Card. Carlo Maria Martini
«IN MEZZO A VOI COME CHI SERVE»
(Lc 22,27)
(Lc 22,27)
L'esercizio dell'autorità nella
Chiesa a misura di Vangelo
Sono lieto di essere qui ad Anagni, in questa città
ricca di memorie storiche e artistiche, e di esservi come testimone della vostra
ricerca sincera di trasparenza evangelica nella Chiesa, del vostro sforzo di
riflettere sul Vangelo come forma ecclesiae. Forma, cioè forza
strutturante e insieme modello esemplare, luogo ispirativo e paradigmatico per
una Chiesa che spesso verrebbe voglia di descrivere come il campo dove abbonda
la zizzania insieme col buon grano (così contemplava la Chiesa sant'Agostino),
ma che è anche certamente la Chiesa che riflette lo splendore del Signore
risorto (cf 2Cor 4,6).
Sono lieto di essere fra voi al termine del mio primo anno sabbatico, cioè di quell'anno di relativo silenzio che mi sono imposto a partire dal momento in cui ho lasciato il ministero episcopale a Milano nel settembre 2002. Un silenzio che intendo continuare, con qualche eccezione come questa di oggi. Saluto cordialmente ciascuno di voi, il vescovo mons. Lorenzo Loppa, le autorità presenti, il presidente uscente dell'ATI, mons. Giacomo Canobbio, e il nuovo presidente, mons. Piero Coda.
In una riflessione su come l'annuncio del Vangelo esige e promuove un certo modo di essere Chiesa oggi (che è il tema del vostro Congresso) voi avete voluto anche l'intervento di un pastore su come l'esercizio dell'autorità è chiamato a configurarsi per essere capace anch'esso di dire il Vangelo o almeno di non oscurarlo troppo, e avete chiesto a me di introdurre il tema, probabilmente in considerazione della mia esperienza di ventidue anni come vescovo di una grande diocesi.
Tale esperienza dovrebbe in qualche modo abilitarmi a parlare di questo argomento; confesso di sentirmi invece abbastanza impacciato, conscio di non avere una sintesi organica da proporvi. Mi sono messo anche a cercare le ragioni di questo disagio, e le ho trovate esposte in una lettura del breviario della festa liturgica di San Gregorio, celebrata qualche giorno fa.
Sono lieto di essere fra voi al termine del mio primo anno sabbatico, cioè di quell'anno di relativo silenzio che mi sono imposto a partire dal momento in cui ho lasciato il ministero episcopale a Milano nel settembre 2002. Un silenzio che intendo continuare, con qualche eccezione come questa di oggi. Saluto cordialmente ciascuno di voi, il vescovo mons. Lorenzo Loppa, le autorità presenti, il presidente uscente dell'ATI, mons. Giacomo Canobbio, e il nuovo presidente, mons. Piero Coda.
In una riflessione su come l'annuncio del Vangelo esige e promuove un certo modo di essere Chiesa oggi (che è il tema del vostro Congresso) voi avete voluto anche l'intervento di un pastore su come l'esercizio dell'autorità è chiamato a configurarsi per essere capace anch'esso di dire il Vangelo o almeno di non oscurarlo troppo, e avete chiesto a me di introdurre il tema, probabilmente in considerazione della mia esperienza di ventidue anni come vescovo di una grande diocesi.
Tale esperienza dovrebbe in qualche modo abilitarmi a parlare di questo argomento; confesso di sentirmi invece abbastanza impacciato, conscio di non avere una sintesi organica da proporvi. Mi sono messo anche a cercare le ragioni di questo disagio, e le ho trovate esposte in una lettura del breviario della festa liturgica di San Gregorio, celebrata qualche giorno fa.
Certo - afferma san Gregorio nel
Commento ad Ezechiele (11,4-6) - quando mi trovavo in monastero ero in grado
di trattenere la lingua dalle parole inutili e di tenere occupata la mente in
uno stato quasi continuo di profonda orazione. [E probabilmente in questa
situazione faceva lui pure delle riflessioni teoriche sul governo nella Chiesa].
Ma da quando ho sottoposto le spalle al peso dell'ufficio pastorale l'animo non
può più raccogliersi con assiduità in se stesso, perché è diviso tra molte
faccende. Sono costretto a trattare ora le questioni delle chiese, ora dei
monasteri, spesso a esaminare la vita e le azioni dei singoli; ora ad
interessarmi di faccende private dei cittadini; ora a gemere sotto le spade
dirompenti dei barbari e a temere i lupi che insidiano il gregge affidatomi. [Al
riguardo, viene da pensare alla molteplicità e al carattere disparato delle cose
che incombono su un vescovo, e sempre con una connotazione di urgenza]. Ora
debbo darmi pensiero di cose materiali, perché non manchino opportuni aiuti a
tutti coloro che la regola della disciplina tiene vincolati. A volte devo
sopportare con animo imperturbato certi predoni, altre volte affrontarli,
cercando tuttavia di conservare la carità. Quando dunque la mente divisa e
dilaniata si porta a considerare una mole così grande e così vasta di questioni,
come potrebbe rientrare in se stessa, per dedicarsi tutta alla predicazione e
non allontanarsi dal ministero della parola? [E noi aggiungiamo: come
potrebbe rientrare in se stessa e fare una teoria dell'autorità nella Chiesa che
risponda a criteri autentici senza cadere nella retorica delle buone intenzioni?].
Un ulteriore motivo di remora nel trattare il tema assegnatomi
deriva dal fatto che talora ho incontrato persone che davano l'impressione di
saper teorizzare il modo giusto dell'esercizio dell'autorità nella Chiesa e poi
non sapevano molto esercitarla. Ho sempre temuto questa pretesa di descrivere le
coordinate teoriche di un fenomeno senza saperle vivere nella propria
quotidianità. Sono quindi piuttosto scettico di fronte a questi tentativi.
Mi pare ben più saggio confidare (me lo conferma l'esperienza) che lo Spirito santo guida con pazienza e misericordia colui che è rivestito di autorità per far sì che colga volta per volta, nell'estrema complessità della situazione, quanto meglio corrisponde al bene comune ed è compatibile con il grado di fervore di una comunità, con la situazione concreta del momento che si sta vivendo ed è perciò servizio reale, pur se modesto, alla predicazione evangelica.
1. Tenendo presenti tutti i limiti del mio dire, vorrei tuttavia esporre alcune convinzioni che mi vengono alla mente quando penso al tema che mi è stato affidato.
1.1. L'esercizio dell'autorità nella Chiesa ha la sua regola in Gesù stesso che esprime questa autorità fin dalla sua prima comparizione pubblica: Marco 1,21-28. «Gesù si mise ad insegnare ed erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi» (1,22). Qui "autorità" è anzitutto forza che nasce dalla parola detta con lucidità, autorevolezza, convinzione e pertinenza. E dopo l'esorcismo la gente esclama: «Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità? Comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono» (Mc 1,27). Qui la parola acquista un significato nuovo di forza liberante dal male. La parola autoritativa di Gesù illumina, rischiara, esorta e fa ciò che dice. Il significato della sua autorità si chiarirà gradualmente nei vangeli fino alla rivelazione di Mt 28,18: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra». In tal senso ogni autorità nella Chiesa è partecipazione al potere liberante e illuminante di Gesù.
Si potrebbero richiamare alcune note profonde e stimolanti di Romano Guardini nella sua Etica (Brescia 2001).
Mi pare ben più saggio confidare (me lo conferma l'esperienza) che lo Spirito santo guida con pazienza e misericordia colui che è rivestito di autorità per far sì che colga volta per volta, nell'estrema complessità della situazione, quanto meglio corrisponde al bene comune ed è compatibile con il grado di fervore di una comunità, con la situazione concreta del momento che si sta vivendo ed è perciò servizio reale, pur se modesto, alla predicazione evangelica.
1. Tenendo presenti tutti i limiti del mio dire, vorrei tuttavia esporre alcune convinzioni che mi vengono alla mente quando penso al tema che mi è stato affidato.
1.1. L'esercizio dell'autorità nella Chiesa ha la sua regola in Gesù stesso che esprime questa autorità fin dalla sua prima comparizione pubblica: Marco 1,21-28. «Gesù si mise ad insegnare ed erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi» (1,22). Qui "autorità" è anzitutto forza che nasce dalla parola detta con lucidità, autorevolezza, convinzione e pertinenza. E dopo l'esorcismo la gente esclama: «Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità? Comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono» (Mc 1,27). Qui la parola acquista un significato nuovo di forza liberante dal male. La parola autoritativa di Gesù illumina, rischiara, esorta e fa ciò che dice. Il significato della sua autorità si chiarirà gradualmente nei vangeli fino alla rivelazione di Mt 28,18: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra». In tal senso ogni autorità nella Chiesa è partecipazione al potere liberante e illuminante di Gesù.
Si potrebbero richiamare alcune note profonde e stimolanti di Romano Guardini nella sua Etica (Brescia 2001).
L'autorità è un fenomeno di un genere
particolare: la sua forza vincolante non è identica alla validità della semplice
norma morale, perché quest'ultima mi parla in modo diretto... Non è solo il
concretizzarsi, e quindi per esempio la perspicacia, l'esperienza di vita, la
forza della personalità considerata a costituire l'autorità... Solo in virtù
della competenza, della legittimità, la concretizzazione in una persona acquista
il carattere significativo cui la coscienza può corrispondere. Ecco l'autorità:
un'unione intrinseca di significato morale e concreta realtà di colui che lo fa
rispettare (473s).
1.2. Gesù stesso ha teorizzato l'esercizio dell'autorità nella Chiesa così come lui lo concepisce, specialmente nell'ultima Cena.
Si veda Luca 22,26-27: «Ma chi è il più grande fra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve».
Analogamente si esprime il Vangelo secondo Giovanni: «Voi mi chiamate maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,14-16 ).
Gesù ha dunque una concezione ben precisa dell'autorità come servizio e del modo di esprimerla lavando i piedi ai fratelli. Ma non vuole imporre questo modo se non partendo dal suo stesso esempio.
1.3. La Chiesa primitiva sta a questa lezione. Il passo più significativo è forse la Prima lettera di Pietro al capitolo 5: «Esorto gli anziani che sono fra voi, quale anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi: pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri, secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge. E quando apparirà il pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce» (vv. 1-4 ).
Se ne deduce che tutto quanto riguarda l'autorità è primariamente ricondotto al pastore supremo, di cui i responsabili sono collaboratori. Il loro modo di agire non è oggetto di comando, bensì di esortazione che parte dall'esempio di Pietro. Le virtù indicate sono la disponibilità, il disinteresse, l'umiltà, il farsi modelli del gregge.
Abbiamo qui il punto di partenza per quelli che saranno poi i grandi trattati sull'esercizio dell'autorità nella Chiesa, dalla Regula pastoralis di san Gregorio Magno fino ai vari scritti del secolo XVI - come lo Stimulus pastorum di Bartolomeo de Martyribus, Arcivescovo di Braga, molto stimato da san Carlo Borromeo - e fino al documento Ecclesiae Imago, Direttorio per il ministero pastorale dei vescovi (1973) e all'atteso documento post-sinodale riferito al Sinodo universale dei vescovi del 2001.
2. Personalmente mi sono sentito assai più stimolato e provocato, per quanto concerne l'esercizio dell'autorità, in particolare nel mondo odierno, da un testo di san Tommaso suggeritomi da padre S. Lyonnet ormai molti anni fa.
San Tommaso si domanda nella terza parte della Summa Theologiae [q. XLVII, De causa efficiente passionis Christi] quale sia stata la causa della morte di Cristo in croce e si chiede se si può affermare che Cristo sia morto per obbedire al Padre. Una prima risposta appare negativa. Sembra infatti ingiusto e crudele che un figlio innocente sia abbandonato dal padre alla passione e alla morte (III, q. 47, a. 3,1). Inoltre non si trova nella Scrittura un precetto esplicito del Padre al proposito [ivi, a. 2,1]. Si legge anzi che Cristo morì per amore, il che è superiore all'obbedienza: «Christus dilexit nos et tradidit semetipsum pro nobis» (Ef 5,2) [ivi, a. 2,3]. Ma Tommaso nota che è anche scritto in Fil 2,8: «Factus est oboediens Patri usque ad mortem» [ivi]. Che dire dunque di questa obbedienza che può apparire ingiusta e crudele e che pure traspare da Rm 8,32: «Proprio Filio suo non pepercit, sed pro nobis omnibus tradidit illum»? [ivi, a. 3,3]
La risposta di san Tommaso è ampia e articolata. A me interessa soprattutto la sua insistenza sul fatto che «Christus passus est volontarie ex oboedientia Patris» e «Deus Pater tradidit illum passioni... in quantum inspiravit ei voluntatem patiendi pro nobis, infundendo ei caritatem» [ivi]. Questa è l'obbedienza che più mi pare consona al mistero trinitario: quando chi comanda dà i motivi ispiratori per obbedire, ispira l'amore per compiere la volontà di Dio, dà per quanto sta in sé le motivazioni e lo slancio dell'incoraggiamento e dell'esempio. E mi pare una obbedienza propria degli uomini liberi, che sono però capaci di lasciarsi ispirare dall'amore. Una tale autorità non comprime le coscienze, ma ne favorisce la crescita facendole conformare al modello del Figlio nella Trinità.
Perciò le esortazioni all'obbedienza del Nuovo Testamento sono per lo più delle parenesi, dove si danno cioè le motivazioni e gli stimoli per agire. Un simile esercizio dell'autorità mi pare corrispondere a una situazione storica in cui l'uomo ha, come sempre, bisogno di guida e di essere aiutato a convergere verso l'unità, ma in maniera rispettosa della sua libertà e autonomia.
3. A questo punto vorrei menzionare brevemente alcune caratteristiche dell'uso dell'autorità nella Chiesa, che a mio avviso sono particolarmente importanti per il nostro tempo. Ne indico tre.
a) Il rispetto della persona, della sua autonomia e della sua intelligenza. Sono sempre meno coloro che accettano di lasciarsi guidare ciecamente dalla pura autorità, anche se non mancano rigurgiti di fondamentalismo fanatico. Da un numero sempre più grande di persone, cristiani e non, emerge il desiderio di capire, si vogliono comprendere le ragioni di quanto chiede l'autorità.
b) L'attenzione alla singolarità della persona, alla sua irrepetibilità e incomparabilità, alla sua debolezza. Molti hanno bisogno di essere capiti e amati prima di essere guidati con comandi e precetti, anche se c'è nel contempo un grande bisogno di sicurezza, di appoggio e di forza ispiratrice. Per tale motivo mi pare che la Parola di Dio ispirata e ispirante abbia un grande rilievo nell'odierno esercizio dell'autorità nella Chiesa.
c) L'attenzione alla diversità delle situazioni. Situazioni semplici esigono strutture di autorità semplici e immediate. Situazioni complesse esigono sinergie, collaborazioni, deleghe, forme di sinodalità ben costruite dove un rapporto leale e fraterno tra i responsabili (cioè a livello orizzontale) e una facile comunicazione verticale rendono più sciolto ed efficace un organismo di natura sua un po' lento e pesante.
4. Si apre infine un ultimo campo nel quale si può approfondire la riflessione sull'esercizio dell'autorità nel Nuovo Testamento, e lo si ricava dalla natura della Chiesa comunione. Qui gli scenari sono soprattutto di futuro e non possono essere che accennati.
Si dovrebbe partire per questo da una reale vitalità delle chiese locali con i loro campi di esercizio: liturgia, catechesi, legislazione, e quindi anche contributo efficace alla scelta del proprio vescovo.
L'effettiva vitalità delle chiese locali deve poi esprimersi in effettiva vitalità e sufficiente autodeterminazione delle chiese regionali e nazionali, e nella partecipazione sinodale al governo della Chiesa intera. In tal senso l'autorità deve esprimersi in un'effettiva collegialità, non solo nella comunione cattolica, bensì pure nelle relazioni all'interno delle singole chiese locali fra le varie componenti (ministeri e carismi, movimenti). Tutto questo sarà importante specialmente nel futuro, quando si aprirà la stagione post-fondazionale dei movimenti.
Si tratterà di un passaggio particolarmente delicato, col bisogno di un rinnovato dialogo di scambio a livello orizzontale nelle chiese locali e a tutti i livelli di sinodalità, nessuno escluso, neppure quello di un eventuale concilio ecumenico.
Con le poche note che vi ho offerto non pretendo di avere esaurito il tema dell'autorità nella Chiesa oggi; vi ho semplicemente comunicato qualche convinzione, dove il pensiero di fondo è quello del lasciarsi guidare dallo Spirito nell'esercizio di un'autorità che esprima la forma del Vangelo. Le difficoltà di dire tutto ciò in astratto è anche significativa di un'esperienza che è anzitutto vissuto quotidiano ed esperienza di grazia.
Avendo fatto tale esperienza ho molta compassione e simpatia per quanti oggi la vivono e intercedo per loro affinché siano docili allo Spirito ed esprimano quindi nel loro esercizio dell'autorità la forza e l'autorità di Gesù nel proclamare il Vangelo che libera e che salva.
Fonte testo : www.teologia.it
Intervento del Cardinale Carlo M. Martini al XVIII Convegno Nazionale ATI «Annuncio del Vangelo forma ecclesiae», tenutosi ad Anagni dall'8 al 12 settembre 2003 .
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