IL MISTERO PASQUALE
Il Signore risorto vita
della comunità
nella potenza dello
Spirito
di Fabio Ciardi
La koinonia ecclesiale trova il suo
fondamento nella partecipazione alla koinonia divina e l'evento pasquale è il
passaggio tra la koinonia trinitaria e quella ecclesiale.
In effetti, la storia delle origini della
Chiesa ha mostrato che l'umanità nata da Cristo è una umanità riconciliata,
riunita.
Luca ci ha presentato la comunità
di Gerusalemme come la prima realizzazione della vita trinitaria in terra.
L'intero libro degli Atti, quale libro della Chiesa, è la narrazione della
progressiva dilatazione della comunione, quale tratto caratterizzante la nuova
umanità. A Gerusalemme vi è la ricomposizione dell'unità tra tutti in un'anima
sola e un cuore solo. La comunione appare come un dato fondamentale e
costitutivo dell'esistenza cristiana. L'armonia umana come dato originario
dell'umanità, poi lacerata dall'egoismo, dalla gelosia, dall'incapacità di mutuo
intendimento - quale frutto della disunità con Dio causata dal peccato - è
ristabilita nella novità dell'unità operata da Cristo.
Paolo collega esplicitamente la
koinonia fraterna tipica della comunità cristiana con la redenzione. L'Apostolo,
attraverso la predicazione della buona novella, rende noto che se ora non siamo
più popoli stranieri e nemici, lo dobbiamo al fatto che Cristo ci ha
riconciliati "per mezzo della morte del suo corpo di carne" (Col 1, 22). "Egli
infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo
il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per
mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare
in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare
tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se
stesso l'inimicizia" (Ef 2, 14-16). Nel suo mistero di morte e risurrezione,
Cristo ha ricreato l'unità spezzata dal peccato: unità degli uomini col Padre e,
conseguentemente, unità degli uomini tra di loro. La riconciliazione con Dio (cf.
2 Cor 5, 18-21) frutta la riconciliazione fraterna.
Sulla croce egli ha tutto
ricapitolato (cf. Ef 1, 10). La realtà dell'incarnazione e la radicalità della
discesa hanno consentito al Figlio di Dio di assumere tutto ciò che è umano,
rendendolo solidale con la nostra storia e con tutte le sue connotazioni di
drammaticità e di peccato. Di conseguenza, nella sua ascensione può trascinare
tutto con sé perché tutto gli appartiene, e diventare così "pleroma" (cf. Ef 4,
7-10). La croce si colloca al cuore di questo itinerario del Cristo perché
proprio lì, sulla croce, egli ha consumato il rapporto di unità profondo con
l'umanità. Nell'innalzamento sulla croce - che è insieme morte, risurrezione e
ritorno al Padre - egli attrae tutti a sé (cf. Gv 12, 32), facendo tutti uno fra
loro. I Padri e i mistici hanno letto il mistero che lì si stava consumando in
chiave di mistico sposalizio tra il Cristo Sposo e l'umanità-Chiesa sposa.
Innestati in Lui mediante il
battesimo, che ci introduce nel suo mistero di morte e risurrezione e ce lo
comunica, formiamo il suo corpo. La comunione con Cristo si risolve nella
Chiesa-comunione. La comunione è quindi il frutto dell'opera redentrice di
Cristo: nel riconciliarci con Dio, ci ha riconciliati gli uni con gli altri.
In una Chiesa-comunione, frutto
del mistero pasquale, la comunità religiosa appare come segno eloquente di
quanto la Pasqua di Cristo ha operato. In essa, mediante la consacrazione, si
radicalizza l'inserimento in Cristo. La consacrazione religiosa in effetti, come
ha insegnato il Concilio Vaticano II, si colloca nella linea di proseguimento
della consacrazione battesimale e come sua radicalizzazione (cf. PC 5a). La vita
religiosa vuole semplicemente "poter raccogliere più copiosamente il frutto
della grazia battesimale" (LG 44a). Essa si presenta tutta incentrata sul
mistero pasquale, in quanto vita di sequela radicale di Cristo e partecipazione
al suo stesso destino. Nel documento della SCRIS che sintetizza gli Elementi
essenziali dell'insegnamento della Chiesa sulla vita religiosa, leggiamo al
riguardo: "La consacrazione religiosa stabilisce una particolare comunione tra
il religioso e Dio e, in lui, tra i membri di uno stesso Istituto. Questa
comunione è l'elemento basilare che costituisce l'unità della famiglia
religiosa". Dopo aver elencato i fattori di ordine sociologico che
contribuiscono a costruire e rafforzare l'unità, continua dicendo che "suo
fondamento, tuttavia, è la comunione in Cristo stabilita dall'unico carisma
originario. La comunione affonda le sue radici nella stessa consacrazione
religiosa ( . . . )" (n. 18).
Poiché la comunità religiosa è
una comunità pasquale, per cogliere più intimamente il mistero profondo che la
anima converrà proseguire nell'approfondimento dell'evento pasquale. Di esso
cercheremo di cogliere due aspetti in particolare: l'annientamento (kenosis) di
Gesù in croce e la sua presenza di Risorto.
LA KENOSI RIVELAZIONE DELL'ALTERITÀ E
DEL RAPPORTO DI UNITÀ
La teologia contemporanea ha trovato
nell'evento pasquale il luogo privilegiato per la comprensione del mistero
trinitario. In esso infatti, come abbiamo precedentemente accennato, Dio si
rivela in pienezza come distinzione e unità di Persone e si partecipa
all'umanità fatta Chiesa. Occorrerà quindi che la comunità religiosa, così come
ogni altra espressione di comunione ecclesiale, ritorni continuamente a
immergersi nel mistero del Cristo che muore sulla croce per entrare, attraverso
di esso, nel dinamismo della koinonia.
Il morire di Cristo sulla croce
apre l'intelligenza del mistero di Dio come relazione d'amore, mostrando, nello
stesso tempo, il dinamismo di tale amore. Ci siamo già soffermati, nel capitolo
precedente, sulle relazioni intratrinitarie che fondano quelle ecclesiali e le
modellano. Ma non abbiamo ancora approfondito il modo con cui le relazioni
avvengono all'interno della Trinità, e, conseguentemente, all'interno della
comunità umana. Ora, è proprio a partire dal mistero pasquale che l'agape
trinitaria, in quanto struttura di reciprocità, mostra di possedere una
caratterizzazione particolare: quella kenotica. La kenosi cristologica rivela la
dinamica dell'agape trinitaria, facendo intuire che il momento della kenosi è
implicito e intrinseco al concetto stesso di agape.
L'interpretazione del Mysterium
Paschale, offerta ripetutamente da von Balthasar e divenuta un assunto della
teologia contemporanea, è che "l'ultimo presupposto della kenosi è l'altruismo
delle Persone (come pure relazioni) nella vita intratrinitaria dell'amore".
Gesù ha mostrato il modo e la
misura dell'amore, dell'unico amore che Gesù può vivere, ossia quello
trinitario, sulla croce, dove "si è annientato" (Fil 2, 7). Ha vissuto
l'esperienza dell'annientamento, della kenosi, fino a sperimentare l'abbandono
del Padre, espresso nel grido: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Mc
15, 34). In questo grido, la Trinità si svela e si partecipa. Esso dice
separazione di Gesù dal Padre. E la traduzione, nella situazione umana, del
rapporto che si vive all'interno della Trinità tra il Figlio e il Padre. Il
distacco di Gesù dal Padre rimanda alla generazione eterna del Figlio che il
Padre opera nel suo seno. Il Padre fa il Figlio altro da sé, in una generazione
d'amore che è infinito gaudio. Riverberata sulla terra, l'alterità che nasce
dalla generazione è patita, dall'umanità di Gesù, come doloroso abbandono, che
riecheggia, assume e consuma l'abbandono e la lontananza da Dio in cui il
peccato ha gettato l'uomo. Nel suo grido sulla croce, Gesù "ci dischiude
l'intelligibilità del mistero trinitario dell'Agàpe divina: è donandosi, e
spingendo questa donazione di sé sino all'abisso dell'abbandono e della morte,
che la persona del Verbo incarnato realizza la sua propria identità nell'unità
col Padre".
In un suo prezioso documento, la
Commissione Teologica Internazionale ha fatto propria questa interpretazione del
mistero dell'abbandono di Gesù sulla croce. Vi si legge che il "distanziarsi del
Figlio rispetto al Padre nel suo svuotamento kenotico" e nell'esperienza
dell'abbandono da Lui vissuta è "l'aspetto proprio, nell'economia della
redenzione, della distinzione (estrema) delle Persone della Santa Trinità, che
peraltro sono perfettamente unite nell'identità di una stessa natura e di un
amore infinito".
La pericoresi trinitaria,
rivelata nell'evento pasquale, si mostra come attraversata da un non essere
dinamico, punto di congiunzione fra l'unità e la distinzione, viste come
co-originarie. Il non essere, relativo e relazionale, come dinamica del
dono-di-sé, come amore-pericoresi, è in tal modo interiore all'essere ed è
attuato in quanto tale dalla libertà. "L'amore - spiega S. Bulgakov - ha se
stesso nell'altro, esiste solo nell'auto-identificazione con l'altro; in sé è
come se non esistesse tuttavia in questo non esistere si palesa tutta la forza
della sua esistenza, nella misura in cui l'altro esiste in lui e la vita si
attua nell'altro".
Guardando alla Trinità, scopriamo
allora con sorpresa che il non appare costitutivo dell'alterità. Ciascuno dei
Tre non è l'Altro. Un non che non è dell'Essere assoluto che è Dio, ma del suo
dispiegarsi nelle tre Persone. Ciascuno dei Tre è tutto donato agli Altri: è Se
stesso non essendo in Sé, ma negli Altri, ed è Se stesso perché dagli Altri è
restituito a Sé nella reciprocità.
M. Cerini spiega l'amore del
Verbo in seno alla Trinità come "un vuoto infinito di Sé, un dono totale di Sé
in quanto Verbo al Padre, come un nulla assoluto, che però è amore, perciò è: ed
è eternamente il Figlio; è risposta a quel dono totale di Sé - a quel vuoto
infinito -, che è il Padre, il quale per primo dà tutto Se stesso: si direbbe
che si svuota, che si annulla - ché il dar tutto sulla terra include il
"perdere", il "vuoto" -, invece è, perché è amore: ed è il Padre, che
eternamente genera il Figlio. E dall'incondizionato loro mutuo amore procede lo
Spirito Santo, I'Amore fatto Persona. (...) E il paradosso dell'amore, che non
è, non esiste per sé, perciò è: è amore".
Gesù ci mostra dunque che il
dinamismo vero dell'amore, nel quale l'uomo trova il compimento del proprio
essere personale, è costitutivamente attraversato da un momento di morte, di
dono di sé, di perdita della propria vita. Un momento di kenosi, dunque. Per
illustrare la dinamica del mistero che si stava per compiere, Gesù, nel Vangelo
di Giovanni, aveva affermato: "Per questo il Padre mi ama: perché io offro la
mia vita, per poi riprenderla di nuovo" (10, 17). Gesù per ritrovare la propria
vita nella risurrezione e nella pienezza del suo corpo glorioso che conterrà la
totalità della nuova creazione, deve consegnarla, perderla. Il riconoscimento
dell'alterità e la pienezza della reciprocità come unità nella distinzione
presuppongono la capacità di "perdersi per ritrovarsi" (cf. Lc 9, 25; Gv 15, 13;
Gv 10, 17-18).
Nel suo dinamismo profondo, il
mistero pasquale ci rivela in tal modo che l'amore ha un momento di non essere,
che prelude una nuova pienezza di essere che si trascende. La radicalità del
dono di sé, in Gesù, coincide infatti anche con il dono dello Spirito. Gesù
Crocifisso "consegna" lo Spirito (cf. Gv 19, 30). Il momento della kenosi, ossia
dello svuotamento di sé e del non essere, si compie nel dono dello Spirito.
Se la kenosi di Cristo rivela la
realtà di un relativo non essere costitutivo dell'alterità all'interno della
Trinità e consente il rapporto di pericoresi nella libertà dei Tre, che fonda
unità e distinzione, la kenosi è necessariamente anche la legge della comunità
che nasce dall'evento pasquale. Il mistero pasquale, nella sua componente
kenotica, fonda e definisce la comunità.
Abbiamo già detto che la
traduzione in situazione umana della legge trinitaria è il comandamento
dell'amore reciproco: "Come io vi ho amati, così amatevi anche voi gli uni gli
altri" (Gv 13, 34; cf. 15, 12.17). In esso, se rispecchia la dinamica
trinitaria, dovremo trovare anche quel non essere che caratterizza quella
dinamica. L'elemento kenotico infatti è presente nel comandamento nuovo, ed è
dato da quel "come io vi ho amati". L'"amatevi tra di voi" dice pericoresi tra i
membri della comunità. Il "come io vi ho amati" dice la modalità dei rapporti
mutui. Gesù ha amato fino a dare la vita per gli amici, ha amato fino al segno
estremo della morte e della morte di croce (cf. Gv 13, 1) fino alla perdita
della propria identità, a non essere, nella perdita di rapporto con il Padre.
"Sì, Gesù crocifisso e abbandonato è il modo di amare i fratelli. La sua morte
in croce, abbandonato, è l'altissima, divina, eroica lezione di Gesù su cosa sia
l'amore".
Gesù non solo si pone come
modello, ma offre anche la possibilità di amare come lui ha amato. Comunica
infatti lo stesso amore con cui lui ha amato. Se è vero che la vita cristiana è
la continuazione della vita di Cristo nei cristiani, la nostra carità non è
soltanto l'imitazione della sua carità ma, più profondamente, essa è la
partecipazione a questa carità e il suo prolungamento; non possiamo amare
cristianamente se non per mezzo di Gesù e in Gesù.
Il come del comandamento nuovo
può infatti essere inteso anche in senso causale oltre che proposta di un
modello da imitare. Può essere letto nel senso di perché: amatevi perché io vi
amo; amandovi vi comunico il mio amore e quindi la capacità di amare. Il come
del comandamento nuovo rimanda infatti a un altro come: "Come il Padre ha amato
me, così io ho amato voi; restate nel mio amore" (Gv 15, 9). Gesù ci ha amati,
dunque, con lo stesso amore col quale il Padre e Lui si amano, rendendoci in tal
modo capaci di un'analoga relazione d'amore tra noi. L'amore fraterno è reso
possibile dall'amore con cui Cristo ci ama.
È significativo che la duplice
enunciazione del comandamento nuovo includa il discorso sui tralci e la vite (cf.
Gv 15, 1-7) e l'enunciazione della linea discendente dell'agape (cf. Gv 15, 9).
E l'unica agape divina che unisce nello Spirito il Padre e il Figlio, il Figlio
e i figli, i figli - nel Figlio - col Padre e tra loro. Non si tratta,
naturalmente, di un amore della stessa identità o della stessa santità di quello
di Gesù, ma "di un amore della stessa qualità o della stessa natura". Il come
del comandamento nuovo infatti "non indica un semplice paragone, una analogia
più o meno lontana o una somiglianza superficiale (...), ma una conformità
profonda, poiché l'esempio di Gesù è anche la norma dell'amore e il suo
fondamento". Si tratta, in definitiva, di "un'accezione teologica pregnante:
l'imitazione è somiglianza, prolungamento e assimilazione: come il Padre ama
Gesù, così Gesù ama i credenti (cf. Gv 15, 9; 17, 23) e i credenti devono amarsi
dello stesso amore (cf. Gv 15, 12) (...); come il Padre e il Figlio sono uno, i
discepoli devono essere uno (cf. Gv 17, 21)". Per questo Gesù può chiedere al
Padre che si realizzi tra i discepoli quella pienezza di unità che c'è tra il
Padre e Lui: "Tutti siano una cosa sola. Come tu, Padre, sei in me e io in te,
siano anche essi in noi una cosa sola" (Gv 17, 21).
"Solo Cristo - ha scritto Chiara
Lubich riprendendo queste parole del Vangelo di Giovanni - può fare di due uno,
perché il suo amore, che è annullamento di sé (amore infuso in noi dallo Spirito
Santo), ci fa entrare fino in fondo nel cuore degli altri". In chi "si annulla"
e "fra due" che si uniscono annullandosi l'uno nell'altro, per amore, "Cristo
rivive e, nel Cristo, il Padre". Questa unità, prosegue Chiara Lubich, esige un
amore ai fratelli che è "annullamento di sé", perché Cristo viva in ognuno, e
dall'unità tutti riaffiorino uguali e distinti. Si rivive il mistero trinitario
dove "i Tre vivono unificandosi per la loro stessa natura: Amore, e unificandosi
(= annullandosi) si ritrovano". "Quando Gesù è fra noi, siamo uno e siamo tre,
ciascuno dei quali è uguale all'uno".
Torneremo più avanti sulle
esigenze che questo annullamento comporta e sulla concreta dinamica comunitaria
che ne deriva. Per adesso rimaniamo sul versante teologico per cogliere
un'ulteriore componente dell'evento pasquale, quella appena accennata, del
Risorto che vive nella comunità.
LA PRESENZA DEL SIGNORE RISORTO
Avendo Gesù perduto la propria vita nel
passaggio dell'annientamento, la ritrova gloriosa, pneumatizzata: il Signore,
Gesù risorto, è lo Spirito (cf. 2 Cor 3, 17). Egli vive ormai un tipo di
presenza nuova tra i suoi discepoli: è presente nello Spirito nella comunità da
lui originata.
Cristo è presente nella sua
Chiesa, secondo quanto ha promesso: "Ecco io sono con voi tutti i giorni, fino
alla fine del mondo" (Mt 28, 20). "La Chiesa è ora presenza reale ed
escatologica della vittoriosa e definitiva volontà divina di grazia, costituita
da Dio nel mondo nella persona di Cristo. La Chiesa è il rimanere presente di
quella prima parola sacramentale, che è Cristo nel mondo che opera ciò che
esprime". Naturalmente, molteplici sono i modi di questa sua presenza, come ha
sottolineato ad esempio la Costituzione conciliare sulla Liturgia, più
diffusamente ripresa dall'Enciclica Mysterium fidei di Paolo VI. Cristo è
presente nell'assemblea liturgica, nella sua Parola, nei sacramenti, nei suoi
ministri... Se in questa varietà di presenza è stata solitamente sottolineata
quella eucaristica, ciò non deve essere a discapito delle altre. "Tale presenza
- ha scritto Paolo VI riferendosi a quella eucaristica - si dice "reale" non per
esclusione, quasi che le altre non siano "reali", ma per antonomasia". Piuttosto
che un'entità isolata rispetto agli altri modi di presenza, essa ha come fine
quello di approfondire la presenza di Cristo nella comunità e in ogni suo
membro. La Parola, il Sacramento e l'azione dello Spirito sono finalizzati a
fare della comunità il luogo permanente della presenza di Cristo. La teologia
odierna, a partire dal Concilio, ha riscoperto la multiformità di tale presenza
L'approfondimento della realtà
della Chiesa locale e della Chiesa come mistero di comunione ha soprattutto
messo in rilievo la presenza del Signore risorto tra i fedeli che sono riuniti
nel suo nome, secondo la promessa di Gesù: "dove sono due o tre riuniti nel mio
nome, io sono in mezzo a loro". E la riscoperta di Cristo presente nella Chiesa
locale, espressione concreta della Chiesa universale. Più concretamente ancora,
è la riscoperta di Cristo presente non solo in ogni singola Chiesa locale, nel
senso di diocesi o parrocchia, ma in ogni cellula di cristianesimo. Poiché
Cristo è presente anche solo dove sono "due o tre", anche nella più piccola
espressione di comunione vi è la Chiesa. Non è che in questo modo, scriveva già
O. Casel, "l'unica Ecclesia si frantumi in una pluralità di singole comunità, né
che la molteplicità delle singole comunità unite insieme formi l'unica Ecclesia.
L'Ecclesia è soltanto una, dovunque essa appare, è tutta intera e divina, anche
là dove soltanto due o tre sono adunati nel nome di Cristo". "In piccolo -
annota un esegeta di Matteo -, la Chiesa è dappertutto, là dove due o tre sono
radunati nel nome del Signore. E una comunità intorno a Cristo e in Cristo. La
Chiesa è universalmente là dove c'è la comunità di tutti i fedeli attorno a
Cristo".
Dobbiamo tuttavia riconoscere che
questo tipo di presenza, particolarmente adatto per definire la natura della
comunità religiosa, è stato solitamente ristretto, nella comprensione teologica,
all'ambito cultuale e liturgico, quasi fosse legato esclusivamente al momento in
cui la comunità cristiana si riunisce per pregare e celebrare i sacramenti, Il
Concilio Vaticano II, che pure mette nuovamente in luce la presenza reale di
Cristo in mezzo nell'assemblea liturgica (cf. SC 7), non si limita a questo tipo
di presenza. Esso vede attuarsi la presenza di Gesù promessa in Matteo 18, 20
anche nell'ambito dell'apostolato (cf. AA 18). Non si limita nemmeno ai
cattolici: anche fra i cristiani di diversa denominazione è possibile stabilire
la presenza di "Gesù in mezzo" (cf. UR 8). Siamo in linea con gli studi
esegetici, che giungono alla conclusione che "Gesù risorto promette la sua
presenza ad ogni riunione (fatta a causa o per il suo nome) prescindendo dal
loro genere e ampiezza".
Il Concilio può così arrivare a
cogliere questo tipo di presenza come tipico della comunità religiosa. "Con
l'amore di Dio diffuso nel cuore per mezzo dello Spirito Santo - si legge in PC
15 - la comunità come una famiglia unita nel nome del Signore gode della Sua
presenza".
Nel suo famoso commento al
Perfectae caritatis, Tillard ha sottolineato la ricchezza di questo testo da cui
traspare la realtà misterica della presenza del Signore tra i religiosi, la
relazione tra questa presenza e la carità scambievole, la dimensione ecclesiale
che la comunità si trova ad assumere. "Il numero - egli scrive - ci sembra uno
dei perni di tutto il Decreto, uno dei luoghi dove emerge al massimo lo spirito
del Concilio e da cui si percepisce con più vigore la dimensione essenzialmente
ecclesiale della vita religiosa. Fondata sull'Eucaristia e la parola di Dio, la
comunità non è il semplice agglomerato di cristiani in cerca della perfezione
personale ciascuno per conto suo; ma è, nella sua vita fraterna, il segno, la
proclamazione della grande koinonia di carità che, nel Figlio, il Padre vuole
instaurare tra gli uomini. Non crediamo di sopravvalutare la forza di questo
numero affermando che i suoi redattori hanno reso alla vita religiosa e
indirettamente a tutta la Chiesa di Dio un servizio inapprezzabile, mettendo
l'accento sulla qualità misterica dello stesso essere della comunità". Infatti,
continua più avanti, "la vita comune è l'attuazione della koinonia fraterna di
tutti, per la presenza del Signore Gesù in persona. Se ne conclude che essa è
nel mondo l'annuncio della venuta di Cristo. La manifestazione della carità
fraterna, il rispetto reciproco, il desiderio di portare il peso gli uni degli
altri non sono altro che la traduzione in atti umani della realtà profonda e
misteriosa della comunione di vita con il Padre in Gesù saldata per mezzo del
battesimo, radicata dall'Eucaristia, ma che tutti, per la loro professione,
vogliono condurre alla sua pienezza".
Il Concilio non fa altro che
riportare in evidenza una esperienza che da sempre aveva accompagnato la storia
della vita religiosa, anche se forse non era mai stata tematizzata e
approfondita così come ai nostri giorni. Il monastero è stato più volte
considerato luogo della presenza di Cristo in mezzo ai suoi discepoli. Leggiamo,
ad esempio, in Teodoro Balsamon: "Poiché dalla divina bocca è stato detto: "dove
sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro", è necessario che
almeno in tre fondino un'opera, che si mette sotto la denominazione di
monastero", Basilio più volte nell'Asketicon riferisce alla sua comunità il
passo di Matteo 18, 20. Giovanni, vescovo di Antiochia, a sua volta così
definisce il monastero: "Non sai forse cosa sia un monastero? È una casa tutta
sacra, forse eretta in nome di Cristo Dio, nei cui sacri penetrali ci sono
dipinti di Lui, dei suoi miracoli e delle sue divine sofferenze. Nel tempio ci
sono i libri sacri e il sacro prezioso arredo. C'è la santa comunità di coloro
che per Dio hanno rinnegato il mondo, ciò che è nel mondo e se stessi. Essi
stanno presso Dio, sono in ascolto di Lui, giorno e notte cantano e
salmeggiano... E lo hanno sempre in mezzo a loro, secondo la sua sicurissima e
divina promessa: "poiché dove sono due o tre riuniti nel mio nome - Egli ha
detto -, io sono in mezzo a loro"".
Particolarmente vive, al
riguardo, sono le parole che Angela Merici rivolge alle donne che devono
custodire le vergini consacrate: "Specialmente abbiate cura che esse siano unite
e concordi di volere, così come si legge degli Apostoli, e di altri cristiani
della Chiesa primitiva (...). Anche voi sforzatevi di essere così con tutte le
figlioline vostre, perché quanto più sarete unite, tanto più Gesù Cristo sarà in
mezzo a voi a guisa di padre e buon pastore". "L'ultima parola mia, che vi dico,
e con la quale perfino col mio sangue vi prego, è che siate concordi, unite
insieme tutte di un solo cuore e di un solo volere. Siate legate l'una all'altra
col legame della carità, apprezzandovi, aiutandovi, sopportandovi in Gesù
Cristo. Poiché, se vi sforzerete di essere così, senza dubbio il Signore Iddio
sarà in mezzo a voi".
Quest'ultimo testo, oltre a
confermare la visione della comunità come luogo della presenza del Risorto, fa
risaltare la particolare natura di tale presenza. Essa esige l'apporto
costitutivo delle persone che compongono la comunità, consistente in un
atteggiamento concreto e radicale di amore reciproco, tale da creare un ambiente
di comunione e di unità. Per avere la presenza del Signore risorto occorre
infatti essere riuniti "nel suo nome". Non basta una riunione qualsiasi. Quella
del Risorto nella comunità, ha scritto Congar, è "una presenza di alleanza,
quella in cui Dio si è impegnato con promessa ad essere attivo, nella sua
grazia, nelle operazioni ecclesiali, una volta poste le condizioni e rispettate
le strutture dell'alleanza", che sono appunto la comunione fraterna, il
radunarsi "nel suo nome". Ciò è particolarmente consono alla comunità religiosa,
che è unita proprio nel nome di Gesù, per vivere alla sua sequela, in obbedienza
alla sua parola, soprattutto al comandamento dell'amore reciproco.
La comunità religiosa, allora, è
luogo in cui Cristo si fa presente e si visibilizza la Chiesa; autentico luogo
della sequela dove si continua l'esperienza dei Dodici e dei discepoli attorno
al Maestro. Lui stesso si fa presente tra coloro che ha chiamato e consacrato a
sé, costituendoli in comunità. Lui stesso vive in mezzo a loro facendosi loro
koinonia.
Come abbiamo rilevato
precedentemente, l'amore tra i membri della comunità non è solo un impegno
etico. È piuttosto il frutto dello stesso amore divino partecipato. Nella
reciprocità dell'amore all'interno della comunità, è l'amore stesso di Cristo
che ama. Lui è l'io che ama e il tu che riceve l'amore, così che "il Figlio di
Dio incarnato, presente nella sua comunità umana a titolo di "io" e di "tu", vi
forma anche un "noi"". Partendo da questa natura teologale della carità, J.
Galot può affermare la realtà ontologica della presenza promessa da Gesù:
"Bisogna riconoscere pieno valore all'affermazione di Gesù: "Dove sono due o tre
riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt 18, 20). Sarebbe non
comprendere il senso profondo dell'affermazione intendendola unicamente come una
presenza morale del Cristo in ogni riunione (. . .). Questa presenza conserva
tutta la sua realtà. È una presenza ontologica".
M. Zago, superiore generale degli
Oblati di Maria Immacolata, commentando la Regola del suo Istituto che presenta
la comunità degli apostoli con Gesù come il modello di vita, mi sembra sia
riuscito a sintetizzare efficacemente la duplice dimensione - di alleanza e
ontologica - di questa presenza. "Non si tratta - egli spiega - di un modello
puramente esteriore, ma dell'attuarsi della stessa realtà. Anche se il modello
si attua in modo analogo, esso tuttavia rimane pur sempre reale. Cristo ci
chiama, ci riunisce ed è presente. Lo seguiamo e ne diventiamo cooperatori nella
comunità e attraverso la comunità, perché Cristo si fa presente in essa: "là
dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro" (Mt 18, 20).
La santità e la missione passano per la comunità non perché questa ne è un
mezzo, ma perché Cristo si fa presente in essa e attraverso di essa. Certo,
questa presenza non si realizza con una parola sacramentale come
nell'Eucaristia, ma con il nostro stesso modo di vivere cristiano. La
Costituzione 37 ci dà la chiave teologica e ci indica la via esperienziale per
realizzare la comunità-missione: "Nella misura in cui cresce tra loro la
comunione di spirito e di cuore, gli Oblati testimoniano agli uomini che Gesù
vive in mezzo ad essi e fa la loro unità per mandarli ad annunciare il suo
Regno"".
La medesima realtà, con accenti
altrettanto forti, è espressa nei confronti di altre forme di vita comune.
Madeleine Delbrel in un testo dal titolo significativo: A proposito della
nascita di piccole comunità laiche, scrive: ""Dove due o più sono riuniti nel
mio nome, io sarò con loro". Vivere in comunità è un esprimere per il mondo una
sorta di sacramento. È un garantire la presenza di Gesù. La vita comune vissuta
con spirito di carità totale è una scintilla di cui difficilmente si può fare a
meno per accendere il fuoco con coloro che ci circondano. (...) La testimonianza
di uno solo, che lo voglia o meno, porta soltanto la sua firma. La testimonianza
di una comunità porta, se questa è fedele, la firma del Cristo",
Parlando del focolare, abbiamo
visto come Chiara Lubich abbia sottolineato la realtà ontologica della presenza
di Gesù in mezzo e il suo carattere personale. Con il suo carisma ella ha
contribuito notevolmente a mettere in luce questa presenza del Risorto nella
comunità, approfondendone la natura. In alcuni versi, scritti in occasione del
Natale, sottolinea ancora una volta quanto sia reale la presenza di Gesù in
mezzo ai suoi: è lo stesso Gesù presente fra Maria e Giuseppe a Betlemme:
""Dove sono due o tre uniti
nel mio nome, ci sono io
in mezzo a loro".
In mezzo a loro esattamente
come duemila anni fa
in mezzo a Maria e Giuseppe.
Solo che la sua presenza,
pur reale, è spirituale.
Gesù non ama rimaner nei tabernacoli
solamente.
Il suo desiderio è stare fra gli uomini
e condividere con loro i pensieri, i
progetti,
le preoccupazioni, le gioie...
Anche per questo è venuto sulla terra:
per darci la possibilità d'averlo
fra noi sempre a portar il calore,
la speranza, la luce, la concordia
che apporta ogni Natale"
Chiara Lubich, approfondendo tale tipo di
presenza, spiega come essa è reale, ma non locale. Dire che "Gesù è in mezzo a
noi" significa essere tutti e ciascuno penetrati dalla realtà di Cristo e quindi
essere fatti uno da Lui e in Lui. "Quando due anime s'incontrano in nome di
Cristo, Cristo nasce fra di loro, cioè in loro e, mantenendo quest'unità,
possono con sincerità dire: "Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in
me"".
Consapevole della realtà di tale
presenza, la comunità religiosa può sperimentarne i suoi innumerevoli frutti. La
presenza del Signore risorto nella comunità è infatti una presenza operante. Il
documento della SCRIS su La dimensione contemplativa della vita religiosa,
rivolgendosi a tutti i religiosi e le religiose, dopo aver riaffermato che "la
comunità religiosa è in se stessa una realtà teologale, oggetto di
contemplazione: come "famiglia unita nel nome del Signore" (PC 15)", trae la
prima fondamentale conseguenza. Se la comunità è il luogo della presenza di Dio,
essa "è, per natura sua, il luogo dove l'esperienza di Dio deve potersi
particolarmente raggiungere nella sua pienezza e comunicare agli altri. La
reciproca accoglienza fraterna, nella carità, contribuisce a "creare un ambiente
atto a favorire il progresso di ciascuno" (ET 39)". Perché il Santo stesso è
presente tra i membri della comunità, essi possono raggiungere la santità.
L'azione di Gesù in mezzo alla
comunità religiosa favorisce infatti "il progresso di ciascuno" in molteplici
modi. Cristo presente nella sua comunità opera anzitutto sul piano illuminativo.
Come quando si pose in mezzo ai due di Emmaus, Egli, facendosi nuovamente
presente in seno alla comunità, continua a spiegare il senso delle Scritture e a
far ardere i cuori. Quest'azione di tipo illuminativo può essere percepita a
vari livelli. Le verità della fede e della vita cristiana, fatte oggetto di
comunione, colte nell'unità di persone che si amano, illuminate dallo Spirito
che il Risorto presente comunica ai suoi, sono percepite in profondità, colte
dal di dentro, raggiunte con un tipo di conoscenza di ordine sapienziale,
esperienziale. Nei due di Emmaus la presentazione delle Scritture aveva avuto
come effetto l'ardore del cuore. Era stata quindi una penetrazione amorosa del
mistero. La vita nell'amore scambievole, a sua volta, facendo vivere in Dio e
facendo partecipare alla vita di Dio, consente di scoprire le cose come Dio le
vede e le vuole, quasi per connaturalità, La presenza del Signore tra i suoi
riuniti nel suo nome porta infatti con sé l'intera presenza trinitaria e fa
vivere a modo della Trinità. La vita spirituale, la vita liturgica, la vita di
preghiera, la realtà della Chiesa, insomma tutte le componenti più intime e
sostanziali della vita dei religiosi, vengono interiorizzate e diventano realtà
vive e operanti.
Questo vale, in particolare,
anche per la conoscenza, la riscoperta e l'attuazione del carisma specifico
dell'Istituto. Essendo questa, per sua natura, una grazia comunitaria, deve
essere custodita, compresa e approfondita proprio dalla comunità come tale e non
può essere percepita e vissuta nella sua interezza se non all'interno di una
dinamica di comunione.
La presenza del Risorto diventa
inoltre garanzia di luce per quel discernimento comunitario oggi così esigito
con urgenza da tanti. Davanti al compito che la comunità ha di valutare il
proprio progetto di vita, le scelte pastorali, le decisioni da prendere, Cristo
stesso, con la sua azione illuminatrice, si fa interprete del disegno del Padre
sull'intera comunità.
Lui presente nella comunità
illumina infine le coscienze a livello personale. La presenza del Signore, è
stato detto, è come un "altoparlante di Gesù in ciascuna anima", che
"ingigantisce la sua voce dentro di noi e ci rende più atti a coglierla: a
cogliere (e a vivere di conseguenza) l"'uomo nuovo" in noi". Nell'unità si
percepisce meglio ciò che Dio chiede a ciascuno e si è più disponibili a
conformarsi al suo volere. Appaiono con maggiore immediatezza i difetti da
eliminare, i passi in avanti da compiere, le scelte da operare.
L'azione del Maestro nella sua
comunità, oltre a essere illuminativa, è volta a rafforzare la volontà portando
a compimento ciò che si è percepito. Comunica il coraggio, la parrhesia, la
forza per intraprendere il cammino di santità e per affrontare le difficoltà
inerenti alla crescita spirituale: le contraddizioni esterne, le prove
interiori, gli scoraggiamenti. Infonde gioia, e porta la pace anche in mezzo
alle situazioni più difficili. "Grande è la forza proveniente dall'essere
riuniti - scrive in proposito Giovanni Crisostomo commentando la sentenza dei
Proverbi: "Il fratello aiutato dal fratello è come una città forte" (18,19) -
perché, stando riuniti insieme, cresce la carità: e, se cresce la carità,
necessariamente cresce [fra noi] la realtà di Dio". Si intravede in queste
parole anche l'aspetto di protezione contro il male. Il Signore presente tra
fratelli uniti difende dalla tentazione, dal pericolo, dalle avversità.
Ma queste sono solo alcune
espressioni di ciò che compie il Signore presente nella comunità. Si potrebbe
parlare della vita di preghiera: non è Lui che tra quanti pregano si fa
preghiera al Padre? Si potrebbe parlare del sostentamento materiale: Gesù non ci
ha detto di cercare prima di tutto il Regno di Dio, sicuri che così facendo
tutto il resto ci sarebbe venuto in sovrappiù? Ma il "Regno di Dio è in mezzo a
voi" (Lc 17, 21). E Lui, quindi, reso presente e vivo nella comunità, che attira
la provvidenza del Padre. E ancora: non è Lui che irradia la luce e permette
quella testimonianza di vita che incide su quanti vengono a contatto con la
comunità? Potremmo continuare. In definitiva, la vita di unità fa vivere ogni
membro della comunità e gli permette di crescere in ogni espressione della vita.
La comunità inoltre - e siamo a
un altro degli effetti del Signore vivente in essa - non vive per se stessa.
Cristo la apre e la pone in atteggiamento di servizio, la rende strumento della
sua diaconia e testimonianza di vita nuova, la lancia ad annunciare e a
trasmettere il mistero che l'ha salvata. Il Risorto che vive in essa la rende
testimone della sua risurrezione. Come il Risorto invia gli apostoli nel mondo
intero il giorno dell'Ascensione, e come lo Spirito proietta la prima comunità
cristiana al di fuori del Cenacolo il giorno della Pentecoste, così ogni
comunità religiosa, fatta autentica comunità pneumatica del Risorto, è
proiettata verso il mondo, apparendo intrinsecamente apostolica per natura.
Il Signore presente in mezzo ai
suoi informa tutti gli aspetti della vita della comunità. Ai religiosi non
rimane che vivere nell'amore vicendevole, di quell'amore che egli infonde
donando il proprio Spirito. "Come il Padre e il Figlio amandosi (similmente a
due legni che ardono incrociati) mandano un'unica fiamma: lo Spirito Santo",
così noi, amandoci come loro, "bruciando come tanti legni sovrapposti, dalla
nostra morte totale sprigioneremo un'unica fiamma: lo Spirito Santo, lo Spirito
del Risorto in mezzo a noi...".
Ci introduciamo così alla
conclusione della contemplazione del mistero pasquale: lo Spirito dato dal
Risorto alla sua comunità. Il dono dello Spirito è infatti componente intrinseca
del mistero pasquale. Morte, risurrezione e invio dello Spirito sono l'unico
mistero, che per noi si storicizza nel tempo in una successione di momenti.
LA CARITÀ DONO DELLO SPIRITO
Il brano del Perfectae caritatis che
abbiamo letto precedentemente (n. 15), univa strettamente la realtà della
carità, dello Spirito e della presenza del Risorto nella comunità religiosa:
"Con l'amore di Dio diffuso nel cuore per mezzo dello Spirito Santo la comunità
come una famiglia unita nel nome del Signore gode della Sua presenza".
La comunità possiede la carità
come dono portato dallo Spirito. La carità a sua volta consente che si
stabiliscano le condizioni perché il Signore sia efficacemente presente. Essa fa
sì che la comunità non sia una qualsiasi riunione di persone, ma una riunione
"nel nome di Gesù". E un processo, questo, che suppone l'invio dello Spirito
alla comunità. E tale è l'azione che Cristo compie nell'evento pasquale e come
momento culminante di esso: manda lo Spirito. Il Risorto si pone così
all'origine della comunità, perché le invia lo Spirito che comunica l'agape
divina, e si pone come suo compimento non solo facendosi presente in essa come
frutto della reciprocità dell'amore, ma anche consentendo alla comunità di
"godere" in modo cosciente della propria presenza. Passando attraverso l'ascesi
che l'amore scambievole comporta - ricordiamo la realtà della kenosi -, la
comunità è chiamata ad accedere alla dimensione mistica, sperimentando in sé la
presenza del Risorto.
Torniamo così al punto da cui
siamo partiti nella nostra riflessione sulla comunità: Dio Amore. La vita che il
Risorto comunica inviando lo Spirito è la vita stessa di Dio Amore, è agape.
Siamo veramente fatti "partecipi della natura divina" (2 Pt 1, 4).
Se la consacrazione religiosa è
la radicalizzazione del battesimo, essa è vita di carità vissuta in pienezza.
Nel battesimo infatti ci è stato comunicato lo Spirito Santo nel quale il Padre
e il Figlio si amano e amano gli uomini. "Sarete battezzati in Spirito Santo",
aveva detto Gesù prima della sua ascensione (At 1, 5;11, 16). Il battesimo,
ossia l'immersione nello Spirito, significa che lo Spirito ci permea totalmente,
fino alla radice dell'essere, tanto da far dire a Paolo che nel battesimo "tutti
ci siamo abbeverati a un solo Spirito" (1 Cor 12, 13). Lo Spirito Santo, datoci
da Cristo morto sulla croce e risorto, è il principio della nuova vita in Cristo
e l'amore di Dio, quello con il quale Dio ama, è diffuso nei nostri cuori. Il
battesimo ci ha uniti a Cristo morto e risorto, ossia a quell'atto di libertà
mediante il quale Egli ci ha supremamente amato dando la sua vita per noi, a
quella carità insigne nella quale la sua morte lo ha in qualche modo fissato.
La comunità religiosa è chiamata
a rivivere in pienezza tale realtà battesimale. Essa vive, per la forza dello
Spirito del Risorto, relazioni fondate su un amore che non è di origine umana,
ma divina (cf. Rm 55; 1 Ts 4, 9;1 Gv 4, 7). Essa vive del dono di Dio. Solo
grazie a questa carità teologale possiamo adempiere al comandamento nuovo
dell'amore reciproco. Solo grazie a questo dono dall'Alto si può costituire la
comunità, vista come insieme di relazioni d'amore, modellate sulle relazioni
trinitarie.
Possiamo allora cogliere il
perché dell'esortazione che Giovanni Paolo II, nella Redemptoris donum, ha
rivolto ai religiosi, invitandoli a vivere con coerenza la vocazione religiosa
come particolare partecipazione all'amore di Dio. Dopo aver attestato che la
consacrazione e la professione dei consigli evangelici "sono una particolare
testimonianza d'amore", egli continua: "Proprio così pregava l'Apostolo nella
sua lettera ai Filippesi: "Che la vostra carità si arricchisca sempre più
(....)" (Fil 1, 9-11). Per opera della redenzione di Cristo "l'amore di Dio è
stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato
dato" (Rm 5, 5). Chiedo incessantemente allo Spirito Santo di concedere a
ciascuno e a ciascuna di voi, "secondo il proprio dono" (cf. 1 Cor 7, 7), di
dare una particolare testimonianza di quest'amore. Vinca in voi, in modo degno
della vostra vocazione, "la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù...",
quella legge che ci ha "liberati dalla legge... e dalla morte" (Rm 8, 2). Vivete
dunque di questa vita nuova a misura della vostra consacrazione ed anche a
misura dei diversi doni di Dio che corrispondono alla vocazione delle singole
famiglie religiose. (...) Proprio di questa testimonianza d'amore hanno bisogno
il mondo d'oggi e l'umanità. Essi hanno bisogno della testimonianza della
redenzione, così come questa è impressa nella professione dei consigli
evangelici" (n. 14).
Ciò che costituisce una comunità
non è una casa, un determinato numero di persone, un ordinamento comune, la
partecipazione ad atti comuni. Questi sono elementi che possono eventualmente
esprimere la reciproca comunione raggiunta, e insieme possono essere i mezzi per
realizzarla, ma non la costituiscono. Ciò che costituisce la comunità è il
reciproco amore tra tutti i suoi membri un amore che, sull'esempio di quello di
Cristo, è pronto a dare la vita in una reale kenosi; la presenza del Signore
risorto; lo Spirito che la anima rendendola partecipe dell'amore trinitario.
Fonte testo : http://www.clerus.org
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