne sempre l'uomo nella sua totalità, nell'essere problematico che gli è
proprio e interamente lo impegna nella forma o nell'atteggiamento che gli
consente di scegliere.
5. PROBLEMATICITA' E PROBLEMI
Negare che la filosofia sia conoscenza disinteressata non
significa che una conoscenza disinteressata non sia possibile per l'uomo.
Significa solo che, se è possibile, non è filosofia. Essa c'è, infatti, quindi
è possibile; ma è la scienza naturale.
L'atteggiamento che è alla base della scienza è quello per
il quale l'uomo è soltanto uno degli oggetti possibili della considerazione
scientifica, senza nessun titolo o diritto di privilegio rispetto agli altri.
L'uomo è sottoposto nella scienza agli stessi procedimenti di osservazione e
di misura cui sono sottoposti gli altri oggetti quali che siano, e non può
pretendere in essa a nessun trattamento di favore. Per la fisica è, per
esempio, un corpo sottoposto alle stesse leggi che concernono gli altri corpi
naturali; per la biologia è un organismo vivente sottoposto, come tutti gli
altri, alle esigenze e alle leggi della vita organica; per la stessa
psicologia è un centro di azioni e reazioni psicofisiche, in tutto simile agli
altri animali, ma solo più complicato. La caratteristica essenziale di ogni
considerazione e di ogni problema scientifico è che l'uomo rientra come uno
dei possibili oggetti o dei possibili termini di ogni considerazione o
problema del genere. Il fondamento di questa caratteristica è che la scienza
è, in generale, considerazione del mondo e che pertanto l'uomo nella
scienza vale soltanto come parte o elemento del mondo. La conoscenza
disinteressata, che è propria della scienza, è dunque condizionata da un
atteggiamento che è una possibilità dell'esistenza: l'atteggiamento per il
quale l'uomo si considera parte di una totalità che lo ricomprende.
Ci si può domandare fino a che punto questo atteggiamento
si connette con l'esistenza umana; e la domanda è importante perché da essa
dipende la risposta alla domanda così frequentemente dibattuta: quella circa
il valore umano della scienza. La risposta deve essere desunta dai
chiarimenti già dati sulla costituzione problematica dell'uomo. L'uomo esiste
come la stessa problematicità dei suoi problemi; ma questi problemi, quali che
siano, lo ricomprendono immediatamente come uno dei loro termini. Ogni
problema ha per così dire una doppia faccia. E', in primo luogo, un modo
d'essere particolare dell'uomo, un atteggiamento singolo dell'esistenza. In
secondo luogo è un rapporto indeterminato o indeciso tra più termini
possibili. Nel primo senso il problema è I'uomo stesso in uno dei suoi
atteggiamenti; nel secondo senso ricomprende in sé l'uomo come uno dei suoi
termini possibili. Si consideri, per esempio un qualsiasi problema
scientifico: esso è in primo luogo la vita stessa dello scienziato che vi si
appassiona e ne fa il suo interesse dominante; è, in secondo luogo, un
rapporto di termini oggettivi tra i quali rientra o può rientrare lo
scienziato stesso ed ogni altro uomo, come corpo fisico-chimico, come
organismo, ecc. Si può esprimere questa duplice dimensionalità del problema
semplicemente distinguendo la problematicità dal problema; e poiché la
problematicità è la condizione che rende possibile il problema, essa sola è
l'elemento trascendentale o se si vuole la possibilità trascendentaIe,
di ogni problema possibile.
Questi chiarimenti mostrano che l'uomo non è problematicità
se non nell'atto stesso in cui i problemi, che in tale problematicità si
radicano, lo ricomprendono come uno dei loro termini possibili. Il che implica
che la conoscenza scientifica, come quella comune ne che prepara e
stimola la ricerca scientifica, si connette essenzialmente all'esistenza e ne
costituisce un aspetto fondamentale. La pretesa che l'uomo possa fare a meno
della scienza è chimerica ed esprime soltanto l'attaccamento ad una forma più
rudimentale e meno efficace della conoscenza scientifica. Questo implica pure
che l'uomo non può riconoscersi nella sua natura originale di fronte a tutti
gli altri esseri o cose del mondo, se non riconoscendosi col medesimo atto
essere o cosa del mondo. Il rapporto col mondo è altrettanto essenziale
all'uomo del suo rapporto con se stesso; l'esteriorità in cui vive lo
costituisce non meno della sua interiorità o coscienza. Si è già detto
che l'uomo è un ente finito proprio in virtù della sua costituzione
problematica. Si vede ora chiaramente un aspetto della sua finitudine: quello
per cui è parte e non tutto, e come parte dipende dal tutto che lo ricomprende.
Questa dipendenza è reale anche prima e fuori del suo riconoscimento
esplicito: si manifesta nella corporeità dell'uomo e nei bisogni che lo
legano al mondo di cui è parte. E' evidente che la filosofia non può né deve
chiudere gli occhi di fronte a questa sua situazione. Essa non può insistere
sulla pura interiorità dell'uomo a se stesso, sulla sua spiritualità, senza
riconoscere al tempo stesso la sua esteriorità e corporeità che ne fa un
essere tra gli altri esseri e, in qualche misura, una cosa tra cose.
L'illusione di esaltare l'uomo conduce a diminuirlo: lo riduce ad un aspetto
solo della sua struttura dimenticando l'altro, senza del quale non esiste.
6. LA REALTA' COME POSSIBILITA'
Possiamo ricapitolare nel modo seguente i risultati
intravisti attraverso le considerazioni precedenti: 1) La forma problematica
della filosofia non è apparenza e provvisorietà, ma sostanza. 2) La filosofia
costituisce perciò un sapere problematico, che definisce ed esprime il
modo d'essere di un ente finito; quest'ente finito è l'uomo, e il suo modo
d'essere è l'esistenza. 3) La filosofia non può costituirsi come
auto-contemplazione disinteressata dell'uomo, perciò non è conoscenza né
scienza. 4) La conoscenza e la scienza nascono insieme con la filosofia, in
quanto la problematicità costitutiva dell'uomo include l'uomo stesso nei
termini dei suoi problemi. Questi punti rappresentano altrettante esclusioni e
negoziazioni di dottrine filosofiche antiche o recenti. La sostanza
problematica della filosofia esclude ogni filosofia divineggiante, cioè
ogni filosofia che si ponga come emanazione o espressione di uno Spirito o
Ragione assoluta. Il carattere esistenziale della filosofia esclude che essa
possa essere organizzata come conoscenza o scienza nel senso delle discipline
fisico-matematiche, e perciò esclude da un lato il positivismo,
dall'altro la fenomenoIogia, che anch'essa accetta l'ideale della
filosofia come disciplina logico-contemplativa. L'unità che, nella natura
problematica dell'uomo, trovano il rapporto dell'uomo con se stesso e il suo
rapporto col mondo, esclude ogni spiritualismo che faccia leva
esclusivamente sull'interiorità o coscienza dell'uomo.
Queste determinazioni ed esclusioni costituiscono un primo
avviamento a un indirizzo positivo della filosofia esistenziale. Un ulteriore
avviamento può aversi considerando che la filosofia dell'esistenza rompe
decisamente il quadro della necessità dentro il quale si muove
ogni filosofia di tipo dogmatico. L'orizzonte che essa riconosce e dentro il
quale si muove è quello delle possibilità. La problematicità
riconosciuta propria della filosofia, e dell'uomo che è il suo unico tema, ha
operato questo mutamento. Dal punto di vista di una ragione problematica, non
si può scorgere nell'uomo e in qualsiasi altra realtà che comunque entri in
rapporto con l'uomo, nessuna natura necessitante, nessun dato
immutabile, nessuna legge determinante. Non si possono scorgere e
riconoscere che possibilità, sempre individuate e singole; possibilità di
fronte alle quali l'uomo è incessantemente chiamato alla decisione e alla
scelta. Né dentro né fuori di sé, l'uomo può imbattersi mai in qualcosa di più
stabile, di più resistente, di più saldo, della possibilità. Una possibilità
è, per lui, lui stesso, cioè il suo proprio io, che è l'unità possibile dei
suoi atteggiamenti interiori. Possibilità sono per lui gli altri uomini:
possibilità di concreti rapporti di lavoro, di solidarietà, di amicizia, di
amore. Possibilità, e precisamente possibilità di utilizzazione, sono per lui
le cose del mondo. Possibilità sono le opere d'arte, che diventano pezzi di
tela o di pietra, cioè bruta materia, se l'uomo non ha il gusto per
sentirle e apprezzarle. Possibilità sono i documenti su cui si fonda la
storia, e che non dicono nulla, se l'uomo non sa intenderli nel loro valore di
testimonianze.
Sotto questo aspetto il distacco tra gli animali e l'uomo è
radicale. Nell'animale l'istinto è un impulso necessitante, che non
conosce eccezioni, e che può essere bloccato in tutto o in parte
soltanto da un altro istinto più forte. Nell'uomo, anche quelli che si
chiamano istinti non sono determinazioni infallibili, ma solo
possibilità delle quali sta a lui decidere. Non c'è istinto così potente che
l'uomo non possa far tacere e contro il quale non possa agire. Le stesse
aberrazioni che gli istinti talora subiscono nell'uomo rivelano il loro
carattere di mere possibilità concrete che offrono all'uomo un'alternativa di
scelta.
Che l'uomo non possa appigliarsi né dentro né fuori di sé a
nulla di stabile e di definitivo, che egli debba incessantemente faticare e
lottare, decidere e scegliere, a suo rischio e sotto la sua responsabilità, è
certo la prospettiva più inquietante che si sia mai aperta di fronte agli
uomini, e non c'è da meravigliarsi che essi vi recalcitrino e cerchino di
nasconderla ai propri occhi. Ma la filosofia non può assumere il facile e
piacevole compito di cullare l'uomo con illusioni e di consolarlo con
prospettive fittizie. Deve assumere invece quello più difficile, ma più degno,
di risvegliarlo se si addormenta su una sicurezza illusoria, e d'impegnarlo
alla vigilanza, alla lotta e al lavoro. Ciò che tuttavia essa ha il dovere di
chiarire è quale guida o quale orientamento questa prospettiva offra all'uomo.
E' quel che cercherò di illustrare rapidamente nel seguito. E a questo scopo è
opportuno accennare ai due filosofi che possono offrire un insegnamento
efficace a questo riguardo: Kant e Kierkegaard.
7. I FILOSOFI DELLA POSSIBILITA': KANT E KIERKEGAARD
Kant è il filosofo della possibilità positiva. La filosofia
dell'illuminismo tedesco, a partire da Wolff, aveva trovato ed usato il metodo
della ragione fondante. Questo metodo consiste essenzialmente nell'addurre
come fondamento di un concetto la sua possibilità. Wolff e i suoi seguaci
intendono ancora la possibilità nel senso logico-formale, come assenza di
contraddizione. Kant porta per la prima volta la possibilità sul piano della
concreta esperienza umana; e così la carica di un significato esistenziale.
Ricondotta la conoscenza nei limiti dell'esperienza possibile, Kant riconosce
nelle forme a priori la possibilità dell'esperienza. Ricondotta la vita morale
nei possibili limiti della finitudine umana, ne riconosce la possibilità nel
carattere formale dell'imperativo categorico che esprime appunto la
possibilità della persona morale e di una comunità di persone. Ricondotto il
sentimento estetico nei limiti dell'animalità intelligente propria dell'uomo,
ne riconosce la possibilità come quella di trasformare, la dipendenza
dell'uomo dalla natura in dalla natura. Per la prima volta, nell'opera di Kant
l'intero mondo dell'uomo veniva espresso e fondato in termini di possibilità;
possibilità trascendentali, cioè condizionatrici e fondanti. Kant ha
inteso in ogni campo limitare, cioè determinare, le autentiche possibilità ne
distinguendole da quelle che non sono autentiche ma puramente fittizie. Di qui
il carattere critico e limitativo della sua opera, che è una continua polemica
contro il dogmatismo teoretico e il fanatismo morale.
In Kant tuttavia la possibilità presenta una sola delle sue
facce, quella positiva. Ora ogni possibilità concreta ha come tale sempre un'
altra faccia, che è quella negativa. Essa è sempre possibilità-che-non,
oltre che possibilità-che-si. La possibilità di conoscere (per esempio)
è sempre possibilità di non conoscere, cioè possibilità del dubbio,
dell'errore e dell'oblio. In Kant questo secondo aspetto della possibilità
come tale rimane in ombra sebbene egli l'abbia intravisto con la dottrina del
male radicale. Viene invece crudamente illuminato dall'opera di Kierkegaard.
Kierkegaard è il filosofo della possibilità negativa.
L'angoscia è il sentimento del possibile, ma del possibile nella sua forza
annientatrice e distruttiva. Questa forza è paralizzante. Il "discepolo del
possibile" secondo l'espressione di Kierkegaard, è chi si rende conto e vive
sotto la minaccia delle alternative terribili che ogni concreta possibilità
presenta per l'uomo. Kierkegaard ha realizzato in tutta la sua forza il senso
della problematicità dell'esistenza; ma questa problematicità' gli è apparsa
esclusivamente nel suo lato negativo, ed è stata perciò vissuta da lui come
angoscia e disperazione paralizzante.
Tra l'insegnamento di Kant e quello di Kierkegaard, non c'è
alternativa né scelta, ma solo complementarietà. La possibilità costitutiva
dell'esistenza umana, chiarita da Kant nel suo aspetto positivo, è stata
chiarita da Kierkegaard nell'aspetto negativo che le è indissolubilmente
connesso. Una filosofia dell'esistenza che non voglia essere unilaterale e non
voglia ridurre l'esistenza stessa a un frammento, deve in qualche modo
riportare incessantemente Kant a Kierkegaard e Kierkegaard a Kant. Solo così
potrà rintracciare nella stessa struttura problematica dell'esistenza la norma
e la guida dell'esistenza medesima.
8. L'EQUIVALENZA DELLE POSSIBILITA': L'ESISTENZIALISMO
NEGATIVO
Tale è infatti il problema centrale, l'unico vero problema
della filosofia dell'esistenza. Si consideri la condizione di radicale
instabilità che questa filosofia riconosce propria dell'uomo. L'uomo non può
scorgere, dentro e fuori di sé che mere possibilità, ognuna delle quali
implica una minaccia e un rischio. Come farà a scegliere e a orientarsi? A
qual segno riconoscerà quelle che gli sono proprie e quelle fittizie, e come
farà a consolidare e a garantirsi le prime?
La prima risposta che si presenta a queste domande è il
riconoscimento dell'equivalenza assoluta di tutte le possibilità umane;
riconoscimento che implica che ogni scelta per il fatto stesso di essere tale,
è giustificata, e che l'uomo è essenzialmente libero, cioè indifferente, di
fronte a tutte le possibilità che gli si prospettano. Tale è la risposta
dell'ultimo esistenzialismo francese (Sartre, Camus). E' questa indubbiamente
la risposta più ovvia, ma anche la più paralizzante. Una scelta che non è
sorretta dalla fede nel valore di ciò che si sceglie non è possibile: giacché
il riconoscimento dell'equivalenza è già la rinunzia alla scelta. Quel
riconoscimento equivale perciò alla nullificazione e alla perdita di tutte
indistintamente le possibilità, quindi alla negazione dell'esistenza come
tale.
La seconda risposta alle stesse domande è il riconoscimento
dell'equivalenza di tutte le possibilità umane meno una: quella
che esprime ed assomma la nullità possibile di tutte e ciascuna le possibilità
singole, la possibilità della morte. Tale è la risposta di Heidegger.
Da questo punto di vista, l'unica scelta possibile è per l'uomo quella del
vivere per la morte, e di fronte a questa le altre sono fittizie ed improprie.
Questa risposta rappresenta certamente un passo avanti sulla prima.
Essa implica la possibilità di una scelta; ma questa possibilità è in effetti
una necessità perché la scelta possibile è una sola. Si vede subito come, da
questo punto di vista, la problematicità dell'esistenza si è capovolta nel suo
contrario, cioè nella necessità. L'unica autentica possibilità di esistere è
l'impossibilità di esistere. Ora impossibilità è necessità, e se l'esistenza è
problematicità, non può ridursi a un'impossibilità. Ancora una volta
l'esistenza come possibilità è negata nell'atto stesso del suo riconoscimento.
La terza risposta è che tutte le possibilità dell'esistenza
si equivalgono per la loro comune impossibilità di essere più che possibilità,
cioè di agganciarsi all'essere che è al di là di esse, alla
Trascendenza. E' la risposta di Jaspers. Essa è simmetrica e opposta a quella
di Heidegger, ma porta alla stessa conclusione. Per Heidegger l'esistenza è
l'impossibilità di emergere dal nulla ed essere qualcosa; per Jaspers
l'esistenza è l'impossibilità di essere l'Essere, di raggiungere e conquistare
la trascendenza. L'una e l'altra risposta ricondu- cono l'esistenza ad una
fondamentale impossibilità; epperò negano la sua problematicità, che la fa
vivere e costituirsi attraverso concrete possibilità.
L'insegnamento che scaturisce dal quadro di questi
indirizzi dell'esistenzialismo contemporaneo è che l'equivalenza delle
possibilità costitutive dell'esistenza, che è il loro comune presupposto,
conduce alla negazione dell'esistenza stessa come possibilità. Se tutte le
possibilità che costituiscono I'esistenza sono, per un motivo o per l'altro,
equivalenti, l'esistenza è impossibile. Questo riconoscimento fa vedere
quanta importanza la considerazione del valore e della normatività abbia per
l'esistenzialismo, che tuttavia negli indirizzi accennati I'ha trascurata
completamente. Senza una soluzione, positiva dell'esigenza valutativa, la
problematicità dell'esistenza si trasforma in necessità, la possibilità in
impossibilità; l'esistenza si nega nell'atto stesso che si riconosce. Nel
confronti di questo esistenzialismo, che si può chiamare negativo,
non perché neghi credenze, valori o realtà che sono fuori del suo raggio, ma
perché nega lo stesso principio da cui muove, l'esistenza, io propongo un
indirizzo positivo che giustifichi il riconoscersi e il mantenersi
dell'esistenza nella sua fondamentale problematicità e lasci aperte le
possibilità in cui essa si costituisce. Ad un esistenzialismo che vive sotto
l'esclusivo segno di Kierkegaard, il filosofo della possibilità impossibile,
bisogna contrapporre un esistenzialismo che riporti Kierkegaard a Kant e a
quanti altri filosofi hanno lavorato per garantire all'uomo il legittimo
possesso dei suoi stessi limiti.
9. LA POSSIBILITA' TRASCENDENTALE
Occorre in primo luogo distinguere il riconoscimento
che l'esistenza è costituita da possibilità, dall'affermazione che tutte
queste possibilità hanno lo stesso valore. Quest'affermazione non deriva da
quel riconoscimento e non dev'essere confusa con esso. Dall'altra parte le
possibilità esistenziali non possono essere distinte e valutate in base a un
criterio estrinseco, in base a una norma o ad una realtà estranee ad esse e
non risolvibili in esse. Nulla - lo abbiamo detto - c'è, dentro e fuori
dell'uomo, che non sia per lui una concreta e vissuta possibilità. Dunque le
stesse possibilità in quanto tali devono avere in sé il criterio e la misura
del loro valore. Qual è questo criterio?
Si consideri l'importanza della questione. Se questo
criterio mancasse, non sarebbe possibile né impegno né fede nell'esistenza.
Impegno e fede sono infatti niente altro che il riconoscimento effettivo e
operante del valore della possibilità in cui l'uomo riconosce se stesso. Senza
il riconoscimento del valore, o peggio ancora col riconoscimento dell'uguale
valore di tutte le possibilità umane, non resta all'uomo che buttarsi a
capofitto in una direzione o nell'altra, calandosi a casaccio in questa o
quella forma di vita, senza serietà, senza fede e senza ragione. Il problema
della fede nell'esistenza e quello della ragione come
guida e orientamento dell'uomo, coincidono in questo punto. Non dovremmo
esitare tuttavia a riconoscere e a proclamare la verità se sfortunatamente le
cose stessero proprio così. Ci sono invece, ed io cercherò di mostrarli,
motivi per riconoscere che l'uomo ha, nelle stesse possibilità che lo
costituiscono, la norma della loro valutazione.
Una possibilità esistenziale può avere i caratteri più
diversi, ma il carattere proprio e fondamentale è indubbiamente quello che fa
di essa una possibilità autentica. Una possibilità che si presenti coi
colori più smaglianti, ma che, una volta decisa e fatta propria da un uomo,
gli si dissolva o capovolga tra le mani, sottraendogli o negandogli proprio
quello che gli prometteva, non è una possibilità autentica, perché è
un'impossibilità. Una possibilità invece che una volta scelta e decisa si
consolidi nel suo essere di possibilità, sicché renda di nuovo e sempre
possibile la sua propria scelta e decisione, è una possibilità autentica, una
possibilità vera e propria. Una simile possibilità si ripresenta
immediatamente di fronte a chi l'ha scelta con un carattere di normatività
che rende obbligatoria la scelta. La possibilità della possibilità è il
criterio e la norma di ogni possibilità. Si può indicare la possibilità
della possibilità col nome di possibilità trascendentale; la
possibilità trascendentale è allora ciò che giustifica e fonda ogni concreto
atteggiamento umano, ogni scelta e decisione. Una scelta infatti non si
giustifica perché è stata fatta, ma perché è ancora possibile farla.
Una decisione non è buona e valida perché è stata presa una volta, ma perché
può essere ancora presa e mandata ad effetto. Un atteggiamento
qualsiasi non deriva il suo valore dal fatto che è stato assunto o può in
linea di fatto essere assunto, ma solo dalla possibilità che la sua
assunzione non lo renda intrinsecamente impossibile.
Per rendersi conto della portata di queste considerazioni è
necessario tener presente che ogni atteggiamento, scelta o decisione umana non
concerne il singolo uomo che lo assume e non si esaurisce nella sua
singolarità. Pensieri, sentimenti, azioni, e tutte le altre determinazioni
sotto le quali si sogliono classificare le possibilità umane, concernono gli
altri uomini tanto quanto il singolo a cui appartengono. Sicché il singolo,
nel far propria una possibilità determinata o nel!'atteggiarsi di fronte ad
essa, decide non solo di sé, ma anche, e nel medesimo atto, dei suoi rapporti
con gli altri. Quando egli si determina in un compito, nel quale riconosce la
possibilità di concentrarsi e di valere come un io (come unità) egli si
determina altresì a tutta una serie di rapporti possibili tra sé e gli altri.
Anche solo la scelta di una professione o di un lavoro qualsiasi immette
immediatamente il singolo uomo in una complessa rete di rapporti di
solidarietà, di interessi, di inimicizie o di amicizie, di gerarchie, di
subordinazioni. Ma lo stesso lavoro o professione si può assumere e scegliere
in tanti modi diversi e ognuno di questi modi colorisce la personalità di chi
lo ha scelto e i rapporti con gli altri. Ora il criterio della possibilità
trascendentale suggerisce facilmente che il compito che io ho scelto affinché
mi renda possibile l'unità e l'equilibrio del mio io, non è il mio vero
compito se questa unità e questo equilibrio vengono proprio da esso resi
impossibili. E mi suggerisce pure che se quel compito tende, come ogni compito
tende, a stabilire tra me e gli altri un insieme di rapporti determinati, non
è un vero còmpito se nega la possibilità di questi rapporti. In tal modo, ogni
atteggiamento umano, semplice o complesso che sia, ha in sé la norma della
propria possibilità. Questa norma non viene desunta dall'esterno; è inerente
alla possibilità che mi si offre, qualunque essa sia. Non immobilizza questa
possibilità, non ne fa una realtà, un dato, un fatto, una necessità; anzi, la
mantiene e la consolida proprio nel suo essere di possibilità. L'uomo, è vero,
è costituito unicamente di possibilità e non ha nulla di più solido e di più
stabile a cui afferrarsi. Ma proprio nell'alternativa di mantenere aperta
incessantemente l'instabilità che gli è propria, può, trovare e realizzare il
suo equilibrio. Può, quindi deve. Ma ciò non dice che sia costretto a
farlo, né che gli riesca sempre di farlo. Niente può offrirgli una garanzia
infallibile: l'errore è possibile, ed e tutto a suo rischio. Ma egli può, con
sforzo e fatica, attraverso il dubbio, l'errore e la lotta, raggiungere una
fede ragionevole in se stesso, cioè nella possibilità che riconosce propria, e
negli altri uomini, legati a lui da questa stessa possibilità. E questa fede
ragionevole è tutto quanto può costituire la sua dignità e il suo valore di
uomo.
10. LA LIBERTA'
Ciò che si è detto apre la via ad una interpretazione della
libertà . La prima osservazione da fare a questo proposito è che la
libertà non è il carattere indiscriminato di ogni scelta o decisione umana, di
ogni atteggiamento possibile. Non è la condizione in cui l'uomo si trova quasi
per diritto di nascita e dalla quale non gli sia possibile deflettere o
decadere. Non è neppure l'amor fati, la pura e semplice accettazione
del fatto, la scelta di ciò che è stato già scelto, la decisione di ciò che è
già implicitamente deciso da una situazione necessitante La libertà come
indifferenza di fronte alle possibilità esistenziali è propria dell'indirizzo
che afferma l'assoluta parità di valore di queste possibilità. La libertà come
coincidenza con la necessità è propria degli indirizzi che riducono le
possibilità esistenziali ad una fondamentale impossibilità.
Le possibilità esistenziali non si offrono mai all'uomo
nella loro indifferenza. Tra quelle che, in linea di fatto, egli può
scegliere, una sola è l'autentica, cioè quella che non si risolve in
impossibilità. Questa egli deve scegliere, perché questa soltanto gli
garantisce la possibilità della scelta. E questa sola è la libertà. La libertà
è quindi connessa al valore di possibilità della possibilità scelta, cioè alla
possibilità trascendentale. E risulta evidente che non ogni scelta è libera,
ma solo quella che include la garanzia della propria possibilità. Se ho deciso
liberamente, ciò che ho deciso posso incessantemente continuare a deciderlo,
perché la mia decisione garantisce se stessa. Se ho deciso male, o anche se ho
sbagliato (come è sempre possibile), la mia decisione si ritorce contro di me,
mi mette in un vicolo cieco e mi rende impossibile ogni rapporto con me stesso
e con gli altri. In questo caso io non sono e non mi sento libero, perché
quella forma o quel modo d'essere di me stesso che la possibilità scelta
illusoriamente mi prospettava, mi si è rivelato impossibile. E non sono libero
nei confronti con gli altri, giacché la mia libertà di fronte agli altri non
consiste nell'assenza totale di rapporti e nell'isolamento, ma solo nella
possibilità del determinato rapporto che ho scelto. In realtà l'isolamento (da
non confondersi con la solitudine) non è altro per l'uomo che la
pazzia, o anche ogni forma di delinquenza o di aberrazione morale che,
negando la possibilità stessa di ogni rapporto umano, confina con la pazzia e
si confonde con essa. L'uomo è libero soltanto tra gli altri uomini e
con gli altri uomini: alla condizione che i suoi rapporti con essi
siano possibili proprio sul fondamento che egli ha scelto e deciso. Ma
affinché questo sia possibile, la decisione del singolo, quale che sia, deve
sempre includere e garantire la possibilità dai rapporti con gli altri; perciò
solo in questo caso è libera.
Sono, queste, considerazioni molto semplici, che non hanno
bisogno di esemplificazioni. Mi fermerò ad un unico esempio molto istruttivo.
Si discute ancora, soprattutto dopo le tristi esperienze recenti, su ciò che
si deve intendere per un governo libero o per una libera costituzione
statale. La risposta più ovvia, suffragata dalla tradizione del
giusnaturalismo, è che un governo libero è quello scelto dal popolo. Ma
questa risposta non basta; sappiamo che un popolo può scegliere e mantenere un
governo non libero. Bisogna dire quindi che un governo libero è solo quello
che garantisce al popolo la possibilità della scelta; e che solo questa
possibilità garantita fa di esso un governo di uomini liberi. Ancora una
volta, non ogni scelta è libertà, ma è libertà solo quella scelta che
garantisce a se stessa la sua possibilità.
La via della libertà è per l'uomo la più difficile, e
l'uomo la imbrocca di solito solo dopo molti tentativi, smarrimenti ed errori.
Assai più facile ed ovvia è la via della non-libertà, o della libertà
fittizia, che si rivela, subito dopo la scelta, costrizione insopportabile,
rottura con se stesso e con gli altri. Spinoza ha detto che l'uomo libero non
pensa mai alla morte; Heidegger, che l'unica libertà possibile per l'uomo è la
libertà per la morte. In realtà l'uomo libero non dimentica la
morte e non vive solo per la morte. Riconosce la morte come il rischio
incombente su ogni suo progetto o riuscita, su ogni suo rapporto con se stesso
e con gli altri. Perciò non perde tempo nel lavorare per le cose
essenziali che gli restano a fare, e non trascura in nessun momento quelle
sulle quali più grava e incombe la minaccia di morte. L'uomo libero
rimane fedele alla morte perchè fedele al carattere
problematico della sua esistenza, che è in ogni istante possibilità di
non-esistenza. Ma vi rimane fedele nelle opere e nei progetti concreti, cioè
nelle possibilità che riconosce e fa sue; la sua fedeltà si esprime nel dovere
che avverte di consolidare incessantemente queste possibilità e nel rifiutarsi
alla credenza illusoria di ritenerle garantite in perpetuo senza il suo
sforzo.
11. IL TEMPO
Il riconoscimento della problematicità dell'esistenza
implica il riconoscimento della temporalità dell'esistenza stessa. La
filosofia dell'esistenza non soggiace all'esigenza di una illusoria
soppressione del tempo, caratteristica di ogni filosofia divineggiante. 0gni
filosofia che abbia la pretesa di valere come un sapere necessario del
mondo deve ignorare o negare il potere distruttivo dei tempo e ridurlo a un
ordine di determinazioni immutabili, cioè all'eternità. Ma l'eternità non è
poi che il presente o la contemporaneità; e la contemporaneità e il presente
sono ancora determinazioni del tempo. Sicché la pretesa di ignorare o
sopprimere il tempo non fa altro che ridurlo ad uno dei suoi momenti, con la
trascuranza degli altri.
La filosofia dell'esistenza parte dal riconoscimento
esplicito della realtà del tempo. E con essa riconosce quella di tutte
le sue caratteristiche e i suoi aspetti: nascita e morte, conservazione e
distruzione, immobilità e mutamento, sviluppo e decadenza. Questi aspetti
antagonisti del tempo difficilmente possono essere intesi e interpretati sulla
base di un qualsiasi concetto del tempo. Giacché se il tempo è ordine,
permanenza, secondo il concetto che è a fondamento di quasi tutte le sue
interpretazioni filosofiche, non si spiega Il suo potere distruttivo e
nullificante. E se invece è disordine, impermanenza e distruzione secondo le
interpretazioni religiose o tendenzialmente religiose di esso, non si spiega
la possibilità dell'uomo di sottrargli sia pure a pezzi e a brandelli, quello
che gli sta a cuore e di farne il patrimonio del suo passato, della sua
tradizione o della sua storia. In realtà soltanto la categoria esistenziale
della possibilità permette di intendere il tempo in tutti gli aspetti della
sua temporalità, perché permette di riconoscere questa temporalità nella
possibilità che è sempre insieme positiva e negativa, ed implica sempre
l'alternativa dell'ordine e del disordine, della conservazione e della
distruzione, ecc. La temporalità del tempo non è che I'instabilità
fondamentale della possibilità esistenziale. La minaccia della distruzione
implicita nel tempo non è che la possibilità, connessa ad ogni possibilità
concreta, di perdersi e di svanire. La possibilità di rinnovamento e di
conservazione, che il tempo racchiude, è quella del consolidarsi e del
mantenersi delle singole possibilità concrete. Tutti gli aspetti e le
dimensioni si legano alla possibilità come tale. Il presente di una
possibilità è una prospettiva verso il futuro, che si radica nel
passato. Una possibilità è sempre un'apertura verso il futuro, giacché
prospetta il venire all'essere di ciò che è possibile col passato,
giacché non fa che prospettare o progettare ciò che, in qualche modo, è già
stato. L'atto con cui l'avvenire è problematicamente agganciato al passato e
il passato è spinto verso l'avvenire, è il presente di una possibilità.
Come prospettiva o progetto dell'avvenire, ogni possibilità
include in sé il passato e realizza una qualche forma di unità tra l'avvenire
e il passato che è il presente o l'istante. Ma non si può intendere
l'esistenza umana, dal punto di vista del tempo, come una successione
di istanti. La vicenda della successione è una vicenda di sostituzione, e la
sostituzione implica la sostituibilità degli istanti che si succedono.
Ma questa sostituibilità esprime a sua volta l'equivalenza di valore degli
istanti, e l'equivalenza non è altro che l'assenza del valore dal quale
dipende la preferenza e la scelta. L'esistenza umana può indubbiamente anche
abbassarsi ad essere pura successione di istanti, e cioè vicenda
insignificante di possibilità che si accavallano e si sostituiscono, sparendo
subito dopo, senza lasciar traccia. Ma indubbiamente essa è tale soltanto
quando decade o viene meno alla sua intrinseca normatività, mentre non è tale
quando si riconosce in una possibilità valida e si concreta e si consolida in
essa. In questo caso, l'esistenza non è successione, e la sua temporalità si
esprime nella possibilità di salvaguardare i suoi aspetti essenziali, e di
conservare e rinnovare il patrimonio nel quale si riconosce. La
considerazione del tempo implica, così, la considerazione del valore. Là dove
manca l'impegno e la fede nell'esistenza, la temporalità appare come
successione; là dove l'impegno e la fede prevalgono, la temporalità si rivela
come possibilità di arricchimento e di conservazione, e la minaccia del tempo
come una alternativa di riuscita o di fallimento.
12. LA STORIA
In questa alternativa della temporalità esistenziale si
radica la storia. La quale è una ricerca che impegna l'avvenire a scoprire la
verità del passato, ed è quindi lotta per sottrarre al potere distruttivo e
nullificante del tempo ciò che è valido e degno di conservazione o di ricordo.
La storia non è la conservazione integrale, e per così dire
automatica, del passato, nel seno di una esperienza o di una coscienza
universale o comune a tutto il genere umano. Non è neppure un colpo
d'occhio divino gettato sulle vicende degli uomini e diretto a scoprire i
loro rapporti necessari e la loro eterna contemporaneità. E' piuttosto una
possibilità e un dovere per l'uomo: la possibilità e il dovere di rintracciare
e riconoscere nel proprio passato gli aspetti autentici di verità e di farli
valere come norma di limitazione e di scelta delle possibilità a venire.
L'uomo non può conoscersi e giudicarsi se non nel passato; deve dunque
disporsi al riconoscimento del suo passato senza illusioni né pregiudizi, con
la volontà di scoprirne il volto autentico, e a valersi nel modo migliore di
quelle possibilità di rievocazione che sono le fonti della storia. Ma
ogni riconoscimento e giudizio è perciò stesso un impegno per l'avvenire:
giudicando il suo passato, riconoscendo i mancamenti e gli errori come le
conquiste autentiche, egli dispone il quadro dei suoi progetti a venire, dei
suoi propositi, in una parola, delle concrete possibilità che lo attendono.
L'indagine storica deve perciò procedere sempre mediante una scelta dei
suoi elementi di giudizio, scelta che assume come particolarmente
significativi, per un'epoca, per una personalità o per un fatto, singoli
istituzioni o costumi, atteggiamenti od eventi. Ma la scelta è giustificata
soltanto se in qualche modo giustifica e fonda la propria possibilità; se,
cioè, non rende impossibile quella problematicità degli eventi che è il
fondamento di ogni giudizio o scelta possibile. Una valutazione storica,
infatti, che immobilizzasse la storia stessa in uno schema predisposto, in una
orientazione unica o necessitante, in un ordine progressivo o regressivo
ineluttabile, verrebbe meno alla problematicità della storia e ne renderebbe
impossibile il giudizio o la valutazione.
La problematicità della storia è la stessa problematicità
dell'esistenza che incessantemente ritorna a se stessa, e cerca di riconoscere
e di consolidare le sue possibilità autentiche. Essa ci vieta così l'ottimismo
come il pessimismo, che entrambi tentano di legare la sorte dell'umanità ad un
ordine storico necessario. Essa ci dice che l'ordine è piuttosto avanti e al
di là di noi che dietro di noi. Ci mostra nel passato gli elementi di fiducia
o di speranza come quelli d'incertezza e di dubbio. E in ogni caso ci impegna
a lavorare nel modo migliore per ciò che a ciascuno di noi deve stare più a
cuore, per ciò che è più degno ed umano.
Sintesi:
In tutti i suoi aspetti, umili o alti che siano, l'esistenza dell'uomo è la ricerca dell'essere. La tendenza volgare al godimento e al benessere e lo slancio religioso verso Dio (per considerare gli atteggiamenti più opposti) sono ugualmente, come tutti gli altri atteggiamenti della concreta umanità, la ricerca di uno stato, cioè di una condizione o di un modo d'essere, nel quale venga garantita la realizzazione di esigenze o bisogni considerati fondamentali. L'uomo cerca in ogni caso un appagamento, un completamento, una stabilità che gli mancano. Cerca l'essere. Questa condizione è caratteristica della sua finitudine. Se egli cerca l'essere, non lo possiede, non è, lui, l' essere. Rendersi conto di questa finitudine, scrutarne a fondo la natura è il compito fondamentale dell'esistenzialismo.
Fonte testo : http://www.clerus.org
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