Pierangelo Sequeri
MUSICA RITUALE TRA ESTETICA E TEOLOGIA
1. L’ambigua collusione dell’arte
religiosa con la religione dell’arte. Riflessioni storiche
1.1. L’eredità di categorie e temi della
romantica “religione dell’arte” sulla coscienza cristiana e il senso comune
Nel momento in cui si afferma la concezione
romantica della “religione dell’arte”, la lingua della teologia cristiana è già
da tempo divenuta estranea alla grande tradizione patristica dei “sensi
spirituali”.
La lingua della spiritualità antica era
indubbiamente abitata da una certa diffidenza nei confronti dell’esaltazione
artistica della bellezza, consapevole del potere di distrazione e di seduzione
che l’enfasi di questo aspetto della cultura dell’uomo può esercitare nei
confronti della vita morale e religiosa. Ma essa rimaneva permeata da una tale
consuetudine cristiana con i profondi legami della creazione e della grazia, del
corpo e dello spirito, del mondo e del divino, che quella diffidenza poteva
essere riscattata nella coltivazione della dimensione “estetica” della vita
spirituale. E cioè in un modo di assimilare l’emozione del rito sacro, la
pratica contemplativa dell’amore di Dio, l’ammirazione delle sue opere nel
mondo, il desiderio dell’unione affettiva con Lui, che avvolgeva e trasfigurava
molte forme dell’esperienza sensibile indirizzandole al servizio dell’esperienza
della fede. La successiva declinazione intellettuale e conoscitiva dell’intellectus
fidei, imposta d’altronde dalle nuove responsabilità, culturali e civili
della fede, aveva progressivamente fatto passare in secondo piano
l’approfondimento e l’elaborazione del suo momento estetico e spirituale.
Con lo sviluppo della sensibilità romantica
tutti questi temi tornavano in certo modo prepotentemente al centro
dell’attenzione. La ragione moderna e illuministica appariva incapace di
ospitare la domanda, ormai pressante, di riconoscere alla dimensione spirituale
e affettiva della coscienza pieno diritto di cittadinanza nella cultura
dell’umano. L’esaltazione romantica dell’arte, che preme perché le venga
riconosciuta dignità non puramente ornamentale e secondaria nell’ambito
dell’esperienza e della cultura dell’uomo, è il segno più vistoso di questa
esigenza. Essa mira altresì a individuare nella forma estetica dell’esperienza
il punto più alto della coscienza: dove cioè i valori ideali della vita e il
senso stesso dell’esperienza religiosa vengono raggiunti oltre i limiti in cui è
costretta la ragione analitica e discorsiva.
La coscienza cristiana percepisce naturalmente che
nel progetto romantico prosegue in certo qual modo l’opera della
secolarizzazione della cultura avviata dalla modernità (ma già in certo modo
preparata dall’umanesimo e nel rinascimento, tipicamente nel campo delle arti).
E nondimeno percepisce anche, nell’aura religiosa del discorso romantico
sull’arte – e specialmente sulla musica – una inedita possibilità di parlare
nuovamente dello spirituale e del sacro nel cuore di una cultura dotta che lo va
progressivamente espungendo dai suoi linguaggi razionali: quelli della filosofia
e della scienza, naturalmente, ma anche quelli della politica e delle lettere.
La teologia di scuola, d’altro canto, dopo la grande scolastica medievale, aveva
perso ogni contatto con la problematica dell’estetica. E nella cultura cristiana
più diffusa si erano praticamente perse le tracce dell’antica tradizione
“teologica” sulla musica. Il bisogno oggettivo di restituire alla musica di
chiesa la sua qualità anche teologale si trova perciò sprovvisto di una vera e
propria sapienza cristiana. Mentre accade che la cultura contestuale si vada
appropriando, nella più rigorosa distanza dal legame ecclesiastico e dalla
teologia confessionale, proprio dell’antico linguaggio religioso a proposito
della spiritualità della musica e dell’arte in genere.
Si produce in tal modo l’ambiguo intreccio
che, per pura inerzia, continua ad abitare anche il nostro senso comune. E non
soltanto quello degli incolti e degli inesperti, ma anche quello dei competenti,
ecclesiastici e laici.
Nell’impostazione romantica, il carattere religioso
dell’arte si associa all’idea di una perfezione spirituale che è sostitutiva
nei confronti della filosofia come della religione. In questa concezione la
creazione artistica – e per riflesso la fruizione – gode intrinsecamente e
autonomamente di tale qualità. Ed è precisamente in questa autonomia,
immanente alla sua logica, che essa raggiunge una spiritualità più alta e una
religiosità più pura di quelle che sono consentite al pensiero e alla religione.
Poiché tali qualità si trovano solo ai vertici della creazione estetica e della
perfezione artistica, la loro esaltazione morale si associa ambiguamente al
carattere di eccezionale originalità ed eccellenza inventiva/esecutiva che ormai
è riconosciuto come segno distintivo del “genio estetico”: e pertanto dell’“arte
bella”, della “vera arte”, dell’“arte autentica”.
La cultura ecclesiastica, pur inaugurando, proprio
nel XIX secolo, una vivace tendenza al recupero di una specifica qualità
teologale dell’arte sacra e una più viva sensibilità per l’idoneità liturgica
che deve contraddistinguere la musica destinata al culto, sarà letteralmente
travolta dall’ambiguità iscritta nel linguaggio della cultura corrente. Non
possedendo da molto tempo una propria elaborazione teologica (nel rapporto fra
estetica e fede cristiana, nella complessità e nella differenza delle sue
articolazioni teologico-fondamentale, culturale, liturgica, spirituale e via
dicendo), la parola cristiana si è molto appoggiata ai codici linguistici
romantici della “vera arte”, della “sacralità dell’arte”. Naturalmente cercando
di indirizzarne il contenuto in funzione dell’elemento specificamente cristiano
e delle esigenze della celebrazione e della catechesi. E tuttavia, questo sforzo
è destinato a prodursi senza poter adeguatamente fronteggiare l’effetto di
trascinamento della cultura epocale.
L’ambiguità soggiacente a questa contaminazione si è
manifestata – e ancora si manifesta – non soltanto negli aspetti più
vistosamente polemici del rapporto fra disciplina ecclesiastica e autonomia
artistica. Ma anche nel formarsi, segnatamente per la questione della “musica
sacra”, di zone di consenso altrettanto ambigue: dove cioè l’enfatizzazione del
“valore religioso” dell’esperienza estetica e la celebrazione della “vera arte”
come segno discriminante della qualità spirituale, lasciano convivere intenzioni
e pratiche diametralmente divergenti. Sicché si dà il caso (ancor oggi) di
un’esaltazione “artistica” di maniera delle qualità estetiche e spirituali del
gregoriano e della polifonia antica, che nulla ha a che fare con l’interesse
cristiano per l’estetica della fede e la qualità cristiana della celebrazione.
Essa funziona infatti come un riflesso dell’interesse della cultura secolare
all’annessione artistica di un tratto di storia cristiana della musica
occidentale che può essere ormai sottratto al suo originario contesto
confessante. Il vantaggio di una manieristica esaltazione dell’antico
patrimonio, ridotto alle sue astratte virtualità estetico-spirituali, da parte
della cultura musicale ideologicamente laica, è duplice. Da un lato ci si
guadagna qualche credito presso il mondo “cattolico” senza compromettere la
propria “laicità” di intenti, perché la materia non è più teologicamente e
liturgicamente viva e vitale. E contemporaneamente, recriminando con alto sdegno
sull’incuria ecclesiastica nei confronti dei tesori che la religione deve
custodire per noi, si può mantenere per altra via la necessaria distanza critica
nei confronti dell’istituzione religiosa.
Naturalmente tutto
questo non significa che l’apprezzamento anche estetico nei confronti della
tradizione dell’antica musica cristiana sia automaticamente debitore
dell’ideologia romantica di una “religione dell’arte” sostitutiva. Né che la
critica delle ambiguità inerenti, in linea di principio, comporti la rimozione
dei reali vantaggi che “l’impulso romantico” ha culturalmente prodotto,
precisamente mettendo in discussione l’entusiasmo illuministico rivolto al
progetto di una “pura ragione” separata dal mondo della fede e degli affetti: e
non priva, essa pure, di orientamenti sostitutivi nei confronti della religione.
Semplicemente, si tratta di tenere ben presente questo fatto. Dopo il
romanticismo, e per noi tuttora, l’esaltazione estetica dei valori religiosi è
strutturalmente ambigua. Allo stesso modo lo è anche l’esaltazione religiosa dei
valori estetici.
Per inquadrare più precisamente il nostro argomento
è però necessario identificare con maggior precisione le modalità della
separazione moderna dell’arte e della religione, che appunto la lingua romantica
tende ad occultare, creando nei due campi ambigue associazioni. Dobbiamo
spendere qualche parola su quell’intreccio di modernizzazione e secolarizzazione
che ha sensibilmente modificato, in primo luogo, proprio la comprensione del
rapporto fra arte e società, andando a comporsi con la ridefinizione del senso
stesso del fare artistico e dell’opera d’arte.
1.2. Emancipazione dell’arte e
secolarizzazione: ambivalenza del moderno concetto di autonomia
L’ispirazione religiosa dell’opera d’arte e l’uso
ecclesiastico dell’espressione artistica si erano esercitate, sino alla fine
dell’epoca medievale, sul terreno di una comune esperienza estetica.
L’unità di questa esperienza, che era data dalla visione religiosa e cristiana
del mondo e della storia, è ormai definitivamente tramontata.
L’esperienza estetica, da tempo requisita nella
sfera dell’opera d’arte, con la quale si identifica, si sviluppa nella cultura
moderna su di un terreno totalmente separato da quello della forma religiosa.
Ciò non ha impedito e non impedisce, naturalmente, che l’arte tratti un soggetto
religioso, o che l’artista sia sinceramente credente. Ma ciò non appare affatto
in contrasto con l’idea, universalmente acquisita, che la qualità artistica si
sviluppa nel suo senso proprio precisamente in quanto essa è in grado di esibire
la sua autonomia ideale e creativa nei confronti di ogni vincolo ideologico e
funzionale. A sua volta, la forma ecclesiastica, identificata essenzialmente con
le funzioni dottrinali e morali della fede, si definisce in perfetta autonomia
nei confronti dell’esperienza estetica del mondo. Non si considera più
essenzialmente intrecciata con essa e identifica a sua volta, in linea con la
cultura contemporanea, il dominio dell’estetico con il dominio separato delle
“belle arti”. La forma ecclesiastica della coscienza e dell’esperienza di fede
si serve dunque dell’arte per propiziare gli affetti che accompagnano la fede,
agevolarne la comunicazione, renderne attraente il profilo. Ma la cultura
cristiana non pensa più esteticamente l’attuazione della fede: il rito diventa
applicazione ed esecuzione, la mistica si riduce ad una figura del tutto
eccezionale (e pure sospetta) dell’esperienza cristiana, affectus fidei e
pia desideria si risolvono nelle figure della devozione popolare (al
limite del folklore tollerato) e della psicologia individuale (supererogatoria e
irrilevante per la qualità della fede).
Nel XIX secolo la storia dell’ideale cristiano nella
vicenda umana è ormai inquadrata come storia della tradizione ecclesiastica
nella società. La separazione politica, culturale, sociale del cristianesimo è
perfettamente visibile: la dottrina cristiana predicata dalla Chiesa è iscritta
a tutti gli effetti nel “conflitto delle ideologie” che si contendono il dominio
cognitivo e politico della società civile e della sua etica pubblica. La
separazione della religione e della cultura moderna, com’è noto, si manifesta
proprio ora nella sua forma più traumatica. La cultura civile diffida ormai
istituzionalmente della teologia ecclesiastica, anche (e soprattutto) quando
essa si interessa di cultura (e specialmente di arte alta). E
corrispondentemente, la religione diffida della cultura, anche (e soprattutto)
quando essa si interessa di religione (e soprattutto del rito cristiano). Nel
XIX secolo si tratta di una diffidenza in gran parte esplicitamente polemica: è
battaglia, da entrambe le parti, soprattutto per la difesa dell’autonomia del
proprio territorio. Non è ancora tempo di dialogo. Ma è interessante raccogliere
qualche puntualizzazione intorno al concetto di autonomia, appunto, dove si
producono contraddizioni interne e ambigue collusioni che spiegano ancora molto
della situazione attuale.
Nell’ambito della coscienza ecclesiastica la
rivendicazione di autonomia appare abbastanza semplice da comprendere e
tradizionale nella sua impostazione esplicativa. “Autonomia” significa qui
“sovranità” della Chiesa nell’interpretazione e nel governo della dottrina e
della pratica religiosa. Nessuno pensa più di trasferire tale sovranità
all’unità medievale della cultura e della religione: l’emancipazione dell’arte,
in particolare, ha una storia già consistente: più collaudata di quella della
filosofia e delle scienze (Umanesimo e Rinascimento hanno lasciato il segno). La
coscienza ecclesiastica dà ormai per scontata l’autonomia dell’ispirazione che
determina la creazione artistica e dei criteri che regolano il suo apprezzamento
estetico. La pratica cristiana qui non è considerata “sovrana”. Essa
semplicemente “si serve” della competenza dell’artista e ne acquisisce l’opera
in funzione delle proprie specifiche esigenze. Una volta che queste esigenze
sono soddisfatte, la coscienza ecclesiastica integra il prodotto dell’arte nella
logica della propria autorealizzazione. In compenso, rinuncia alla diretta
valutazione delle qualità artistiche e della dignità estetica, che riceve
sostanzialmente dalla valutazione interna a una cultura che le è ormai
ideologicamente estranea. Certo, la lingua ecclesiastica teorizza in generale la
perfezione ideale di un congruente intreccio dell’ispirazione religiosa e
dell’alta qualità estetica. Ma nella realtà, non è in base a questo criterio che
la Chiesa si pronuncia sull’appartenenza di un’opera alla sfera dell’arte somma;
né da esso fa dipendere l’assimilazione dell’opera d’arte alla funzione
religiosa che essa decide autonomamente di assegnargli.
Il vantaggio di questa riconosciuta disarticolazione
del religioso e dell’estetico (che non si produce nel campo della filosofia e
stenta ancora ad affermarsi nel campo delle scienze della cultura in genere) è
innegabile. In questo quadro si produce infatti, anticipatamente rispetto ad
altri domini, una sorta di pacificazione delle rispettive sfere di autonomia. La
Chiesa accoglie di fatto la sua estraneità alla specifica istruzione del
giudizio estetico e riconosce l’artista (e la comunità artistica) come soggetto
autonomo. La sfera delle arti belle, con la forza di legittimazione che loro
proviene dalla compiuta secolarizzazione dell’estetico, possono a loro volta
esprimere apprezzamento per la qualità simbolica e l’energia spirituale del
soggetto sacro. E anche apprezzare la sensibilità della Chiesa in veste di
committente privilegiato dell’arte alta.
Su due punti però rimane ancora inavvertita la
portata del nuovo assetto, a parte la generale ambiguità indotta dalla lingua
romantica in tema di arte e religiosità, alla quale abbiamo già accennato.
Il primo riguarda la portata assunta dall’ideale
dell’autonomia dell’arte. L’intenzione estetica, che determina la qualità
artistica dell’opera, tende a comprendersi dentro l’orizzonte di una marcata
evidenza della personalizzazione dei propri costrutti e dell’originalità dei
propri esiti. Questa autonomia, concepita come autosufficienza e innovazione, fa
tutt’uno con la qualità artistica dell’opera: non è semplicemente una condizione
sociale del suo prodursi, è proprio una componente intrinseca della sua forma e
del suo valore estetico. Ed è componente pregiudiziale e necessaria: infatti,
ove appaia il sentore di un replicamento del già visto o ascoltato, oppure dove
si profili l’ombra di una qualche funzionalità ideologica particolare, il valore
estetico incomincia a dissolversi. Una tale immanenza del valore estetico non è
necessariamente in contrasto con l’eventuale riconoscimento della sua capacità
di rinviare a un senso trascendente: l’importante è che un tale rimando avvenga
in modo vistosamente disomogeneo rispetto alle forme ideologicamente connotate
della sua nominazione/rappresentazione e si produce in termini omologhi con
quelli autonomamente stabiliti dalla comunità artistica medesima per la sua
propria legittimazione. L’individualità, l’originalità, l’autosufficienza della
forma artistica, nonché l’indipendenza sociale del fare artistico (con la tipica
svalutazione della “committenza” commerciale in favore della “spontanea”
espressione creativa), sono pregiudizialmente riconosciute come garanzie
decisive della sua validità universale. In questo quadro, l’opera incapace di
esibire la propria autogiustificazione non perde soltanto la propria autonomia
per dir così ideologica: essa perde proporzionalmente la propria credibilità
estetica e la propria qualità artistica. Entra cioè nella sfera del sospetto di
trasmutazione in oggetto funzionale ad interessi estranei a quelli dell’autorealizzazione
e dell’autoespressività e perde così anche il diritto ad essere valutata come
felice compimento di una reale intenzionalità universale.
La coscienza cristiana, infatti, desiderosa di
onorare Dio e conferire dignità al culto sacro, anche mediante la qualità
estetica della celebrazione, reclama il proprio diritto/dovere di frequentare
forme degne e anche alte delle arti belle. E si associa volentieri alla lingua
romantica (della quale del resto fu nutrice) nell’enfatizzare la congruenza fra
lo slancio spirituale della fede e l’apertura ideale dell’arte alla
trascendenza. Ma nella congiuntura moderna, deve pur tenere conto del fatto che
l’iscrizione dell’arte nel recinto dell’uso ecclesiastico e nello spirito della
fede confessante, consegue una perdita di valore e di interesse per una cultura
dominata dall’ideale di autonomia creativa e di extraterritorialità ideologica
dell’arte alta. Se dunque la religione intende iscrivere l’esperienza tipica
dell’arte bella nell’orizzonte della celebrazione del sacro, il suo abbraccio
dovrà essere quanto mai condiscendente e rispettoso. In altri termini, la
pratica cristiana dovrà ospitare l’arte che si costituisce in sede
propria (socialmente e ideologicamente estranea all’orizzonte religioso):
lasciandole l’evidenza di tale sua autonoma costituzione, anzi mettendola in
risalto, anche quando essa si impegna con il soggetto sacro. Diversamente
l’“artista” sarà proporzionalmente dequalificato come “artigiano” (con le
attenuanti del caso, se si tratta di un artista già indiscutibilmente affermato
per aliam viam). E l’opera non ne sarà riqualificata esteticamente, ma
piuttosto assegnata al dominio di una competenza funzionalisticamente adattata
ad altro scopo rispetto a quello dell’arte alta. È nel suo proprio interesse che
la Chiesa è incoraggiata ad ospitare l’opera d’arte, di soggetto anche
religioso, in grado di garantirsi universale legittimazione per ragioni “aliene”
dalla ispirazione religiosa, sia pure a parità di competenze tecniche ed
estetiche. La prospettiva di generare una qualità artistica
assoluta, per autonomo slancio della fede vissuta e condivisa, sia pure a parità
di competenze, è immediatamente sotto l’ipoteca di una sospetta irriverenza nei
riguardi della purezza dell’intenzione che fa la qualità estetica degna di
accedere all’apprezzamento universale.
In conseguenza di ciò, ci fu un momento, come
sappiamo (parliamo in particolare della musica), in cui anche all’interno della
Chiesa si pensò di regolare (se non di risolvere) l’ambiguità introducendo una
netta separazione: di generi, di forme, di autori, di opere e di repertorio.
Reazione di fatto uguale e contraria a quella della secolarizzazione: autonomia
come semplice separazione, omologazione selettiva, cura per la salvaguardia
della specie. Reazione comprensibile, a parte la congiuntura politica generale e
la collusione con le nostalgie restauratrici: l’ospitalità ecclesiastica nei
confronti dell’arte aveva anche incoraggiato effetti di invadenza colonizzatrice
da parte di pratiche di dubbia qualità, sia religiosa che estetica. E anche
confusione dei generi, dei contesti, dei fini. Ma la reazione era anche senza
futuro, perché largamente iscritta nel semplice ripristino di un passato
il quale, pur venerabile, non poteva più, senza un adeguato progetto di
ri-creazione, generare un presente vivo e vitale.
Ma c’è un altro aspetto, non adeguatamente
considerato, che ci introduce al secondo lato della ricaduta della romantica
religione dell’arte sulla problematica della musica di chiesa.
La spinta romantica all’idealizzazione spirituale
dell’arte ha indotto un’accelerazione dell’indirizzo aristocratico delle
pratiche relative. L’individualità dell’artista, l’originalità del prodotto,
la qualità delle tecniche, la singolarità dello stile e dell’invenzione, sono
tutti elementi che concorrono a definire la qualità della “vera arte”, che
dunque si realizza propriamente come “arte alta”, che richiede a sua volta pari
competenza per essere riconosciuta e apprezzata. La vera arte è fatta per
polarizzare su di sé l’attenzione dei sensi e dell’intelligenza: essa requisisce
a proprio vantaggio le emozioni, i sentimenti, l’immaginazione e i pensieri del
fruitore. Il quale si trova, al cospetto dell’opera d’arte, come uno
spettatore/ascoltatore ammutolito e passivo, incantato e devoto. L’arte alta
induce l’esperienza estetica a risolversi nella forma di una ritualità
estatica, che avvolge il partecipante come di fronte alla celebrazione di
antichi culti esoterici. L’inconscio ecclesiastico non può non sentire, nei
confronti di questo archetipo, il fascino di alcuni tratti dell’esperienza
religiosa universale. E inoltre, in modo ancor più pregnante, non può non
riconoscere le matrici religioso-culturali della forma cristiana: la quale – nel
caso della musica in modo assolutamente clamoroso e stupefacente, benché la
cultura cristiana stessa non vi dedichi approfondimento alcuno – ha generato una
vera e propria storia dell’espressività musicale, ignota alle altre civiltà.
Di qui l’obiettivo imbarazzo nel gestire il rapporto
fra il desiderio di onorare la qualità religiosa della celebrazione cristiana
con la qualità estetica resa possibile dallo sviluppo delle arti belle e
l’esigenza di imprimere nella forma stessa di quella integrazione il sigillo
della fede e lo stile del sacramento. Questa seconda esigenza infatti,
indipendentemente da ogni forzatura trionfalistica o apologetica, è una qualità
immanente alla spiritualità cristiana del culto. Essa comporta aspetti
irrinunciabili per la qualità cristiana della celebrazione: un rapporto non vago
ma intenso e affettuoso con il mistero celebrato; un legame diretto con la
Parola di Dio, con la tradizione ecclesiale, con i tratti autentici ed espliciti
della verità cristiana; un interesse reale per la partecipazione attiva e
fruttuosa dei soggetti celebranti, per l’esaltazione dell’ordinamento fraterno e
comunionale dell’assemblea, per la qualità feriale e lo stile accogliente della
celebrazione quotidiana e popolare della fede cristiana, non solo di quella
eccezionale e solenne.
In mancanza di criteri teologico-estetici adeguati,
indirizzati precisamente all’intelligenza liturgica e spirituale della qualità
cristiana, è stato pressoché fatale entrare nel circolo vizioso di apprezzamenti
estetici che, in nome della spiritualità intrinseca alla “vera arte”, fungevano
da criteri teologici; nonché di schemi dottrinali che, in mancanza di una teoria
teologalmente adeguata dell’estetico, introducevano discriminanti arbitrarie e
culturalmente imbarazzanti nel dominio dell’arte in generale.
Il perdurante vuoto di riflessione
teologico-spirituale e liturgico-estetica, incoraggiato dall’irrigidimento
ideologico contestuale al generale tentativo di contrapposizione e di
restaurazione, non fu senza conseguenze di lunga durata. La cultura della musica
di chiesa, abbandonata dai teologi e dai pastori ai musicisti e ai liturgisti,
continuò a subire l’influsso della lingua romantica corrente, finendo per
ridursi ad evocare in termini assai generici e nominalistici i principi di una
doverosa spiritualità dell’arte sacra. Con l’assimilazione di questo linguaggio
estetico-religioso generico, nonostante il retorico adattamento delle sue
formule alla lingua cristiana, quella cultura sostenne obiettivamente il
processo di personalizzazione aristocratica e di autolegittimazione anche
religiosa della cultura estetica secolare. Senza vantaggi di rilievo per le
pratiche e la cultura musicale di chiesa: tanto ai livelli dell’arte alta, come
a quelli della pratica contestuale alla normale celebrazione liturgica. Il vuoto
di pensiero e di creatività corrispondente ha mantenuto aperto il varco agli
inevitabili processi di compensazione, che infatti hanno continuato a prodursi,
nel bene e nel male. Sicché ancor oggi, quando molti dei presupposti teologici e
liturgici che avevano frenato il recupero dell’intrinseca dignità estetica ed
ecclesiale della celebrazione cristiana sono caduti, non disponiamo di una
cultura teologale e spirituale idonea a orientare energie creative e abitudini
d’uso coerenti con lo spirito e la lettera della riforma liturgica.
1.3. Estetica ed estetizzazione
dell’esperienza: il cosiddetto ritorno del sacro e il concetto post-moderno
dell’estetica
Ai giorni nostri, molte cose sono nel frattempo
accadute. Il rinnovamento liturgico e il ripristinato dialogo del cristianesimo
con la cultura hanno obiettivamente aperto nuovi scenari. L’interesse della
teologia per la cultura dell’estetico rimane nondimeno assai acerbo ed
estemporaneo, più generoso di luoghi comuni che di vaste ricerche e di
sistematici approfondimenti. La qualità estetica della liturgia comune e
quotidiana rimane – è onesto riconoscerlo – oggetto di avarissime cure. Il nuovo
clima personalistico e comunitario della liturgia ha indubbiamente infranto
l’aridità e la vuotezza di abitudini eccessivamente formalistiche. Ma rimane
ancora troppo acerba l’attenzione per lo sviluppo di uno stile della
celebrazione coerente con la sua ritrovata importanza misterica e comunicativa.
Il rito è luogo di esperienza e di azione simbolica: e nella sfera del simbolico
rituale la qualità di esercizio della forma è direttamente proporzionale
all’intensità di appropriazione del contenuto.
In verità l’interesse per la dimensione estetica
sembra ritornato di gran moda. La dimensione estetica dell’esperienza sembra
infatti aver riconquistato la sua portata più globale. Non è soltanto un fatto
di belle arti, ma di cultura secondo un’accezione più ampia. Si è allentato il
suo riferimento paradigmatico all’eccellenza dell’opera assoluta e si è
attenuata la soggezione nei confronti della sua aura quasi sacrale. L’autonomia
dell’estetico rimane salda: però l’arte non rifugge più il rapporto con la
cultura sociale, anzi mira a riconquistarlo. La via estetica alla religione non
passa più necessariamente attraverso l’opera d’arte: gli stessi contenuti della
tradizione e dell’esperienza religiosa sono trattati come simboli, disponibili
ad un’ermeneutica trasversale, aperta, donatrice di senso in molti modi. Il
cosiddetto post-moderno è anche l’orizzonte di una lussureggiante disseminazione
di produzioni simboliche. Esse sostituiscono l’antica metafisica, ma anche le
moderne ideologie sono al servizio di un diffuso desiderio di frequentare a
tutto campo, nei luoghi stessi della cultura riflessa, il mondo delle emozioni,
dei sentimenti, dell’immaginazione, della fantasia, del gioco. L’uomo moderno
aveva potuto apparire come un uomo soprattutto razionale e tecnico. L’uomo
post-moderno sembra configurarsi come un individuo sentimentale e ludico. Va
dove lo porta il cuore e tutto interpreta simbolicamente: il gran libro della
natura e i libri della bibbia, indifferentemente.
Nella proiezione di questa prospettiva, l’opinione
ecclesiastica sino a ieri piuttosto diffusa circa il nesso della disaffezione
religiosa e cultuale con la relativa insensibilità dell’uomo contemporaneo nei
confronti del simbolico, sembra doversi rovesciare. La diffusa estetizzazione
dell’esistenza intercetta un bisogno assai diffuso di sottrarsi all’eccessiva
aridità esistenziale della tradizione filosofica, teologica, etica e scientifica
che sostengono la gestione della vita simbolica di individuo e società. La
proliferazione di grandi movimenti di spiritualità ha moltiplicato un’offerta
che in precedenza vedeva il rito cristiano in posizione di quasi-monopolio. Le
pratiche artistiche tradizionali, avvolte nella più ampia crescita delle
pratiche espressive, cercano da tempo, più che nuove strade un nuovo inizio. Il
distacco delle loro sperimentazioni dalle condizioni comuni dell’apprezzamento e
del giudizio, ha incrementato il distacco dell’arte alta (o comunque dell’arte
in senso specialistico) dal senso comune collettivo: non solo di quello
popolare, ma anche di quello mediamente acculturato.
Di fatto, un mutamento di clima culturale
che sulla carta dovrebbe risultare propizio a una più capillare diffusione
del “senso estetico” e del “senso religioso”, ha posto la coltivazione
intelligente di entrambi in una situazione di stallo. È assai diffuso il
loro consumo sentimentale, emotivo, eccitante. Il romanticismo aveva esasperato
l’autonomia della creazione artistica, riconducendola ad una individualità
intellettualmente inaccessibile e socialmente isolata. Il primato dell’autoespressività
insindacabile come cifra dell’estetico è rimasto: ma appunto, trasferendosi come
un astratto a priori all’espressività dell’individuo, quasi come un
nominalistico riconoscimento qualitativo di qualsiasi produzione autoespressiva
(come un “diritto di parola” insomma), finisce per trasferire semplicemente quel
difetto nel senso comune. Il nuovo interesse per la dimensione sociale e
comunicativa dell’estetico, d’altronde, ha come risvolto anche una sua
esasperata commercializzazione, che favorisce un consumo indifferenziato,
superficiale, edonistico. Sicché i valori di partecipazione e di comunione che
l’estetico condiviso può favorire, sono costantemente minacciati di trasformarsi
in fenomeni di pura omologazione dei comportamenti: nella sostanza indotti e
passivi, anche quando appaiono eventi carichi di eccitazione e di fusione
collettiva.
L’ambivalenza estetica del sacro, erede della
romantica religione dell’arte, in ogni caso rimane. Il problema semmai si è
allargato: non è più semplicemente una questione del rapporto fra
religione dell’arte alta e religione del dogma ecclesiastico: essa investe la
sfera complessiva di una coscienza comune nella quale sensibilità estetica e
qualità spirituale si fondono e si confondono ambiguamente, con esiti polimorfi
e spesso indistinguibili.
Nell’incertezza, il tentativo di un nuovo “canto
popolare” ha largamente fornito l’inevitabile fattore di compensazione per la
musica anche liturgica di uso più corrente. Esattamente come nell’Ottocento,
questa forma di integrazione musicale del rito liturgico e paraliturgico, ha
trovato il suo modulo di base nella lingua e nella forma più comune: ieri
declinato secondo il modello dell’aria operistica e dell’inno patriottico, oggi
secondo il cliché della canzone moderna e della ballata folklorica (che
poi sono variazioni di una struttura originaria, la cui radice si trova
nella pratica occidentale del canto salmodico). Di fatto sembra che al momento
questo ruolo di compensazione, destinato a colmare un vuoto che la cultura
ecclesiastica, spesso occupata in sterili diatribe, non è stata in grado di
colmare, appaia insufficiente. È difficile dire se ciò corrisponde a una più
profonda coscienza della necessità di approfondire la ricerca di una nuova
lingua musicale ecclesiastica. Nella realtà sembra di poter notare, per
il momento, una certa stanchezza delle pratiche correnti e un certo
impoverimento della creatività. La celebrazione si attesta di nuovo su un
repertorio limitato, ma anche collaudato: in parte ripescando qualche canto
della tradizione preconciliare, in parte stabilizzandosi intorno alle produzioni
post-conciliari che sono di fatto riuscite a rappresentare una via media per il
canto dell’assemblea (non troppo giovanilistiche, non troppo sofisticate, con
qualche testo particolarmente efficace o idoneo a colmare le lacune della
tradizione in rapporto a una più differenziata sensibilità per i temi liturgici
e biblici). Intanto, più in generale, la comunità ecclesiastica ridiventa
ospitale nei confronti della musica non direttamente liturgica: sia di tipo
colto, sia di tendenza. Sono certamente aumentate, proprio in questi ultimissimi
anni, occasioni per forme d’ascolto indirizzate in senso spirituale e più
genericamente religioso, esplicitamente programmate dalle parrocchie e dalle
istituzioni cristiane. Anche in contesti religiosamente molto connotati e
specifici (tempi forti dell’anno liturgico, celebrazioni in speciali
circostanze, festività particolarmente solenni).
Nel complesso, il momento di stallo sembrerebbe
favorevole ad un più generoso investimento di energie riflessive e creative.
Anzitutto nella linea di un cordiale incoraggiamento allo studio teorico e
storico del tema, con maggiore ampiezza di prospettiva e più accurata
ricognizione di una storia certamente complessa, ma anche eccezionalmente
interessante e sconosciuta. Musica e sacro, musica e religione, musica e cultura
cristiana; musica e società, musica e teologia. L’occidente cristiano ha una
storia singolare e unica, a questo riguardo: e la forma peculiare della sua fede
e dei suoi “testi sacri” è stata determinante per l’anomala evoluzione musicale
della nostra cultura.
Ma
poi, più praticamente, in termini di frequentazione dei molti intrecci
dell’estetico e del sacro, dove il caso della musica è affatto singolare: la
frequentazione del soggetto e della materia religiosa è clamorosamente dominante
nella musica del ‘900. La quale, per altro verso e a differenza di altre forme
dell’arte e del sapere, è totalmente sconosciuta alla cultura ecclesiastica. E
ancora più concretamente, si tratta di far ridiventare la chiesa un luogo
ospitale per la creatività coltivata e competente di una pratica musicale
affezionata al compito di servire la vita della fede. L’investimento comporta
anche la cura delle persone e l’incoraggiamento di giovani adatti, disposti a
prendere in seria considerazione un itinerario di formazione integrata: sia dal
punto di vista teologico che musicale. La formazione del musicista professionale
è totalmente estranea alla cultura di questa tradizione: dal punto di vista
tecnico e teorico. Estranea nei casi migliori si direbbe, perché la banalità dei
luoghi comuni che periodicamente dobbiamo subire anche da parte di alte
personalità del mondo dello spettacolo musicale (colto o popolare che sia) sono
un documento abbastanza eloquente della dannosa interferenza di stereotipi
totalmente distaccati dalla realtà.
D’altra parte è vero che l’istituzione ecclesiastica
non dispone di luoghi in cui la duplice formazione richiesta risulti all’altezza
del compito che attende il musicista di chiesa. Egli dovrà certamente possedere
una conoscenza elaborata e assimilata della tradizione, che sorreggono il
compito prezioso di tenere in contatto la memoria dei doni che la cultura della
fede tramanda di generazione in generazione. Così come dovrà certamente essere
tanto preparato, e perciò tanto umile e paziente, da far lievitare la qualità
dei sensi spirituali anche cristiani nella massima semplicità dei mezzi e nell’ordinarietà
del contesto. Non senza essere in grado di valorizzare l’humus
popolare delle tradizioni vissute, o di tenersi in contatto con la sensibilità
di base che istruisce i linguaggi di uso corrente. Dunque, anche un
esperto di gregoriano e un efficace animatore dell’assemblea locale. Ma saranno
la sua profonda cultura teologica e spirituale, liturgica ed estetica, tecnica e
musicale che gli consentiranno di orientare, con sapiente regia complessiva, la
vita estetica della comunità cristiana: predisponendo le condizioni per un
complessivo affinamento delle sue qualità spirituali e per un adeguato esercizio
delle sue risorse pastorali. Anche mediante una saggia opera di riavvicinamento
del senso comune alla molteplicità di esperienze: le quali, sia pure
indirettamente e in guisa di sfondo propedeutico, conferiscano profondità –
inavvertita, ma reale – alla sobria intensità di forme anche elementari della
partecipazione celebrante nei confronti del mistero della fede.
2. Estetica musicale e liturgia
cristiana. Pacifiche considerazioni teologico-pratiche
2.1. La liturgia come esercizio dei
sensi spirituali: il rito sacro come simbolo in azione
Certo, se la parola “estetica” potesse evocare prima
di tutto l’antica dottrina dell’aisthesis che presiede alla tradizione
patristica e cristiana dei sensi spirituali, si dovrebbe qui parlare del
problema estetico come della questione essenziale per la restituzione del rito
all’efficacia dell’energia simbolica di cui esso è depositario. Non come
l’enigma di una formula magica che si può soltanto ripetere, o come una passione
estatica dalla incerta eziologia psichica. Ma prima di tutto, e dopo tutto, come
tema di un ascolto intelligente e di una risonanza pratica che vanno ben oltre
la semplice conferma del nostro desiderio di sapere e di fare. Sino a condurre
alla contemplazione dell’opera e della giustizia di Dio nella storia, al di là
della mai sopita pretesa dell’autoedificazione e dell’autogiustificazione
dell’uomo.
E che cos’è il rito cristiano, se non l’esercizio di
questo ascolto e di questo sguardo: orientati entrambi dalla memoria e dal
comandamento del Signore alla percezione e all’assimilazione di ciò che è prima
di tutto e dopo tutto necessario cercare nelle molte parole e nelle molte azioni
della vita quotidiana della Chiesa medesima? Ciò avviene in vista della vita
quotidiana vissuta nella fede, certo. Proprio ad essa alludono simbolicamente
tutti i gesti e tutte le parole del rito. Ma anche prendendone distanza per
misurare tutta l’inadeguatezza del nostro parlare e del nostro operare
quotidiano: anche quello cristiano ed ecclesiastico, certo. E per apprezzarne
nuovamente la grazia nascosta, onde ristabilire la differenza dell’unico
fondamento di ogni buona relazione con Dio e di ogni operoso rendimento di
grazie. Un fondamento che prende la sua forma perfetta nell’omousia del
Figlio risorto e nell’eucaristia del Cristo crocifisso. Dalle quali procede lo
Spirito con ogni suo dono e per le quali in ogni opera dell’amore disposto a
dare la vita può essere riconosciuto il compiersi della giustizia di Dio.
La struttura formale della ritualità e del suo modo
di porre in atto l’energia del simbolico, è appunto caratterizzata da una
schematizzazione tipica del fondamento che oggettivamente vi è evocato e da una
peculiare stimolazione dell’esistenza che intenzionalmente vi si raccorda, per
così dire, la densità emotiva, coscienziale, interattiva e pratica della vita
quotidiana; ma in questo prosciugamento ne rende più intensa e acuminata la
qualità spirituale, portandone all’evidenza le nervature del senso. La forma
della parola, il gesto della comunione, la postura della preghiera, l’intenzione
dello sguardo, la sequenza di approssimazione e di distanza, le operazioni del
lavare e del nutrirsi, dell’illuminare o del riparare, dell’accogliere e del
congedare, del toccare e del non toccare, del parlare e del tacere, del riempire
di suoni e dello svuotare nel silenzio, alludono alle molte figure
dell’esistenza quotidiana e dei sensi in essa ripetutamente giocati. Eppure li
evocano in modo sintetico, con cadenze non funzionali e con volumi rarefatti:
perché appunto il loro senso ultimo e il loro fondamento originario vengano
simbolicamente all’evidenza come differenza, trascendenza, mysterion.
E in tale simbolica spoliazione essi possano ricevere l’impressione del loro
legame con il senso ultimo e il fondamento originario della presenza di Dio
nella vita quotidiana.
C’è dunque un profilo estetico della percezione
della presenza di Dio nella forma del rito cristiano, che mira a sottrarre la
fede ecclesiale medesima alla deriva potenziale della sua trasformazione in
figura sostitutiva della rivelazione cristologica. Sicché quest’ultima finisce
per essere vissuta come predicato della prima invece che come soggetto e
oggetto costitutivo della sua possibilità e del suo esercizio. La dinamica del
rapporto fra momento rituale e tempo quotidiano dell’esistenza credente, meglio
che con le metafore della causalità o della consequenzialità, si definirà dunque
con l’immagine dello scambio simbolico. L’esistenza quotidiana cede al momento
rituale il tempo della celebrazione, memore della finitezza e della colpa che
vietano la pretesa di adeguare storicamente la struttura della fede
testimoniale. Il momento rituale concede al tempo dell’esistenza il riscatto
della finitezza e della colpa, rendendole capaci di ottundere la rivelazione
evangelica e di vanificare la presenza del Signore. Fino alla sua venuta.
D’altra parte il simbolico, sotto ogni profilo, vive
costantemente di un equilibrio delicato e instabile. La sua assimilazione
impegna la coscienza del singolo a raccogliersi e a concentrarsi in una
intenzionale e riflessiva partecipazione. Ma insieme la trascende, in quanto
esige cura della memoria, conforto della tradizione, oggettivo riscontro con
l’evento fondatore.
La gestione del simbolico è intersoggettiva e
comunitaria per sua natura: il simbolico non può essere inventato
strumentalmente, come un concetto o una rappresentazione di cui ci si serve in
virtù di una convenzione soggettiva e arbitraria. Il simbolico esige una
gestione consensuale, per non smarrirsi dentro la polisemia altrimenti
indecifrabile e indecidibile delle catene di senso che esso può far venire alla
luce. Ma al tempo stesso, il simbolico si può apprezzare soltanto in esercizio:
e dunque nella relazione che intenzionalmente vi si indirizza mediante l’azzardo
ermeneutico di un consenso pratico all’energia che esso sviluppa e alla
trasformazione che per essa viene resa assimilabile. Il rito liturgico è
precisamente il modo di questa “tradizione”: e la celebrazione cristiana è la
messa in opera della sua permanente idoneità a mediare la “conversione”
richiesta. Nell’esercizio rituale – proprio in esso – il simbolico colpisce nel
profondo. E mette in azione dinamiche radicali del desiderio: la cui energia è
tanto disponibile alla strutturazione quanto alla destrutturazione della
coscienza e della volontà. Orientare la performance rituale del simbolico
cristiano è dunque tema di una “cura delicata” e di una “manualità fine”. In
questo contesto la cura per la forma musicale destinata a intrecciarsi con la
celebrazione, sollecita per lo meno una cura e un’attenzione omologhe a quelle
che riguardano l’evento della celebrazione nel suo complesso.
Ma appunto, ritornando ora all’assunto propositivo
della nostra riflessione, per quale ragione la musica ha titolo per ricevere
tale legittimazione? E con quale munus si presenta il musicale nei
confronti della liturgia cristiana? L’esiguità della riflessione disponibile,
più volte lamentata, non dipende semplicemente dalla reciproca estraneità dei
due mondi – quello della cultura teologica e quello della cultura musicale. Essa
va piuttosto riconosciuta, più profondamente, come l’esito macroscopico di un
più generale difetto di attenzione teologica ai valori della ritualità. E
precisamente a una globale disattenzione per l’esercizio del simbolico che in
essa tipicamente prende forma. Perché in effetti proprio questa è la lacuna più
vistosa. Ed essa appare tanto più evidente oggi, in quanto l’attenzione per la
dimensione simbolica è certamente frequentata ed enfatizzata in misura cospicua.
Ma appunto, e a prescindere dalla qualità del risultati, tale frequentazione si
applica quasi esclusivamente al simbolico come tema del comprendere,
dell’esprimere e del comunicare. Al simbolico come significante sostitutivo
insomma: parola o gesto o rappresentazione che sia. Del tutto trascurato appare
invece il simbolico come significante intenzionale e performativo. Ovvero il
simbolico come medio necessario alla realizzazione pratica di una relazione
personale col senso, in quanto modalità dell’agire che non può essere né
concepita né prodotta in altro modo che mediante un agire simbolico.
Orbene, secondo una lezione che affonda le sue
radici nell’archeologia della musica, strettamente legata all’assimilazione
rituale del senso di tutte le cose, il musicale è l’elaborazione estetica di una
relazione siffatta nell’esperienza umana universale. La sua densità simbolica è
tipicamente relazionale, non semantica. Il musicale evoca l’universo della
parola, del gesto, della rappresentazione in modo significativo ed efficace: ma
non è il simbolo semantico di tale universo se non in minima parte, che è poi
quella musicalmente meno specifica e più debole, per l’appunto. Esso è piuttosto
il simbolo del valore che riveste il loro esercizio in riferimento alla
coscienza del loro interno risuonare e del corrispondente sentimento di sé che
ne scaturisce. Il musicale enfatizza il parlare, il gestire, il rappresentare in
quanto tale: è ad essi, che propriamente non sono afferrabili se non nella forma
di certe parole, di certi gesti, di certe rappresentazioni, che il musicale
indirizza. Al significato e all’efficacia del loro stesso esistere come simboli
di un’interiorità che aspira ad essere riconosciuta: significato ed efficacia
segnalati e identificati, per così dire, nel potenziamento dell’orlo sonoro del
loro accadere.
Il fascino estetico e il valore antropologico del
musicale derivano proprio dall’infallibile precisione e dall’infinita plasticità
con cui esso è in grado di evocare, in termini di pura risonanza, il valore e il
piacere, lo stupore e il miracolo del generarsi di un universo semantico in
quanto tale. In modo estremamente invasivo, certo, nella linea di un’attivazione
diretta del percorso che va dall’udito, all’ascolto, all’interiorità. Ma insieme
con una singolare capacità, rispetto ad ogni altra modalità del semantico, di
lasciare all’interlocutore la decisione ultima circa il significato. Dal momento
che qui il legame con la relativa univocità della parola, del gesto, della
rappresentazione, si allenta in misura ad essi sconosciuta: pur senza perdere
l’energia e la ricca differenziazione dell’atto di comunicazione realmente
efficace. Il musicale indirizza il sentire verso il significato senza
raggiungerlo direttamente. E in questo modo, attenuata la distrazione del
significato, attiva la questione nel senso che deve essere riconosciuto al
significare.
Il musicale dunque, nella sua costitutiva
“ambiguità”, mette in gioco la dinamica interiore della decisione circa il senso
e il valore dell’esperienza dell’esprimere e del ricevere significati. Consente
per così dire di contemplarla in actu exercito, nell’ambito del suonare e
del risuonare. Naturalmente, il rapporto originario che l’elaborazione del
musicale intrattiene con l’universo semantico si ricostituisce tutte le volte in
cui tale associazione è intenzionalmente perseguita ed esplicitata: nel canto,
nella danza, nell’azione scenica. Sicché nuove potenzialità di reciproca
interazione vengono alla luce: polarizzandosi intorno a significati determinati
e direttamente riscontrabili nell’ambito dell’espressività tipica di quelle
figure determinate nel significare. Il musicale qui mette a frutto l’esperienza
acquisita nelle vicende della sua propria elaborazione: non solo conferendo
nuove e peculiari evidenze all’orizzonte della significazione in quanto tale; ma
anche connotando specificamente l’ambito dei significati che la parola, il gesto
e la rappresentazione identificano e demarcano. L’energia contestuale che in tal
modo si produce è in certo senso discreta ma potente; essa infatti può
rinforzare ma anche alterare il senso in cui i significati vengono iscritti
dalla parola, dal gesto e dalla rappresentazione.
2.2. La qualità teologale e la cura pastorale della musica-che-è il rito
liturgico
Le tesi qui abbozzate ci introducono alla questione
di fondo più specifica, relativa alla possibilità di un’interpretazione
teologica del musicale. Ma aprono anche, immediatamente, la questione pratica
dell’uso liturgico della musica: che è del resto il luogo in cui l’esplorazione
del nesso tra musica e religiosità appare, per il cristianesimo, tema
sicuramente necessario.
Di fatto, si possono ridurre a tre i motivi
tradizionali della riflessione cristiana sulla pertinenza teologica del “sacro
in musica”. Il primo fa perno sul motivo del servizio, della parola sacra, nella
linea di un certo prosciugamento dell’enfasi emotiva e di una limitazione
dell’autonomia costruttiva del fatto musicale. Ma anche nella direzione opposta,
intesa precisamente ad esaltare l’espressività della parola e a propiziarne
l’assimilazione personale e collettiva. Il secondo, fa perno sulla risonanza
dell’origine sacra che pervade in qualche modo la vita del mondo, precisamente
in quanto opera e creatura di Dio. In questa linea, la musica tende ad essere
interpretata come una delle forme della rivelazione naturale di Dio: sia nel
senso che in essa traspaiono la bellezza e l’armonia della sua opera
creatrice, sia nel senso che la musica esprime simbolicamente, nel modo più
diretto, la lode e la riconoscenza delle opere create. Un terzo, fa leva sulle
valenze antropologiche dell’esperienza musicale: come coefficiente intensivo
della comunicazione, come orizzonte emozionale propiziatore dell’assimilazione,
come fattore di enfatizzazione dei vincoli sociali e dei grandi sentimenti
collettivi. In quanto figure fondamentali dell’esperienza sociale, queste
dimensioni si ritrovano anche nell’esperienza comunitaria della fede: e dunque
la musica assume valore religioso e cristiano nel momento stesso in cui diventa
funzionale al loro orientamento teologale. L’articolazione di questi motivi,
nell’elaborazione dei quali la tradizione cristiana integra temi che le sono
certamente precedenti, potrebbe oggi avvalersi delle notevoli conquiste
analitiche e teoriche prospettate dall’evoluzione dell’indagine fenomenologica e
teorica sui vari aspetti del fatto musicale. Ma non è il caso, in questa sede,
di profilare le condizioni di questa evoluzione.
Ci limiteremo perciò, nell’ultimo tratto di queste
riflessioni, a disegnare il quadro schematico dei punti di intersezione fra la
dimensione musicale e quella rituale nell’ambito della pratica ecclesiastica
cristianamente orientata.
Frattallone, nel suo bel saggio sulla musica nella
liturgia, nota acutamente l’evoluzione semantica del riferimento a tale nesso
nella lingua del magistero autorevole di questo secolo. L’autore infatti
osserva che la sequenza delle espressioni che qualificano la funzione liturgica
della musica, disegna una significativa progressione nell’assegnazione del
livello che al musicale deve essere riconosciuto nell’ambito della celebrazione
cristiana: dall’“umile ancella” di Pio X, si procede alla “serva mobilissima” di
Pio XI, al “sacrae liturgiae quasi administra” di Pio XII, per giungere al
“munus ministeriale in dominico servitio” della recente costituzione conciliare
(R. Frattallone, Musica e
liturgia. Analisi dell’espressione musicale nella celebrazione musicale,
C.L.V. - Edizioni Liturgiche, Roma 1984, p. 43).
Il disegno delle nostre osservazioni può ben essere
inquadrato in questo assunto programmatico di Hameline, che è uno dei
pochi autori oggi impegnati intorno ad approfondimento storici, teorici e
pastorali di largo respiro: «Notre actuelle conviction nous porte à penser que,
dans le domaine de la Liturgie et du Culte, on ne saurait conceptuellement et
esthétiquement séparer les actions musicales (vocales, instrumentales,
orchestriques) de l’ensemble de l’écologie sonore de la célébration. Il ne s’agit
pas encore d’un niveau différencié d’intégration fonctionnelle ou opératoire
nécessaire à prendre en compte et à mesurer en son ordre, mais d’une instance
bien logiquement antérieure et véritablement fondatrice. La Liturgie, dans son
déroulement syntagmatique, ses actes de langage diversifiés en “actes
illocutoires”, ses compositions de lieu, ses actions rituelles, ses phases de
focalisation et de défocalisation, peut à bon droit étre considérée comme une
“musique portante”, à la fois dans ses structures et par l’importance qu’y
prennent d’emblée, et de bout en bout, les productions sonores (et leur
interruption). Ainsi, il me parait vain de vouloir engager dans la célébration
liturgique des actions musicales, simples ou élaborées, si le regime général de
l’entendre est défailliant, et s’il est rendu défailliant précisément par des
productions sonores inadéquates, et plus fondamentalement par une insensibilité
chronique à cette dimension de la Scène Rituelle» (J.-Y.
Hameline, Eléments d’anthropologie, de sociologie historique et de
musicologie du culte chrétien, in «Recherches de Sciences Réligieuses»
3 (1992) 397-424).
Nella linea del progressivo guadagno di un ruolo
integrante della musica nei confronti del rito cristiano, è in effetti vitale
l’apertura di un fronte ancora poco praticato. Intendo parlare di quella
attenzione che va anzitutto accordata alla musica-che-è il rito. E pertanto a
quella cura dello stile della celebrazione che si lascia ispirare dai valori
tipici del musicale già a livello dei ritmi della sua scansione temporale e
spaziale. Sarebbe qui da riprendere, con fecondo significato innovativo, la
lezione antica: secondo la quale la musica, prima e più ancora che arte dei
suoni (della loro composizione e della loro esecuzione), è disciplina
dell’ascolto, sapienza del ritmi vitali, cura della forma-parola, meditata
suggestione che deriva dall’esplorazione dei sottili e profondi vincoli che
intercorrono fra le sequenze temporali e le proporzioni spaziali dei movimenti e
dei gesti, nonché fra il regolato flusso dell’interiorità riflessiva e le
emozionanti trasgressioni del pathos vissuto. Scienza delle risonanze
dell’anima insomma, prima che artigianato dei corpi vibranti. È a questo
registro musicale del vissuto che la pratica musicale si ispira e si rivolge: ed
è dalla sua sostanza interiore che la musica trae la propria forza.
Se non esistesse un’interiore omologabilità musicale
dell’anima, l’elaborazione musicale del sonoro non avrebbe l’energia e il
pathos che invece possiede. Di qui si apre la possibilità di una regolata
sinergia fra il rituale e il musicale in grado di rinforzare e di esaltare la
densità simbolica della celebrazione in quanto tale. Ma un tale accordo, anche
nel suoi livelli più elementari e nelle sue modalità più semplici, deve essere
oggetto di cura affettuosa e competente. Non succede nulla di apparentemente
irreparabile se un canto dal ritmo totalmente inadatto accompagna la processione
dei fedeli che si reca all’altare per l’offerta o per la comunione. Ma la
lacerazione tra la densità simbolica dell’avvicinarsi all’altare e
dell’avvicinarsi al Signore, che ne viene inconsciamente assimilata, può
anche finire per diventare – se non altro – assai greve. Se il ritmo del canto e
il ritmo del cammino si distraggono a vicenda, c’è spazio per una serie di
reazioni a catena che bruciano la percezione del senso celebrato, con
effetti simbolici di lunga durata. Se la coscienza individuale deve difendere il
suo approccio all’altare dall’accompagnamento del canto, ne seguirà
inevitabilmente un’accentuazione della deriva individualistica del contenuto di
tale approccio. Se esso d’altronde è requisito dal canto, con andamento
alternativo al ritmo e al senso di quell’avvicinarsi, la coscienza ne rimuoverà
il senso simbolico: vivendo il cammino in termini puramente funzionali, e
accettando che sia il canto a deciderne estemporaneamente il contenuto emotivo.
Ugualmente, e al contrario, se l’approccio all’altare è confluivo, e viene
pubblicamente corretto da istruzioni verbali che regolano semplicemente
scompensi di viabilità, nessun canto sarà in grado di riscattare il disincanto e
lo sciupio di senso che in tal modo sono perpetrati. La combinazione
delle preghiere dell’offerta e della raccolta delle elemosine, può far perdere
il senso di entrambe: e in tal caso, qualsiasi canto aumenta semplicemente la
confusività dell’insieme che ne risulta: perché accade che tre (o anche più)
ritmi differenti si disturbino semplicemente a vicenda. Dove l’abitudine alla
volgarità di una pura economia funzionale del tempo e dei segni ha
privato questo momento di una qualsiasi importanza simbolica, lasciandogli al
più quella didascalica, che senso ha fare questione di quale canto è più adatto?
Per fare solo un altro esempio, tra i mille che si potrebbero esplorare.
E più in generale, chi può nutrire la
ragionevole speranza che una lettura banale, un’intonazione chioccia, un ritmo
privatistico, una compitazione sbriciolata nella proclamazione delle letture
bibliche possano rendere significativa l’accentuazione musicale – anche la più
elegante e pensata – di un tema, di una parola chiave, di un atteggiamento
simbolico in esse evocato? E viceversa, chi può seriamente pensare che il
solfeggio di un riflesso condizionato innescato dai bercianti decibels
dell’ecclesiastico volenteroso, o il languido “innesco a terrazze” di
strascicate melopee dell’assemblea, che il lungo uso ha privato di ogni forma,
possano condensare – anche dopo una proclamazione intensa e adatta dei testi –
la viva risonanza dell’assemblea alla parola (nel canto dell’alleluia o del
salmo, per esempio)?
La maggior parte di queste devastazioni si
depositano nell’inconscio, naturalmente: e quindi appaiono evidenti solo per chi
vuole avere occhi per guardarle (e orecchie per ascoltarle!). Ma i loro esiti
appaiono poi nelle molte forme di quella avvertita “impotenza” a conferire alla
musica della celebrazione l’importanza che merita. Per rimediare alla quale si
cercano poi patetici espedienti o si invocano cause esageratamente remote:
approdando infine alla consueta rassegnazione.
Una celebrazione priva di ritmo, di melos, di
affetti vitali, di tensione spirituale, ha in se stessa una musica scadente.
Nessun canto antico o moderno, nessuna melodia o armonia vocale e strumentale,
gliela restituiranno. Noi discutiamo, non senza eccessi di inopportuna
sofisticazione, sulla doverosa qualità estetica degli interventi canori e
strumentali (dico “interventi” perché semplicemente tali sono, purtroppo, nella
stragrande maggioranza dei casi, cioè essenzialmente “toppe”, seppure
eventualmente di stoffa pregiata) a proposito di una liturgia troppo spesso
totalmente priva di incanto. Ossessionata da preoccupazioni didattiche e
parenetiche, tiranneggiata dagli orari del servizio pubblico e afflitta
dall’inerzia del dovere da soddisfare; dove troppo spesso atti di parola, gesti,
silenzi, ritmi e forme della voce, tempi dello spirito e cadenze del suono, più
che “accadere” “cadono” dentro il contenitore-chiesa senza mostrare passo per
passo il loro ritmo interiore e la tensione spirituale corrispondente.
Esiste insomma la questione di una “estetica
spirituale” della celebrazione e della preghiera, ben più fondamentale e
disattesa, rispetto alla quale la questione degli interventi musicali è
variabile largamente dipendente. Il giudizio vale sul piano della realizzazione
(scelte, esecuzioni, modalità di impiego), ma anche sul piano dell’invenzione e
della composizione. A cominciare dai testi liturgici medesimi, che
auspicabilmente potranno a suo tempo essere rivisti, dopo il collaudo della loro
ortodossia e della loro coerenza, dal punto di vista della pronunciabilità,
della retorica, della poetica, della drammatica necessarie. E dunque della
“musicalità”, nel senso globale dell’antica sapienza. Ci sono espressioni
troppo irrigidite dalla forma di un’ortodossia adatta a un documento dottrinale
più che alla proclamazione, alla preghiera, alla contemplazione. Ci sono forme
del cursus che inibiscono letteralmente la pronunciabilità delle
orazioni nella forma della preghiera (spesso è semplicemente l’inerzia della
dipendenza dal latino che nuoce). Insomma la cura per il lessico, la retorica e
la poetica adatti alla celebrazione in atto è rimasta ancora largamente
disattesa. La struttura dei testi prescinde dal ritmo del momento in cui devono
essere pronunciati e dunque accadere. E pertanto non concorre a plasmarne
l’accadere. La questione musicale fondamentale della celebrazione è proprio
quella che riguarda il rapporto globale fra la partitura liturgica e la sua
esecuzione effettiva.
Naturalmente il
discorso è più agevole per le integrazioni previste e/o possibili (monizioni,
preghiere dei fedeli, canti ecc.). Esistono poi molte forme di compensazione che
dipendono appunto dall’esecuzione: e che dunque sono sin d’ora possibili (e
direi doverose). Ma in ogni caso, non è questione di tecniche, quanto di stile.
Rimane comunque fondamentale l’impegno dedicato alla valorizzazione spirituale
della trama simbolica istruita dai testi e indirizzata all’evento teologale che
deve essere realizzato dalla celebrazione Se manca la consuetudine al lavoro
culturale e spirituale sui testi biblici, sui testi liturgici, sui motivi
teologali, sulle caratteristiche specifiche della singola celebrazione, sulla
figura complessiva dell’esperienza spirituale che ogni volta la celebrazione
deve realizzare, la rete globale dei simboli non genera fermenti e motivi di
orientamento capaci di plasmare l’immaginazione musicale in modo non arbitrario
e convergente con le ragioni della celebrazione medesima. E quindi con la
vitalità dei suoi contenuti simbolici. È ovvio che questa tensione spirituale ha
da essere anzitutto attenzione propositiva del ministero e dei collaboratori più
sensibili (e competenti).
In un grembo musicale adatto, molti “ospiti” possono
essere, se non educati, indotti ad assimilare il clima spirituale e la
profondità teologale della partecipazione richiesta dalla preghiera e dal
sacramento. Chi può sottovalutare, per fare un solo allusivo esempio finale,
l’intensità con la quale si imprimerebbe l’immagine cristiana del legame fra
l’uomo e la donna esplorato mediante la parola, se il corso per i fidanzati
fosse concluso da una lectio musicalis del Cantico del Cantici elaborata
nella forma elegante, semplice e intensa, di una suggestiva Cantata o di
un breve Oratorio con il coro e magari l’orchestra? E se poi un motivo, o un
corale, fossero adattati e ritrovati nella celebrazione liturgica del proprio
matrimonio? Musica e teologia, musica e liturgia, è anche tutto questo. Chi si
sente di decidere che si tratta di un argomento teoricamente marginale o di un
lusso pastoralmente improponibile? E chi potrà ancora ingenuamente ridurlo alla
semplice questione di decidere “che cosa dobbiamo cantare oggi nella messa?”.
La restituzione
dell’estetica (musicale) della fede alla lieta consuetudine della sua pratica
corrente è un obiettivo culturalmente ed ecclesialmente difficile. Ma ci si può
sperare, se l’argomento sarà proposto alla generazione che si affaccia alla vita
e al ministero della Chiesa con la persuasione e l’ampiezza che esso realmente
merita.
Nota Bibliografica
Visto il tenore colloquiale dell’intervento originario, ho ritenuto di non
appesantire con note tecniche le considerazioni presentate. Per il lettore che
fosse interessato a un inquadramento anche bibliografico delle indicazioni
storiche e teoriche relative, mi permetto di rinviare ad alcuni miei scritti,
dove vengono recensite le elaborazioni estetiche e teologiche del tema che
attualmente sembrano più promettenti: Il teologico e il musicale, in
«Teologia» 10 (1985) 307-338; L’estetico per il sacro, in «La Scuola
Cattolica» 123 (1995) 621-623. Per quanto riguarda le tematiche
liturgico-pastorali del canto di chiesa o rituale: Il canto cristiano come
ascolto dell’altro, in «Rivista di pastorale liturgica» 74 (1987) 453-466;
Musica, teologia, liturgia, in «Studia Patavina» 37 (1990) 5-35; Vox
humana, vox instrumentalis, in «La Maison-Dieu» 194 (1993) 121-130.
Fonte : www.chiesacattolica.it
Questa relazione del Mons. Prof. Pierangelo Sequeri è stata pubblicata sul Notiziario dell’Ufficio Liturgico Nazionale, n. 8 (1998).
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