domenica 4 agosto 2019

GERUSALEMME : STORIA , MISTERO E PROFEZIA, del Card. Varlo Maria Martini




Card. Carlo Maria Martini
GERUSALEMME : STORIA , MISTERO E PROFEZIA

                      
 
C'è una domanda preliminare: come si può parlare di Gerusalemme? "Gerusalemme," per citare Chateaubriand nell'Itinerario da Parigi a Gerusalemme, "il cui nome evoca tanti misteri, colpisce l'immaginazione, sembra che tutto debba essere straordinario, in questa straordinaria città"?
Credo che una prima premessa sia questa: non si può parlare di Gerusalemme senza amarla. Amarla di quell'amore con cui l'ha amata Davide, nell'interpretazione moderna di Carlo Coccioli, che gli fa dire: 
" Ah! se avevo amato Gerusalemme, se l'avevo amata contemplandola dall'esterno, ne impazzii letteralmente, pazzia d'amore, valutando dall'interno la sua bellezza indescrivibile. Certo non vi era al mondo altrettanto desiderabile città, eco inebriante di una dimensione spirituale dello spazio, dove il cielo si chinava sulla terra e la sposava. Come non invidiare Sion, l'incomparabile?". 
Oppure, per esprimersi con la parola di un midrash: "Dieci porzioni di bellezza sono state accordate al mondo dal Creatore, e Gerusalemme ne ha ricevute nove. Dieci porzioni di scienza sono state accordate al mondo dal Creatore, e Gerusalemme ne ha ricevute nove. Dieci porzioni di sofferenza sono state accordate al mondo dal Creatore e Gerusalemme ne ha ricevute nove".
Tra le domande che qualificano l'esistenza storica e problematica di ogni uomo e donna del nostro tempo, insieme ad altre domande drammatiche che riguardano la guerra, l'amore, il perdono, la fame e via dicendo, c'è certamente, anche questa domanda: tu, che dici di Gerusalemme? In che rapporto ti senti con Gerusalemme?
Il "dossier" gerosolimitano è immenso: biblico, rabbinico, filosofico, teologico, letterario. Da David a Dante Alighieri a Hegel ai nostri giorni: è un dossier senza fine.
Vorrei fare una presentazione quasi in stile rapsodico, attraverso una trama di citazioni. Indicare piste, domande, luoghi di ricerca, temi possibili di approfondimento, per rispondere alla domanda fondamentale: tu, che dici di Gerusalemme? Cerchiamo di ordinare la tematica attorno alle tre linee indicate: Gerusalemme, storia, mistero e profezia, anche se, evidentemente. non è possibile una divisione rigida di questi tre momenti.
Sotto questa tematica intendiamo tutto ciò che costituisce la storia viva della città. Una storia carica di significati, una storia caratteristica, unica al mondo. 
I luoghi della presenza
È interessante notare come, anche a livello archeologico, la ricerca si concentri oggi su due poli: l'identificazione delle mura, con la loro complessa storia e le diverse successioni dei recinti politici della città, e il luogo del tempio. Una ricerca condotta secondo moduli spaziali, secondo i recinti della presenza politica, del popolo, cioè le mura, e della presenza religiosa, di Jahvè, cioè il tempio. E già qui siamo di fronte a una di quelle dualità, o bipolarità, che emergono da tanti aspetti della storia di Gerusalemme, e che potrebbero essere visualizzate con un riferimento biblico: "Tu mi vuoi edificare una casa, io edificherò a te un casato" (2Sam 7, 5.11). Alla casa spaziale si contrappone il casato dinastico, temporale. Heschel direbbe: " Al tempio Dio preferisce il tempo" in cui anche l'uomo abita con lui. Questa linea di dualità, in cui il tempo viene poi qualificato moralmente come impegno per la giustizia, è la linea che riappare di frequente nel kerygma (annuncio) profetico con la tensione tra culto e obbedienza. "Obbedire è meglio del sacrificio" (1Sam 15, 22); "Detesto i sacrifici fatti nel tempio; ricercate la giustizia" (Is 1, 11.17; cfr. Mic 6,7-8; Os 6,6; Sal 50): il sacrificio richiesto è quello del cuore, anche se alla fine riappaiono i sacrifici e le mura ricostruite. 
Questa dialettica è continuamente presente nella storia della città. n primato temporale, esistenziale, la presenza di Dio con l'uomo e l'uomo che cammina con Dio nella giustizia e nella santità, non elide ma illumina la presenza spaziale, quella per cui la gloria di Dio si manifesta nel tempio e abita dentro le mura della città. Fondamentale si potrebbe ritenere, al proposito, la riflessione fatta da Salomone: "Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ti ho costruita!". Ma poco prima Salomone dice: "Il Signore ha deciso di abitare sulla nube. lo ti ho costruita una casa potente, un luogo per la tua dimora perenne" (1Re 8,27.12-13).
Infinità, trascendenza di Dio, immanenza gerosolimitana di Dio.
I rapporti tra i due aspetti si chiariranno nel Nuovo Testamento, ma senza giungere mai, almeno nello spazio temporale dell'esperienza umana, a elidersi a vicenda. Da una parte Gesù accetta il tempio, nella sua funzione di "casa di preghiera" (Mc 11, 11; 15, 17), dall'altra ne prevede la fine (Mc 13).
Anche Paolo (At 21, 26; 24, 6.12.18; 26, 21), anche la comunità primitiva (At 2,46 e 3, 1) frequentano il tempio; ma è in esso che più tardi Paolo sarà catturato, e da questo momento in poi sembra che negli Atti degli Apostoli il tempio sia ormai perso di vista, decaduto come luogo della presenza, o anche soltanto come luogo della preghiera: è divenuto anzi il luogo nel quale Paolo è stato proditoriamente preso. Giovanni vede nel Cristo incarnato (Gv 1, 14) la nuova tenda della Shekinah (eskenosen), in cui contempliamo la gloria del Dio Emmanuele (Emmanuele, uno dei nomi di Gerusalemme, ora viene dato a Gesù; cfr. Mt 1,23). 
La stessa idea del corpo del Cristo come tempio è ripresa in chiave pasquale (Gv 2, 19-22 e anche probabilmente Gv 19, 37, dove il lato destro può fare allusione a Zc 12, 10, all'acqua che sgorga dal lato destro del tempio), è il tempio che Marco (14, 58) definisce "non fatto da mano d'uomo". Qui si può richiamare tutta la polemica sul tempio di At 7. n tema è anche suggerito dalla metafora della porta in Gv 10, 7-9: Gesù è la mediazione per la comunione con Dio, è il santuario in cui questa comunione si attua. Porta e tempio antichi sono ora spezzati, come il velo del tempio (Mc 15, 38) perché il Cristo, nuova via (Gv 14,6), è il centro del culto ed è superiore al tempio stesso (Mt 12,6).
Vi è quindi una nuova Gerusalemme, senza tempio. "Non vidi alcun tempio in essa; perché il Signore Dio, l'Onnipotente e l'Agnello sono il suo tempio" (Ap 21, 22).
A livello storico queste varie dualità si affrontano, questa bipolarità oppositiva o sintetica si esprime in vari modi nella predicazione profetica e anche nel Nuovo Testamento: da una parte la città della pace, città della giustizia e dall'altra Dio fedele, Dio presente; oppure: Dio trascendente, Dio assente e Dio giudice, Dio vendicatore, con tutte le varianti possibili di questa dualità, che segna le drammatiche vicende dei luoghi della presenza del popolo e di Jahvè.
Il destino di Gerusalemme come città contesa, comincia verso l'anno 1000 a.C., quando forse non contava più di duemila abitanti. La sua esistenza come capitale pacifica, pure in mezzo ad avvenimenti travagliati, dura quattrocento anni. Tutto il resto della storia è un susseguirsi di invasioni e di conquiste: egiziani, babilonesi, persiani, tolomei, seleucidi, romani, arabi, cristiani d'occidente, sultani egiziani, turchi, sino agli eventi più recenti.
È pensando a questa storia che André Chouraqui, nel suo libro Vivre pour Jerusalem ha scritto: "È Babel la mostruosa trionfatrice della storia, Babel dalle legioni devastatrici, Babel del saccheggio e delle violazioni, Babel dell'assassinio, Babel di tutte le morti. Babel trionfa in tutte le nostre polluzioni, esulta nei depositi dove si ammassano le armi atomiche, che domani devasteranno la mirabile liturgia della creazione. Ai trionfi di Babel," egli dice, "Gerusalemme è presente incatenata, cieca, ma viva e presente. Durante tutta la sua storia Gerusalemme è la città martire, la grande crocifissa". Tuttavia, pur attraverso queste vicende drammatiche di ogni tempo, Gerusalemme è stata, è, ed è destinata a essere la terra dell'incontro.
Continua Chouraqui: "Gerusalemme è centrale per Israele, centrale per la chiesa universale, per la casa dell'lslam e perché essa si erge all'incrocio in cui l'Asia incontra l'Africa e si volge all'Occidente". Di qui, evidentemente, nasce la speranza che vive ciascuno di noi tutte le volte che va pellegrino a Gerusalemme, la speranza che sia proprio in questa città che possiamo riconoscere in ogni uomo il nostro fratello, così come ci fa intuire il Salmo 87 (vv. 5 e 7).
Scrive Jacquet: "Ogni nazione nella misura in cui riconoscerà la supremazia del Dio d'lsraele riceverà da lui, in virtù di un atto della sua liberalità, il suo brevetto di cittadinanza gerosolimitana. Ai suoi membri è offerta un'iscrizione sul registro dei cittadini della città. Tolta ogni barriera, essi possono d'ora innanzi considerarsi a casa loro con gli israeliti; entro le mura della città. 'Non hospites et advenae, sed cives sanctorum et domestici Dei' (Ef2, 19) beneficiando anch'essi delle risorse spirituali dello jahvismo (Is 12,3)".
Alla stessa idealità di Gerusalemme, città dell'incontro, patria universale, s'ispira un loghion extracanonico di Maometto: "O Gerusalemme, terra eletta da Dio e patria dei suoi servi, è dalle tue mura che il mondo è diventato mondo. O Gerusalemme, la rugiada che cade su di te guarisce ogni male, perché essa discende dai giardini del paradiso".
Ma ecco affacciarsi il tragico dilemma; riemerge la bipolarità storica, il dualismo: città dell'incontro o semplicemente città della coesistenza? Città in cui tante persone e situazioni si passano vicino, ma non si compenetrano?
Anche qui la realtà può avere un testimone. Davide Shahar in una conversazione racconta le sue esperienze di ragazzo nato a Gerusalemme e di uomo vissuto a Gerusalemme. Egli dice , (ed è un'esperienza che tutti abbiamo fatto): "Gerusalemme è un mondo di coesistenza, non di simbiosi. Voi siete là, per esempio, alla porta di Sichem e potete vedere, gli uni accanto agli altri, un rabbino che va a pregare al Muro, una ragazzina in minigonna che viene da un kibbutz, un musulmano sul suo asino e poi un monaco greco. Non c'è, direi, alcuna interpenetrazione. Ciascuno vive nel suo mondo; non c'è niente di comune tra il mondo del rabbino e quello del monaco greco: sono mondi differenti che coesistono, l'uno a fianco dell'altro. Questo ci dà una città di tensioni terribilmente forti. lo personalmente le sento in tutti gli ambiti della vita. Non parlo soltanto della guerra tra noi e i nostri vicini. lo sono un uomo molto pacifico e, tuttavia, sono passato per cinque guerre. Parlo anche della comunità giudaica, nella quale c'è coesistenza ma non interpenetrazione. È una tensione continua. Tensione tra i praticanti e i non praticanti; tensione tra comunità differenti. È una tensione che, vibra sempre in questa città, e che è sempre piena di guerra. Questa città unica e universale".
Con le frasi e le domande di Shahar entriamo nel mistero di questa città. Che cosa significano tutte queste realtà storiche che verifichiamo e non possiamo negare, di cui siamo in parte i testimoni, di cui ci rallegriamo quando gli aspetti negativi sono soverchiati da quelli positivi, rattristandoci quando avviene il contrario? Che significa tutto ciò in relazione al mistero di pace, prosperità, gioia, giustizia, fraternità che Gerusalemme annunzia col suo nome?
In altre parole potremmo dirci, partendo da un punto di vista specificamente cristiano: il fatto che gli eventi decisivi della salvezza, morte e risurrezione di Gesù (e, nella visione lucana, anche la pentecoste) si siano compiuti a Gerusalemme, permette qualche conclusione sul significato teologico permanente della città, e sull'impatto che le situazioni dolorose della sua storia possono avere sulla storia del mondo?
Il Nuovo Testamento ha cercato in vari modi di penetrare questo mistero di Gerusalemme. È particolarmente ricca in proposito la visione lucana della salvezza, salvezza annunziata in Gerusalemme a Zaccaria, svelata a Gerusalemme con Gesù al tempio, consumata a Gerusalemme: "Ecco, saliamo a Gerusalemme, là si compiranno le cose dette sul figlio dell'uomo" (Lc 18,31). Irradiato da Gerusalemme (Lc 24, 47), l'evangelo comincia da Gerusalemme (At 1,8) e da Gerusalemme in avanti, verso i confini della terra. Gerusalemme è il nuovo Sinai della nuova Legge dello spirito (At 2) e, almeno per un certo tempo, la predicazione primitiva a Gerusalemme ritorna in periodici confronti (At 15 e, a suo modo, GaI 2). Tuttavia, a partire da un certo punto, si ha l'impressione che, per la chiesa antica, la missione della Gerusalemme storica si insabbi, non emerga e non perseveri se non forse in forme minori, come quella del pellegrinaggio. In fondo c'è anche oggi un costante ritorno a Gerusalemme, ed è interessante notare come l'attrattiva di questa città per il cristiano cresca. Anche il cristiano si sente di dire: "l'anno prossimo a Gerusalemme". 
E questo perché? È soltanto una moda, una nostalgia? O c'è qualcosa di più?
A questo riguardo ci si è chiesto, ancora recentemente, che significato teologico può avere la ripresa a Gerusalemme di  una comunità di ebrei cristiani, circoncisi, che si dichiara erede del gruppo primitivo di Giacomo; collegata direttamente alle radici sante della nostra fede.
Tutto ciò ci fa riflettere e apre interrogativi cui non è facile dare risposta. E proprio a partire da questa misteriosa permanenza di Gerusalemme, della Gerusalemme storica e teatro degli eventi di salvezza, nasce, continuando la simbologia dell' Antico Testamento, una lussureggiante simbologia gerosolimitana che si potrebbe definire simbologia della Gerusalemme vissuta e della Gerusalemme sognata, già presente nell'Antico Testamento e ripresa nella letteratura rabbinica e in quella cristiana.
Per brevità ci potremmo riferire a Misrahi per dare una semplice indicazione dei simboli evocati: pietra, acqua, luce, montagna, forza, gioia, sposa, elementi che sono variamente ripresi dalla letteratura successiva su Gerusalemme, dando a ciascuno di essi un significato speciale. Pietra non soltanto perché su colline rocciose, per l'architettura di sassi propria di Gerusalemme, ma anche perché "pietra" sono i tre centri della città: la pietra del Muro del Pianto, la pietra della Cupola, la pietra ribaltata del Sepolcro. È di qui che si avanza verso il simbolismo teologico della roccia, pietra del Signore, roccia e rocca. Così Gerusalemme diviene espressione della fede, della stabilità, della solidità. Come scrive un autore ebraico, il premio Nobel Shemuel Agnon, nei suoi Racconti di Gerusalemme: "Gli doleva il cuore a lasciare Gerusalemme, città santa, per uscirne, come per precipitare nella Geenna. Diceva in cuor suo: sono venuto fin qui e già me ne devo andare, mi pare di essere un uccello in volo, vola e la sua ombra lo accompagna". Insieme col simbolismo della solidità, del luogo dove si sta al sicuro, c'è il simbolismo dell'acqua. Ecco il Salmo 56, 4-5:
Fremano, si gonfino le sue acque
tremino i monti per i suoi flutti.
Un fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio
la santa dimora dell'Altissimo.
Si tratta dei yeudim meshiym (giudeo-messianici), ebrei che affermano di aver trovato il messia e credono che sia proprio Jeshuah figlio di Miriam di Nazaret. Credono in lui come messia e Signore (Adon), credono nella sua resurrezione e nel suo Vangelo, ma non professano alcuna appartenenza ecclesiale ne intendono rinunciare all'ebraismo.(1)
E dall'esigente enfasi di questa ricchezza d'acqua (che non c'è in realtà a Gerusalemme) si passa alla simbologia di Jahvè, sorgente d'acqua viva in Gerusalemme. Già Filone sottolineava nel De somniis: "Qual è mai questa città dato che la città santa dove si trova il tempio è costruita lontano dal mare e dai fiumi?". Il senso è evidentemente metaforico. Continua Filone: "In realtà l'onda del Verbo divino, fluendo con continuità, potenza e misura si spande attraverso l'universo e raggiunge ogni cosa".
Ricordiamo anche il tema della luce, fondamentale in Isaia come quello della montagna. Gerusalemme appare non soltanto come pietra ma anche come montagna: "Il suo monte santo, altura stupenda, è la gioia di tutta la terra" (Sal 48, 3). Montagna, cime e insieme fondamento: "le sue fondamenta sono sui monti santi" (Sal 46, 3-4). Fondamento e culmine proprio in relazione col Salmo 18: "Dio, mia roccia, mia rupe, mio riparo". Misrahi, perciò, parla addirittura di Dio come simbolo di Gerusalemme, e dice che "se Gerusalemme ha un tale irraggiamento è perché essa è simbolo di Dio. Se Dio è talmente legato a Israele, è perché egli è il simbolo di Gerusalemme".
Un altro simbolo sfruttato è quello della "porta", "porta della speranza", che, in relazione ai temi precedenti indica una dinamica, un passaggio, una progressione, un entrare e un uscire, anche una fragilità, la fuga e l'esilio e persino la stessa trasgressione.
"Entrare in Gerusalemme," scrive Misrahi, "è entrare nel combattimento per la giustizia, è assumere la responsabilità della lotta."
Questa entrata avrà perciò uno sbocco, un'uscita: "da Gerusalemme uscirà la Legge". Diversi sono gli usi che vengono fatti di queste metafore, a seconda delle situazioni; ma tutti si riferiscono alla potenzialità quasi senza fine di Gerusalemme di rappresentare i diversi aspetti del cammino dell'uomo e dell'esprimersi dell'uomo con Dio.
C'è infine la simbolica della "gioia": "la Gerusalemme, altopiano roccioso, è ove si danza l'allegria dell'essere, il giardino del re, il giardino dell'essere. L'Eden non è a est, ma al centro, e il centro (riferendoci anche al Cantico dei Cantici e ai salmi) è la simbologia della sposa".
La Gerusalemme del mistero, bagnata dalla presenza salvifica di Dio, assume significati che possono essere letti in tutti gli aspetti della vita e possono riferirsi a mille realtà della ricerca che Dio fa dell'uomo e del cammino dell'uomo verso Dio.
Cosa significa interrogarsi su Gerusalemme come profezia, cosa significa interrogarsi sull'influsso che la salvezza finale, rappresentata con immagini gerosolimitane, ha sul momento presente della salvezza e sul cammino della salvezza? Qui andrebbe evocato tutto quanto è detto nel Nuovo Testamento, nell'Apocalisse in particolare, sulla Gerusalemme nuova, sulla città che viene da Dio, la quintessenza di tutte le attese umane, la città in cui non c'è più né pianto, né lutto, dolore; il luogo della perfetta giustizia e della perfetta liberta, Il luogo nel quale si esprime la libertà dei credenti (GaI 4, 26-31). È interessante indicare, con qualche citazione, come questi temi si prolunghino, sia nella riflessione rabbinica, sia in quella cristiana.
Già la speculazione rabbinica sull'apparente duale Jerusalayim passava a riflettere sulla città duale nello spazio e nel tempo: Gerusalemme celeste, Gerusalemme terrestre; Gerusalemme di adesso, Gerusalemme di poi. E cercava di definire i vari rapporti tra le due Gerusalemme: quella di quaggiù, quella di ora; quella di lassù e quella di poi, con diverse armonie e tensioni tra il prima e il dopo. Il cammino dell'uomo non doveva essere allora una semplice ricerca del tempo perduto o un giro a vuoto su se stesso nel cerchio dell'esistenza, ma un passaggio da un prima a un poi, da un quassù a un lassù che dà significato a ogni momento dell'esistenza storica dell'uomo.
Dal punto di vista cristiano i termini sono, evidentemente, molti. Gerusalemme può essere termine del cammino, punto di arrivo, come scrive il Crisostomo commentando il Salmo 47 (48): "Teniamo nel nostro spirito la città di Gerusalemme: contempliamola senza sosta avendo sempre davanti agli occhi le sue bellezze. È la capitale del Re dei secoli, ove tutto è immutabile, ove nulla passa, ove tutte le bellezze sono incorruttibili. Contempliamola per divenire ogni giorno più affettuosi coi nostri fratelli e così ereditare il regno dei cieli".
Quest'immagine della Gerusalemme terminale, da cui derivano numerose anticipazioni della sua vita nel cammino del popolo di Dio, è espressa variamente dalla teologia medievale.
Abbiamo la tipica triplice distinzione, secondo i tre sensi della scrittura. Sion significa specula o contemplatio, scrive Rabano Mauro, e "designa la chiesa dell'anima credente o la patria celeste. Secondo la storia designa la nazione dei giudei o Gerusalemme, secondo l'allegoria è la santa chiesa, secondo l'analogia è la patria celeste".
Diverso è lo schema duplice che presenta Tommaso d'Aquino nel commento al Salmo 45: "Duplice è la città di Dio, l'una terrena, cioè la Gerusalemme terrestre, l'altra spirituale, cioè la Gerusalemme celeste. Per l' Antico Testamento gli uomini erano fatti cittadini della città terrestre, per il Nuovo Testamento della città celeste". Qui il discorso diventa più complesso e più difficile: già prima di san Tommaso, sant' Agostino aveva tentato di adattare il discorso alla complessità della storia, dove città terrestre e città celeste si scontrano in una sorta di escatologia realizzata. Allora si affermano nomi diversi per le due città: Gerusalemme e Babilonia. E questa presentazione duale è la stessa che troviamo nel libro dell' Apocalisse.
Sant'Agostino, nel De Civitate Dei, parlando dei Salmi delle ascensioni (i salmi dal 120 al 134) vedrà Gerusalemme come il punto terminale dell'intera esistenza dell'uomo: "Voi sapete, fratelli miei, che un cantico delle ascensioni non è che un cantico della nostra ascensione, e che questa ascensione non si fa con i nostri piedi, ma con gli slanci del cuore. Corriamo dunque, fratelli miei, corriamo. Noi andremo alla casa del Signore. Corriamo, non stanchiamoci, perché noi arriveremo là, dove non c'è più stanchezza". E di qua, da questa attrattiva perenne che Gerusalemme esercita sull'uomo come punto di arrivo, come stimolo per il cammino, come chiave per l'interpretazione degli enigmi della storia, delle complessità delle tensioni storiche che agitano gli uomini nasce un'ultima riflessione: Gerusalemme intesa come compito o come sfida.
La domanda posta all'inizio di questa terza riflessione sulla profezia, cioè quale sia l'influsso che ha sul presente della salvezza e sul cammino dell'uomo la salvezza finale rappresentata con immagini gerosolimitane, può anche essere rovesciata. C'è una funzione della Gerusalemme storica rispetto alla Gerusalemme profetica? In che maniera il realismo della Gerusalemme storica e la sua ricchezza molteplice, misteriosa e simbolica, è vissuto nella Gerusalemme profetica che si va costruendo, nel popolo di Dio in cammino? Non potrebbe una maggiore attenzione alla Gerusalemme storica e al suo destino, alle sue ricchezze e alla sua corporeità, assicurare più vigorosamente anche al popolo di Dio una completezza e un'armonia di valori, che ne facciano davvero un corpo di Cristo immerso nella storia? Il richiamo a Gerusalemme non può essere un richiamo a un modo più completo di essere uomo e di essere chiesa?
In questo senso qualcuno ha parlato di ferite iniziali nella primitiva cristianità ancora da risanare, perché il cristianesimo ritrovi nel suo cammino nel tempo, sempre maggiormente, la ricchezza delle sue potenzialità.
E tuttavia la domanda su Gerusalemme come sfida rimane presente e drammatica, anche soltanto riferendoci alla Gerusalemme storica.
Padre Dubois che, come cittadino di Gerusalemme, vive intimamente questa realtà, questa sofferenza e questi desideri, nel suo libro Vigiles à Jerusalem si domanda: "Come situare in rapporto reciproco il valore di segno e il valore di realtà, come accordare la dimensione storica e temporale con la dimensione di eternità? Più precisamente, poi che Gerusalemme esiste e non è soltanto nei cieli, come esserci, dimorarvi, occuparla, possederla; come essere presso di essa a casa propria e contemporaneamente aprirla al mondo, a tutti gli uomini, come patria spirituale e universale?". Riemerge allora la domanda, propria di ogni uomo: "Tu, che pensi di Gerusalemme?".
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1.
Cfr. Francesco Rossi de Gasperis, Un nuovo giudeocristianesimo e la sua possibile rilevanza ecclesiale, in Cominciando da Gerusalemme, Piemme, Milano 1997, pp. 140-183.
 
[Tratto da: Atti della XXVI settimana biblica, Roma, 15-19 settembre 1980, Paideia Brescia 1982]















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