QUANDO IL CANTO S’INNALZA VERSO L’“ALTO”: LA BELLEZZA DEL CANTARE
di
Mons. Giancarlo Boretti
In una piccola scultura di legno un’allodola spicca
il volo e due parole latine l’accompagnano: «Elevata canit». Così in una abbazia
del nord Italia Quasi ad indicare il distacco, faticoso ma necessario, dalla
terra per salire verso l’alto: incontro alla bellezza. La bellezza del
cantare nella Liturgia è un elevarsi, non sempre facile e istintivo, verso
la Bellezza: verso il Mistero che si dona a chi “si innalza” per aprirsi
all’incontro. A proposito di canto e di musica nelle celebrazioni leggiamo norme
e suggerimenti nelle Introduzioni al messale e ai libri liturgici, il cui senso
- a ben capirlo - è proprio nella linea di una bellezza “rituale” che non è
imprigionata dalla bellezza “estetica”; da questa la prima si distacca perfino
sfuggendole (quasi annullandola): come in un “bel” canto eseguito da tutta
un’assemblea dalle voci spontanee e disparate, in un momento liturgico festoso;
come in un vigoroso «Noi canteremo gloria a te» o in un intercalato «Gloria in
excelsis Deo»: che cosa ormai di più noto e di più abituale? Si tratta di un
canto “esteticamente” bello? Eppure … è bello! È “bello” allora il canto o
l’azione del cantare, la musica o il rito con quella musica?
C’è da credere che la sapienza celebrativa
(v. Sinodo diocesano 47°, 52) conduce il cantare - insieme al parlare - verso la
bellezza e verso l’alta qualità celebrativa, la quale non potrà che
essere un’umile qualità celebrativa nella ricerca e nell’accoglienza del
Mistero santo di Dio. E l’alto-umile celebrare non è forse semplicemente il
celebrare vero, con o senza grandi segni liturgici (musicali e non), come
scrive il nostro Arcivescovo? «Il primo e ineludibile passo da compiere è che
il rito stesso appaia in tutta la sua bellezza e si svolga secondo la sua
verità» («Mi sarete testimoni», n. 43). Eminenza, le Sue parole mi
invogliano a parlare di meno dell’”alta qualità” celebrativa e di più della
“semplice verità” celebrativa! Per un celebrare “alto”, ad esempio, non occorre
necessariamente e comunque una “grande” musica (che non deve pretendere posti di
privilegio enfatico, ma neppure soffrire esclusioni aprioristiche); come
manifesta un’alta qualità celebrativa la Messa “bassa” - senza incenso ma anche
senza sciatteria - con le poche note di un Alleluia o di un Santo, celebrata con
moderata lentezza e con rispetto dignitoso dei riti, dei testi e dell’assemblea.
Appunto: «Celebrare in spirito e verità», come titola il sussidio-base
teologico-pastorale per la formazione liturgica.
Il “bel” cantare nelle azioni liturgiche ha il
proprio senso originario in quel vario modo di proclamare
raccomandato minuziosamente da «Principi e norme del Messale ambrosiano»: «Nei
testi che devono esser pronunciati a voce alta e chiara dal sacerdote, dai
ministri, o da tutti, la voce deve corrispondere al genere del testo secondo che
si tratti di una lettura, di un’orazione, di una monizione, di un’acclamazione,
di un canto; deve anche corrispondere alla forma di celebrazione e alla
solennità della riunione liturgica. Nelle rubriche e nelle norme che seguono, le
parole “dire” oppure “proclamare” devono essere intese in riferimento sia al
canto che alla recita…» (n. 18). Di passaggio, ci vien da pensare: se presbiteri
e animatori laici andassimo a rileggere con attenzione le Introduzioni ai libri
liturgici, vi troveremmo tutti i “principi” oltre che le “norme” per celebrare
bene la Liturgia in spirito e verità, in umile ed alta qualità celebrativa! Il
Papa ce lo suggerisce per l’Anno dell’Eucaristia: «Il mistero va ben
celebrato: un impegno concreto di questo anno potrebbe essere quello di studiare
a fondo in parrocchia i principi r le norme per l’uso del Messale».
Volendo cercare di offrire una descrizione o di
rilevare il significato della bellezza del cantare nella Liturgia,
possiamo paragonarla a un mosaico dalle tessere policrome che nel loro insieme
fanno emergere un’“alta qualità” musicale-liturgica. Essa deve evidenziarsi
attraverso più elementi.
Il momento rituale
Il valore di un canto, la sua bellezza originaria,
sta innanzi tutto nella correttezza teologica, liturgica e letteraria del suo
testo, collocato nel posto rituale giusto: intendiamo riferirci principalmente
ai canti di ingresso, di offertorio, di comunione e per il rito ambrosiano ai
canti dopo il vangelo e allo spezzare del pane. Non basta la sola scelta di una
“bella musica”, se il testo non ha quella triplice correttezza e se la sua
collocazione rituale non è pertinente. È questa degna “incarnazione” che spesso
manca a molti canti destinati - o comunque eseguiti - nella Liturgia, dai
contenuti generici o ambigui e (non raramente) dal formato letterario di basso
livello. Nella costituzione del repertorio nazionale fu proprio questa
“dignitosa pertinenza” a guidare la scelta dei canti da proporre a tutte le
diocesi italiane. In questo senso, la bellezza o la bruttezza del testo di un
canto lo avvalora o lo avvelena; dall’altra parte, la giusta o sbagliata
collocazione di un canto nello svolgimento liturgico eleva o abbassa la
“bellezza” - la verità - del canto stesso.
La forma musicale
Conseguenza di quella “incarnazione” è certamente la
necessaria diversità di linguaggi della musica per la Liturgia. Le forme o i
generi musicali introdotti nelle celebrazioni devono seguire le norme canoniche
(e prima ancora interiori) che reggono i vari tessuti celebrativi: inno,
responsorio, litania, acclamazione, dialogo fra ministri e assemblea, fra
solisti e tutti, fra coro e popolo, fanno parte di quella policromia musicale
che, ben dosata e alternata, porta all’alta qualità del celebrare di una Chiesa
che è nata canora, come scrive P. Gélineau riferendosi a Paolo in Col 3,16 e Ef
5,18-19: «L’autore intende: cantate fra voi ogni genere di canti, sia più
melodici sia più ritmici, purché ciò avvenga nello Spirito santo. Questo
programma è anche il nostro: canti di forma varia, utilizzati con fede
illuminata, sostenuti dai gemiti ineffabili dello Spirito, nel nome di Cristo,
per la gloria del Padre. Ora, che dire della nostra pratica?». Non è questa la
prima vera bellezza della musica sacra, richiesta alla nostra “pratica”?
L’equilibrio strutturale
C’è un’armonia dell’azione celebrata che deve
apparire dall’intreccio dei segni liturgici, in tutta la loro varietà e nel loro
succedersi: parola, canto, musica strumentale, silenzio, gesti e movimenti
devono dialogare senza prevaricarsi o scomparire nell’ordo rituale della
Messa, degli altri sacramenti, della Liturgia delle ore. “Ordo”: dice anche
struttura ordinata nella successione dei vari momenti e delle diverse componenti
rituali. È l’“armonia” che si ascolta e che si vede nella Liturgia «insieme
seria, semplice e bella - dicono i nostri Vescovi - che sia veicolo del
mistero». Quando la Liturgia è così, c’è trasmissione spirituale,
partecipazione favorita anche dal raccoglimento, perfino piacevolezza di visione
e di ascolto. Non è chi non veda come in questa serietà, semplicità e bellezza
il canto e la musica abbiano una grande parte. Al di là della qualità musicale,
soprattutto nelle domeniche e nelle feste occorre puntare ad una calibratura che
sappia unire ampiezza musicale a sobrietà celebrativa. Ecco alcuni rischi e
qualche suggerimento. I riti di introduzione accusano pesantezza quando a un
solenne canto d’ingresso segue il canto dei Kyrie nell’atto penitenziale e del
Gloria. Un canti troppo lungo (con tutte le sue 8 strofe o versetti) non
ingenera percezione di bellezza ma noia e rallentamento dell’azione liturgica;
più canti alla comunione - per “riempire” il tempo della distribuzione
dell’Eucaristia - tolgono spazio al silenzio accompagnato o no da interventi
strumentali; una celebrazione con eccessivi canti “propri” non è che assicuri
una migliore autenticità e bellezza rispetto a quella in cui si dà la precedenza
ai dialoghi, alle risposte, alle brevi acclamazioni dell’”ordinario”. E perché
non dare più posto agli strumenti in funzione solistica, per esempio, con brevi
interludi (magari ben “improvvisati”) fra una strofa e l’altra di un inno? La
regia, il ruolo degli attori musicali, la possibilità di scegliere in un ampio
repertorio, la sapienza nel tessere fra di loro i riti grandi e piccoli, una
premurosa dedizione al ruolo del coro ma anche alla partecipazione
dell’assemblea: ecco sulla tavolozza liturgica i colori che dipingono la
Liturgia “insieme seria, semplice e bella”.
Il cantare “gradevole”
Questo aggettivo, per esprimere una certa bellezza
del cantare (e in genere del fare musica) nella Liturgia, è sicuramente
improprio, ma può essere utile per dire una sensazione globale in chi partecipa
alla celebrazione, sia come esecutore che come uditore. Innanzi tutto la
successione melodica dei canti deve essere complessivamente “appagante”, benché
in qualche modo diversa e distaccata dalla musica invasiva abitualmente
ascoltata e praticata “fuori chiesa”. La tensione verso il Mistero (non ridotto
alle proprie dimensioni - dice Giovanni Paolo II - ma accolto con profonda
apertura) induce a un altro orecchio, ad una specie di gusto musicale superiore.
Tale gradevolezza deve essere prodotta in particolare da una esecuzione il più
possibile corretta e garbata, da un “cantare bene” regolato da una buona
interpretazione e conduzione del canto, non abbandonato a se stesso specialmente
quando al canto è chiamata tutta l’assemblea liturgica: insomma, un “cantare
decoroso” come si addice al popolo di Dio che con la sua partecipazione esprime
una preghiera nobile e rispettosa: «Domine, dilexi decorem domus tuae”»
(Signore, ho amato il decoro della tua casa).
Il cantare “educato”
Se nella Liturgia il parlare deve variamente
adeguarsi alla diversità dei testi, ed in particolare corrispondere alla santità
della Parola, così da esigere una pedagogia che alleni intelligenza e voce,
ancor più rigoroso deve essere l’impegno nell’esecuzione del canto e della
musica in genere. Da qui la preoccupazione di elevare il più possibile il
livello musicale delle nostre assemblee e specialmente dei loro animatori:
scholae cantorum, guide del canto, salmisti, solisti, strumentisti. Il termine
“schola” (apprendimento, insegnamento) dice il paziente e costante esercizio per
conoscere il “mestiere” della musica, per affinare la voce, per assimilare il
repertorio. Certamente, chi più chi meno. Pensiamo a un’assemblea introdotta ai
propri canti con brevi “prove”, ma prima di tutto alla sua guida, al suo coro,
al suo organista tanto preparati da accompagnare con voce e con mano sicura (in
bellezza esecutiva) lo svolgimento dell’intera celebrazione. A quasi mezzo
secolo dall’inizio della riforma liturgica conciliare, il pressappochismo
e lo spontaneismo sembrano non preoccupare più di tanto le nostre
comunità cristiane e i loro responsabili, almeno nella musica sacra! Valga il
forte richiamo dell’Arcivescovo agli “operai del Vangelo”: «Amino
sinceramente e sviluppino con fedeltà generosa la loro opera formativa» («Mi
sarete testimoni», n. 96); si tratta di una “vocazione” e di una “missione”:
«L’obiettivo fondamentale della formazione? La scoperta sempre più limpida e
precisa della propria vocazione e la disponibilità sempre più pronta e matura a
viverla nel compimento della propria missione» (Ib, n. 96)). «Questo
diciamo nel segno d’una precisa e irrinunciabile responsabilità» (Ib, n.
97). Il tono e la sollecitazione sono davvero incisivi: tanto richiede anche la
bellezza del cantare per un’alta qualità celebrativa. La verità è
che nella Liturgia ci apriamo alla BELLEZZA, come dice il canto di un nostro
“foglietto” domenicale: «Tu sei bellezza eterna nei cieli».
In una rivista per gli animatori musicali della
Liturgia, parlando di “una certa bellezza” l’autore scrive: «Il canto non è un
soprammobile, ma il vertice del gesto celebrativo: in lui si sintetizzano
espressione e comunicazione, ampiezza e respiro, festa dell’orecchio e del
cuore, pienezza di partecipazione. Ne nascono (ne dovrebbero nascere) il
solenne, il festivo, il gioioso, l’unanime, ricchi di calore (“pietà”) e di
profonda adesione (“fede”). Ogni deficit, ogni lacuna in questa calorosa
partecipazione imbruttisce l’evento, è una vera ferita alla bellezza» (E.
Costa).
Fonte :
www.chiesadimilano.it
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