LA FILOSOFIA AFRICANA
a cura di Paola Tiso - Amici dei Popoli onlus
Ancora tutto da
esplorare e conoscere è il pensiero africano; la trasmissione orale, la
difficoltà di reperire fonti, i linguaggi diversi, la visione eurocentrica
colonizzatrice non hanno permesso di cogliere ed elaborare sistemi filosofici
che abbiano valore teoretico; inoltre i vari saggi pubblicati da africani
riguardano prese di posizione di alcuni autori, mentre manca ancora, secondo M.
Nkafu Nkemnkia, un "corpus", una visione globale che egli tenta di dare nella
sua definizione di pensiero africano come "vitalogia", distaccata dalle consuete
categorie culturali.
Pedro Miguel ritiene che, se esistesse una Filosofia Bantu, essa deve imporsi
secondo la propria forza e la sua propria epistemologia; la sua validità
teoretica non deve essere misurata assumendo la Filosofia Aristotelica o la
Filosofia di stampo occidentale come punti di riferimento e quindi mendicando
"un certificato di umanità".
Quale posto per la filosofia africana ?
Martin Nkafu si
proponeva di esprimere il contenuto e lo svolgimento del “pensare africano” in
modo da renderlo intelligibile ed accettabile negli ambienti accademici
occidentali e africani. Tale approccio ha poi preso il nome di “Vitalogia
Africana”. Il mondo accademico, particolarmente in sede filosofica, richiede
generalmente una esposizione di tipo scientifico e deduttivo, che cerchi di
scoprire l’essenza e la ragione ultima delle cose, esprimendole in termini assai
astratti.
L’impresa dell’autore
era una scommessa, in quanto il pensare africano tradizionalmente non procede
per concetti staccati dalla realtà vissuta.
A prima vista può
dunque sembrare intrinsecamente impossibile una sua formulazione in modo
accademico, senza tradire o il modo tipicamente africano di pensare, o le norme
e regole del pensiero accademico. Come superare questo dilemma?
L’incontrarsi di due
culture diverse richiede sempre uno sforzo di acculturazione, cioè di contatto
intimo con il pensiero e il modo di agire della cultura altrui. tale sforzo
implica una combinazione di atteggiamenti che si completano vicendevolmente.
La prima reazione
quando ci si affaccia a una cultura diversa è di disorientamento di stranezza.
Non si trovano i punti di riscontro e di riferimento abituali. Sorge allora la
tentazione di condannare ciò che, nella cultura straniera risulta diverso, come
se fosse essenzialmente inferiore, insensato senza significato e dunque senza
valore. Si può evitare tale tentazione solo accettando una “morte” a se stesso,
o almeno (per usare l’espressione husserliana di “Ausklammerung”) un “mettere in
parentesi” le proprie convinzioni e i propri valori culturali. Se un tale
atteggiamento è vissuto autenticamente, esso porta con sé la sofferenza di dover
ammettere la relatività del proprio modo di essere e di pensare. Ecco il momento
di “passione”, che idealmente dovrebbe far sorgere quello di “compassione”, cioè
quello di metterci nei panni della persona culturalmente diversa, rendendoci
conto che pure lei soffre la stessa passione di fronte alla nostra cultura.
Sopraggiunge la
“risurrezione” quando scopriamo che, invece di farci perdere noi stessi e la
propria cultura, l’incontro con una cultura diversa ci arricchisce con un modo
nuovo di vedere il mondo, Dio, noi stessi e il prossimo, e con tutto un campo di
valori vitali nuovi.
La tesi di Martin Nkafu
potrà contribuire all’arricchimento del pensiero accademico, mettendolo in
contatto con altre forme di pensiero nel mondo, inserendolo nell’ambito del
pensiero universale.
Sin dal suo primo
contatto con altre culture, l’Occidente, tramite le sue scuole e università,
trasportò in diverse parti del mondo il suo modo di essere e di pensare, quasi
come fosse l’unico valido e rispettabile.
Eppure, negli ultimi
decenni, non sono mancati filosofi, particolarmente in Europa (per esempio
Bergson, Nietzsche, Blondel, Ortega y Gasset e molti esistenzialisti), che si
sono chiesti se il modo occidentale di riflettere sulla realtà, cioè la ragione
che funziona per modo di concetti astratti e di giudizi universali, sia
veramente in grado di rendere conto di tutte le dimensioni del reale vissuto e
personale. Il particolare, l’individuale, la persona, tutta la dimensione
soggettiva del vero, buono e bello, la vita carica di elementi imprevedibili, lo
spontaneo e il creativo, come possono essere integrati nei concetti universali?
Il mondo in se stesso non coincide in tutte le sue dimensioni con il mondo da me
vissuto. Il Dio della ragione non è il Dio della Rivelazione, della fede o
dell’esperienza mistica.
Ora l’Africano non si
considera come il centro dell’Universo, né sottomette il mondo, Dio o la società
al giudizio della sua ragione. Invece prova a sottomettere se stesso umilmente
alla dura legge della realtà circostante. “l’Africano” – scrive L.S. Senghor –
non assimila; viene assimilato. Egli vive una vita comune con l’Altro; vive in
simbiosi…Descartes diceva: “Penso, dunque sono”… L’Africano direbbe: “sento,
danzo l’Altro; dunque siamo”. L’africano è perfettamente capace di pensieri
scientifici, matematici, metafisici… ma non ne sente l’importanza, anzi
l’utilità per la sua esistenza quotidiana. per altro, anche filosofi occidentali
smettono generalmente di pensare in modo filosofico quando tornano a casa!
Però il pensare
africano non ha bisogno di giustificare il proprio valore nei confronti con la
filosofia occidentale. I suoi titoli di nobiltà si trovano nel fatto che questo
pensare ha fatto sì che moltissime culture siano sopravvissute per secoli in
condizioni spesso difficilissime, sviluppando un modo sociale di vivere in
armonia con Dio, con il mondo e con gli altri uomini. Queste culture vengono
espresse in racconti, proverbi, parabole, anzi nelle favole trasmesse dai vecchi
saggi. Vengono vissute nella vita quotidiana, celebrate nei riti religiosi,
sparsi dallo Spirito di Dio nel cuore di tutti gli uomini. Il pensare africano o
la vitalogia africana può essere un invito rivolto alla filosofia accademica
occidentale e africana a non lasciarsi rinchiudere in un pensiero analitico, che
distingue, divide, classifica, e che così facendo, facilmente perde di vista il
senso unitario del tutto.
Anche qui il libro di
Martin Nkafu è un esempio. In esso s’incontrano frequentemente certe ripetizioni
apparenti. Queste però sono rese necessarie, perché la saggezza, al contrario
della scienza, è sempre una visione unitaria e totalizzante. Il linguaggio umano
non è in grado di esprimere il “tutto” in poche parole. Dicendo Dio creatore, si
include il creato; pregando un Dio Padre, si afferma che siamo tutti figli;
parlando di morte, si allude alla vita nuova; discorrendo sull’uomo, si pensa a
Giuseppe, Alfonso, Marta o Anna.
La saggezza non gioca
solamente con una realtà astratta, ma con individui che subentrano in questa
realtà, con tutte le loro relazioni con Dio, il mondo, la foresta, gli antenati
defunti, la famiglia, il clan, il bene e il male, tutto e tutti. La saggezza non
impone una struttura: essa condivide e “convive” la vita del tutto e di ognuna
delle sue parti in una immensa rete di relazioni. Va ricordato che la filosofia,
prima di essere una “scienza della cause ultime” è una “amicizia con la
saggezza”. Non pochi filosofi o missionari che si arrischiarono ad esprimere una
“filosofia africana” lo fecero con categorie occidentali. Il libro di Martin
Nkafu evita questa trappola: descrive “il pensare africano - la vitalogia
africana” proprio per mezzo di questo “pensare”. C’è un prezzo da pagare: quello
di un cammino alquanto involuto che ritorna spesso su elementi precedenti per
illuminarli, ogni volta, con una luce nuova. La conoscenza occidentale
classifica le essenze, mettendole in scatole munite di etichette. La conoscenza
reciproca di persone mutuamente innamorate non si accontenta mai di una semplice
classifica dell’altro. Ecco una immagine del “pensare africano, della vitalogia
africana”: non pensa da dominatore delle realtà, ma come qualcuno che sta in
relazione di fratellanza con tutte le sue dimensioni. Non potrebbe forse questa
dimensione arricchire le categorie dello stesso pensare universale ?
(ERNEST RUCH)
Il pensare africano
come "vitalogia"
Durante gli studi di
filosofia presso la pontificia Università Lateranense frequentando un grande
numero di biblioteche e librerie si cerca invano un manuale o un trattato
sistematico di filosofia africana. Si prende così coscienza della necessità di
una ricerca sul pensiero africano. Questo tentativo vuole essere l’inizio di una
seria produzione intellettuale sul pensare africano, che vorrebbe stimolare sia
gli africani che i non africani a beneficiare di questo patrimonio culturale e
dare così un contributo, sia pur modesto, al sapere universale.
E' giunto il momento di
elaborare un pensiero africano, teorizzando i valori e la saggezza in esso
presenti, per dare un contributo per diffondere nel mondo la ricchezza della
spiritualità africana. Questa proposta vuole essere un compendio che intende
indurre gli intellettuali africani a riflettere sulla propria identità, sul
proprio passato e sul presente, porre le basi per una salda conoscenza della
propria cultura e questo può rivelarsi molto fruttuoso anche nelle scuole
africane di filosofia.
L’argomento scelto per
questo lavoro, che ha costituito il tema della mia tesi di laurea, pur essendo
molto vasto, scaturisce da un’intuizione. Intuii l’importanza di mettere nelle
mani dello studente di filosofia, africano o no, uno strumento critico della
visione della realtà come si presenta nella mente africana, uno strumento che a
tutt0oggi manca. Una conoscenza del pensiero africano è quasi assente dal
curriculum di formazione accademica degli studenti sia africani che non. Può
apparire incredibile ma, a quanto mi risulta, ancora oggi nelle facoltà di
filosofia delle università africane, i professori, dopo aver insegnato la
filosofia occidentale in tutte le sue articolazioni, si limitano a cenni sulle
forme e sul dibattito sull’esistenza o meno di una filosofia africana. Chi
afferma che vi è una filosofia africana ha pochi elementi e non può che
garantire in prima persona davanti ai propri studenti dell’esistenza di tale
pensiero, citando testi sparsi. Ritengo opportuno incitare le menti africane ad
una ricerca più approfondita dei pensieri dei loro padri, a cercare quale sia
per l’africano il senso della vita di ogni uomo, sotto la luce del sole che
illumina e brilla sul continente africano.
Il pensare africano
come “vitalogia” è il titolo che ho scelto per questo lavoro. Alcuni testi
portano titoli del tipo “filosofia africana”, “African philosophy”, “African
Philosophy and Religion”, “Philosophie de l’Afrique Noire”, “Philosophie
Africane”, “Philosophie Africane Conmparèe”, “Bantu Philosophy”. Noi prenderemo
in esame alcuni di questi testi, ordinandoli in base ai vari argomenti trattati
e tentando di creare i presupposti per un futuro Manuale del Pensiero africano.
Questo testo, che potremmo dire sperimentale, darà la prova non solo
dell’esistenza di un pensiero africano, ma proporrà in che ordine tale
disciplina potrebbe essere strutturata per una sua presentazione organica.
Continuano ad essere
pubblicati altri saggi che portano il titolo di filosofia africana, ed un gran
numero di questi approcci riguardano il dibattito e le prese di posizione di
alcuni autori; ma quello che ci interessa è dare un corpus degno del titolo che
abbiamo proposto. Il presente lavoro comprenderà sia una presentazione di gran
parte di questi scritti, sia una valutazione critica personale, nonché il
tentativo di definire uno statuto del pensare africano.
Vorrei evitare di
classificare il pensiero africano sotto una categoria tradizionale e
concentrandomi ad offrire l’eredità senza prezzo del pensiero africano
originario.
Questi ultimi decenni
del ventesimo secolo sono segnati da novità in ogni campo. Crollano i muri,
esterni ed interni, un tempo considerati frontiere, barriere per segnare la
differenza tra un popolo e l’altro, tra una cultura e l’altra, e tra un pensiero
e l’altro.
Pur non volendo qui
affrontare esaurientemente una così vasta problematica, non posso esimermi dal
considerare che con i muri crollano anche ideologie nelle quali molti uomini
hanno posto la loro fiducia e nelle quali tanti speravano di trovare il senso
della vita. Ricordiamo il crollo del comunismo nei Paesi dell’est europeo. Ma
oggi stanno crollando anche i sistemi capitalistici che per secoli hanno
misconosciuto importanti valori umani, trascurando il vero senso del vivere
umano.
Questi sistemi hanno
installato fra gli uomini e nelle società una situazione di schiavitù e di
povertà così grande che ci vorrà molto tempo per ristabilire la giustizia tra i
popoli ed il senso di uguaglianza fra tutti. Con il neo-capitalismo è ritornato
in vita, in forma sottile, il sistema coloniale (il neo-colonialismo). In questo
contesto, il potere non sta nella conoscenza, ma si sposta dall’essere, dal
vivere all’avere e avere sempre di più. Il potere politico sociale si sposta
dalla sua finalità principale, che è il servizio, all’opposto: il comando. Chi
governa non è più un saggio ma il ricco. Nel sistema capitalistico, il potere
centrale è quello economico-finanziario.
Esiste tuttavia anche
oggi una forte esigenza di libertà di espressione, di stampa, di parola, di fede
e testimonianza religiosa. Ogni popolo rivendica l’autonomia, l’indipendenza
politica, economica e culturale.
In campo religioso c’è
una grande apertura tra le fedi e una maggiore attenzione per i modi con cui
ciascun popolo si relaziona a Dio.
Vengono tenuti numerosi
convegni sul dialogo e ci si incontra tra religioni e culture diverse per
pregare e condividere i valori. Tutto questo per porre solide basi per l’unità
tra uomini di convinzioni diverse, per la pace e l’incremento della giustizia
nel mondo.
In campo culturale, i
mass-media, gli spettacoli, i concerti, i seminari di studio favoriscono l’idea
che il mondo sia una casa comune, e che nessuno possiede la verità tutta intera.
I media si portano il mondo in casa anche quando non lo desideriamo, ma
contribuiscono a formare in tutti gli uomini il concetto di solidarietà e di
fratellanza universale, la convinzione che il rapporto con gli altri comporta un
arricchimento. Le nazioni aprono le porte delle loro Università alle altre
culture. Lo scambio culturale, pur col rischio di mettere a confronto le culture
e far perdere la loro peculiarità è comunque garanzia per l’unità dei popoli.
Proprio in questo
contesto di scambio culturale si colloca la mia riflessione che vuole essere un
contributo alla diffusione del pensiero africano nel mondo della cultura e
dell’educazione. Oggi, non si può più conoscere un popolo per sentito dire o
partendo dalla propria concezione del mondo o ancora solo attraverso leggende o
favole. E’ giunta l’ora che il popolo africano venga conosciuto attraverso la
sua produzione. Che sia esso stesso a farsi conoscere e, così facendo, dia un
contributo allo scambio culturale in atto. Per questo motivo, ci auguriamo che
questo contributo possa veramente essere l’inizio di una serie di opere che
esprimono il pensiero africano in ogni campo della vita e della cultura. La mia
proposta non porta contributi innovatori per quanto concerne l’essere africano,
ma mira a farlo conoscere alle altre culture. Per questo, essa è una
teorizzazione del dato africano, del vissuto africano di ieri e di oggi e vuole
essere una premessa al servizio di un futuro sempre dinamico del pensiero
africano stesso, dato che ciascun popolo ha un proprio contributo da offrire
agli altri. Il rischio che le società multirazziali e multiculturali corrono per
il fenomeno dell’immigrazione è quello di perdere la propria identità. Ciascun
uomo trova la sua identità nella propria cultura e tale identità nella propria
cultura e tale identità è quindi connessa ad una cultura particolare. Anche una
filosofia è sempre una filosofia determinata da una cultura particolare.
Ho voluto perciò un
titolo per questo mio lavoro che lasci aperto un orizzonte sempre nuovo, e
comprenda tutto il dato africano. Se avessi adottato il titolo di “Filosofia
africana”, cosa che sarebbe stata molto più precisa e conforme alle consuete
categorie culturali, non avrei potuto spaziare su tutto il vissuto africano. In
esso è infatti impossibile distinguere ciò che è propriamente filosofico da ogni
altra disciplina.
Martin Nkafu Nkemkia
Prefazione e
Introduzione a: "Il pensare africano come -vitalogia-"
La filosofia africana
a
- Il pensare africano come vitalogia
Esiste un pensare
africano?
Quando si parla oggi
del pensiero o delle filosofie africani, molti pensano subito che frequentando
le biblioteche si possano trovare testi sull'argomento, ma costoro possono
rimanere delusi non trovando monografie o opere di pensatori africani in campo
strettamente filosofico.
In Africa sono esistiti
ed esistono pensatori di grandissimo rilievo in diversi campi, una schiera
ricchissima di intellettuali africani in campo politico, scientifico e
religioso ma questi non hanno la pretesa di essere dei ricercatori in campo
filosofico.
Si può far notare che
alcune opere che portano il titolo di «Filosofia Africana» sono state scritte in
gran parte da occidentali, molti dei quali missionari, che avendo vissuto in
terra africana per tanti anni hanno tentato di portare alla conoscenza del mondo
culturale occidentale il pensiero africano. Molti sono gli articoli scritti sul
pensiero africano da africani ma spesso il problema che si incontra e quello
della «lingua» da usare per mettere per scritto questo pensare africano, e
questo resta il problema fondamentale. Le lingue africane non sono tutte
scritte: non si studia a scuola una lingua africana in maniera scientifica. Ciò
premesso, ci si può domandare in che modo una filosofia può dirsi africana. La
stessa domanda può anche essere rivolta a tutte le altre culture. Si tratta di
sapere quali sono le condizioni e le caratteristiche che consentono di parlare
di una filosofia che sia europea, araba, asiatica o africana.
Una filosofia è sempre
legata ad una cultura, è sempre una filosofia determinata. In questo senso si
può parlare della Grecia come culla della filosofia in Occidente, in quanto la
filosofia è nata e si è sviluppata seguendo la cultura greca nella sua
evoluzione.
La riflessione
filosofica nasce dal mettere in questione l'esistenza e il valore dell'uomo.
Tale messa in questione non è tanto nel dubitare della realtà quanto nel
dialogare con essa. Chi è l'Uomo, che cosa è il Mondo, chi è Dio? Sono domande
che inducono alla riflessione filosofica, sono domande sul senso. Il filosofo è
colui che cerca la verità, che pensa la verità nella sua totalità, ovvero la
verità su queste domande e, dato che tutti gli uomini pensano, si può dire che
in certo qual modo ogni uomo è filosofo «sui generis». Tutti gli uomini possono
rispondere a modo proprio alle domande riguardanti l'Uomo, Il Mondo e Dio.
In ogni caso, la sapienza accumulata nella
tradizione orale costituita da miti, proverbi e racconti, riti, nomi,
proibizioni e da tutte le manifestazioni della parola e del pensiero sono ciò
che si può chiamare pensiero filosofico della tradizione orale africana. Non
emerge qui il nome di qualche particolare personalità, ma il soggetto è la
tradizione, la comunità, il popolo.
I miti
Tutte le forme
letterarie africane usano dei simboli anche se alcune storie sono più
ricche di simboli di altre in quanto rappresentano tradizioni arcaiche. In
genere ogni storia si struttura attorno ad un tema generale dal quale e verso
cui tutto il racconto si svolge. Ogni mito ha un senso profondamente
religioso anche quando tratta di argomenti cosmologici ed antropologici. Tutti
i miti hanno valore morale e religioso. Essi sono vere e proprie creazioni del
pensiero aventi fondamento immaginativo e speculativo. Ogni mito nasce dalla
vita e la sua struttura una logica ben precisa. In questo senso, i miti
stimolano il pensiero e sono oggetto di speculazione.
Proverbi e racconti
I proverbi ed i
racconti, spesso di tipo eziologico o popolare, seguono un'altra logica. Mirano
a giustificare lo stato attuale di ogni cosa. Se un bambino domanda come mai la
capra cammina con quattro zampe e mangia sempre erba, il vecchio deve trovare
una spiegazione convincente per non lasciare il bambino nel dubbio. Il racconto
può essere detto eziologico quando risponde alla domanda: «perchè», e dato che
l'età dei fanciulli varia, e con essa la comprensione, il narratore alle volte
usa un tono di voce variamente drammatizzante e un atteggiamento corrispondente
alla verità del racconto. L'esempio e la testimonianza di vita che l'anziano
conduce giocano un ruolo importante per la trasmissione del contenuto.
Un racconto è detto popolare quando rientra
nella tradizione. Nel racconto la storia non cambia a secondo dell'età e della
maturità del bambino, i personaggi del racconto sono spesso gli animali che
giocano il ruolo dell'uomo. Il bambino deve poi svolgere un suo lavoro mentale,
un'astrazione intellettuale, perché in tale racconto non ci sono risultati o
conclusioni. Alla fine del racconto, la domanda viene rivolta al bambino che
deve tirare le proprie conclusioni. In questo senso i proverbi sono carichi di
insegnamenti morali e determinano spesso la modalità dell'inserimento
dell'individuo nella società.
Leggende e favole
(saggezza
popolare)
Le leggende o favole sono pure creazioni
fantastiche che mirano ad un insegnamento morale e servono per coltivare la vita
intellettuale favorendo la riflessione. Spesso sono storie vere del passato,
degli antenati, che vengono tramandate di generazione in generazione. Il
maestro che racconta è già un modello di certezza tradizionale e deve insegnare
comportamenti buoni. L'allievo da parte sua dovrebbe capire quali possono
essere i comportamenti negativi da evitare. Queste leggende sono spesso ricche
di figure eroiche che hanno fatto propri i valori della vita del popolo del
quale ognuno è chiamato a fare parte integrante, pronto anche a dare la vita per
difenderlo quando fosse necessario.
Riti e costumi
I riti così come i
costumi sono primariamente preghiere e modi di invocare la benedizione e la
bontà del Creatore. Sono forme e modalità per celebrazioni liturgiche e
sacrifici. Queste forme variano da clan a clan, da tribù a tribù, ma sia il
contenuto che il fine sono gli stessi.
Mediante queste usanze sia l'individuo che la
collettività entrano in rapporto con la divinità e nella loro pratica si
riconosce a quale popolo si appartiene. I riti ed i costumi caratterizzano un
popolo ed il suo modo di pensare.
Nomi di persone
I nomi di persone e di luoghi hanno sempre un
significato e c'è sempre una storia che li accompagna. Così, ad esempio, il nome
«Ndem mboh», cioè «Dio il Creatore» allude all'eternità di Dio e fa sì che il
finito, colui che porta questo nome, partecipi all'infinità dell'infinito. I
nomi di persone e di luoghi caratterizzano la forma e il valore che
rappresentano.
L'età del "Pensare"
africano
Tutti gli uomini
pensano ed il pensiero risulta essere una attività comune al genere umano, a
tutti, indipendentemente dal colore della pelle. La differenza sta nella
cultura. Sarebbe quindi un errore affermare che l'epoca del pensare tradizionale
africano non abbia valore all'interno del sapere speculativo, nonostante i
limiti della conservazione e della tradizione di tale modo di pensare.
Il pensiero non ha
colore né età, né è di ordine materiale, perciò, finché l'uomo vive, vive il
pensiero. E antico quanto l'uomo ed è giovane quanto è giovane la vita.
E' assurdo parlare di
inferiorità o superiorità di una cultura rispetto ad un'altra, perché il
diverso non ha termini di paragone e gli interessi culturali dipendono dalla
condizione di vita di un popolo. A causa delle condizioni di vita dell'uomo,
nella società tradizionale africana non si è avuto uno sviluppo delle scienze
matematiche. geometriche e filosofiche in senso stretto. Per questo, come
abbiamo già affermato, nel mondo tradizionale africano non si possono
individuare filosofi in senso proprio. Nonostante questo, nel nostro studio
terremo conto del pensiero tradizionale, scoprendo in esso i presupposti e la
sapienza necessari a comprendere il pensare africano di oggi. Dato che il
pensiero tradizionale è soprattutto orale, e sapendo che il discorso orale è
più propizio alla riflessione rispetto alla scrittura, diviene spontaneo
affermare che il discorso filosofico si svolge nel parlare dell'uomo di ogni
tempo. Essendo ciascun uomo il risultato del proprio passato senza la sapienza
popolare non vi è una vera corrente di pensiero.
Anche se non abbiamo
nessun nome da proporre in campo filosofico, inteso in senso accademico,
applicheremo un proverbio africano:
«Una testa sola non
contiene la sapienza», volendo riferirci all'unità tra il passato ed il presente
e stabilire così nelle menti di tutte le generazioni i criteri del nostro
pensare.
Dove dobbiamo cercare
la sapienza se non nella vita dei nostri padri e nel loro Dio?
Riguardo al senso della
vita, le società tradizionali africane hanno riflettuto abbastanza e c'è sempre
da imparare dall' «anziano», dal «saggio» del villaggio, ma, dato che per
esigenze sistematiche la filosofia deve essere rigorosa e critica, non possiamo
parlare a una filosofia africana se non in senso lato (anche perché gli
«anziani» trasmettono solo oralmente i loro valori e pensieri). ~ carattere
rigoroso del nostro procedimento è una specificazione sistematica della
riflessione sul dato della tradizione dei nostri padri. Molti sviluppi e
tendenze seguono questo procedimento per una costruzione fruttuosa del pensare
africano capace di raggiungere tutti gli africani di ogni tradizione e cultura.
Il pensiero
tradizionale ci rimanda alla saggezza popolare costituita di miti, proverbi e
racconti presenti in ogni società tradizionale africana.
Per poter raggiungere
tutti i popoli, la scrittura resta la via maestra. Oggi più che mai i mass
media ci consentono di conoscere gli altri popoli e le loro usanze, e con ciò
anche il loro pensiero. I media veicolano molte teorie su un popolo senza,
spesso, coglierne la vera identità, mentre solo questa consente di costruire un
dialogo, mediante i valori autentici di ciascuna cultura. Per questo motivo è
opportuno fissare alcuni criteri e parametri entro i quali distinguere una
teoria filosofica da altre teorie (sociali, politiche ed economiche). Questa
distinzione ci consentirà di rimanere nel tema e di classificare le teorie
secondo ciascuna disciplina.
Il pensare come scienza
ha valore scientifico e universale, e come tale vale per ogni epoca,
per ogni popolo e per ogni cultura. Dobbiamo vedere se in molti aspetti e teorie
del pensiero non siano già presenti concetti d'ordine tipicamente speculativo
che meritino di essere conosciuti per edificare il sapere universale.
(Martin Nkafu Nkemkia)
Il pensare africano
come -vitalogia-
b - La Scorza. Il legno, il cuore
L'ospitalità nella
cultura bantu
La via che abbiamo
scelto per parlare dell'ospitalità Bantu è quella di compulsare strati culturali
in cui si presume siano sedimentati i presupposti del fattore "ospitalità"
inteso come valore, e dei fattori dinamici che lo rendono operativo.
"Bantu" è uno dei
plurali della parola muntu che significa "persona", per cui "Bantu"
tradurrebbe gente, popolo. Sotto il nome di Bantu vengono indicate molte tribù
che occupano una gran parte dell'Africa Nera.
Possiamo pertanto dire
che Bantu ha una risonanza vasta e varia, almeno quanto quella del
termine occidentale, ed esattamente come per gli occidentali,
all'interno dei Bantu esistono notevoli differenze, spesso antagoniche e,
tuttora, insanabili.
Nel compiere questa
scelta ci rendiamo conto delle difficoltà che derivano dal fatto che i diversi
aspetti dei bantu fanno parte di una cultura integrale, non esistendo cioè parti
che possano essere staccate, poiché ciascuna ha il proprio contesto ed è
pienamente comprensibile soltanto in rapporto al tutto. Siamo di fronte a quella
che i filosofi africani chiamano "rete di forze", una struttura in cui nessun
punto della rete si muove senza ripercussione sul tutto.
Un'altra difficoltà ci
viene dal fatto che, trattandosi di realtà africane, da esprimere in categorie
africane, non è facile esporle usando concetti europei, per cui spesso
ricorreremo a una lingua bantu, che sarà opportunamente tradotta, e più
precisamente il Kimbundu, che è la lingua del gruppo etnico cui appartengo. La
terza difficoltà è che l'Africa bantu è grande, e nessun nero o gruppo etnico
può parlare in nome di tutti. Per cui noi partiremo da quel gruppo etnico che
conosciamo meglio, appunto il Bantu Kimbundu, ed estenderemo le nostre
considerazioni all'Africa nera in generale, lì dove possiamo cogliere elementi
comuni come l'atteggiamento verso gli antenati, le caratteristiche linguistiche,
i sistemi simbolici e mitologici ecc.
Non va dimenticato,
infine, che nella sua collocazione spazio-temporale, l'Africa bantu di cui
parleremo non e solo quella del "dopo" le scoperte, che più tardi avrebbe
conosciuto una divisione geometrica, fatta letteralmente con la riga e con la
squadra durante la conferenza di Berlino del 1884/85, dopo la quale etnie che
dovevano Stare unite sono state separate e viceversa, bensì terremo conto anche
e specialmente dell'Africa del "prima" delle scoperte.
Il grande storico
africano Joseph Ki-Zerbo infatti dice:
"L'Africa di ieri è
ancora un dato contemporaneo (...). Esistono delle corti di capi africani
tradizionali dove si ripetono gli stessi riti di cento o di cinquecento anni or
sono; esistono formule sacrificali che rimangono immutate da forse un
millennio".
In questa sede anziché
seguire un criterio di analisi essenziale, che parte dall'essenza astratta
dell'ospitalità per vedere come poi essa si realizza nelle varie
manifestazioni, preferiamo un approccio per gradi successivi e concentrici.
Il metodo di analisi
essenziale, infatti, se da un lato ci offre il vantaggio della chiarezza e della
sistematicità, dall'altro ci sembra anche esposto al pericolo
dell'ambiguità, come l'eccessiva idealizzazione, o l'evasione dalla storia.
Per un sistema di pensiero, poi, quale quello
nero-africano, che non ha depositato la sua visione della realtà in "trattati"
speculativi, non ci sembra facile seguire la via di un'analisi per essenze.
Fatte queste osservazioni, riteniamo di poter
iniziare la nostra ricerca.
1. "Ospitalità",
"ospite".
Il termine ospitalità
in Kimbundu si traduce con la parola ujitu.. Ujitu è però la parola che
si usa anche per designare il termine italiano "offerta", o meglio, "l'arte di
fare offerta".
Il termine ospite,
invece, si presenta in kimbundu con varie accezioni:
a) Mujitu -
designa l'ospite in generale, e in quanto tale il termine non si discosta da
ujitu, appena visto. Questa appartenenza allo stesso campo semantico di
mujitu e ujitu ,già può darci un'utile indicazione per la nostra
ricerca.
b) Musonhi
deriva dalla parola soizui, plurale jisonhi, e significa
"vergogna". Qui, però, il termine si riferisce a quella vergogna sinonimo di
timore reverente e ossequioso; pertanto musonhi è quel tipo di ospite
che si comporta dinanzi alla persona che lo ha ospitato in modo scrupoloso e
cerimonioso. B' il caso, ad es., dei rapporti che in Africa si stabiliscono tra
generi o nuore con i rispettivi suoceri.
c) Ngenji - è
l'ospite visto come il viandante, pellegrino e forestiero.
d) Nzeizza - il
termine deriva dal verbo kuitzenza, che significa "trattare con
delicatezza", come quando si ha a che fare con un oggetto fragile.
e) Mukunji - è
l'ospite visto in qualità di qualcuno che porta o racchiude dentro di sé un
messaggio. In questa accezione vanno compresi i messaggeri, gli araldi, i
missionari, i negoziatori di trattati, gli invitati a recare notizie o
intimazioni dall'uno all'altro gruppo etnico amico o nemico, e la loro missione
può comportare l'attraversamento di territori occupati da gruppi etnici ostili
o poco noti.
2. Ospitare,
accogliere.
I verbi usati in
Kimbundu per designare l'accoglienza dell'ospite sono prevalentemente due:
kttzalela e kutambulula . E così li troviamo ad es., in Rom 12, 13:
"Muzalela jinga asonhi" (fate di tutto per essere ospitali); 1 Pt
4, 9: "1Kala muthu a tambulule mukuà " (siate
ospitali).
Prima di inoltrarsi
nell'analisi del loro significato va fatta un'importante osservazione sul verbo
kimbundu: esso presenta delle modificazioni semantiche estremamente
interessanti per mezzo di certe particelle e suffissi verbali, dando origine a
significati diversi. Vediamo, ad es., come viene tradotta la frase di Mt 10, 20:
"Non sarete voi a parlare, ma sarà lo Spirito del Padre Vostro che parlerà in
voi". La Bibbia kimbundu traduce: "... ki enu dingi mu zuela, maji o Nzumbi
ia Tat'enu muene u zuelela moxi dienu". Il kimbundu usa zuela, per il
primo "parlare" e zuelela, per il secondo (che tra l'altro sta al
presente e non al futuro). _
Non è questa la sede
per soffermarci sulle peculiarità di ogni forma. Ai fini della nostra ricerca ci
limiteremo a osservare che delle forme in questione, non tutte coinvolgono il
soggetto agente in egual misura. Le forme attive, iterative, passive,
frequentative, ad esempio, toccano il soggetto nei suoi aspetti diremmo
puramente sociologici e formali, mentre le forme relative, causative,
determinative, coinvolgono il soggetto in tutta la sua dimensione etica, morale
e antropologica, postulando un senso di responsabilità, del tipo di chi deve
presentare i conti a qualcuno.
Torniamo ora ai nostri verbi impiegati per
designare l'accoglienza dell'ospite: kuzalela e kutambulula. Il
primo ha come verbo-madre kuzafa e in questa posizione significa
propriamente "stendere una stuoia"; il secondo invece viene da kutambula
e significa "ricevere".
Il fatto che i bantu nel contesto
dell'accoglienza dell'ospite usino le forme relativo-determinative, lascia
intendere che essi compiono l'ospitalità non solo con la coscienza di una
iniziativa puramente personale, e nemmeno come un cieco istinto di solidarietà,
bensì lo fanno in ottemperanza di imperativi e dettami ben precisi e con una ben
chiara consapevolezza della responsabilità che grava su di loro quando devono
muoversi nell'ambito dell'ospitalità. In altre parole i bantu vedono
nell'ospitalità una domanda e un dono mascherati che esigono una risposta ed
un'accettazione concrete, attente e responsabili.
Stando così le cose,
allora, si può capire adesso la parentela semantica tra mujitu (ospite)
e ujitu (offerta).
In questa prospettiva, dunque, il kuzalela
non ci dà semplicemente il senso di stendere una stuoia per farvi dormire
una persona, quanto il senso di stendere quella stuoia con riverenza, grazia e
premura. Il kutambulufa non traduce semplicemente un ricevimento guidato
da criteri individualistici e soggettivi ma, nel farlo, si deve dare il meglio
di se stessi, perché chi ospita deve rappresentare tutta la comunità a cui
appartiene, comunità che ècomposta dai vivi e dagli antenati, di cui parleremo
più avanti.
3. Mentalità prelogica?
Lévy-Bruhl ha chiamato "prelogica" la "mentalità
primitiva", volendo con ciò caratterizzare un pensiero che non si sviluppa
secondo la logica aristotelica basata sul principio di contraddizione, un
pensiero per il quale "gli oggetti, gli esseri, i fenomeni possono essere, in un
modo per noi incomprensibile, se stessi e, nel contempo, qualcosa d'altro".
Esiste ormai una vasta
gamma di opere di ricerca sulla mentalità dei popoli africani che sono giunte a
dei risultati diametralmente opposti rispetto a quelli formulati dal primo
Lévy-Bruhl, anche se, a nostro avviso, sono ancora pochi coloro che hanno
raggiunto il nocciolo del pensiero bantu. Ricordiamo, ad es., Placide Tempels,
missionario belga nel Congo dal 1933, che ha raccolto le sue osservazioni e le
sue ricerche nel libro La Philosophie Bantoue, pubblicato nel 1945
e ancora oggi fonte primaria per gli studiosi, con il quale l'Autore ci presenta
un sistema di pensiero dei popoli studiati diverso dal sistema basato sul
principio di contraddizione.
A parte P. Tempels, che si è mosso in campo più
strettamente filosofico, il contributo di altri autori ha arricchito
maggiormente il campo etnologico e antropologico, da cui poi è possibile
estrarre una filosofia africana.
Comunque, alla cultura africana molto si deve
ancora per quanto attiene il riconoscimento della dignità di pensiero e di
filosofia.
(P. ANASTASIO KAHANGO)
La scorza, il legno, il
cuore
c - Aspetti della civiltà africana
Nel processo di
mutamento culturale delle società tradizionali, avviato dallo scontro-incontro
con l'Occidente, si sono verificati e continuano a verificarsi alcuni fenomeni
particolari che dagli studiosi vengono designati con termini quali:
disintegrazione culturale, deculturazione, detribalizzazione, vuoto culturale,
integrazione culturale, selezione, fusione, ecc. Penso che sia bene dire
brevemente di ognuno di essi.
Disintegrazione
culturale. -
La cultura di un
popolo, quando non si trovi sconvolta da periodi di crisi particolari,
costituisce un complesso unitario, nel quale valori, istituzioni, usi, costumi
e tecniche formano un tutto coordinato e sistematicamente integrato. La
discrepanza tra i vari elementi, quando non raggiunge un grado troppo elevato,
viene superata dall'adeguarsi del sistema o delle sue parti alle tensioni che si
sono generate, e dalla sua capacità di assorbirle; in pratica, sia le
discrepanze che le tensioni da esse generate, in tali casi, fanno parte della
dinamica culturale, anzi ne sono la molla.
Quando però una cultura
tecnologicamente evoluta, come è quella occidentale, si scontra con un'altra a
basso livello tecnologico, come sono quelle etnologiche, il primo fenomeno che
comunemente si verifica è quello della disintegrazione della cultura
tecnologicamente più debole.
Il processo di
disintegrazione può raggiungere una portata e un'estensione più o meno vaste, ma
quasi mai totali; prima o poi la cultura tradizionale reagisce e dà la sua
risposta. «Alla crisi disintegrativa - scrive il Lanternari - succede di norma,
dopo un più o meno prolungato periodo di rielaborazione, l'apprestamento di una
risposta adeguata, che dà via alle forme di reintegrazione culturale » (Lanternari
1974, 16).
La crisi di
disintegrazione è molto dolorosa e spesso provoca fenomeni di vero e proprio
sconvolgimento.
L'effetto disintegrante
è, certo, ancora più consistente Quando ad essere attaccati sono i valori
morali, le norme sociali o i riti, come storicamente è avvenuto con l'azione
dei missionari, i quali spesso nel condannare si sono basati più sul pregiudizio
e la mancanza di conoscenza che non sulla realtà dei fatti.
Deculturazione.
- Può essere
indicata con il termine « deculturazione » l'azione, a volte organizzata e
pianificata, altre volte inconsapevole, tendente a demolire la cultura
tradizionale per sostituirla con una nuova. Storicamente essa non si è mai
realizzata interamente perché, per la reazione della cultura tradizionale, essa
ha dato luogo ad un processo integrativo, a seconda dei casi, integralista o
nativista.
Detribalizzazione.
La
detribalizzazione è la condizione ottimale perché si verifichi la
deculturazione. Spesso è scelta di proposito e pianificata dagli agenti esterni
di mutamento. Esempi tipici di detribalizzazione possono essere considerate le
reducciones organizzate dai gesuiti nel Paraguay e i « villaggi cristiani
» sorti nel secolo scorso in Africa, istituiti dai missionari per sottrarre i
catecumeni e i neofiti all'ambiente «pagano » e offrire loro un ambiente «
cristiano ». Le reducciones furono distrutte dai bandeirantes
paulisti dopo le stragi del 1628-29; i « villaggi cristiani » furono
abbandonati dagli stessi missionari che non ritennero più opportuno che i
convertiti si distaccassero dal loro ambiente tradizionale.
La completa
detribalizzazione oggi si verifica per gruppi di poche persone, singole famiglie
o individui, per periodi più o meno lunghi, o anche in modo permanente,
attraverso fenomeni di inurbamento o di emigrazione, per motivi di lavoro o di
studio.
Vuoto culturale. -
Nei casi più
drammatici della crisi descritta si può giungere al verificarsi del così detto
«vuoto culturale ». Esso corrisponde a quel momento critico in cui i membri di
una società, con il crollo del sistema socio-culturale tradizionale, vengono a
perdere la fiducia nei valori e nelle norme tradizionali e tuttavia sentono
quelli importati come estranei, quindi non si sentono integrati in nessuna
cultura.
Integrazione culturale.
-
L'acculturazione non è un'azione unidirezionale attuata da una cultura «più
forte» che dà, nei confronti di una « più debole » che riceve, e tanto meno è un
processo di semplice sostituzione di alcuni elementi culturali con altri. Essa
è un processo creativo dialettico a due sensi. Tutte e due le culture (o più)
che entrano in rapporto danno e ricevono.
Se sono evidenti i cambiamenti prodotti dall'Occidente
nelle culture tradizionali, altrettanto evidenti sono gli influssi di queste
sulla cultura occidentale. Si pensi per esempio agli influssi dell'arte «
primitiva» su quella europea (Modigliani, Picasso, Gauguin, e tutta la corrente
dei fauves), della musica negra, negro-americana e latino-americana su
quella occidentale, della mistica indiana sulla mentalità e pratica di vita dei
giovani occidentali, delle varie arti marziali tradizionali dell'Estremo
Oriente sul costume sportivo e sulla cinematografia occidentale. Per non
parlare dell'influenza sulla cultura occidentale di uomini come Gandhi, Martin
Luther King, Mao, Castro; di movimenti negro-americani, come i Black Power, i
Black Muslims, ecc. Anche i reciproci rapporti politici ed economici delle
nazioni occidentali sono stati profondamente mutati dal sorgere dei giovani
stati del Terzo Mondo .
La reciprocità e la
dialettica sono caratteristiche essenziali della natura del rapporto
interculturale.
La fase negativa del
processo acculturativo, quella della disintegrazione, non ne è che un momento.
Sotto la pressione dello scontro, la compattezza del sistema culturale si
incrina. A volte si sconquassa, e può sembrare che il colpo sia tale da
provocarne la distruzione. Ma la storia ci insegna che, a meno che non avvenga
l'eliminazione fisica della società nei suoi membri, la cultura prima o poi
reagisce. Allora inizia un processo di reintegrazione degli elementi nuovi e,
perciò di elaborazione e di strutturazione di un sistema socio-culturale che
risponda alla mutata realtà di vita.
Selezione e fusione.
Quando una
cultura viene a scontrarsi o incontrarsi con un'altra, non tutti gli elementi
nuovi apportati dal di fuori vengono assunti ed integrati.
Altresì non tutti gli
elementi della cultura tradizionale vengono sopraffatti e distrutti.
Per ciò che riguarda
gli apporti esterni si verifica una selezione. Alcuni elementi vengono
rifiutati, altri accettati e rielaborati con funzione diversa da quella
originale, altri infine vengono accettati, recepiti, fusi con quelli
tradizionali superstiti ed integrati in un unico sistema socio-culturale, che
risulta diverso sia da quello tradizionale, sia da quello straniero.
Come si è detto in
precedenza, questa azione è reciproca e vale per tutte e due le culture che sono
entrate in contatto.
Dopo l'evento culturale
nessuna delle due sarà più uguale a prima.
(A.
Hampaté B)
Aspetti della civiltà
africana
d
- Kijila - Per una Filosofia Bantu
Esiste una filosofia
Bantu?
Prima di procedere
crediamo opportuno chiarire alcuni punti senza i quali è difficile spiegarsi:
sono i concetti che troviamo alla base della domanda appena posta.
Nel suo famoso libro La
Philosophie Bantoue, Placide Tempels realizza la prima sintesi filosofica e
getta i principi di comprensione del pensiero Bantu.
L'Autore pone al centro
della sua elaborazione sistematica la «Forza Vitale», che egli identifica con
l'Essere aristotelico, ed il «Muntu» (persona) quali perni attorno ai quali
girano tutti i valori umani e cosmici.
L'ontologia di P.
Tempels ha trovato oppositori anche tra i Bantu, come, per esempio, B. Kiami che
critica l'idea di «Forza Vitale», perchè non crede che sia «primordiale» come
invece predica Tempels:
"Si tratta di sapere se
il «Muntu» adulto è riuscito a costruire in sè, a partire da questa esperienza,
una nozione di essere cosciente esplicita ed elaborata in una visione
sintetica... Dire che il «Muntu» ha sempre pensato senza 'pensare essere' è
negargli tutta la vita intellettuale.
Se il 'Muntu Antico'
concepiva confusamente l'Essere egli lo concepiva in un altro modo rispetto al 'Muntu
Contemporaneo' o l'uomo occidentale... Io non credo veramente che i Bantu
abbiano un concetto differente dagli altri uomini. Tutto quello che si può dire
è che nè nella pratica scientifica, nè in quella metafisica, propriamente dette
essi scandagliano la profondità dell'Essere in tutta la sua estensione nè in
tutte le sue profonde radici" .
E. F. Boelaert obietta:
"C'è un non-senso nel
pretendere che la nozione Bantu di forza sostituisca la nostra nozione di
Essere. Ciò equivale a dire che il Bantu ha un'intelligenza essenzialmente
diversa dalla nostra, e che può pensare in una forza reale che non è l'Essere».
Da parte sua V. Mulago dice:
"Ciò che noi rifiutiamo
categoricamente è la nozione che P. Tempels dà all'Essere del 'Muntu'...
giacchè niente... ci permette di identificare l'Essere con la Forza Vitale;
essendo un 'accidente' che qualifica e modifica la 'sostanza', la Forza trova
il suo posto nella categoria del Modo di Essere".
A. Kagame, del
Ruanda, è stato colui che ha studiato più profondamente questo tema.
Kagame arriva
all'ontologia Bantu a partire dallo studio della sua lingua materna il
Kinyaruanda, lingua in cui, come del resto in tutte le lingue Bantu, i
sostantivi si raggruppano in classi. Vi sono classi per tutti gli esseri
esistenti, animati ed inanimati.
La posizione di Kagame
è stata duramente contestata da Paulin F. Hountondji, professore di Filosofia
presso l'Università di Cotonou, nel Benin, che definisce quella di Kagame una
etno-filosofia ed invita a guardarsi da ciò che viene chiamato «l'ideologico»
delle società 'lignagères', esattamente come ci si deve guardare
dall'ideologico delle società industriali.
Queste brevi osservazioni sulla esistenza di una
filosofia Bantu ci permettono, a nostro avviso, prima di esporre la
nostra posizione sulla specificità della filosofia Bantu, di chiarire dove
vogliamo arrivare con la domanda: «Esiste una filosofia Bantu?»
Con essa, in effetti, non intendiamo riferirci
alla esistenza di biblioteche di opere filosofiche scritte da uomini e donne con
la Carta di Identità o con il Passaporto Bantu. Vogliamo, invece, vedere se
nella sua visione del mondo esistono per il Bantu principi costanti e
ricorrenti, comuni ed irriducibili che fanno sì che il Bantu sia tale, e
attraverso i quali gli individui si guidano, nella loro soggettività, alla
ricerca, o meglio, all'ascolto di quella voce del sangue, a cui abbiamo già
fatto cenno a proposito del linguaggio.
E' su questi principi, infatti, che si fondano
ed innalzano gli spalti criteriologici, psicologici, sociologici ed etici.
P. Tempels ha
dimostrato che la criteriologia Bantu riposa sull'evidenza esterna,
sull'autorità, saggezza e sulla Forza Vitale degli Antenati, ma anche sulla
evidenza interna, cioè sulla esperienza della natura e dei fenomeni vitali.
Secondo Tempels il
Bantu identifica l'Essere con la Forza Vitale. Le idee, il comportamento, tutta
la cultura, non si svolgono secondo i principi di identità, di non
contraddizione e sulla nozione di essere come atto, bensì sulla nozione di
«Forza Vitale», che ha valore di principio.
"L'Essere è ciò che possiede la forza...
L'Essere è la forza... la forza per il Bantu non è un accidente... è l'essenza
medesima dell'Essere in sé"
René Maran dice:
"Il negro ha la
passione della Forza. I precetti morali che lo orientano, derivano quasi tutti
dal culto che egli le rende".
Tutte le manifestazioni
socio-religiose perseguono lo stesso fine, quello di acquistare vigore, di
vivere con esuberanza di rafforzare la vita ed assicurare senza interruzione la
sua perennità nella discendenza:
"La Forza, la vita possente, l'energia vitale
sono l'oggetto delle preghiere
ed invocazioni a Dio, agli spiriti ed ai defunti...".
Questa realtà
ontologica si applica a tutto; malato è chi ne ha forza. Intelligente è chi ha
forza.
La salute è la forza
del corpo. Tutta la natura, il clima, suolo, i fenomeni, le piante, gli animali
ed i minerali non possono spiegarsi da se stessi, come dice il proverbio
Kimbundu:
«Dibengu katuluké diie:
uadiangela ku-di-banda»
(Il topo non scende dalla palma se prima non vi
si è arrampicato).
In altre parole, non vi è effetto senza causa.
Le cose conservano infinite virtualità nascoste
che l'uomo non conosce con esattezza. Ed è frugando in questo «arcano» che il
pensiero Bantu espleta le sue mansioni. La forza vitale è misteriosa ed è
mantenuta da un sistema invisibile di energie e forze le cui relazioni
recipr9che non sono tutte chiare.
«Nel mio rapporto al
primo congresso - dice Senghor - ho tentato di tratteggiare, a grandi linee, la
metafisica negro-africana. Precisavo che era una ontologia, una scienza
dell'Essere... Il Negro identifica l'Essere alla Vita: più esattamente alla
Forza Vitale... Per costui (il Negro), una forza vitale, simile alla sua, anima
ogni oggetto dotato di caratteri sensibili: da Dio sino al granello di sabbia».
Senghor prosegue con un
accostamento all'autore del Fenomeno Umano, che mette in evidenza il
rapporto Vita-Universo:
"In altri termini,
tutto ciò è simile a quanto afferma il Padre Pierre Teilhard de Chardin quando
scrive: '...il che equivale a dire che la Vita può essere considerata come
sotto «pressione» da sempre e dappertutto nell'Universo, nascendo appena le è
possibile, dovunque le è possibile; e, laddove è apparsa, intensificandosi
quanto possibile nella immensità del tempo e dello spazio'"
Ed alla domanda: che
cos'è la Vita? - Senghor risponde:
«Per i Negro-Africani è
una forza, una materia vivente, capace di accrescere la sua energia, di
rin-forzarsi o di de-forzarsi. L'Essere-Forza Vitale è così in collegamento con
altre forze se vuoI crescere e non deperire».
Vivere, dunque, per
l'uomo non è solo muoversi ed avere delle attività, ma è apparire con forma
umana, occhi che captano, udito attento, freschezza, vigore, sensualità, per
raccogliere le infinite onde della Vita.
(PEDRO F. MIGUEL)
Kijila - Per una
Filosofia Bantu
e
- Mwa lemba - PER UNA TEOLOGIA BANTU
Mwa Lemba.
E'
una frase in Bantu Kimbundu, una delle lingue parlate in Angola; in essa è
sottinteso il verbo kùya (andare) e la sua traduzione in lingua italiana
suona così: «andando verso il Dio della vita», intendendo per vita la
trasmissione della stessa, la procreazione; il Dio della procreazione,
naturalmente, è il Dio unico, e non una «divinità» o uno «spirito».
Vi è da osservare che
la preposizione «verso» si traduce in Kimbundu in due modi: kwa e mwa
(con le rispettive varianti ku e mu di cui, però, non
parleremo). Si usa kwa a significare un andare verso un luogo totalmente
distaccato dal contesto storico-geografico di riferimento: da un paese
all'altro, da un continente all'altro ecc.
Mwa,
invece, connota un
andare verso un luogo che comunque appartiene, si trova all'interno del
contesto storico-geografico, ed anche etico-psicologico, di riferimento.
La traduzione più
esatta, e più rispondente ai profondi richiami e significati, dunque, sarebbe:
andando verso il Dio della vita, nel seno del quale già ci troviamo;
ossia: riunendoci a Dio, grazie al quale siamo qui, approfondendo le nostre
relazioni con Lui.
Per una Teologia Bantu.
Dovendo scrivere in una lingua occidentale, per
un pubblico prevalentemente occidentale, di un argomento da sempre monopolio
occidentale, è più che logico che le perplessità, i dubbi, le incertezze
assalgano l'autore.
Da un'esperienza germogliata dalla disperata (e
disperante) esigenza di richiamare il pensiero agente e cogente dei Bantu
Kimbundu dal limbo ambiguo dell'antropologia e dell'etnologia occidentali, per
restituirlo alla piena dignità della Filosofia.
Ed, attraverso il Kimbundu, allargare a tutto il
mondo Bantu, vasto e variegato mondo, la luce di un'autocoscienza filosofica,
quella dell'uomo che medita e trasforma, ma che è anche trasformato dalla
realtà.
Ad ogni modo non si è trattato dell'evocazione
di un fantasma, pallida e sfumata testimonianza di un lontano passato,
improbabile e improponibile.
Chiamarlo Filosofia è, innanzi tutto, una
rivendicazione, poi un'interpretazione: non ha bisogno, nel suo andare, delle
stampella aristoteliche né del metro hegeliano; non è parte di qualche altra
struttura di pensiero, non è l'altra metà (sensuale) del firmamento (logico)
occidentale.
Prima che gli Europei arrivassero sulle
"inospitali" piagge dell'Africa Nera, ai tempi in cui i bantu non avevano mai
visto i "bianchi", la Filosofia Bantu già esisteva, cresceva, faceva crescere le
libere comunità degli uomini Bantu.
Così come la Teologia: diluita in ogni aspetto
della vita, eco al grido essenziale, e perciò universale, del Bantu, non è stata
sistematizzata in poderosi trattati e dotte disquisizioni, forse per questo gli
occidentali hanno creduto per secoli che i Bantu ne fossero sprovvisti.
Ma non è solo per affermare l'esistenza di una
Teologia Bantu che si scrive, il problema è dimostrare che l'imperialismo
metafisico occidentale rischia di perpetuarsi, o si sta già perpetuando, anche
quando, come ai nostri giorni, si sente parlare con insistenza di «teologia
africana» di «black theology», di «authenticité» e di «messa
zairese».
E' opinione abbastanza
diffusa che si deve cominciare a parlare di «pensiero teologico in
Africa» solo a partire da questo secolo, più precisamente dall'inizio degli
anni cinquanta, quando, per intenderci, la négritude di Senghor aveva già
una ventina d'anni e «tirava la volata» (o almeno così sembrava) ad ogni
manifestazione culturale africana «autoctona».
E, infatti, solo in questo secolo che iniziano
ad apparire sulla scena culturale internazionale i primi negri africani laureati
nelle università dei bianchi e quindi in grado di «esprimersi» in modo
comprensibile ed accettabile per i parametri occidentali.
La tendenza senghoriana è quella di «scremare»
la cultura africana di ogni implicazione che possa urtare i sensibili padroni
colonialisti, di presentarla soprattutto come l'esempio vivente del lato
sensuale dell'umanità.
L'essenziale è di non porre in discussione la
superiorità degli occidentali, da una lato, e l'oggettiva inferiorità dei
negri, dall'altro, residuo primitivo in un mondo in rapido progresso, in cui il
piano delle «indipendenze» delle colonie dai padroni europei è, in realtà, il
piano della ridistribuzione non delle risorse (ché quelle gli occidentali non
hanno alcuna intenzione di lasciarle), ma dei compiti: al proletariato
occidentale, ormai scaltro e combattivo, si sostituiscono le ex colonie,
fornitrici di materie prime a basso costo, in grado di reintegrare la quota del
capitale erosa dalla conflittualità operaia in Europa o dalla immensità della
domanda interna in America.
Sono gli anni, poi, delle indipendenze «a
raffica», che riproducono in Africa i sistemi politici, economici e giuridici
occidentali, del tutto estranei, per non dire concorrenziali e conflittuali, ai
sistemi tradizionali africani, come estraneo è, alla stragrande maggioranza
della gente nera, il concetto di Stato territoriale di stampo europeo.
Apparentemente crollato il colonialismo, che
continua però dove è funzionale, all'inizio degli anni sessanta si comincia a
sentir parlare di «pierres d'attente», alla lettera «pietre d'aggancio»:
si tratta di vedere dove attaccare, o far attecchire, il «messaggio evangelico»
nel mezzo del paganesimo africano, dei feticci e dei totem, degli stregoni e
degli spiriti, che era poi quello che si pensava fosse il panorama religioso
africano dominante.
La missione, specie
quella cattolica, sta cambiando: finito l'appoggio più o meno scoperto della
potenza coloniale, che forniva i luoghi, le armi e il supporto umano, arrivati
ad «autogovernarsi» gli «stati» africani, la chiesa si trova a dover
fronteggiare un improvviso dilatarsi dei suoi orizzonti di intervento, «nel
tentativo di reperire dentro la cultura africana alcuni valori che,
opportunamente scelti e purificati» possano servire «come 'agganci' per
'appendere' il cristianesimo importato dall'Europa».
In pratica, il missionario occidentale si trova
di fronte ad uno sgabuzzino da riordinare: deve decidere, lui, quello che va
mantenuto e conservato e quello che va bruciato.
Anche se Tempels ha già
scritto la sua Philosophie Bantoue, non si pone nemmeno il problema di
riconsiderare, o meglio considerare, se sia il caso di far uscire l'Africa dagli
steccati dell'etnologia e dell'antropologia per ammetterla, come per il pensiero
orientale, nel salotto buono della filosofia e della teologia: molti africani,
in quel periodo, come Bokolo o Mulago, facevano lo stesso tipo di analisi degli
occidentali.
(PEDRO F. MIGUEL)
Mwa lemba - Per una
Teologia Bantu
f
- honga - per un'antropologia africana
Il Simbolismo Bantu
La fase del simbolo
viene a rispondere alla concezione arcana della realtà, il lato notturno delle
cose, confrontandosi con il quale l'uomo riesce, grazie al simbolo, a non
patire sconfitte, a non provare l'amaro gusto dell'impotenza: riesce, invece, a
dire ciò che è ineffabile, ciò che non si può dire con parole umane.
Ogni realtà, per il
Bantu, vive soffusa di due aureole: l'una visibile, comprensibile, afferrabile.
che è possibile ghermire con i sensi; l'altra invisibile, abitatrice
dell'Arcano, che vibra nel suo mistero e che di questo mistero fa la sua chiave
di interpretazione.
Ancora: pensiamo ad una
pianta, di cui solo una parte, quella che affiora dal terreno, è da noi
immediatamente percepibile: i principi fisico-chimici che permettono alle sue
radici di nutrirla sono invisibili, affondano nella terra e da quest'ultima,
proprio come dall'Arcano, ricevono forza, vita e significato.
Per i neri d'Africa, la
Filosofia, la Teologia, l'andare per la vita, consistono nello scrutare
l'insondabile attraverso ciò che appare, perché più che conoscere si tratta di
ri-conosce l'opera misteriosa che nell'Arcano si inizia: il sasso gettato nel
lago di luce della Fonte Prima genera onde senza fine; quelle onde, giungendo
sino a noi, ci parlano di un sasso che non abbiamo malvisto e che pure quelle
onde ha provocato.
La doppia valenza di
luce, la doppia aureola che circonda la realtà, non ha una linea netta di
demarcazione che consenta di sapere ove finisca una e inizi l'altra:
l'invisibile giace dietro il visibile, o spesso il visibile sembra oscurato,
velato dall'invisibile. come l'orizzonte tremolante di un deserto infuocato.
Su questo continuo
fondersi e confondersi trova base e appoggio un nuovo linguaggio simbolico, nel
quale entrambe le dimensioni, entrambi i lati della realtà possano esprimersi e
rendersi comunicabili agli uomini. Il linguaggio simbolico profondamente,
sostanzialmente diverso da quello occidentale. orbitante attorno al
principio logico-razionale del Terzo Escluso Secondo il quale «una cosa o è o
non è», la terza via è esclusa. In altre parole, il principio stabilisce che
«questo» può significare solo «questo» e non «altro»: non si ammette
assolutamente che insieme a «questo» vi possa essere «un altro» a condividere la
misteriosa appartenenza e dipendenza che lega la realtà all'Arcano.
In questo la logica
formale occidentale diverge profondamente, lo diciamo come per un brevissimo
inciso, sia dall'antichissimo pensiero orientale, che dalle recenti conclusioni
cui è pervenuta la fisica occidentale delle alte energie, e vedremo quanto disti
poi dal pensiero nero africano. Al Bantu è estranea la rigidità del principio
del Terzo Escluso, in quanto nulla gli consente di eliminare valenze multiple
riguardanti la stessa realtà, anzi dall'Arcano gli giungono continuamente
sollecitazioni nel senso opposto, di una contiguità, di una "ibridazione", che
impedisce univocità nelle definizioni e nell'accoglimento dei significati: il
Bantu si apre, invece, a quei fenomeni che Umberto Galimberti chiama
«fluttuazione dei significati e slittamento di sensi concettualmente diversi».
E' proprio grazie a
questi fenomeni di fluttuazione e slittamento che le nostre culture possono,
come accade per esempio nel simbolismo dei villaggi tradizionali, instaurare uno
Stretto rapporto tra la casa e il centro del mondo, tra la disposizione del
villaggio e i flussi della Luna.
«Senza questo
slittamento dei significati, i bambini non potrebbero cavalcare scope o
rovesciare sedie, per costruire case»
Ed è sempre grazie a
questa fluttuazione di significati e a questo slittamento in sensi
concettualmente diversi che il linguaggio quotidiano africano lussureggia di
metafore, parabole, proverbi: in uno stile che, ad esempio, il Divino Maestro
non disdegnava: il Gesù dei vangeli. quello che percorre fra la folla le sue
strade terrene, è un narratore vivace, indimenticabile e inarrivabile.
Il suo linguaggio
dinamizza l'uomo e tutto ciò che lo circonda, senza attinenze rilevanti con il
principio logico-razionale che appiattisce e mortifica, e che salda. lungo un
processo plurimillenario, le categorie aristoteliche alle più moderne tecniche
pubblicitarie. Come vibrazione percepibile dell'Arcano e riverbero luminoso di
una realtà eclissata, il linguaggio simbolico non esaurisce tutta la realtà cui
si riferisce: il Bantu non può mai affermare che tutto sia venuto a galla, che
non vi sia più nulla da rivelare; il suo atteggiamento morale essenziale, è
quello dell'Ascolto.
Non va fatta alcuna
confusione fra il simbolismo occidentale e quello Bantu: sul primo grava
comunque il plurimillenario condizionamento del principio del Terzo Escluso, di
cui la cultura occidentale pare non riesca a liberarsi nonostante gli altissimi
prezzi pagati. Per gli occidentali i simboli sono oggetti materiali che
rappresentano nozioni astratte, ed è una rappresentazione comunque deficitaria,
parziale. non perché il mondo a cui si riferisce è qualcosa di nascosto, ma
perché il simbolo è comunque una parte di un tutto con il quale si rapporta e
nel quale il tutto rappresentato deve sforzarsi di entrare: sempre, però, in
ambito di astrazione ed è qui che risiede la differenza con le culture
nero-africane del simbolo.
Nella cultura
occidentale ad esempio, la bilancia simboleggia la giustizia. Il contenuto
abbracciato dalla bilancia è sempre minore della giustizia rappresentata, e ciò
avviene non perché vi sia. nell'idea della giustizia, un'aureola d'Arcano
irriproducibile e non esauribile dal simbolo, ma perché ciò che sottende, sia al
simbolo che a ciò che viene simbolizzato, è il concetto di giustizia,
che io già possiedo nella mia mente, indipendentemente dalla concreta azione,
giusta o ingiusta.
Il simbolo-bilancia, quindi; ha il suo referente
in una astrazione, che è tanto piena quanto vuota: è piena, nella misura in cui
il concetto è un denominatore comune a tutti i nominatori cui si riferisce,
elementi di cui è stato preso, per così dire, il nocciolo essenziale comune, in
modo da formare il concetto. Cosi il concetto di albero che ho in mente si
riduce ad una sorta di zombie composto dagli elementi comuni a tutti gli alberi.
E, però, altrettanto vuota perché l'albero perde tutti i suoi elementi
particolari quali il colore, la varietà della chioma, l'assetto dei rami, il suo
cangiare attraverso le stagioni, l'eventuale vincolo d'affetto che lo lega a me.
che ricordo ancora quando mio nonno usava riposarsi alla sua densa ombra.
E' un po' quello che
accade agli automobilisti fermi al semaforo rosso: tutti protesi a cogliere il
primo apparire del verde che non si sognano nemmeno di scambiare quattro
chiacchiere con l'automobilista dell'auto di fianco. Le loro individualità sono
avvinte al semaforo rosso: proprio come si situano le diverse individualità di
fronte al concetto.
Il concetto è stato creato apposta per
accomunare. Per classificare. Sotto lo stesso file, le individualità:
tutti diventano uno; se raccogliessimo diverse specie di fiori,
ponendoli poi in un vaso a testa in giù, di tutti vedremmo solo il gambo, che è
si l'elemento che li accomuna più di ogni altro, ma che non ci può dire nulla o
quasi sul fiore che abbiamo appena colto.
Se questo processo di arrivare all'uno si
fermasse qui. se questa unità concettuale se ne stesse poi nel suo rarefatto
universo senza interferire con l'umano vivere, la situazione non sarebbe poi
tanto grave. Il problema è che i vari sistemi istituzionali occidentali hanno
fatto calare questo uno nella storia degli individui concreti e situazionali, e
non per saldare la frattura precedentemente creata con il processo
dell'astrazione. che concluderebbe correttamente l'intera operazione. ma per
affermare la logica e il dominio dell'uno sugli individui, costringendoli a
vivere in un mondo in cui la varietà. il mutamento, la coabitazione dei contrari
sono la regola. e a pensare come se questo mondo non esistesse. Il concetto
domina in modo inflessibile e insensibile, impermeabile alla realtà caotica,
complessa, contrastata e contrastante della vita umana e di ogni cosa
esistente.
Dal nome al numen
La struttura di
pensiero africana che ricerca e ama la sapienza, la Filosofia africana, sa che
le due vibrazioni luminose della realtà, quella razionale e quella emanata
dall'Arcano, vivono ed esercitano autonomamente i loro rispettivi influssi: il
nome della cosa, dopo aver colmato lo lato fra la cosa e il suo concetto, evoca
il suo numen: il prisma del nome scompone la luce bianca nell'Iride
complessa dei suoi significati, sino alle frequenze che l'uomo non coglie ma di
cui, comunque, sente gli effetti. Il numen àncora poi l'oggetto alla sua
dimensione sacra richiamandolo, insieme a chi ha pronunciato il suo nome, verso
la fonte che tutto unifica e, riconoscendo la quale, è possibile la visione
d'insieme: il volo d'aquila che colga il fiume dalla fonte alla foce.
Ecco perché
l'unificazione, con tali premesse, non avviene concettualmente, per mezzo, cioè,
di un concetto, di un contorno in cui forzare l'esuberanza della vita: ogni
individuo, ogni organismo, pur mantenendo il proprio irripetibile modo di
esistere, porta con sè i dinamismi propri e della sacralità, invertendo di fatto
ciò che accade al mondo del concetto occidentale, ribaltando una pretesa
uguaglianza, che di fatto è piatta uniformità: più il mondo è uniformato, meno è
unificato.
L'occidente ha relegato
il destino alle regole del concetto e ha messo al centro del proprio linguaggio
il principio del Terzo Escluso. L'uomo occidentale «emergente» vede tutto
chiaro, cammina alla luce del sole o delle lampade alogene, è l'uomo delle
certezze, dell'ottimismo della volontà, che chiosa e conclude ogni discorso.
anche aperto da altri, anche su culture diverse dalla propria. a meno di non
cederla per puro opportunismo, o per curiosità, o per benigna concessione di
chi è sicuro che l'ultima parola gli spetterà comunque:
Se dunque in occidente
La ragione è propriamente la volontà d'aver ragione sul senso della terra, non è
difficile sospettare che l'uomo occidentale, per affermare la sua volontà,
abbia dovuto muovere tutti i sensi
e tutti i
significati con essa incompatibili.
Il Bantu sa che quasi tutta la realtà giace al
di là della bruma invisibile del mistero, è per questo che la sua vita, senza
soluzioni di continuità, è una ricerca, poco più di un brancolare timido e
reverente, nelle regioni dell'Arcano, in una perenne prospettiva crepuscolare,
di mezza luce, quando il sole. ormai basso all'orizzonte. traccia ombre
lunghissime anche per i semplici fili d'erba.
Il Bantu accoglie la
certezza che il visibile e l'invisibile interagiscano continuamente,
determinando per ciò stesso, ogni processo conoscitivo: altrove ho scritto che
la conoscenza, per i neri d'Africa, risponde a questo continuo andare e ventre
dell'universo tra una dimensione e l'altra, tra mistero ed evidenza, tra luce e
ombra.
(PEDRO F. MIGUEL)
Honga - Per
un'antropologia africana
bibliografia
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Kagame A. - "La Philosophie
Bantu-Rwandaise de l'eytre", ARSC - Bruxelles 1956.
Links
Filosofia e proverbi Kikuyu.
Sud Africa e problema bambini di
strada.
Enciclopedia multimediale scuole
filosofiche
Fonte : http://www.volint.it/scuolevis/filosofia/Filosofia%20Intercultura.doc
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