domenica 4 agosto 2019

GERUSALEMME : città contesa da israeliani e palestinesi di Maurizio Debanne




GERUSALEMME :
città contesa da israeliani e palestinesi
di Maurizio Debanne


Situata su una collina, lontana dal mare e senza fiumi che la attraversano, Gerusalemme non è stata, e non è, contesa per la sua importanza strategica ma per il suo valore e carattere religioso. La storia ha voluto che questa città divenisse santa per le tre religioni monoteistiche mondiali: Terra promessa per gli ebrei, teatro della missione redentrice di Gesù e sosta del viaggio mistico verso Allah di Maometto. La Bibbia ebraica si riferisce esplicitamente a Gerusalemme (per nome) circa 700 volte e con il nominativo di Sion (che propriamente indica il Monte del Tempio e, successivamente, viene usato per indicare Gerusalemme come città capitale e così probabilmente la Terra Santa nel suo insieme) 150 volte . Nella religione ebraica, a differenza da quanto avviene nel cristianesimo e nell’islam, la santità di un luogo non si misura in base agli avvenimenti che vi si possono essere verificati o alla persona che vi si può essere sepolta, ma al luogo stesso. Questo spiega come i siti sacri agli ebrei non abbiano reliquie. I cristiani tendono invece a dimostrare l’autenticità del carattere sacro di un luogo in base al criterio del ricordo dell’esatta localizzazione del sito sul quale sono stati compiuti atti di Gesù o altri santi. Per questo i cristiani considerano Luoghi Santi tutti quelli evangelici.
LE ORIGINI
Intorno a l'anno Mille a.C. David, originario di Betlemme, riunificò le dodici tribù d’Israele in un unico regno fissando la capitale a Gerusalemme. Scelse questa città molto probabilmente perché essa non aveva una storia di culto tra gli israeliti e rappresentava dunque il luogo adatto per la costituzione di un nuovo luogo sacro. Infatti, a differenza di Hebron, Gerusalemme non apparteneva a nessuna delle dodici tribù e pertanto poteva servire da base comune a tutte. Fu durante il regno di Salomone, figlio di David, che fu eretto il Tempio a Gerusalemme, ponendola di fatto al centro della coscienza nazionale e religiosa del popolo ebraico. Nel Tempio fu custodita l'Arca dell'Alleanza, santuario mobile che Mosè fece costruire su ordine del Signore per contenere le tavole della Legge ricevute sul Monte Sinai . Il Tempio fu costruito sul monte Moriah, un sito la cui storia, secondo la tradizione ebraica e mussulmana, inizia ai tempi di Abramo: per gli ebrei, sulla grande roccia situata alla sommità della Moriah, il patriarca sarebbe stato chiamato da Dio per sacrificarvi il figlio Isacco, avuto dalla moglie Sara; la tradizione mussulmana, invece ritiene che su quel sito lo stesso patriarca avrebbe dovuto immolarvi il figlio Ismaele, generatogli dalla schiava Agar. Il racconto biblico si sofferma a lungo sulla costruzione del Tempio che resterà il massimo monumento del regno di Israele sino alla sua distruzione. La struttura dell'edificio doveva avere un carattere essenzialmente tripartitico con un recinto esterno che delimitava un grande cortile scoperto dove venivano offerti i sacrifici e un edificio centrale, il santuario, che al suo interno racchiudeva il "santo dei santi", la cella contenente l'Arca dell'Alleanza. Nel 587 a.C. Gerusalemme fu conquistata dalle armate del Re caldeo Nabucodonosor che distrussero il Tempio e deportarono migliaia di ebrei in Babilonia, l’attuale Iraq. L’esilio durerà solo una cinquantina d’anni perché Ciro, il re dei medi e dei persiani, entrò vincitore in Babilonia nel 539 e l’anno successivo emanò un decreto che permise a tutti gli ebrei di poter fare ritorno in patria.
Solo nel 520 a.C si cominciò a lavorare alla costruzione di un secondo tempio che però non fu imperioso e solenne come il primo poiché non poteva più contenere l'Arca dell'Alleanza dispersa durante la distruzione del Tempio da parte dei caldei. Il dominio persiano ebbe termine nel 333 a.C. quando Gerusalemme cadde sotto i comandi di Alessandro Magno. Nel 63 a.C. cominciò il periodo romano con la conquista da parte di Pompeo che mise fine ad ogni parvenza di stato ebraico indipendente. Nel 66 a.C. scoppiò una violenta rivolta della popolazione ebraica contro i romani piegata nel 70 d.C. con la distruzione del secondo Tempio per mano di Tito . Nel 132 d.C. ci fu un'ultima grande sommossa degli ebrei contro i dominatori romani. L’insurrezione fu domata dall'imperatore Adriano che, per spezzare per sempre qualunque possibilità degli ebrei di riprendersi Gerusalemme, fece demolire nel 135 d.C. l’intera città sconvolgendone il tessuto urbano e comminando la pena di morte verso tutti gli ebrei che vi fossero tornati. Nel 313 d.C. a Roma il cristianesimo divenne religione di Stato e la madre di Costantino cominciò a costruire il Santo Sepolcro e a trasformare Gerusalemme in una città bizantina. Nel 638 subentrò la terza religione, l’islam. Gli arabi conquistarono Gerusalemme e dichiararono sacra alla loro religione l’intera area erigendo i loro santuari sulla Spianata dove era sorto il Tempio ebraico ma concessero, dopo cinquecento anni di esilio, agli ebrei di ristabilirsi nella città. Per i mussulmani Gerusalemme, dopo la Mecca e Medina, è il terzo luogo sacro dell’Islam per una tradizione apparsa alla fine del VII secolo proveniente da una nuova esegesi della XVII sura del Corano. Si identificava in Gerusalemme, e in particolare nella roccia del monte Moriah, il punto in cui avrebbe preso inizio il viaggio mistico di Maometto verso il cielo dove giunse al cospetto di Allah. Fu durante questo viaggio che a Maometto vennero rilevati i precetti e gli venne concessa la grazia della visione di Dio. Fu dunque costruita nel 691 la Cupola della Roccia, detta moschea di Omar, e il secolo successivo la moschea al Aqsa.


La Spianata delle moschee presenta oggi la forma di un trapezio leggermente irregolare: il lato occidentale è lungo 491 metri, l'orientale 462, il settentrionale 312, quello meridionale 281 ed è circondata da mura che la proteggono come uno scrigno. Il lato est e il lato sud coincidono con le mura della città vecchia. Il lato occidentale è, per un tratto almeno, costituito dal muro di contenimento della Spianata del tempio di Gerusalemme, e risale al tempo di Erode il grande. Questo tratto, salvatosi dalla distruzione operata da Tito nel 70, è tutto ciò che attualmente rimane visibile dell'antico Tempio ebraico e viene chiamato dagli ebrei “Muro del Pianto”. Ma per i mussulmani è parte ineliminabile e portante dell’al-haram ash-Sharif ( “nobile recinto sacro” ).
Nel 1099 Gerusalemme fu riconquistata dai crociati che trasformano la cupola della roccia in un santuario cristiano, il Templum Domini, e la moschea al Aqsa in dimora reale. Ma la città tornò all'islam per mano di Saladino nel 1187 divenendo poi una provincia dell'Impero ottomano nel 1517. Durante gli ultimi decenni della dominazione ottomana la città assistette ad un aumento progressivo della popolazione ebraica che con la Dichiarazione di Balfour del 1917 ebbe una ulteriore impennata. Nel 1860 vivevano a Gerusalemme 12.000 persone, di cui la metà ebrei. Nel 1892 la popolazione era totale della città era salita a 42.000 persone: gli ebrei erano 26.000. Infine nel 1922 gli ebrei erano diventati 34.000 a fronte di un totale della popolazione pari a 63.000. Questo forte incremento demografico di carattere ebraico a Gerusalemme, e in generale in tutta la Palestina sotto il mandato britannico, accentuò gli scontri tra le diverse comunità. L’abitudine degli ebrei di pregare al Muro del Pianto era ben consolidata anche se la proprietà di tutta l’area e dell’intero quartiere magrebino, adiacente al Muro occidentale, erano da secoli di proprietà di un Wafq costituitosi nel XIII secolo . Durante il dominio ottomano le autorità non emisero un preciso decreto sulla questione limitandosi a prendere dei singoli provvedimenti di scarsa importanza. Ma sotto il mandato britannico l’esigenza di una regolamentazione più precisa divenne indispensabile. Dopo gli scontri per il Muro del Pianto del 1929, l’anno successivo i britannici cercarono di calmare gli animi costituendo la Wailing Wall Commission. Questa stabilì che il Muro del Pianto era parte integrante dell’al-haram ash-Sharif e di esclusiva proprietà islamica. Agli ebrei fu però riconosciuto il libero accesso al sito in ogni ora del giorno anche se fu consentito loro di portare con sé solo pochi oggetti di culto le cui dimensioni furono addirittura fissate in un regolamento.
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE
Di fronte al radicalizzarsi del conflitto i britannici, non sapendo più come gestire la situazione, d'altronde l'aver preso in passato una serie di impegni diplomatici strumentali e contraddittori ispirati a una rischiosa imprudenza non aveva facilitato la loro missione di potenza mandataria, deferirono il futuro della Palestina alle Nazioni Unite . Nel maggio del 1947 si svolse una sessione speciale dell'Assemblea Generale dell’Onu che si aprì con una importantissima dichiarazione dell'Unione Sovietica in favore della nascita di uno stato ebraico.
Così, dopo la dichiarazione dello “Yom Kippur” dell'anno precedente da parte di Truman, nella quale il presidente degli Stati Uniti definiva la spartizione della Palestina l’unica soluzione possibile, le due massime potenze mondiali concordavano su come avviare il processo di decolonizzazione in Medio Oriente . Fu costituito un Comitato speciale delle Nazioni Unite sulla Palestina (UNSCOP) formato da 11 stati neutrali con lo scopo di trovare una sintesi alle richieste degli ebrei degli arabi palestinesi . Gli ebrei non cercarono di ostacolare i lavori della Commissione, anzi vi parteciparono attivamente anche se in modo scorretto collocando dei microfoni nelle stanze del Comitato.
Gli arabi, invece, non capendo che le decisioni dell'UNSCOP sarebbero state decisive per il futuro assetto della Palestina, decisero di boicottare i colloqui.
Non ci mise molto tempo l’UNSCOP a comprendere che le rivendicazioni degli arabi e degli ebrei, pur possedendo entrambe validità, erano inconciliabili, e che quindi, tra tutte le proposte avanzate, la spartizione assicurava la soluzione più realistica. Il piano della Commissione prevedeva la spartizione della Palestina in uno stato arabo e uno ebraico, collegati però da una unità economica. Agli arabi, che rappresentavano il 65% della popolazione fu assegnato il 43% del territorio, allo stato ebraico toccò il 56%, di cui circa la metà era costituito dal deserto del Negev. Nel 1947 vivevano in Palestina circa 1.300.000 arabi e 620.000 ebrei che in base al piano Onu sarebbero stati così divisi: lo stato ebraico sarebbe stato composto da 500.000 ebrei e 407.000 arabi mentre quello arabo sarebbe stato abitato da 725.000 arabi e 10.000 ebrei. Bisogna aggiungere che gli ebrei, in nessuno dei sottodistretti a loro assegnati, possedevano la maggioranza della terra e in uno solo, quello di Tel Aviv, la maggioranza della popolazione. Per quel che riguardava Gerusalemme, l’UNSCOP propose l’internazionalizzazione. La città e i suoi dintorni, pari allo 0,65% dell’intera Palestina mandataria, sarebbero stati costituiti in un corpus separatum, amministrato direttamente dalle Nazioni Unite. I suoi confini sarebbero corsi al nord fino a Shufat, a sud fino a Betlemme, a ovest fino a Ein Karem e a est fino ad Abu Dis. Questa enclave avrebbe ospitato 100.000 ebrei, 33.700 arabi mussulmani e 31.300 arabi cristiani. Nella città vecchia vivevano nell’anno precedente alla spartizione 21.000 persone: 10.000 mussulmani, 7.000 cristiani e 4.000 ebrei.
In sostanza la città tre volte santa, dopo la sua neutralizzazione e demilitarizzazione, sarebbe divenuta un'enclave internazionalizzata governata da un consiglio di amministrazione fiduciaria con a capo un Governatore che avrebbe avuto competenza su tutte le diatribe che sarebbero eventualmente sorte tra le varie comunità religiose circa i Luoghi Santi, sia nel corpus separatum che nel resto della Palestina mandataria. La protezione dei siti sacri sarebbe stata garantita da uno speciale corpo di polizia, a cui non avrebbero potuto prendervi parte né gli ebrei tanto i palestinesi. Il piano dell’UNSCOP previde comunque la possibilità che gli abitanti di Gerusalemme, dopo 10 anni, avessero avuto la facoltà, tramite un referendum, di modificare lo status della città.
Il 29 novembre 1947, con la Risoluzione n.181, l'Onu approvò con 33 voti a favore, 13 contrari e 10 astenuti la divisione della Palestina. Tra i maggiori sostenitori di questa soluzione spiccava la Santa Sede, la quale considerava un regime giuridico internazionale l'unico atto in grado di proteggere i Luoghi Santi cristiani. Il consenso della Chiesa cattolica contribuì all’approvazione del progetto da parte di tutte le nazioni filo cristiane. La Lega araba respinse con forza la spartizione sostenendo che nessuna parte della Palestina potesse essere concessa agli ebrei. I dirigenti sionisti accolsero invece con favore il voto dell’Onu in quanto sancì per la prima volta, inequivocabilmente, il loro diritto a costituire uno stato ebraico in Palestina. Gli ebrei però non gradirono l’internazionalizzazione di Gerusalemme ma questo non mutò il loro sostegno al piano Onu perché erano sicuri, costituendo nella città santa la maggioranza della popolazione, di poterne cambiare lo status con il referendum previsto a 10 anni dalla spartizione.
La realtà seguì però un percorso diverso. Dopo la prima guerra arabo israeliana, Gerusalemme fu divisa in due da muri e fili spinati: la parte occidentale ricadde sotto la sovranità dello Stato di Israele, la parte orientale, comprensiva della città vecchia, sotto la Giordania. La formula del corpum separatum venne comunque riproposta dalle Nazioni unite con due risoluzioni, la 194 dell’11 dicembre del 1948 e la 303 del 9 dicembre 1949, ma sul terreno l’internazionalizzazione era divenuta impraticabile. Vani furono anche gli appelli di papa Pio XII che in due encicliche, In multiplicibus curis (24 ottobre 1948) e Redemptoris nostri (15 aprile 1949), descrisse l’internzazionalizazione di Gerusalemme unica forma possibile di amministrazione dei luoghi santi.
Gli accordi di armistizio tra la Giordania e Israele prevedevano il diritto degli ebrei a recarsi al Muro del Pianto e al cimitero ebraico sul monte degli ulivi ma in realtà i giordani non permisero agli israeliani l’accesso a pretesto del fatto che Israele aveva negato ai profughi palestinesi di poter fare ritorno alle proprie case. L’intransigenza giordana divenne presto scempio: il cimitero sul Monte degli ulivi venne profanato e con le 60.000 pietre tombali si costruirono strade o furono utilizzate per altre opere urbanistiche . Dal canto suo, Israele trasferì i ministeri e la Knesset a Gerusalemme, dichiarando nel 1950 la città capitale dello stato ebraico. La mossa non venne però riconosciuta in ambito internazionale, sia gli americani che gli inglesi non spostarono le loro ambasciate da Tel Aviv.
LA GUERRA DEI SEI GIORNI E LA COLONIZZAZIONE EBRAICA DI GERUSALEMME EST
Il 7 giugno del 1967, durante la guerra dei Sei Giorni, le truppe israeliane occuparono la parte orientale di Gerusalemme . Gli ebrei poterono finalmente ritornare a pregare liberamente al Muro del Pianto ma, contemporaneamente, il governo israeliano rassicurò i credenti di fede cristiana e mussulmana dichiarando che avrebbe garantito il libero accesso ai fedeli di ogni religione ai luoghi di culto. Inoltre, sotto la spinta del ministro della Difesa Moshe Dayan, fu deciso di lasciare l’amministrazione della Spianata delle moschee in mano ai leaders spirituali mussulmani nel tentativo di non scatenare la rabbia del mondo islamico per l’occupazione del settore orientale di Gerusalemme . Spinti dalla forte emozione gli israeliani rimossero le barriere di separazione interposte tra le due parti della città dopo la prima guerra arabo israeliana in modo da creare di fatto un’unica Gerusalemme ebraica.
Il 10 giugno le ruspe israeliane cominciarono a radere al suolo il quartiere medievale Mughrabi nella Città Vecchia cancellandolo completamente nel giro di quattro mesi con la distruzione di 135 case abitate da circa 650 mussulmani . L’operazione aveva lo scopo di realizzare una grande piazza di fronte al Muro occidentale che permettesse ad un maggiore numero di ebrei di pregare di fronte al Muro del pianto . Il 27 giugno 1967 la Knesset approvò una serie di leggi che estesero il diritto e l'amministrazione israeliani su Gerusalemme Est ampliando i confini municipali di Gerusalemme da 38 km2 a 108 km2 e portando la popolazione della città ad un totale di 263.000 persone: 197.000 ebrei, 55.000 mussulmani e 11.000 cristiani. L’obbiettivo del provvedimento fu annettere il maggior numero di terra ebraica e contemporaneamente escludere dalla municipalità i luoghi abitati dagli arabi palestinesi come le città di Betlemme, Beit Jala e Beit Sahur suscitando la forte protesta dei partiti religiosi.
La prima risposta della comunità internazionale alle misure espansionistiche di Israele giunsero una decina di giorni dopo la conclusione della guerra dall’Assemblea generale dell’Onu con l’adozione della risoluzione 2253 ES-V. Il testo richiedeva a Israele di annullare tutte le misure prese dall’inizio dello scoppio dell’ultimo conflitto e di attenersi allo status quo. La risoluzione fu approvata con 99 voti favorevoli, tra cui quelli della Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica. Nessun paese votò contro, solo gli Stati Uniti si astennero . Il Consiglio di Sicurezza si occupò della questione il 22 novembre 1967 adottando la discussa risoluzione 242 che - come si è visto - richiedeva, nella versione inglese, il ritiro delle forze armate israeliane “from territories occupied in the recent conflict” mentre in quella francese il ritiro doveva avvenire “des territoires”, cioè da tutti i territori occupati durante l’ultimo conflitto. Le Nazioni Unite riuscirono a trasformare in questo modo un’iniziativa di pace in un ulteriore terreno di conflitto.
Sul terreno Israele continuò la sua politica di annessione spingendo il Consiglio di Sicurezza ad adottare una nuova risoluzione, la numero 252 del 21 maggio 1968, con la quale si ribadì che tutte le azioni legislative e amministrative prese unilateralmente non sarebbero state considerate legittime dalle Nazioni Unite. Di fronte al rifiuto di Israele a conformarsi alle risoluzioni fin allora adottate, il Consiglio di Sicurezza reagì approvando tre nuove risoluzioni di condanna a dimostrazione della sua totale incapacità di affrontare alla radice il problema. La prima, la numero 267 del 3 luglio 1969, fu votata anche dagli Stati Uniti, da poco sotto l’amministrazione Nixon. La seconda, la numero 465 fu adottata il 1°marzo 1980 e la terza, la numero 476, il 30 giugno dello stesso anno. In tutti e tre i testi si chiedeva allo stato ebraico lo smantellamento degli insediamenti e di astenersi da atti suscettibili di alterare il carattere geografico, demografico e storico di Gerusalemme. Il 30 luglio 1980 arrivò la risposta politica di Israele: la Knesset promulgò una legge di rango costituzionale che proclamava Gerusalemme indivisa la capitale dello Stato di Israele. I confini non vennero modificati, né l’amministrazione della città subì mutamenti, l’obbiettivo era chiudere definitivamente la partita sulla città santa. Il Consiglio di Sicurezza diede ulteriore prova della sua impotenza votando una nuova risoluzione – la numero 478 del 20 agosto 1980 – nella quale si condannava lo Stato ebraico di voler mutare lo status della città. L’accerchiamento ebraico intorno a Gerusalemme si concluse nel 1997 con la progettazione sotto il governo conservatore di Netanyahu, di un nuovo quartiere-insediamento sulla collina di Har Homa, al sud-est della città. Furono espropriati una sessantina di ettari dai vicini villaggi arabi per la costruzione di 6.500 appartamenti per 30.00 famiglie, tutte rigorosamente ebree.
CAMP DAVID: UN VERTICE FALLITO PER GERUSALEMME
L’11 luglio del 2000 il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton convocò un vertice trilaterale con israeliani e palestinesi a Camp David nella speranza di concludere il proprio mandato con uno storico accordo di pace che avrebbe messo la parola fine al conflitto mediorientale. I tempi però non si dimostrarono maturi . L’approccio differente delle due delegazioni, e dei due leaders in particolare, non agevolò i colloqui. Mentre gli israeliani volevano procedere punto per punto, i palestinesi, ancor prima di negoziare, avrebbero voluto vedersi riconoscere dalla controparte la piena sovranità su Gerusalemme Est. Arafat insisteva che bisognasse rispettare la legalità internazionale ai sensi della quale Gerusalemme Est, comprensiva della Città Vecchia, è intesa come territorio occupato. Barak, infrangendo un vecchio e consolidato tabù israeliano, accettò la divisione della città santa ma era disposto a concedere la piena sovranità palestinese solamente per i quartieri situati a nord-est e sud-est di Gerusalemme permettendo così ai palestinesi di costituire nel villaggio di Abu Dis la capitale del loro futuro Stato.
Nel tentativo di trovare una sintesi tra le due richieste, gli americani formularono “soluzioni creative” attingendo all’accordo Beilin-Abu Mazen . Clinton, capendo che la partita si giocava intorno allo status della Città Vecchia, propose alle parti di dividerla in due: ai palestinesi il quartiere mussulmano e cristiano, agli israeliani il muro occidentale e i quartieri ebraico ed armeno. Sulla Spianata sarebbe potuta sventolare la bandiera palestinese in riconoscimento di una “sovranità simbolica” ma non effettiva . Clinton assicurò Arafat che lo stesso tipo di sovranità sarebbe valso per le zone al di fuori delle mura, come i distretti Sheikh Jerrah, Salah a-Din, alle quali Barak avrebbe concesso una maggiore indipendenza in termini di amministrazione municipale.
Arafat bocciò questo piano perché, a suo giudizio, non riconosceva Gerusalemme Est come capitale dello Stato palestinese. Il presidente Clinton elaborò allora una nuova proposta: la Spianata delle moschee sarebbe rimasta sotto la sovranità israeliana ma la sua gestione sarebbe stata affidata al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e al Marocco, in quanto presidente permanente della “Commissione Gerusalemme” degli Stati islamici. La delega all’Onu assicurava ai palestinesi di non sottostare ad un’autorità israeliana. Ma Arafat rifiutò anche questa proposta: non voleva essere ricordato dal mondo arabo-mussulmano come colui che aveva svenduto la Spianata delle moschee.
Clinton non si arrese elaborando una nuova proposta che avesse come principio cardine una definizione “verticale” della sovranità: ai palestinesi sarebbe stata riconosciuta la sovranità su quanto si trovava “sopra” il suolo della Spianata, agli israeliani la sovranità su quanto si trovava “sotto” il suolo della Spianata, cioè le rovine del secondo Tempio . Ma nemmeno queste condizioni riuscirono ad evitare il fallimento delle trattative a cui gli americani attribuirono la responsabilità ad Arafat. Queste le parole del presidente Bill Clinton nella prima apparizione alla stampa: “Abbiamo fatto progressi sulle questioni principali e su alcune di esse i progressi sono stati sostanziali. I negoziatori palestinesi hanno lavorato sodo su un buon numero di questioni. Credo che a questo punto sia però corretto dire che, forse perché si è preparato di più, forse perché ci ha pensato di più, il primo ministro Barak ha fatto più passi avanti rispetto al presidente Arafat, specialmente per quanto riguarda la questione di Gerusalemme. I miei commenti dovrebbero essere presi per quello che sono, cioè non tanto una critica al presidente Arafat, poiché i negoziati sono molto difficili e non sono stati mai tentati prima, quanto un elogio per Barak. Era venuto qui sapendo di dover compiere passi coraggiosi e lo ha fatto; dovreste comprendere che quello che sto dicendo qui è più un apprezzamento nei suoi confronti che non una condanna della posizione palestinese”.
Ancora più esplicito nell’affibbiare la responsabilità del fallimento ad Arafat fu il premier israeliano Barak: “Arafat temeva di prendere decisioni storiche richieste per porre fine al conflitto. Sono state le posizioni di Arafat su Gerusalemme che hanno impedito la conclusione di un accordo. Noi avevamo in mente, e le nostre idee sono state illustrate in questa direzione, di rendere Gerusalemme più grande e più forte che mai nella storia, di annettere alla città varie zone in Cisgiordania, oltre il confine del 1967, come Maale Adumin, Givat Zeev e Gush Etzion. In cambio avremo dato la sovranità ai palestinesi su alcune città o piccole aree palestinesi che furono annesse Gerusalemme subito dopo il 1967. Sono state discusse queste idee, ma poiché il summit si svolgeva secondo il principio “Non viene accettato nulla fino a quando non sarà tutto concluso”, anche queste idee non sono più valide” . Forte dell’appoggio dell’intero mondo arabo, Arafat respinse ogni accusa. Il presidente palestinese sostenne di essere stato invitato a Camp David non per negoziare ma semplicemente per accettare o meno le proposte israeliane già concordate con gli americani. Un vero e proprio diktat, secondo Arafat. Dal fallimento di Camp David nacquero comunque due nuove proposte, anch’esse però destinate al fallimento. Nella prima, il presidente egiziano Mubarak propose di rinviare a 5 o 10 anni la soluzione definitiva della questione di Gerusalemme e nel frattempo israeliani e palestinesi avrebbero convissuto in una città unita, ma con due amministrazioni distinte. Nella seconda, gli americani lanciarono una nuova “soluzione creativa” che prevedeva la divisione della Spianata delle moschee in 4 sezioni: il piazzale, le due moschee, il muro occidentale e il sottosuolo, ognuna con diverse graduazioni di autorità per ebrei e palestinesi. Entrambe le proposte incontrarono, anche per via del loro contenuto poco chiaro, un netto rifiuto.
Con questa ultima proposta si concludono i colloqui e i tentativi di pace e si aprono le porte alla seconda intifada che esplose il 28 settembre del 2000. Fu originata dalla visita provocatoria del leader del Likud, Ariel Sharon, alla Spianata delle moschee accompagnato da circa 1.000 poliziotti e uomini della sicurezza. La visita al Monte del Tempio intendeva suffragare la sovranità israeliana sul luogo sacro, oggetto di un interminabile contesa. Il giorno seguente la “passeggiata” Jibril Rajoub, capo della sicurezza in Cisgiordania, intervistato dal quotidiano israeliano Jerusalem Post, mise in guardia gli israeliani sulle inevitabili conseguenze del fatto: “I tumulti questa volta non saranno circoscritti alla città di Gerusalemme, ma si espanderanno in ogni angolo dei Territori e accenderanno aspre reazioni anche nei paesi arabi. I palestinesi non cercheranno di placare le sommosse, perché esse sono generate da un atto di aperta prevaricazione” . In soli due giorni di scontri tra i palestinesi, non più armati di soli sassi come nella prima intifada, e le forze di sicurezza israeliane morirono decine di persone.
MAI TANTO VICINI ALL’ACCORDO COME A TABA
Malgrado il perpetuarsi delle violenze i negoziati continuarono faticosamente ad andare avanti tra l’ottobre 2000 e il gennaio 2001. Il 16 e il 17 ottobre, a Sharm el- Sheikh, venne convocato un vertice al quale presero parte, oltre alle delegazioni israeliana e palestinese, il presidente degli Stati Uniti Clinton, il re giordano Abdallah, il presidente egiziano Mubarak e il segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan. Barak e Arafat, pur non firmando alcun accordo, si impegnarono a far cessare gli scontri e accettarono l’invio di una missione americana, guidata dall’ex senatore Mitchell, che avrebbe indagato sugli eventi dell’intifada . Alla Knesset intanto, il 27 novembre del 2000, passò a maggioranza schiacciante (84 voti contro 19) una legge di rango costituzionale che impedisce ogni cessione di sovranità sulla parte orientale di Gerusalemme . La legge non fu però da ostacolo al rilancio delle iniziative di pace, il tabù sciolto da Barak a Camp David rimaneva valido. Il 23 dicembre Clinton, il cui mandato sarebbe scaduto il 20 gennaio 2001, convocò le parti alla Casa Bianca per annunciare le sue nuove proposte per una risoluzione del conflitto . Il Piano prevedeva la cessione del 94-96% della Cisgiordania alla sovranità palestinese e l’evacuazione della maggior parte degli insediamenti israeliani. Il territorio annesso da Israele sarebbe dovuto essere compensato da uno scambio di terre in ragione dell’1-3%. Una forza internazionale, con una presenza militare israeliana per un periodo tra i tre e i sei anni, sarebbe stata dispiegata lungo la valle del Giordano. Per quanto riguarda Gerusalemme, il principio generale era una spartizione in base a criteri etnici: le zone arabe sotto la sovranità dei palestinesi, quelle ebraiche sotto la sovranità israeliana. Questo principio sarebbe valso anche per la Città Vecchia. Clinton era convinto che per la Spianata delle moschee/Monte del Tempio “le divergenze non sono da ricondurre all’amministrazione pratica, ma alle questioni simboliche implicate dalla sovranità e alla necessità di trovare un modo per assicurare rispetto alle credenze religiose di entrambe le parti” . Per aggirare l’ostacolo “simbolico”, il presidente americano suggerì la seguente spartizione: sovranità palestinese sull’al-haram ash-Sharif e sovranità israeliana sul Muro del Pianto e sulla zona del “Santo dei Santi”, ossia l’area tra le due moschee.
Di ritorno a Tel Aviv la delegazione israeliana era entusiasta e certa che l’accordo fosse imminente. Barak decise di accettare il “Piano Clinton” come base per le trattative ma volle che Arafat facesse altrettanto.
Da Gaza il presidente palestinese rispose a Clinton con una lettera nella quale chiedeva maggiori garanzie e spiegazioni sulle sue proposte: “Ho bisogno di risposte chiare per un certo numero di domande riguardanti la percentuale di territori che sarebbero annessi e scambiati, la loro esatta localizzazione, la precisa demarcazione del Muro del Pianto, i suoi confini e la sua estensione, le conseguenze che ciò avrebbe per il principio di sovranità palestinese completa sull’al-haram ash-Sharif.
Con la mediazione egiziana partirono subito dei colloqui preparatori che portarono ai negoziati di Taba, iniziati il 21 gennaio 2001 e conclusisi il 27 dello stesso mese. Nessun americano fu presente al vertice perché la nuova amministrazione guidata dal repubblicano Gorge W. Bush non considerava allora il Medio Oriente tra le sue priorità in politica estera. C’era l’Unione europea con il suo inviato speciale per il Vicino Oriente Moratinos. Per la risoluzione del problema di Gerusalemme, le due delegazioni si ispirarono ai parametri di Clinton basati sulla spartizione della sovranità secondo il “criterio etnico”. I palestinesi dichiararono di essere pronti a discutere le richieste israeliane relative agli insediamenti ebraici a Gerusalemme Est costruiti dopo il 1967 ma esclusero categoricamente la possibilità di far rientrare sotto la sovranità israeliana gli insediamenti Maale Adumin e Givat Zeev, posti al di fuori della municipalità. Le parti si dichiararono inoltre disponibili all’idea di una “città aperta” capitale di due stati: Yerushalayim di Israele e Al-Qods dello Stato di Palestina.
Le trattative questa volta non si arenarono sul destino di Gerusalemme, come a Camp David, ma sul problema dei rifugiati palestinesi . I colloqui terminarono con una dichiarazione congiunta in cui si ammetteva di non essere giunti a un accordo ma al contempo Abu Ala e Ben Ami affermarono che comunque “erano stati fatti significativi passi in avanti e che l’accordo non era mai stato così vicino”. Il giorno successivo, il 28 gennaio, Barak decise di interrompere i colloqui con i palestinesi e di dedicare le settimane rimanenti alla sua campagna elettorale, il processo di pace era sospeso a tempo indeterminato. Con la vittoria schiacciante di Sharon, la più netta nella storia democratica di Israele – 62,4% dei voti contro il 37%,6% di Barak, anche se votarono solo il 59,1% degli aventi diritto - , e con la progressiva perdita di autorevolezza di Arafat, il treno della pace aveva finito le stazioni a disposizione.





L'articolo di Maurizio Debanne "Gerusalemme: città contesa da israeliani e palestinesi" è stato pubblicato il 24/11/2004 sul websito www.paceinmedioriente.it







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