giovedì 1 agosto 2019

L'attesa del creato , Riflessioni su alcuni capitoli del Genesi , di Vilma Baricalla



Vilma Baricalla
L'attesa del creato , Riflessioni su alcuni capitoli del Genesi
Questo scritto è apparso nel libro  
Le creature dimenticate a cura di L. Battaglia, 
Macro edizioni, Cesena, 1995, pp. 1-23
 

Cultura cristiana e sfruttamento della natura

«all’inizio della Genesi è scritto che Dio creò l’uomo per affidargli il dominio sugli uccelli, i pesci e gli altri animali. Naturalmente la Genesi è stata redatta da un uomo, non da un cavallo. Non esiste alcuna certezza che Dio abbia affidato davvero all’uomo il dominio sulle altre creature. È invece più probabile che l’uomo si sia inventato Dio per santificare il dominio che egli ha usurpato sulla mucca o sul cavallo. Sì, il diritto di uccidere un cervo o una mucca è l’unica cosa sulla quale l’intera umanità sia fraternamente concorde, anche nel corso delle guerre più sanguinose»1.
  Così Milan Kundera accusa la Bibbia e il cristianesimo di essere alla base di una morale che giustifica la prevaricazione dell’uomo, la specie più forte, sulle altre specie più deboli, poste in una situazione di inferiorità.
  In effetti, considerando la storia dei pensiero nel suo complesso, non si può negare che considerazioni teologiche e «religiose» affiancarono spesso il processo di sottomissione della natura e di sfruttamento degli altri viventi, messo in atto dall’uomo occidentale. Riferendosi al terzo capitolo del Genesi, Bacone esaltò il progresso tecnico e materiale, che avrebbe restituito all’uomo la piena padronanza sulla natura, datagli da Dio e successivamente sottrattagli a causa del peccato. Quasi come una crociata, la sottomissione del creato, «ribelle» per maledizione divina, rappresentava il ritorno allo stato di grazia della prima creazione, il ripristino di quell’antico, e legittimo dominio che l’uomo aveva ricevuto da Dio2.
  Con queste e con altre analoghe considerazioni, il possesso materiale della natura veniva quasi santificato. L’interesse del dominio e dello sfruttamento veniva inglobato in un ideale di operatività cristiana, volta al miglioramento e al benessere dell’uomo.
  Queste idee, portate avanti nell’età moderna e ispirate al principio laico del progresso materiale, potevano tuttavia affermarsi grazie ad una cultura già esistente.
  La visione che pone l’uomo al vertice della creazione, infinitamente superiore agli altri esseri, creati per lui, apparteneva già da tempo al mondo occidentale e cristiano.
  Quella scala di creature, che Tommaso d’Aquino - riprendendo Aristotele - descriveva nella sua cosmologia, sembrava rispecchiare l’ordine della creazione, così come è descritto nel primo capitolo dei Genesi.
  Collocato al gradino più alto della scala, l’uomo, creatura privilegiata da Dio, poteva legittimamente servirsi dei resto dei creato, anche se ciò comportava l’uccisione di altri esseri viventi3. Nel nono capitolo del Genesi, del resto, è anche scritto che Dio ha dato agli uomini gli animali come cibo, sottoponendo «tutto ciò che ha moto e vita» al potere umano (Gen. 9,3)4.
  Tutte queste considerazioni inducevano a sostenere l’irrilevanza morale del comportamento dell’uomo, «creato a immagine e somiglianza di Dio» (Gen. 1,26), nei confronti delle altre creature, che, prive di ragionevolezza ed incapaci di amicizia, non avevano diritto alla compassione né alla carità5.
  Se dunque la visione strumentale della natura e la sua concreta sottomissione sono frutto dell’età moderna, non si può negare che riferimenti biblici e riflessioni teologiche contribuirono non poco alla formazione di quell’atteggiamento di indifferenza morale verso la natura e gli altri esseri viventi, che caratterizza il mondo occidentale.
  Considerando questo quadro, non si possono definire infondate le affermazioni di coloro che, in passato come oggi, hanno considerato il cristianesimo responsabile della diffusa insensibilità verso gli esseri viventi non umani, che pesa ancora nel mondo contemporaneo6.
  Indubbiamente, lo sviluppo del pensiero cristiano nella cultura occidentale ha seguito prevalentemente il percorso che qui si è denunciato. Della Bibbia si è data una lettura fortemente antropocentrica.
  Di fronte a ciò, nasce l’esigenza di riesaminare il testo biblico, al fine di verificare se quell’interpretazione strumentale del mondo come finalizzato all’uomo, risponde o meno al senso biblico e cristiano della creazione. Nasce l’esigenza di comprendere in quale modo l’uomo può biblicamente rapportarsi al creato e al mondo che lo circonda.

 

La creazione nel Genesi

Il Genesi riporta due racconti della creazione, che presentano diversità di caratteri e motivi ispiratori. Secondo le ipotesi documentarie, essi risalgono a differenti epoche e tradizioni.
  Il primo racconto (1,1 - 2,4a) viene attribuito ai circoli sacerdotali del Tempio di Gerusalemme e rivela un intenso lavoro di elaborazione teologica. Esso viene datato all’incirca intorno ai secoli VI-V a.C., epoca in cui gli ebrei si trovavano prigionieri a Babilonia e in cui si auspicava un destino migliore per il popolo di Israele. Risente di un clima di attesa. Presumibilmente nella stessa epoca vennero scritti i libri profetici.
  Il secondo racconto (2,4b - 3,24), che si suppone più antico (sec. X-IX a.C.), è attribuito alla tradizione jahwista, così chiamata perché designa Dio con il nome Jahweh. Esso risale presumibilmente al periodo salomonico, epoca in cui le relazioni diplomatiche e i matrimoni del sovrano creavano un clima di intensi scambi con le altre culture, anche quelle del vicino oriente. Nato probabilmente per la formazione del sovrano, utilizza anche simboli e materiale mitologico delle culture vicine.

1. Il respiro della creazione

Il primo racconto riportato nel Genesi descrive la creazione dell’universo. L’atto del creare è indicato con il verbo bārā’ che nella Bibbia è utilizzato solo in riferimento all’azione di Dio. Esso implica che Dio ha creato dal nulla tutte le cose (v. 1: «il cielo e la terra»)7.
  Secondo il racconto di Genesi 1, la creazione avviene attraverso la parola. «E Dio disse»: con questa formula, che ricorre dieci volte nel testo8, Dio svolge la sua attività creatrice.
  Tuttavia, prima di seguire la descrizione minuziosa delle varie fasi dell’attività divina, merita particolare attenzione il v. 2: «la terra era deserta e vuota, le tenebre ricoprivano l’abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sopra la superficie delle acque».
  Questo versetto fa riferimento a quello stadio primordiale di caos, in cui gli elementi erano confusi, poiché la parola non aveva ancora operato la loro separazione. Allora, sulle acque melmose della Tehôm, l’oceano primordiale, «aleggiava lo Spirito di Dio».
  Che funzione ha lo «Spirito di Dio» (ach ’Elōhîm) nella creazione?
  Il mondo moderno e la cultura occidentale hanno concepito il Creatore quasi esclusivamente in termini di trascendenza: Dio Creatore è superiore e trascendente rispetto al creato.
  Eppure quello «Spirito di Dio» che «aleggiava sopra la superficie delle acque» fornì - e fornisce tutt’oggi - spunti interpretativi interessanti. L’interpretazione controversa dell’espressione ach ’Elōhîm merita un cenno.
  La parola ebraica ach può indicare una pluralità di significati: «vento», «alito», «respiro», «soffio vitale», «spirito»9. Pur tradotta con il termine neutro pnèuma nella versione greca dei LXX e con il maschile «spiritus» nella Vulgata, la parola ebraica ach, di genere femminile, suggerisce la considerazione che la presenza divina nella creazione vada recuperata con metafore anche di tipo femminile10.
  Un riferimento all’elemento femminile le venne attribuito da coloro che la identificarono con la Sofia-Sapienza, discesa dal Pleròma, o mondo superiore, per unirsi, come Madre, con l’elemento maschile, simboleggiato dalle «acque»11.
  Compreso come un principio cosmico vivificatore, immanente all’universo, analogo alla platonica «anima del mondo» e allo stoico «pnèuma»12, lo «Spiritus Dei» di Genesi 1,2 venne infine spiegato come trascendente dai Padri della Chiesa, che lo identificarono con lo Spirito Santo13.
  Per indicare il ruolo dello Spirito Santo nella creazione, Gerolamo fece riferimento ad una funzione che richiamava ancora una volta l’elemento femminile. L’azione dello Spirito di Dio, che stava sopra le acque nel creare il mondo, fu spiegata con i verbi latini «incubabat», «fovebat», cioè «covava». Quest’espressione suggerisce l’immagine di una partecipazione quasi materna di Dio alla creazione. Lo stesso Gerolamo osservò che, come un uccello cova l’uovo, così lo Spirito di Dio fecondò e vivificò il mondo14. Ciò richiama miti cosmogonici fenici, che vedono il mondo come un gigantesco uovo, covato da Dio15.
  Anche se quasi tutte queste interpretazioni oggi sono scartate16 gli interrogativi sull’effettivo ruolo svolto da ach ’Elōhîm nella creazione rimangono aperti.
  Tradotta in modi diversi, ridotta da alcuni commentatori ad un «vento impetuoso», che agitava le acque dell’Oceano primordiale17, quest’espressione è intesa, ancor oggi, dai più come «spirito di Dio»18 e induce a cogliere la «forza creatrice», la «presenza di Dio nella sua creazione»19.
  Essa richiama anche il «soffio» divino: «L’apertura della tua bocca (= parola) è un soffio di vento; è la vita del paese».
  Con questa citazione, tratta dall’inno del dio Marduk, Testa parla di ach-dābār: l’alito di Dio, unito con la parola creante dei vv. 3-31, diviene forza creatrice20.
  «Dio creò i cieli con la sua parola, l’alito della sua bocca li adornò». Così è scritto nel Salmo 33,6.
  Forse, la presenza di ach ’Elōhîm è ciò che rende possibile la creazione degli esseri viventi.
  Non si può, del resto, non mettere in relazione l’espressione di Genesi 1,2 con quel soffio divino, quel respiro, che dal Creatore si comunica a ciascun vivente e lo tiene in vita. Così è scritto nel Salmo 104: «togli loro il respiro (ach), / svaniscono e ritornano nella polvere./ Mandi il tuo respiro (ach), così sono creati, / e rinnovi il volto della terra» (Sal. 104, 29-30).

2. L’opera dei sei giorni

L’attività di Dio si esplica in sei giorni (vv. 3-31).
  Dall’oceano primordiale della Tehôm inizia la separazione degli elementi.
  Al comando creante della parola divina si fa luce; poi Dio separa la luce dalle tenebre. «Fu sera e fu mattina: un giorno» (v. 5b). Col primo giorno, inizia il tempo della creazione, descritta nelle sue varie fasi.
  Nel secondo giorno, Dio fa sorgere il firmamento, che divide le acque inferiori, che stanno sulla terra, da quelle superiori, che generano la pioggia21 (vv. 6-8).
  Poi, il terzo giorno, Dio riunisce le acque della terra e appare l’«asciutto» (v. 9). Sulla terra nasce la vegetazione.
  Considerata priva di vita (nefeš), la vegetazione nasce per una forza insita nella stessa terra, che ha questo potere produttivo: Dio ordina alla madre-terra di germogliare (v. 11). La generazione dei vegetali non richiede il diretto intervento divino.
  Dopo che, il quarto giorno, la parola creante ha generato i «luminari» dei cielo - il sole, la luna e le stelle - il quinto giorno Dio crea (bārā’) gli animali (v. 21).
  L’intervento diretto del bārā’ divino sottolinea l’importanza dell’avvenimento. Nel testo, questo verbo è utilizzato solo in tre occasioni: riferito alla totalità dell’universo («il cielo e la terra» dei v. 1)22, in occasione della creazione degli animali, delle acque e dei cieli (v. 21); riferito alla creazione dei genere umano, in occasione della quale viene citato tre volte (v. 27).
  I «viventi» nascono non solo in virtù della parola; per essi è necessaria la diretta azione creatrice di Dio. Ciò implica tra il Creatore e la creatura un rapporto più immediato e diretto23.
  Dio crea i grandi cetacei24, tutti gli «esseri vitali guizzanti, di cui brulicano le acque», i volatili alati, cioè gli insetti e gli uccelli25.
  La creazione dei quinto giorno si conclude con la benedizione degli animali, del loro procreare, crescere e moltiplicarsi (v. 22).
  Il sesto giorno, con la comparsa sulla terra del bestiame, dei rettili, delle fiere, il quadro della generazione degli animali è completo (vv. 24-25).
  Nello stesso giorno, dopo gli animali, è creato l’uomo (vv. 26-28).
  Fatto a «immagine e somiglianza» di Dio, nell’ambito della creazione, l’uomo ha un ruolo speciale: a lui Dio affida il dominio «sopra i pesci dei mare», sugli uccelli del cielo e su «tutti gli animali che si muovono sopra la terra» (v. 26).
  Creati gli uomini, maschio e femmina, Dio dà loro la sua benedizione: «Riempite la terra e soggiogatela, e abbiate dominio sui pesci del mare, sui volatili dei cielo, sul bestiame e su ogni essere che striscia sulla terra» (v. 28).

3. Il «dominio» dell’uomo e la pace tra i viventi

Spesso i vv. 26-28 sono stati utilizzati per legittimare un potere dispotico dell’uomo sugli altri viventi. «L’uomo sarebbe a immagine di Dio grazie alle sue facoltà di intelligenza, di giustizia, di amore, di volontà, di elevazione spirituale. L’uomo si distinguerebbe dal regno animale per la sua individualità, per la sua ingegnosità, per le sue creazioni, per il suo libero arbitrio. Tutte queste asserzioni si basano prevalentemente su una visione occidentale dell’uomo, sul suo narcisismo e su un certo disprezzo per le altre creature. Del resto non sappiamo nulla dei rapporti tra Dio e gli animali!».
  Così Castel commenta il fraintendimento di questi versetti26.
  Oggi gli esegeti sono d’accordo nell’interpretare il «dominio», che Dio ha dato all’uomo sugli animali, non in senso dispotico, ma come l’affidamento di un compito.
  Se il verbo kābaš, reso con «soggiogare», non vuol significare l’esercizio di un potere illimitato sulla terra, il verbo rādâ tradotto generalmente come «dominare», non va interpretato in senso dispotico. Esso può essere inteso piuttosto come «amministrare», «governare», «dirigere» o, meglio ancora, «pascere», «guidare».
  Il ruolo, che l’uomo deve esercitare nei confronti degli animali, può essere paragonato alle funzioni del pastore o del re: come un pastore accudisce e guida le greggi, così l’uomo «fa pascolare» e «guida» gli animali come un sovrano amministra il suo popolo, così l’uomo «governa» gli animali27. A tal proposito, va ricordato anche che, presso il popolo di Israele, l’esercizio del potere sovrano non è mai assoluto: il re non deve essere idolo (selem) e spesso i profeti misero il popolo in guardia verso i sovrani che volevano essere adorati come dèi28.
  Il conferimento all’uomo di un dominio sugli animali equivale pertanto all’affidamento di una responsabilità. Delegato di Dio, creato a sua «immagine e somiglianza», l’uomo deve rispettare la bontà della creazione e salvaguardare la vita sulla terra, conformandosi al piano divino.
  Dalla prima comparsa della luce, come un ritornello, l’opera della  creazione è stata accompagnata dall’espressione: «e Dio vide che era cosa buona». Per sei volte, prima della creazione dell’uomo, Dio si è soffermato a guardare la sua opera e ne ha constatato la bontà. Il racconto sacerdotale sottolinea che, anche a prescindere dall’esistenza dell’uomo, il mondo creato è intrinsecamente buono, tale da suscitare il compiacimento divino29.
  In questa senso, l’uomo deve avere sul creato lo sguardo di Dio.
  «L’uomo a immagine e somiglianza di Dio. In pratica, che sappiamo di Dio in questa prima pagina? Dio è colui che mette ordine nel caos primitivo e che emette un giudizio su tutte le sue opere, che vede che l’essere creato è cosa buona. L’uomo, a immagine di Dio, regna sulla terra; regna per lottare contro tutte le forze oscure, per far trionfare la luce. L’uomo, al seguito di Dio è chiamato a realizzare, fabbricare, procreare, ma non importa come; a immagine di Dio, deve domandarsi se ciò che egli fa nel quadro della creazione è buono. Egli agisce sulla terra ma è sotto il cielo, e bisogna che il suo giudizio corrisponda a quello di Dio. Altrimenti l’uomo diventa l’idolo di se stesso»30.
  Del resto, tra le creature, solo gli animali sono sottoposti al «dominio» umano. Questo implica l’esistenza di un rapporto di «relazionalità», che l’uomo ha con l’animale, ma che non ha con il resto del creato31.
  Ciò appare ancor più chiaramente dai vv. 29-30, in cui Dio pone le regole della sopravvivenza e da cui emergono i rapporti con le altre creature: «Ecco, io vi dò ogni pianta che fa seme su tutta la superficie della terra e ogni albero fruttifero che fa seme: questi vi serviranno per cibo. E a tutti gli animali della terra e a tutti gli uccelli del cielo e a tutto ciò che sulla terra si muove e che ha in sé anima vivente, io dò l’erba verde per cibo» (vv. 29-30).
  L’assegnazione del cibo accompagna spesso i racconti della creazione32. Con il cibo, il creatore assicura la sussistenza in vita degli esseri creati.
  In questi versetti, tuttavia, il provvedimento divino è tale da non comportare spargimenti di sangue: l’alimentazione è assicurata dai vegetali, privi di vita33. La sopravvivenza non richiede l’uccisione di esseri viventi. Uomini e animali sono vegetariani.
  «Il nostro racconto [...] accosta [...] in maniera sorprendente l’uomo all’animale. Sono entrambi creati nello stesso giorno e, come esigono le necessità corporali, si assidono alla stessa tavola (K. Barth). La lotta e l’uccisione pertanto non sono entrate nel mondo per l’ordinamento e il comando di Dio [...]. Nessuno spargimento di sangue nel regno animale e nessuna aggressione mortale da parte dell’uomo. Questa dichiarazione di Dio introduce dunque una chiara delimitazione nel diritto dell’uomo alla sovranità»34.
  Generati nello stesso giorno, gli animali sono posti al fianco dell’uomo, in un rapporto di reciproco rispetto. Come l’uomo sono stati benedetti, come l’uomo si moltiplicheranno e riempiranno la terra. L’uomo deve guidare gli animali e quale cibo deve servirsi della vegetazione. Il mondo della prima creazione esclude ogni forma di violenza. È un quadro idillico, pacifico e vegetariano35.
  Riferendosi alla globalità della sua opera, a questo stato di pace e di armonia tra gli esseri viventi, Dio constata che tutto ciò è «molto buono»: «E così fu. E Iddio vide che tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono» (v. 31).
  Spesso si è interpretata quest’espressione riferendola unicamente alla creazione dell’uomo36. Essa, in realtà, nel testo biblico, compare dopo che Dio ha rivolto il suo sguardo all’intera creazione, alla quale ha dato la sua legge. Essa va intesa pertanto come rivolta alla globalità dell’opera divina, approvata da Dio, rispondente alla realizzazione del suo piano e quindi «molto buona»37.

4. Il sabato

La cessazione dell’attività creativa suggella la bontà dell’opera di Dio. Il compimento della creazione coincide con il settimo giorno, il giorno del riposo divino (2, 1-2). Il sabato è il fine della creazione.
  «di cosa mancava il mondo? Del riposo! Venne il Sabato - venne il riposo, e così l’opera della creazione fu interamente compiuta». Così scrive il commentatore ebreo medioevale Rashi di Troyes38.
  A questi versetti fa riferimento il precetto del Decalogo che impone l’osservanza del riposo sabbatico: «Ricordati del giorno del riposo, per santificarlo. Per sei giorni lavorerai e attenderai alle opere tue, ma il giorno settimo è giorno di riposo per il Signore, Iddio tuo; non fare in quello alcun lavoro, né tuo figlio, né tua figlia; né il tuo servo, né la tua serva, o il tuo bestiame, o il forestiero, che è dentro alle tue porte; poiché in sei giorni il Signore fece il cielo e la terra e il mare e tutto quello che essi contengono, ma il settimo giorno si riposò: per questo il Signore benedì il giorno di sabato e lo santificò» (Es. 20, 8-11).
  Il settimo giorno è giorno di riposo; uomini e animali si asterranno da ogni attività lavorativa. È il riposo di Dio. È il riposo del creato. È scritto nel Berešit Rabbâ: «Tutto il tempo che le mani del suo Autore le toccavano, le opere si andavano completando [...]; quando le mani del loro Autore si ritrassero da esse, ebbero calma. E si riposò (Es. 20,11). Diede riposo al suo mondo»39.
  Il precetto sabbatico rappresenta la pace con la natura. L’uomo, gli animali e, ogni sette anni, la terra devono riposare40.
  «Nella quiete sabbatica gli uomini [...] riconoscono il carattere inviolabile del creato come proprietà divina»41.
  «L’osservanza del sabato, in fondo, è il vero culto che, secondo il Decalogo, prestano a Dio l’uomo e l’animale»42.
  È giorno di preghiera, di contemplazione.
  Questo giorno, che smentisce il mito occidentale dell’azione e dell’operosità, viene da Dio benedetto e santificato (2,3).
  La benedizione e la santificazione del sabato non hanno carattere particolare, non sono riferite all’una o all’altra creatura, ma si riferiscono a tutto l’universo, al «cielo», alla «terra» e a «tutte le loro schiere» (2,1). Esse hanno dimensione cosmica.
  Compimento e fine della creazione, questo è l’unico dei sette giorni, in cui non cala la sera. Il consueto ritornello «Fu sera e fu mattina» non si ripete per il sabato. La pace universale, il riposo di Dio nel creato43 si aprono a un «tempo eterno» e rappresentano «la speranza ed il futuro di tutte le creature»44.
  In questo senso, la visione della creazione è anche quella della redenzione. L’iniziale armonia dei creato diviene, per le creature, motivo di speranza e, per il Creatore, termine ultimo del piano di salvezza.
  Riferendosi al settimo giorno della creazione, così scrive Moltmann: «Dio si manifesta nell’intero creato e la creazione intera è rivelazione e specchio della sua gloria. È il mondo redento»45.

5. L’inno della creazione

Berē’šît, «in principio». Così inizia il primo capitolo del Genesi.
  «Perché l’universo è stato creato con la ב, bet?» ci si domanda nel Berešît Rabbā. Tra le numerose risposte, una è la seguente: «Perché essa è l’iniziale della parola běrākāh, benedizione, e non (è stato creato l’universo) con la א, alef, ch’è l’iniziale della parola ’ǎrîrāh, maledizione»46.
  Il racconto sacerdotale, in effetti, descrive un mondo benedetto da Dio. Se la benedizione divina è implicita nel versetto iniziale, essa diviene esplicita, oltre che in particolari momenti dell’attività creativa, al compimento dei settimo giorno, quando «i cieli e la terra e tutte le loro schiere» sono stati ultimati.
  La benedizione della creazione significa la sua bontà e, al tempo stesso, la sua sacertà.
  L’espressione «e Dio vide che era cosa buona» non indica soltanto l’intrinseca bontà del creato. Essa ricorre sette volte47 e il numero sette, per Israele, è il numero della perfezione e dell’armonia. Esso ha carattere sacrale: nel testo, altre formule fanno riferimento al numero sette48. In sette giorni Dio ha creato l’universo.
  Secondo la critica letteraria, si tratta di un testo liturgico, destinato alla celebrazione cultuale. Lo rivelano: lo schema, la struttura, i parallelismi delle formule, i frequenti richiami numerici, soprattutto del numero sette.
  Si tratta di un inno, che forse veniva cantato per la santificazione liturgica della settimana.
  In quest’inno, Dio è lodato attraverso il creato «in quell’immenso santuario che è il cosmo»49. in questa celebrazione corale di Dio, dove tutte le creature sono come «i celebranti di una liturgia di cui il mondo è il tempio»50, l’uomo ha certamente un ruolo speciale. Tuttavia, l’ispirazione del testo è teocentrica, e non antropocentrica. Fine di questo racconto della creazione è la glorificazione di Dio.
  In questa liturgia cosmica, a cui partecipano tutte le creature, l’uomo svolge le veci del sommo sacerdote, ma non è lui il fine della creazione51.
  Significativo quanto scrive Ravasi: «L’uomo [...] dovrebbe essere il liturgo della creazione, colui che rende visibile e udibile l’implicita e segreta lode che sale al Creatore dal sole e dalla luna, dalle <stelle fulgide>, dai mostri marini, da tutti gli abissi, dal fuoco, dalla grandine, dalla neve e dalla nebbia, dal <vento di bufera>, dalle colline, dagli alberi da frutto, dai cedri, dalle fiere e dalle bestie, dai rettili e dagli uccelli, come canta il Salmo 148»52.
  Assai simile al Salmo 148, citato da Ravasi, è il Cantico del profeta Daniele (3,57-90), altra preghiera biblica, rivolta a Dio dal creato. Il Cantico è una lode al Signore, a cui sono invitate a partecipare tutte le creature: i cieli, le acque, il sole e la luna, gli astri dei cielo, la pioggia, la rugiada, e tutti «i germogli della terra», i «mostri marini e tutto ciò che si muove nelle acque», tutti gli uccelli del cielo, gli animali «selvaggi e domestici» (Dan. 3, 57-81).
  L’ispirazione di queste lodi a Dio attraverso il creato non è molto lontana da quello spirito che indurrà Francesco d’Assisi ad «invitare tutti i volatili, tutti gli animali, tutti i rettili ed anche le creature inanimate a lodare e ad amare il Creatore»53.

6. Il rapporto con la terra e il giardino di Eden

L’ampiezza cosmica del testo sacerdotale non compare nel racconto jahwista (2,4b - 3,24), la cui attenzione è dedicata prevalentemente all’uomo. L’uomo è visto nelle sue concrete condizioni di vita e nelle sue relazioni con ciò che lo circonda: con la terra, con la natura e la vegetazione, con gli animali, con la donna. Si può dire che la storia del racconto jahwista è una storia di relazioni.
  Rispetto a Genesi 1, l’ordine della creazione è diverso: la prima creatura che compare è l’uomo.
  Prima ancora che l’uomo venga generato, è messo in luce il suo rapporto con la terra: l’uomo è plasmato perché deve prendersi cura della terra, arida per l’assenza non solo della pioggia, ma anche dell’uomo che la coltivi (2, 5).
  Il legame dell’uomo con la terra emerge dalla stessa etimologia: ’ādām è il nome dell’uomo, ’ǎdāmâ, quello della terra.
  L’uomo deve coltivare la terra (2,5), è plasmato con il fango della terra (2,7) e riceve da Dio l’incarico di «coltivare» e «custodire» il giardino di Eden (2,15).
  La creazione è affidata al lavoro dell’uomo, visto nei suoi concreti ed attivi rapporti con la natura. «Il mondo non è né divinizzato né demonizzato»54. L’uomo deve «coltivare» il giardino di Eden, ma anche «custodirlo», salvaguardandone l’ordine e l’integrità. Il lavoro umano non può deturpare il mondo naturale.
  I verbi usati ’ābad (coltivare) e šāmar (custodire) hanno entrambi un profondo significato religioso. L’uno si riferisce anche al servizio dei culto e ai rapporti con Dio; l’altro è usato anche per indicare la fedeltà a Dio con l’osservanza della legge. L’uomo è responsabile dinanzi a Dio del giardino della creazione.
  Lo stesso principio, che ispira il riposo sabbatico, compare nel racconto jahwista. C’è il senso del rispetto del creato.
  Poi Dio disse: «Non è affatto bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto a lui corrispondente» (2,18). Così Dio formò gli animali.
  Plasmati, come l’uomo, con il fango della terra, gli animali sono posti al suo fianco, per colmare il vuoto della sua solitudine.
  Come il testo sacerdotale, anche il racconto jahwista della creazione descrive la vicinanza tra l’uomo e l’animale. Generati entrambi dalla terra, essi sono legati da un rapporto di compagnia e di aiuto. A tale scopo, Dio ha condotto gli animali all’uomo; a tale scopo glieli ha affidati. La successiva generazione della donna, destinata ad appagare pienamente Adamo (vv. 21-25), nulla toglie al fine per cui Dio ha creato gli animali55.
  Agli animali l’uomo dà un nome. Secondo la concezione dell’antico Oriente, l’imposizione del nome è un gesto che indica l’assunzione di un’autorità; esso comporta un potere sovrano, ma anche una responsabilità. Il rapporto che, secondo questo racconto, deve intercorrere tra l’uomo e l’animale è analogo a quello indicato in Genesi 1 (vv. 26 e 28)56.
  Scrive Moltmann: «Non si tratta soltanto di un atto di autorità: ora gli animali entrano nella comunione linguistica degli esseri umani. Non si parla mai di un’ostilità fra uomini e animali e neanche di un diritto che l’uomo avrebbe di ammazzarli. Gli esseri umani saranno dei «giudici di pace»57.
  Gli animali entrano nell’ambito umano. Essi sono familiari all’uomo; l’uomo li può conoscere. Dell’uomo condivideranno il destino58.

7. Il peccato

Il peccato dell’uomo sconvolge l’armonia della creazione. I rapporti di serena convivenza tra l’uomo e Dio, l’uomo e la donna, gli esseri umani e la natura vengono meno.
  Entra in scena il serpente, «il più astuto tra tutti gli animali della campagna» (v. 1), simbolo, in realtà, del peccato, dell’idolatria, dell’ambizione, della tentazione, che costantemente insidia l’animo umano59.
  L’uomo, tentato dal serpente, cioè dalla sua arroganza e dal suo orgoglio, troppo presume di sé e pretende di sostituirsi a Dio. Trasgredisce così l’ordine divino e viola le regole stabilite per il sacro giardino della creazione.
  Al piano di Dio l’uomo ha sostituito il suo progetto alternativo. La terra è maledetta, la natura diviene ostile: «la terra sarà maledetta per causa tua; con lavoro faticoso ricaverai da quella il tuo nutrimento per tutti i giorni della tua vita, essa ti produrrà spine e triboli» (3,17-18); «col sudor della tua fronte mangerai il pane» (3,19).
  Con il peccato e la punizione divina, il rapporto tra l’uomo e la terra risulta capovolto: se prima la terra era bisognosa della coltivazione (2,5.15) e della custodia (2,15) dell’uomo, ora sarà l’uomo a dover dipendere dal lavoro della terra, divenuta ostile e ribelle.
  Il rapporto con la terra, inoltre, prima simbolo della generazione, ricorda ora all’uomo la sua mortalità: «Poiché tu sei polvere e nella polvere ritornerai» (3,19).
  Come i falsi dèi, e come i sovrani che si atteggiano a dèi, così anche l’uomo, fatto in realtà di terra, si romperà come un idolo di argilla.
  Ecco espressa quella caducità umana, che ispirerà a Qoèlet espressioni come questa: «la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa; come muoiono quelli, muoiono queste [...] tutt’e due sono usciti dalla polvere e tutt’e due ritornano nella polvere» (Qo. 3, 19-20). Così l’Autore dell’Ecclesiaste rileverà la parità di condizione tra l’uomo e l’animale, legati da una comune origine e, forse, da uno stesso destino (cfr. 3,21: «Chi sa se il soffio vitale dell’uomo sale in alto e quello della bestia scende sotto terra?»).
  Il riferimento alla polvere della terra è sinonimo di creaturalità e altrove ricorre, nell’Antico Testamento, come espressione del ridimensionamento dell’uomo, che deve essere riportato al senso dei suoi limiti (Giob. 42,6).
  Dopo la punizione divina, Adamo dà un nome alla donna: «L’uomo chiamò la sua donna <Eva> (vita), perché essa è divenuta la madre di tutti i viventi» (v. 20).
  Inizia l’avvicendarsi delle morti e delle nascite, inizia il succedersi dei viventi e delle loro generazioni. Affinché non possa attingere il frutto dell’albero della vita, Adamo è cacciato dal giardino dell’Eden.
  Il male, l’inimicizia, la disarmonia sono entrati ormai nei rapporti tra le creature. La disonestà, la violenza, il dolore, la morte compongono il quadro di questo mondo desolato.
  La corruzione ed il male, che regnano nella creazione, ispireranno a Osea questa descrizione: «ovunque spergiuri, / menzogne, omicidi e latrocini, adulteri, / violenze e sangue che provoca sangue. / Ecco perché il paese è in lutto / e chiunque vi abita deperisce; / perfino le bestie dei campi, / gli uccelli dei cielo / e i pesci del mare scompaiono» (Os., 4,2-3)60.

 

Diluvio e nuova creazione

Il racconto riportato ai capitoli 4-8 narra la corruzione dei discendenti di Adamo, la riprovazione divina, la decisione di Dio di sterminare i viventi, le indagini del diluvio che colpisce la creazione. Secondo le ipotesi documentarie, le tradizioni jahwista e sacerdotale si alternano e s’intrecciano nel racconto. Pur individuabili per diversità di ispirazione, esse non verranno menzionate, nel breve cenno che verrà dato delle vicende del diluvio.
  Sembra invece risalire interamente alla tradizione sacerdotale il testo del capitolo 9 (1-17), che descrive la situazione dopo il diluvio, i nuovi rapporti tra l’uomo e il creato e tra Dio e la creazione. 

l. Violenza e nuovo ordine

La malvagità e la violenza hanno riempito la terra.
  Il diluvio universale, con cui Dio decide di sterminare «ogni mortale» (6, 13), è più che una punizione. È una distruzione dell’ordine creato: «Nell’anno 600 della vita di Noè, il secondo mese, il diciassette dei mese, in quel giorno irruppero tutte le fonti dei grande abisso e le cateratte del cielo si aprirono» (7,11).
  La separazione delle acque, operata nel secondo e nel terzo giorno della creazione (1,7-9), viene annullata. Col diluvio, tornano ad unirsi le acque dei cieli e quelle della terra, che, nel secondo giorno, erano state divise dalla creazione dei firmamento (1,7). L’«asciutto», apparso il terzo giorno della creazione (1,9), è ormai sommerso. Dio distrugge lo spazio vitale che aveva creato. È il ritorno al caos primordiale (1,2). Si rinnova il volto della terra.
  Solo Noè e gli animali che, a coppie per ogni specie, sono saliti nell’arca61 vengono salvati.
  La punizione divina ha colpito la creazione. Si è placato l’animo di Dio. Ma il diluvio non rappresenta l’eliminazione del male: «i disegni del cuore dell’uomo sono malvagi sin dalla sua infanzia» (8,21).
  Dopo il diluvio, nuove leggi sostituiscono le antiche.
  Il testo (9,1-17), di elaborazione sacerdotale, richiama quello di Genesi 1. Qui l’uomo esercitava un dominio benevolo sugli animali. L’unico cibo era la vegetazione.
  Ora lo stato di pace e non violenza della prima creazione non è più possibile. I rapporti tra le creature sono comunque alterati: l’uomo incuterà «paura» e «terrore» a tutti gli animali (9,2); il suo dominio da benevolo si trasformerà in tirannico.
  Dio riconosce la violenza, che si è insinuata tra i viventi, e fa delle concessioni: «tutto ciò che si muove e ha vita sarà vostro cibo; io vi dò tutto, come già i verdi erbaggi» (9,3).
  In questa creazione rinnovata non vige più un regime alimentare esclusivamente vegetariano; l’uomo si ciberà della carne degli animali.
  Qualche esegeta, traducendo il termine remeś come «ciò che striscia», riduce la concessione ai rettili e ai soli animali a sangue freddo62.
  Tuttavia, la maggior parte degli interpreti intende in senso lato la disposizione divina.
  Si tratta, osserva Von Rad, di un «ordinamento di emergenza»63. Dio concede gli animali all’uomo, ma pone dei limiti: «Soltanto non mangerete la carne con il suo sangue» (9,4).
  Che significato ha questa restrizione?
  Per Westermann si tratta di un precetto contro la brutalità. Precedendo immediatamente la norma contro l’omicidio (9,5), il precetto che impone di «non mangiare la carne con il suo sangue» fa parte di un elenco di regole morali di comportamento. Il testo è ispirato a principi elementari di umanità. «La condotta, che un uomo ha verso altri uomini, non va disgiunta dal suo comportamento verso gli animali»64.
  Altri interpreti richiamano il rituale sacrificale e il significato simbolico dei sangue: «guardati bene dal mangiare il sangue, perché il sangue è la vita, e tu non devi mangiare la vita con la carne». Così è scritto nel Deuteronomio (12,23). Il sangue è simbolo della vita. L’uomo non può mangiare il sangue dell’animale, cioè la sua vita.
  Per Castel, l’offerta del sangue a Dio risponde al conferimento di una responsabilità: «Se l’uomo uccide un animale, dovrà offrire a Dio il suo sangue, cioè la sua vita. Dovrà giustificare il suo atto davanti a Dio»65.
  Il precetto di Genesi 9,4, tratto dal rito sacrificale e rivolto all’umanità in genere, è qualcosa di ben più vasto di una semplice pratica culturale.
  Con questo precetto Dio ricorda all’uomo che ogni vita è sua: «Anche quando colpisce e uccide, l’uomo deve sapere che colpisce qualcosa che, essendo vita, è proprietà particolare di Dio; per significarlo, dovrà astenersi dal sangue»66.
  La prescrizione, che impone di risparmiare il sangue degli animali uccisi, vuole forse richiamare, sia pur simbolicamente, quella legge di non violenza, che Dio aveva fissato nella prima creazione «Gen. 1, 29).
  Un confronto tra i vari testi della redazione sacerdotale - i racconti della creazione, del diluvio, della rigenerazione del creato - consente di coglierne l’ispirazione generale.
  L’apprezzamento incondizionato di Dio per quella condizione ideale, vigente nella prima creazione, giudicata da Dio «molto buona» (1,31) e caratterizzata dall’assenza di spargimenti di sangue, diviene ancor più significativo se si considera che l’espressione, con cui la redazione sacerdotale indica l’estrema corruzione prima dei diluvio, si riassume in una parola: chāmās, «violenza» (6,11.1 3).
  Dio, in fondo, non ha rinunciato al suo piano. Salvando il sangue dell’animale, ne salva, sia pur simbolicamente, la vita. In tal caso, la salvezza del sangue dell’animale potrebbe forse acquistare significato anche in riferimento a una prospettiva futura di salvezza. 

2. Alleanza e salvezza

Le regole dettate alla nuova creazione non vanno isolate dal loro contesto, ma interpretate alla luce di tutto il brano. Esso attesta la benevolenza di Dio verso tutto il creato.
  Con l’uomo e con tutti i viventi Dio stipula un patto di alleanza: «Ecco io stabilisco la mia alleanza con voi, e con la vostra progenie dopo di voi; e con ogni essere vivente che è con voi: con i volatili, con il bestiame e con tutte le fiere della terra che sono con voi, da tutti gli animali che sono usciti dall’arca a tutte le fiere della terra» (9,9-11).
  Dopo l’esposizione delle nuove leggi, tutto il seguito dei racconto sacerdotale (9,8-17) è dedicato alla promessa, fatta all’uomo e a tutti i viventi, che «nessuna carne verrà più sterminata dalle acque del diluvio».
  Un elemento naturale, l’arcobaleno, attesterà l’amicizia che esiste tra il cielo e la terra.
  In questa seconda parte del racconto, c’è un’apertura cosmica che richiama la visione di Genesi 1. Il parallelismo è sottolineato anche dal ripetersi del numero sette: sette volte Dio aveva constatato la bontà della creazione; sette volte ricorre ora la parola «alleanza»67.
  Stipulando un patto di alleanza con l’uomo e con tutti i viventi, Dio ricorda quel piano di armonia del creato, che aveva ispirato la prima creazione.
  In un mondo percorso ormai dalla violenza, Dio detta regole minime di comportamento (9,4-7), ma la prospettiva della pace nella creazione è sempre presente.
  Se all’inizio del brano le parole «paura» e «terrore» caratterizzano i rapporti tra l’uomo e il creato (9,2), la promessa conclusiva ricorda che tutti i viventi sono compresi nell’abbraccio del loro Creatore.
  Il capitolo, nel suo complesso, presenta una visione di ascesa progressiva: muovendo da una situazione iniziale di violenza, presentata nei primi versetti (9,2-3), esso apre infine ad orizzonti di speranza.
  Come il racconto sacerdotale della creazione termina nel sabato, così il testo sacerdotale, che narra la ri-creazione dopo il diluvio, è teso verso il futuro.
  Richiamando proprio lo Šabbat, De Benedetti definisce il testo di Genesi 9,9-11 «la base negletta (che oggi si va riscoprendo) di una teologia animale»: «L’alleanza che Dio ha fatto con gli animali è destinata a diventare alleanza escatologica»68.

 

L’attesa del creato

Come la storia del popolo di Israele, così anche la storia della creazione è destinata a compiersi.
  Anche questa storia, scritta in un tempo di attesa, va letta in una luce salvifica.
  Le regole di non violenza, dettate da Dio prima del peccato, il precetto di risparmiare il sangue degli animali uccisi, l’alleanza di Dio con gli uomini e con tutti i viventi, rappresentano le tappe successive di un percorso verso un futuro, che si prospetta oltre il tempo, e che è destinato a chiudere la triste esperienza della storia e del mondo secolarizzato, con il loro male, la loro violenza, il loro peccato.
  Allora potrà compiersi il progetto divino di un universo armonioso ed ordinato, non macchiato da spargimenti di sangue, quale già si era attuato nella prima creazione.
  Alla fine dei tempi, al di là del tempo, si colloca una prospettiva di bene assoluto, analogo a quello della prima creazione.
  In effetti, nel testo biblico, la descrizione di uno stato di pace e non violenza tra gli esseri viventi è richiamata in una prospettiva futura. Assai note sono le immagini, descritte da Isaia: «il lupo abiterà con l’agnello, e il leopardo giacerà col capretto» (11,6). Allora tornerà la pace tra le creature e cesserà ogni violenza tra i viventi (11, 6-9). Tale prospettiva di speranza ricorre anche in altri passi (Is. 65, 25; Os. 2, 20).
  Così un brano di Lutero dipinge quello stato ideale di beatitudine: «L’uomo giocherà con cielo e terra e sole e con le creature; tutte le creature proveranno anche un piacere, un amore e una gioia lirica; rideranno con te, Signore, e tu a tua volta riderai con loro»69.
  Come l’Antico, così anche il Nuovo Testamento prospetta una salvezza futura, verso cui tende l’intera creazione. «Stimo che le sofferenze del tempo presente non possano essere paragonate alla gloria futura che si rivelerà a noi. Poiché la creazione attende con gran desiderio la glorificazione dei figli di Dio» (Rom. 8, 18-19). Così Paolo esprime «la speranza che la creazione stessa un giorno sarà liberata dalla servitù della corruzione, per aver parte alla libertà della gloria dei figli di Dio» (Rom. 8, 19-21).
  Commentando questi versetti, Barth invita l’uomo a non deludere l’attesa del creato: «abbiamo noi udito il gemito della creatura, che, se sappiamo udire, ci dice tutto quello che abbiamo bisogno di udire?»70.
  Così, nel contrasto tra un mondo ideale, di liberazione dal male e dal dolore, e il mondo esistente, sofferente e malvagio, emerge una tensione, emerge il senso del presente, sospeso tra un prima e un poi. In quest’ottica, si chiarisce il senso biblico e cristiano di un cammino da percorrere, quel cammino lungo il quale l’uomo, il delegato di Dio, il sacerdote del creato, deve guidare la creazione. Scrive Barth: «l’attenzione del creato [...] aspetta con noi; no, essa aspetta noi»71.

 


Bibliografia e note

  1) M. Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, trad. di A. Barbato, Adelphi, Milano 1988, p. 290.
  2) F. Bacone, Novum organum, trad. di E. De Mas, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 294.
  3) Cfr. quanto scrive Tommaso d’Aquino: «nessuno pecca per il fatto che si serve di un essere per lo scopo per cui è stato creato. Ora, nella gerarchia degli esseri quelli meno perfetti son fatti per quelli più perfetti [...] così [...] le piante, son fatte ordinarianiente per gli animali e gli animali son fatti per l’uomo [...]. Dunque è lecito sopprimere le piante per uso degli animali, e gli animali per uso dell’uomo» (Summa Theologiae, II-II, q. 64, a. 1).
  4) Anche Tommaso d’Aquino si rifece a quest’argomentazione (cfr: ibid.; Summa contra Gentiles, III, 112).
  5) Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 25, a. 3. Anche Agostino (De civitate Dei, 1,20) teorizzò la differenza radicale tra l’uomo e gli animali e, polemizzando contro marcioniti e manichei, sostenne la legittimità dell’uccisione degli animali, perché privi di ragione. Sul rapporto tra Padri della Chiesa e questione animale, cfr. A. Bondolfi, «Rapporto uomo-animale. Storia dei pensiero filosofico e teologico» (pp. 57-77), in Rivista di teologia morale, n. 82 (2), aprile/giugno 1989, pp. 66-70.
  6) Tra le numerose critiche dei passato, basti ricordare quella di Schopenhauer verso la religione giudaico-cristiana, soprattutto l’Antico Testamento (Il fondamento della morale, trad. di E. Pocar, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 243-257). Le responsabilità ecologiche della cultura cristiana, così come si è sviluppata in Occidente, sono riconosciute oggi anche da teologi, come, per esempio, J. Moltmann, Dio nella creazione, trad. di D. Pezzetta, Queriniana, Brescia 1986, p. 33.
  7) Cfr. G. Von Rad, Genesi, trad. di G. Moretto e Benedettine di Civitella san Paolo, Paideia, Brescia 1978, pp. 55-56.
  8) Il ricorrere delle formule nella tradizione sacerdotale ha un significato teologico e simbolico. Castel mette in relazione le dieci parole della creazione di Genesi 1 con i dieci comandamenti, dati da Dio a Mosè (Es. 20,1-17). Cfr. F. Castel, «Dio disse ...», a cura di G. Ravasi, Paoline, Torino 1987, p. 14.
  9) Cfr. R. Albertz, C. Westermann, «Rûach-Spirito» in E. Jenni, C. Westermann, Dizianario Teologico dell’Antica Testamento, edizione italiana a cura di G. L. Marietti, Casale Monferrato 1982, voi. 2°, pp. 654-678.
  10) Cfr., in questo senso, Moltmann, che svolge tuttavia questa considerazione in riferimento all’utilizzo di rûach in Sal. 104, 29-30 e Prov. 2, 22-31 (Moltmann, Dio nella creazione, cit., p. 22).
  11) L’interpretazione è riferita in P. E. Testa, Genesi, Marietti, Torino-Roma 1969, p. 255.
  12) Così fecero, nei secoli II e III, Ireneo, Antenagora, Clemente Alessandrino, Teofilo di Antiochia, che interpretò lo «Spirito» come «Colui che Dio ha dato come principio vitale della creazione» (cfr. Testa, Genesi, cit., p. 255). Sull’interpretazione patristica e medievale di Genesi 1,2, cfr. anche A. Tarabochia Canavero, Esegegesi biblica e cosmologia, Vita e Pensiero, Milano 1981, in particolare (per le notizie, qui riportate) pp. 31-33.
  13) Così fecero Basilio, Ambrogio, Gerolamo, Agostino. Fu quest’ultimo che, in polemica contro i manichei, tenne particolarmente a precisare il carattere trascendente dello Spirito di Dio, che «non abita nelle acque, ma le sovrasta» (cfr. Tarabochia Canavero, Esegegesi biblica e cosmologia, cit, pp. 36-62).
  14 Cfr., in proposito, Tarabochia Canavero, Esegegesi biblica e cosmologia, cit., pp. 42-47.
  15) Fanno questo riferimento alcuni esegeti moderni, che riprendono l’interpretazione di Gerolamo (cfr. Testa, Genesi, cit., pp. 255-256).
  16) Se alcuni esegeti riprendono l’interpretazione di Gerolamo (cfr. retro, nota 15), tutti concordano nell’escludere che nell’Antico Testamento potessero esservi allusioni alla Terza Persona della Trinità (cfr. Testa, Genesi, cit., p. 255).
  17) Cfr., in questo senso, C. Westermann, Genesis 1-11, SPCK, Minneapolis 1984, p. 107; così anche von Rad, Genesi, cit., pp. 56-57. Il testo de La Bibbia (LDC-ABU, Leumann-Roma 1985) segue questa interpretazione.
  l8) Così è intesa rûach ’Elōhîm di Gen. 1, 2 nella maggior parte delle traduzioni e dei commentari. Tra le edizioni italiane, cfr., per esempio, La Sacra Bibbia, edizione ufficiale della C.E.I., Città dei Vaticano 1992; La Sacra Bibbia, trad. di Diodati, Società Biblica Britannica e Forestiera, Roma 1994; La Sacra Bibbia, nuovo testo riveduto a cura della Società Biblica di Ginevra, Torino 1994. Anche la versione rabbinica della Torah riporta l’espressione «spirito di Dio» (Il Pentateuco e Haftaroth, a cura dell’Assembica Rabbinica d’Italia, Roma, IV edizione, 5749-1989). Questo significato è stato attribuito a Gen. 1,2 anche da Giovanni Paolo II nel discorso del 10 gennaio 1990 («L’azione creatrice dello Spirito divino», in Osservatore Romano, 11 gennaio 1990). Tra i commentari, cfr. Testa, Genesi, cit., pp. 253-256; U. Negri (a cura di), Genesi, EDR, Bologna 1995, pp. 4-7.
  19) Moltmann, Dio nella creazione, cit., p. 123.
  20) La tesi è sostenuta non solo attraverso il parallelismo con la cosmogonia babilonese di Marduk, ma con riferimento a molti passi della Bibbia (Sal. 33,6; Is. 11,4; 34,16; Sal. 147,18; Sal. 104, 29). Per Testa, «questo senso di rûach [...] è comune nella Bibbia, ove spesso è confuso con dābār, parola di Dio operante» (Testa, Genesi, cit., p. 256).
  21) Secondo la cosmografia biblica il firmamento è come una pelle di tenda o come una lamina di cristallo lucente. Sopra ci sono le «acque superiori». Esse sono conservate in serbatoi, da cui tuttavia possono uscire attraverso le «cateratte», dando luogo alla pioggia. Sulla cosmografia biblica, cfr. Testa, Genesi, cit., pp. 32-33.
  22) Cfr. quanto già osservato al § 1, nota 7.
  23) Cfr., in questo senso, von Rad, Genesi, cit., p. 66. Cfr. anche quanto osservato al paragrafo, § 1, a proposito di rûach-dābār.
  24) Così preferisce intendere Testa (Genesi, cit., p. 263). Altri traducono «i grandi mostri marini», includendo, in quest’espressione, anche il Leviathan, esplicitamente citato nella letteratura sapienziale (Sal. 104,26; Giob. 40,25-41,26). Così Von Rad, Genesi, cit., p.66.
  25) Si preferisce qui intendere l’espressione biblica nel senso più ampio, rispetto a quella più ristretta di pesci e uccelli, onde indicare la varietà delle forme viventi che nascono con la creazione. Cfr. in questo senso, Testa, Genesi, cit., p. 262.
  26) Castel, «Dio disse...», cit., pp. 53-54.
  27) Queste interpretazioni dei vv. 26-28 oggi sono seguite da molti studiosi. Westermann mette in relazione il «governo» dell’uomo sugli animali con i vv. 16 e 18: l’uomo «governa» gli animali, come il sole e la luna «governano» il giorno e la notte; a indicare la funzione dell’uomo nella creazione, richiama anche la figura del buon pastore di Gv. 10, 3 (Westermann, Genesis 1-11, cit., pp. 159-161). Interpretazioni analoghe in J. L. Ska s. j., «Creazione e liberazione nel Pentateuco», in AA. VV., Creazione e liberaziorie nei libri dell’Antico Testamento, Elle Di Ci, Lcumann Torino 1989, pp. 15-16; A. Bonora, «Dio nella creazione secondo Genesi 1-11», in R. Gerardi (a cura di), La creazione. Dio, il cosmo, l’uomo, Studium, Roma 1990, pp. 57-58; R. Pacini, Questione ecologica e responsabilità del cristiano, Paoline, Torino 1991, p. 83.
  28) Cfr. Castel, «Dio disse...», cit., pp. 53-54.
  29) Cfr. Salmo 104, 31b: «nelle opere sue si allieti Iddio!». Anche Giovanni Paolo II ha richiamato in due discorsi l’«intrinseca bontà della creazione» con riferimento a Gen. 1 (Giovanni Paolo II, Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 1990, Paoline, p. 4; «L’azione creatrice dello Spirito divino», cit.). In questi ultimi anni si è registrata, nell’ambito delle chiese cristiane, una presa di coscienza delle responsabilità ecologiche dell’uomo. Una delle testimonianze più significative è rappresentata dall’Assembica ecumenica delle chiese cristiane, riunitesi a Seoul il 5-12 marzo 1990. Il documento conclusivo dei lavori dell’Assembica merita una citazione: «Riteniamo che ogni vita sia sacra perché la creazione è di Dio e la bontà di Dio la permea completamente. Ogni forma di vita nel mondo [...] è in pericolo, perché l’umanità non è stata capace di amare la vita sulla terra [...]. Alcune espressioni bibliche, ad esempio «dominare» e «soggiogare la terra», sono state interpretate in modo distorto, nel corso dei secoli, per giustificare azioni distruttive nei confronti dell’ordine creato. Mentre ci pentiamo di queste violazioni, accettiamo l’insegnamento biblico secondo cui gli esseri umani [...] hanno una responsabilità speciale [...] di prendersi cura della creazione e vivere in armonia con essa [...]. Opporremo resistenza alla pretesa che ogni cosa, nel creato, sia una semplice risorsa da sfruttare da parte dell’umanità» (Seoul: Giustizia, pace e salvaguardia del creato, a cura di A. Filippi, EDB, Bologna 1990, p. 369).
  30) Castel, «Dio disse...», cit., p. 55.
  31) Cfr., in questo senso, Westermann, Genesis 1-11, cit., pp. 159-160.
  32) Così anche in Sal. 104,21.27-28; Giob., 38,39-41. Sul rapporto tra il rifornimento di cibo e creazione nelle altre cosmogonie, cfr. Westermann, Genesis 1-11, cit., pp. 162-164.
  33) Cfr. quanto già rilevato al § 2 di questo capitolo.
  34) von Rad, Genesi, cit., p. 72.
  35) Tale quadro, che trova analogie in altri racconti riferiti alla prima creazione o a una mitica età dell’oro (cfr. Westermann, Genesis 1-11, cit., pp. 163-164), esprime anche, in ogni caso, «una naturale simpatia verso tutte le creature e l’innata convinzione che la persecuzione e l’uso della forza tra le creature non può essere il volere originale del Creatore». L’osservazione, di Dillmann, è riportata da Westermann (ivi, p. 4).
  36) Cfr., per esempio, Testa, Genesi, cit., p. 266.
  37) Così scrive Westermann: «Questa formula di approvazione, come è spesso chiamata, non è la chiusa di un lavoro particolare, ma dell’intero lavoro della creazione» (Westermann, Genesis 1-11, cit. p. 165). Cfr., analogamente: von Rad, Genesi, cit., pp. 72-73.
  38) Rashi di Troyes, Commento alla Genesi, trad. di L. Cattani, Marietti, Casale Monferrato 1985, p. 15.
  39) Berešit Rabbâ, trad. di A. Ravenna, Utet, Torino 1978, p. 89.
  40) Cfr. Lev. 25, 1-7: «abbia la terra il suo sabato, in onore del Signore. Per sei anni seminerai il tuo campo [...]. Ma il settimo anno sarà riposo completo, riposo per la terra, riposo in onore del Signore» (vv. 2-4).
  41) Moltmann, Dio nella creazione, cit., p. 319.
  42) P. De Benedetti, «Uomini e animali di fronte a Dio» (pp. 13-26), in P. Stefani (a cura di), Gli animali e la Bibbia, Garamond, Roma 1994, p. 25.
  43) Cfr., in questo senso, Moltmann, Dio nella creazione, cit., pp. 320-323.
  44) Ivi., p. 323.
  45) Ivi, p. 331.
  46) Berešit Rabbâ, cit., p. 35.
  47) Cfr. v. 1, dopo la creazione della luce; v. 10, dopo la separazione della terra dalle acque; v. 12, in riferimento alla generazione delle piante; v. 18, dopo la creazione degli astri; v. 21, in riferimento agli animali acquatici e ai volatili; v. 25, riferito alla creazione degli animali terrestri (bestiame, rettili, fiere); v. 31, riferito all’intera creazione. Per quest’ultima formula di approvazione è usato il superlativo «molto buono». Essa è, nell’ordine, la settima. E evidente il parallelismo con la benedizione e la santificazione dei settimo giorno, riferita anch’essa all’intera creazione.
  48) Testa osserva che: sette sono i vocaboli dei v. 1, il v. 2 ne ha 7+7, sette volte ricorrono le frasi: «così fu», «e Dio fece», «e Dio vide che ciò era buon» (Testa, Genesi, cit., p. 48). Sui richiami numerici, anche al numero dieci, cfr. anche quanto già osservato al § 1 di questo capitolo e alla nota 8.
  49) Pacini, Questione ecologica e responsabilità del cristiano, cit., p. 83.
  50) Ibidem
  51) Sulla visione teocentrica, e non antropocentrica della Bibbia, cfr. Moltmann, Dio nella creazione, cit., p. 46.
  52) Ravasi, Il libro della Genesi, cit., p. 43.
  53) Il passo, di Tommaso da Celano, è tratto da G. De Roma, Sorella terra. L’ecologia nella Bibbia e in san Francesco, Paoline, Milano 1991, p. 46.
  54) Bonora, «Dio nella creazione secondo Genesi 1-11», cit., p. 59.
  55) Scrive Damien: «in questo senso, e unicamente in questo senso, gli animali sono creati per l’uomo. Tuttavia non gli bastano. Constatando ciò, Dio crea la donna. Così va bene. Nulla viene però tolto al valore primario dell’animale» (M. Damien, Gli animali, l’uomo e Dio, trad. di N. Neri, Piemme, Casale Monferrato 1987, p. 130).
  56) Sottolinea questo significato particolarmente Ravasi, Il libro della Genesi (1-11), cit., pp. 58-59. L’accostamento a Gen. 1, 28 è fatto da von Rad (Genesi, cit., pp. 102-103).
  57) Moltmann, Dio nella creazione, cit., p. 221.
  58) L’imposizione del nome è stata anche riferita alle capacità conoscitive umane: elencare i nomi degli animali e delle altre realtà era compito dello scienziato (cfr. Ravasi, Il libro della Genesi (1-11), cit., p.59). Ravasi mette anche in relazione questa funzione dell’uomo «catalogatore» di Gen. 2, 19 con l’elencazione classificatoria di animali che compare in Giob. 38,39 - 39,12 (G. Ravasi, Giobbe, Borla, Roma 1984, p. 761). Sulla familiarità e il comune destino che comporta l’imposizione del nome, scrive De Roma: «Ricevendo un nome dall’essere umano, gli animali vengono associati al suo stesso destino. Entrano a far parte della storia umana [...]. L’essere umano non può né ignorarli, né maltrattarli [...]. Tradirli è un abuso imperdonabile di autorità. Significa tradire il mandato che abbiamo ricevuto da Dio. Un mandato del quale un giorno dovremo render conto» (De Roma, Sorella terra, cit., p. 50).
  59) Della figura del serpente sono state date diverse interpretazioni. Identificato con Satana, il diavolo tentatore, dalla tradizione giudaico-cristiana, paragonato ai mostri usciti dal caos presenti nelle mitologie orientali, il serpente, nelle culture vicine a Israele, rappresentava un simbolo di fecondità, di giovinezza perenne ed era legato ai culti della natura. Un serpente era raffigurato anche sopra il copricapo del faraone d’Egitto. Nella scelta di questo simbolo certamente c’è un’allusione, rivolta a Salomone, al pericoloso fascino delle altre culture, in particolare quella dell’Egitto, da cui proveniva una delle mogli del sovrano. Tuttavia, indipendentemente dai richiami allegorici, questa figura rappresenta il simbolo della tentazione e del peccato, soprattutto d’orgoglio. Probabilmente il testo voleva dissuadere il re dall’assumere gli atteggiamenti dei sovrani stranieri, che si facevano adorare dal popolo come dèi. Sull’avversione di Israele per i sovrani-idoli, cfr. quanto già osservato al paragrafo § 3 e nota 31). Sulla simbologia del serpente, cfr. Castel, «Dio disse...», cit., pp. 92-96; Ravasi, Il libro della Genesi (1-11), cit., pp. 69-70.
  60) L’accostamento di Os. 4, 2-3 al mondo ormai corrotto dopo il peccato è di Damien (Gli animali, l’uomo e Dio, cit., p. 132).
  61) Il numero degli animali, che salgono sull’arca, è riportato diversamente nelle due tradizioni. Secondo il testo sacerdotale, attento ad elencare gli animali come in Genesi 1, entra una coppia per ogni specie al fine di salvaguardarne la sopravvivenza (Gen. 6, 19-20); il testo della tradizione jawhista, che prevede il sacrificio dopo il diluvio (Gen. 8, 20), distingue tra animali impuri e animali puri, che entrano nell’arca in numero superiore, sette paia per ogni specie (Gen. 7,2-3), per poter essere successivamente sacrificati.
  62) Così Testa, che traduce. «ogni rettile che ha vita sarà per voi cibo» (9,3). Per Testa il v. 3 consente solo il consumo di «animali inferiori» (pesci, rettili, locuste): «Tali animali (pesci - rettili), esclusi dal sacrificio divino, sembravano infatti una classe intermedia tra i vegetali ed i veri animali superiori; si consideravano tuttavia privi di sangue [...]. Essi son quindi dati all’uomo, quasi fossero verdi erbaggi, il quale ne potrà uccidere e usare a suo piacimento [...]. Dall’uso commestibile dell’uomo è invece esclusa la <carne> degli animali superiori, perché è carne in cui (benafśô) vi è il <sangue suo>, il quale - si sa - dai Semiti è considerato proprietà esclusiva di Dio, essendo stato identificato con la stessa anima». Secondo Testa, la concessione di mangiare la carne degli animali, ebbe una costante evoluzione nel tempo e si allargò progressivamente il numero degli animali che era consentito mangiare (Testa, Genesi, cit., pp. 383-384).
  63) L’espressione è di von Rad, Genesi, cit., p. 167.
  64) Westermann, Genesis 1-11, cit., p. 465.
  65) Castel, «Dio disse...», cit., p. 165.
  66) von Rad, Genesi, cit., p. 167.
  67) Questi richiami sono evidenziati da Castel, «Dio disse...», cit., p. 167. Con riferimento al numero sette, Ravasi sottolinea che sette sono i colori dei simbolo dell’arcobaleno e che, nella mistica islamica, simboleggiano le qualità divine riflesse nell’universo. È «un’epifania di Dio iscritta nella natura. Attraverso questo simbolo si cerca, perciò di esprimere il dialogo tra la divinità e l’umanità». Cfr. Ravasi, Il libro della Genesi (1-11), cit., p. 152.
  68) De Benedetti, «Uomini e animali di fronte a Dio», cit., p. 25.
  69) Il passo è citato da Ravasi, Il libro della Genesi (1-11), cit., p. 153.
  70) K. Barth, L’epistola ai Romani, trad. di G. Miegge, Feltrinelli, Milano 1974, p. 292.
  71) Ivi, p. 289.

 




Fonte :  Questo scritto è apparso nel libro Le creature dimenticate a cura di L. Battaglia, Macro edizioni, Cesena, 1995 ,  link  http://www.filosofia-ambientale.it/ .






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