SPIEGAZIONE E COMPRENSIONE (SCIENTIFICA)
di Gianmarco Ieluzzi
I. INTRODUZIONE
Durante il
corso della storia del pensiero, le due più grandi tradizioni scientifiche si
sono cimentate nella ardua impresa di fornire sistemi coerenti e autosussistenti
capaci di fondare una teoria della spiegazione. Queste due tradizioni, vale a
dire quella aristotelica e quella galileiana, sono sempre state volte alla
ricerca di leggi e meccanismi che definissero univocamente in quale modo noi
possiamo fornire una spiegazione, buona e valida; forse proprio in ossequio
all’organicità sistematica che le scienze esatte mostravano come propria
immagine presso il mondo. Ma una buona spiegazione rivolta a fatti della sfera
della scienza (sia essa formale, empirica o di altra fatta) o della sfera delle
azioni umane non si è mai rivelata valida per sussumere da essa princípi
fondanti una teoria universalmente accettata. Ciò stante, le differenti correnti
filosofiche continuano ad avventurarsi in quest’opera.
La sfida è
stata finora fallimentare; e (forse) fortunatamente. Tale disfatta, invero, è
evidente dalle svariate e originali risposte che sono state formulate;
risposte, infatti, e mai la soluzione.
E così il
problema della spiegazione e della comprensione (nel senso più generale del
termine, e non solo precipuamente scientifica) ha insegnato che dal punto in cui
si è giunti esiste un solo modo per pensare di più delle teorie
“classiche”, e cioè pensando altrimenti.
II. LA DIMOSTRAZIONE
Se analizziamo l’uso del
termine nel linguaggio comune, la dimostrazione rimanda all’intenzione del
soggetto di far riconoscere come veritiero un assunto o una proposizione. Le
espressioni idiomatiche cui il linguaggio ricorre sono principalmente di due
tipi: “Vi dimostrerò come …” e “È stato dimostrato come…” essendo l’idea della
volontà della dimostrazione da parte del soggetto (Vi dimostrerò) secondaria
rispetto alla dimostrazione già acquisita. E mi pare per due motivi: il primo
perché la dimostrazione che si vuole mettere in essere attingerà a piene mani
dagli schemi e dalle impostazioni di ciò che è già stato dimostrato; ossia
attingerà dal patrimonio culturale che continua a resistere agli attacchi del
tempo. Il secondo motivo risiede nel fatto che la dimostrazione non solo ha reso
conto presso la comunità degli uomini della sua fondatezza del metodo, ma, di
più, ha dis-velato una verità (particolare o più universale).
La
dimostrazione parte, infatti, da assunti di base che possono essere o di natura
assiomatica o di natura teorematica e che comunque risiedono nell’ambito di un
ragionamento deduttivo. L’esempio maggiormente significativo che la storia ci
consegna è senza dubbio la geometria di Euclide. Ricorrendo ad un articolato
insieme di nozioni (postulati, definizioni, teoremi, corollari) lo spirito
matematico degli antichi greci dominò il pensiero scientifico fino al
Rinascimento e solo la nascita dell’algebra nel sedicesimo secolo originò un
nuovo impulso. Fino alla formulazione del calcolo integrale, in molti seguirono
percorsi deduttivi e intuizioni senza un progetto organico che guidasse la
disciplina. I contributi furono enormi ma solo con la definizione della teoria
ad opera di Augustin-Louis Cauchy (1789-1857) e di Bernhard Riemann (1826-1866)
si può parlare di una sua fondazione matematica rigorosa.
Con i
suoi risultati senza alcun dubbio eccezionali, la matematica può certamente
essere considerata, insieme alla logica, la scienza che tra le altre ha
sistematizzato in maniera così rigorosa il suo apparato tanto da essere presa a
modello dalle altre scienze ( e infatti sono chiamate scienze formali),
sia dal punto di vista del metodo che dal punto di vista interpretativo della
realtà. In molti, infatti, hanno, in svariate epoche e in differenti ambiti,
sostenuto come il linguaggio matematico sia originario rispetto agli altri,
ossia come l’insieme degli eventi scientifici e sociali sia quasi sempre
interpretabile mediante un modello matematico. Ma quel che qui conta è
sottolineare non è tanto se tale affermazione sia epistemicamente vera quanto
piuttosto prendere atto del fatto che il rigore delle argomentazioni
dimostrative sia stato modello per disciplinare diverse branche del sapere.
Possiamo
pertanto affermare che la dimostrazione parla il linguaggio specifico.
Il
ragionamento, infatti, che volesse argomentare senza ricorrere al suo proprio
specifico linguaggio, incorrerebbe come minimo nell’accusa di banale
generalizzazione e perderebbe la sua pretesa di veridicità.
Già Aristotele aveva affrontato
il problema. La sua logica vuole mostrare “come proceda il pensiero quando
pensa, quale sia la struttura del ragionamento,..,come sia possibile fornire
dimostrazioni, quali tipi di dimostrazioni esistano, di che cosa sia possibile
fornire dimostrazioni e quando.”¹
Il nome,
cioè organon –strumento-, introdotto da Alessandro di Afrodisia, ben
chiarisce il compito e il fine della logica aristotelica. Lo Stagirita chiamava
però la logica con il nome analitica ( análysis, cioè risoluzione) per
evidenziare “il metodo con cui noi, partendo da una data conclusione, la
risolviamo appunto negli elementi da cui deriva, cioè nelle premesse e negli
elementi da cui scaturisce e, quindi, la fondiamo e la giustifichiamo.”²
Nelle
categorie viene studiata la forma più semplice della logica, considerando di una
proposizione gli elementi non ulteriormente indivisibili, cioè le parole di cui
non si può dire che siano termini veri o falsi perché le loro sole combinazioni
sono suscettibili di giudizi di verità o falsità. “ Delle cose che si dicono
senza nessuna connessione, ciascuna significa o la sostanza o la quantità o la
qualità o la relazione o il dove o il quando o l’essere in una posizione o
l’avere o il fare o il patire”, dice Aristotele³. E se da una prospettiva
metafisica le categorie rappresentano i significati fondamentali dell’essere,
dal punto di vista logico esse dovranno essere i generi sommi ai quali
riportare i termini della proposizione.
Così, dopo
il discorso sulla generalità delle categorie e della particolarità degli
individui che conduce alla definizione (horismós), la quale è il discorso
che esprime la natura o la sostanza o l’essenza delle cose, viene esposto il
punto fondante ogni dimostrazione, e cioè il giudizio. Unendo i termini tra loro
noi enunciamo un giudizio che è l’atto con cui noi affermiamo o neghiamo un
concetto di un altro concetto e l’espressione logica del giudizio è
l’enunciazione o la proposizione.
Giudizio e
proposizione sono dunque la prima forma di conoscenza: cogliendo un nesso tra
soggetto e predicato, percepiamo il vero o il falso. Alla logica però competono
solo i discorsi apofantici o dichiarativi che si basano sui giudizi affermativi,
negativi, universali, singolari e particolari e sulle modalità con cui
congiungiamo soggetto e predicato, a seconda cioè di semplice asserzione, di
possibilità o necessità.
Ma noi, si
chiede Aristotele a questo punto, siamo in grado di ragionare? Decisamente no,
poiché dobbiamo non solo poter elencare giudizi, proposizioni, affermazioni o
altro ma dobbiamo poter unire giudizi a giudizi, individuando la
consequenzialità e la causalità: cogliendo questi nessi siamo infine capaci di
ragionare.
Ed è ben
noto quale sia per Aristotele il ragionamento perfetto: il sillogismo.
Che Socrate
sia un mortale, ben sappiamo che è la necessaria conclusione della premessa
maior et minor da cui scaturisce. : ecco la più perfetta delle figure (schémata)
in cui si articola la classificazione del sillogismo. Ma a questo punto si
giunge al nodo essenziale per la dimostrazione: il sillogismo, lo si è già
chiarito, è secondo Aristotele l’essenza stessa del ragionare; ci mostra
pertanto la struttura dell’inferenza, prescindendo però dal contenuto di
verità delle premesse e quindi della conclusione. Ma la dimostrazione ( o
sillogismo scientifico o dimostrativo) esige, oltre alla condizione di
correttezza formale, la condizione di verità.
“ Le
premesse (…) devono essere vere; poi devono essere prime, ossia non bisognose a
loro volta di ulteriori dimostrazioni, più note e anteriori, ossia di per sé
intelligibili e chiare e più universali delle conclusioni, perché ne debbono
contenere la ragione”.
E così le
premesse devono essere vere, conosciute in modo altro rispetto all’uso di
sillogismi, altrimenti percorreremmo a ritroso una catena infinita. Pertanto
necessitiamo di un processo non più deduttivo, come il sillogismo scientifico
invece fa deducendo il particolare dall’universale.
Le verità
universali si colgono, per lo Stagirita, tramite induzione o tramite intuizione.
L’induzione ci conduce dal particolare all’universale, non mediante ragionamento
bensì mediante astrazione. L’intuizione è ancora oltre, è cioè il coglimento
puro dei principi primi da parte dell’intelletto, il quale, appunto, è capace di
intus-ire.
L’intelletto è posto dal Filosofo come l’habitus specifico dell’intuizione, una
virtù dianoetica, ossia uno degli abiti superiori razionali dell’uomo. Grazie ad
esso percepiamo i principi primi comuni a tutte le scienze e cioè il principio
di non-contraddizione, il principio di identità e il principio del tertium non
datur. Ed essi sono veri perché così garantiti: sono definizioni, e perciò
spiegazioni della sostanza di una cosa; sono assiomi, e cioè asserzioni che non
possono essere negate perché chi le nega se ne avvale contemporaneamente
negandole (la famosa prova per confutazione o élenchos); sono ipotesi,
cioè fondamenti di principi propri di ciascuna scienza particolare; sono infine
postulati perché posti anticipatamente per chiarezza o per didattica.
È così
chiaro come “il maestro di color che sanno”4 modelli tutta la scienza
sulla matematica.
Tante
altre sono state le logiche nate da critiche a quella “nata vera”5 di
Aristotele, dal Nuovo Organo di Bacone, al Sistema di logica di
Stuart Mill, alla logica dell’infinito di Hegel, ma al fine del nostro discorso
sulla dimostrazione è sufficiente riferirci ad essa.
Da essa
ricaviamo l’impulso necessario a stabilire nei soli limiti della ragione una
teoria dimostrativa che si auto-fonda, cioè che non deve essere debitrice verso
nessuno delle proprie basi. Ecco l’unico appello, infatti, che la dimostrazione
rivolge a colui cui vuole parlare: prendere per buoni dei principi primi non
come atto di fede della ragione, ma come abito stesso della ragione.6
Questi stessi principi sono universali, e cioè valgono per qualunque persona e
per qualunque tipo di argomentazione si voglia addurre. Viene in tal modo
giustificato perché ogni dimostrazione possa valere per ogni scienza. Solo a
questo punto subentra la specificità del linguaggio dimostrativo. Il problema
delle premesse che pose Aristotele non può essere messo in dubbio; ma per
argomentare di questioni pertinenti una determinata branca del sapere occorre
essere specifici e precisi per non incorrere, come già dicevo prime, in banali
generalizzazioni o fraintendimenti. Ogni termine del linguaggio rimanda a una
ben precisa connotazione semantica, per cui un uso non rigoroso dei termini può
inficiare lo stesso procedimento dimostrativo. Possiamo concludere che qualunque
scienza deve, durante una dimostrazione, parlare il linguaggio specifico,
proprio perché deve poter dire la sua stessa sostanza, garantita in ultima
istanza da assiomi condivisi.
Proprio
dimostrazioni acquisite e condivise diventano basi a cui poter attingere per
nuove dimostrazioni. E così nasce un patrimonio culturale
L’intenzione del soggetto di cui parlavo a inizio paragrafo svolge un ruolo
importante perché, sebbene attinga a piene mani da ciò che è già stato
dimostrato, aggiunge un nuovo tassello nella mosaico della scoperta, il quale
sempre ci sorprende mostrandoci nuove direzioni in cui muoverci.
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1. G. Reale, Il
pensiero occidentale dalle origini ad oggi, I, cap 7, pag 155 Editrice La
Scuola, 1983
2. Cfr Reale, cap 7, pag
156
3. Aristotele, Trattato
sulle categorie
4.Dante, Inferno,
IV, 131
5. Kant, il quale nella
sua logica trascendentale abbraccia con convinta ammirazione i capisaldi dello
Stagirita.
6. I termini ragione e
intelletto vengono qui usati liberamente, senza voler abbracciare una posizione
di contrasto o di affinità tra i due. Certamente è convinzione di chi scrive che
ambedue servano a porsi su una posizione antimetafisica qualora ci si addentri
in un discorso scientifico che si voglia basare sulle sole facoltà umane.
III. LA SPIEGAZIONE (prima parte)
Già
Aristotele aveva intuito la fondamentale distinzione che esiste tra due tipi di
conoscenza, ossia il saper che e il sapere perché. La prima è
comunemente chiamata conoscenza descrittiva, la seconda conoscenza esplicativa.
Secondo Aristotele, lo ricordiamo, le spiegazioni sono argomenti deduttivi ma
non tutti gli argomenti deduttivi possono essere spiegazioni. Solo con Galileo
nacque una nuova modalità d’intendere le condizioni che una spiegazione deve
soddisfare per essere scientificamente accettabile. La tradizione galileiana,
che nasce però in verità già con Platone, incarna la concezione causale della
spiegazione, anche detta meccanicistica, mentre la tradizione aristotelica
rappresenta la spiegazione teleologica o finalistica.¹
Fino al Positivismo, le due
tradizioni si sono imposte con momenti di alterna fortuna; ma è con Comte e
Stuart Mill che viene formulata una corrente di pensiero specificamente volta ad
affrontare i quesiti della scienza, con radici più profonde (Hume) e che arriva
fino a i giorni nostri. Oltre alle tesi del monismo metodologico e della
matematica come modello di ogni metodo scientifico ed interpretativo, i
positivisti sostengo una tesi della spiegazione scientifica per certi versi
riconducibile alla tradizione causale.² Nasce infatti la teoria della
spiegazione per sussunzione di fatti sotto leggi generali di natura.
Più tardi, gli idealisti
sostennero l’impossibilità di ricorrere ad un solo monismo metodologico come
unico strumento di spiegazione e interpretazione della realtà. Nacque così la
distinzione tra le scienze naturali, che vennero aggettivate come
nomotetiche, e quelle sociali, chiamate idiografiche.
Ma è con Hegel e Marx che la
filosofia acquisì nuovi impulsi metodologici; le loro concezioni di legge,
necessità, validità universale influirono enormemente sul corso del pensiero
scientifico. Hegel, riprendendo lo schema fichtiano di tesi-antitesi-sintesi si
mette palesemente su una posizione tutt’altro che causalistica del pensiero
scientifico.
Le leggi e
lo sviluppo sono, per Hegel e per Marx, più azioni di coglimento concettuale che
connessioni causali. Si avvicinano certamente più alla posizioni antipositivista
che scientista. Riprendendo Aristotele, Hegel sostiene che la spiegazione
consiste nel rendere i fenomeni teleologicamente intelleggibili piuttosto che
meccanicisticamente prevedibili. Von Wright fa notare che certamente il
caposcuola dell’idealismo tedesco conosceva le scienze in misura nettamente
minore rispetto allo Stagirita; e questo solo in parte può allontanare da lui
le critiche di aver ignorato tutta una conoscenza scientifica che Aristotele
certamente non poté conoscere.
Il
periodo tra le due guerre mondiali vide nascere il nuovo movimento
del neo-positivismo, o positivismo logico o empirismo logico. Con tale
corrente, la logica, ignorata per secoli (eccezion fatta per Leibniz),
incontra la filosofia, benché vada sottolineato che ciò avvenne più per
coincidenza che per intrinseca necessità, apportando però benefici influssi che
crearono quella logica, detta formale, che tanta parte ha avuto
nel più recente sviluppo del pensiero scientifico. Sappiamo bene come dal
positivismo logico sia sorta la filosofia analitica, anche se è bene precisare
che non tutta questa corrente sia di impostazione positvistica; e come da essa
si siano sviluppate la filosofia linguistica o del linguaggio comune e la
filosofia analitica della scienza.
Per quanto concerne, tuttavia,
la teoria della spiegazione è nel 1948 che vede la luce una pubblicazione che
rivoluziona tutta questo campo. In “Studies in the Logic of Explanation”4
Carl Gustav Hempel e Paul Oppenheim presentarono con una lucidità e una
rigorosità mirabili una loro propria argomentazione di struttura deduttiva
valida per una determinata categoria di spiegazione scientifica. Questo modello
chiamato nomologico-deduttivo (D-N) fece storia. Contrariamente al
modello tradizionale chiamato ipotetico-deduttivo (H-D), concernente la
conferma scientifica (ossia trovare uno schema logico per fornire sostegno
evidenziale a favore dell’ipotesi da stabilirsi), il modello D-N si basa sul
fatto che, assunti come veri gli enunciati di un certo contesto, la relazione
logica tra premesse e conclusione mostra come le prime spieghino la seconda. La
verità della conclusione non deve, attenzione, essere avvallata, perché è già
presupposta. Lo schema H-D, invece, non cerca l’avvallo della conclusione, bensì
di una delle premesse. Da qui nasce la regola, tanto sintetica quanto
problematica, di “inferire la migliore spiegazione”.
La
spiegazione di un evento particolare è un argomento deduttivo che deve essere
valido affinché la conclusione dimostri il verificarsi dell’evento. La
conclusione è detta explanandum o oxplicandum o oggetto della
comprensione; le premesse, dette explanans –o meglio explanantia-
o explicatum o base della spiegazione, devono contenere almeno una legge
generale. Tale argomento deve essere necessario. Se tali condizioni sono
soddisfatte possiamo dire che la spiegazione sussume il fatto da spiegarsi
sotto quelle leggi; pertanto parliamo di un modello di legge di copertura.
Hempel e
Oppenheim ammisero che non tutte le spiegazioni scientifiche legittime siano del
tipo D-N: le spiegazioni probabilistico-statistiche sono differenti. E sono di
due tipi:
1. il
modello statistico-induttivo (I-S) che spiega i fenomeni particolari
sussumendoli sotto leggi statistiche come accade per il D-N. Ma mentre le
spiegazioni D-N sussumono gli eventi da spiegare deduttivamente, le
spiegazioni I-S li sussumono induttivamente. Per il D-N, l’evento da spiegare
è deduttivamente certo relativamente ai fatti esplicativi (leggi incluse); per
I-S l’evento ha alte probabilità relativamente ai fatti esplicativi (leggi
incluse);
2. il
modello statistico-deduttivo (D-S) permette di spiegare le regolarità
statistiche, proprio come le generalizzazioni universali sono spiegate in D-N
per mezzo di deduzioni che partono da generalizzazioni di portata più ampia. Per
cui D-S è un sottoinsieme di D-N.
Per
quanto riguarda il modello nomologico-deduttivo, Hempel e Oppenheim affrontarono
il problema delle condizioni generali di adeguatezza, distinte in criteri di
ordine logico e di ordine empirico. Per quanto riguarda il primo gruppo deve
verificarsi che:
1. la
spiegazione deve essere un argomento deduttivo valido;
2. l’explanans
deve contenere almeno una legge generale;
3. l’explanans
deve avere contenuto empirico.
L’unica
condizione empirica è invece che:
4.gli
enunciati costituenti l’explanans devono essere veri.
Schematicamente Hempel e Oppenheim visualizzarono il tutto così.
III. LA SPIEGAZIONE (seconda parte)
Hempel e Oppenheim mostrano
un approccio tipico degli empiristi logici. Sappiamo che quando Wittgenstein
pubblicò la sua famosa opera “Ricerche Filosofiche” nel 1953 si accentuò molto
la conflittualità tra i filosofi wittgensteiniani , rivolti all’analisi del
linguaggio ordinario, e gli empiristi logici, sostenitori dei linguaggi
artificiali. La natura del conflitto è facilmente identificabile. Qualunque
studio del linguaggio è principalmente diviso in tre settori:
- la
Sintassi, ciò il campo in cui sono studiate le relazioni tra i simboli;
- la
Semantica, ossia lo studio delle relazioni tra i simboli e gli oggetti cui si
riferiscono (come il concetto di designazione, di verità, di significato);
- la
Pragmatica che tiene invece conto delle persone che usano i simboli, delle
relazione esistenti tra i simboli e delle relazioni tra simboli ed oggetti.
Gli
empiristi logici, come è chiaro, propongono esplicazioni in termini sintattici
e/o semantici; la pragmatica invece è l’aspetto più importante per chi si occupa
di linguaggio ordinario. Ecco che questi ultimi accusavano i primi di
insensibilità verso i bisogni umani, a cui veniva risposto di non apprezzare, al
contrario, l’oggettiva caratterizzazione delle determinazioni proprie della
spiegazione scientifiche.
Hanson e
Scriven furono tra i più strenui sostenitori della pragmatica; alle obiezioni
Hempel replicò ammettendo che le buone spiegazione devono tenere conto
certamente anche delle persone sui sono rivolte.
Fu però Bromberger a dare inizio
ad un altro e più profondo approccio: l’analisi linguistica. In “An approach
to Explanation” (1962) egli considera enunciati del tipo: “ A spiega a B
perché una cosa sia avvenuta o accada”. La cosa da spiegare è la tesi della
domanda (come la chiamerà Bas van Fraassen più tardi); la forma
dell’enunciato è del tipo “A S a B W”, cioè “A spiega a B la cosa”. E,
articolando il suo studio su un’analisi squisitamente linguistica, arriva ad
evidenziare un’osservazione importantissima: nella spiegazione non è sufficiente
mostrare che il verificarsi di eventi seguano determinate leggi, ma dobbiamo
fornire informazioni rilevanti rispetto al verificarsi del fatto in questione,
cioè che ci facciano veramente capire il perché del fenomeno. Questo è la
nozione di rilevanza esplicativa, che tanta fortuna avrà in seguito.
Negli anni seguenti fiorirono
gli studi di Friedman, Mellor e Coffa che portarono Salmon a classificare le
varie tesi in tre concezioni, chiamate modale,
epistemica e ontica.
La concezione modale
nasce da tesi molto antiche: se un evento si verifica, vogliamo mostrare perché
necessariamente deve verificarsi. Certo sembra essere sottesa una visione
deterministica della natura secondo cui tutto è necessariamente spiegabile. Se
però non condividiamo una visione deterministica, alcuni eventi non sono
spiegabili nemmeno in linea di principio, ma possiamo spiegare solo quelli le
cui condizioni precedenti necessariamente li implicano. Tuttavia in ambedue i
casi non basta solo mostrare che l’evento deve necessariamente verificarsi, ma
anche perché le circostanze e le leggi che precedono il fatto necessariamente lo
implicano.
Mellor5
aggiunge che anche gli eventi irriducibilmente probabilistici possono essere
spiegati. Nei casi, infatti, in cui riusciamo a mostrare che un evento è molto
probabile, siamo in grado di spiegare tali eventi. Il punto debole della sua
teoria è certamente la definizione del grado di probabilità necessario
all’accettazione, ciò che egli chiama l’implicitazione parziale.
Ovviamente quanto più è alto il grado di implicitazione parziale, tanto più la
spiegazione è una buona spiegazione. Tale teoria certamente ben si adatta a chi,
sulla scia di Carnap, voglia costruire una logica induttiva basata sulla
interpretazione logica della realtà proprio come la logica deduttiva si basa
sulla implicitazione totale. Ma come stabilire il grado di implicitazione
parziale, giacché una misura non può che essere posta a priori? Il quesito non
è mai stato risolto.
Per Hempel,
lo abbiamo già visto, una spiegazione è un argomento e le spiegazioni (sia
induttive che deduttive) mostrano che l’evento-explicandum doveva essere atteso.
Con il modello D-N siamo davanti alla concezione epistemica. Hempel si schiera a
favore del concetto di spiegazione inferenziale a cui sia aggiunge quello
causale (sostenuto da Scriven). Dal primo punta di vista gli esempi più
significativi sono quelli in cui una o più regolarità sono spiegati per mezzo di
derivazioni da leggi più generali, come la spiegazioni delle leggi di Keplero
dalle leggi di Newton. Dal punto di vista causale, invece, gli esempi più
persuasivi sono le spiegazioni di fatti particolari, spesso in ambiti di
applicazioni pratiche. Ciò che viene criticato ai due concetti appena esposti e
quindi alla concezione epistemica è la tesi che la spiegazione mostrano perché
l’explicandum doveva necessariamente essere atteso. La relazione che passa,
infatti, tra explanans e explanandum in una spiegazione I-S è una relazione di
probabilità induttiva o epistemica. Ecco pertanto perché questa concezione fu
nominata epistemica.
Pochi anni dopo, Coffa nella sua
teoria disposizionale sulla spiegazione induttiva interpreta la probabilità come
propensità ossia come probabilità oggettive ed espone le sue
osservazioni sulle differenze tra modello I-S e il modello S-R (di rilevanza
specifica)6. Infatti, sia il modello S-R che la teoria di Coffa non
attribuiscono valore alcuno al un evento altamente probabile: quello che loro
importa è ottenere i giusti valori delle probabilità oggettive o frequenze
relative. Di conseguenza, Coffa stesso chiamo ontica questa prospettiva.
I sostenitori di tale tesi parlano della relazione spiegazione-mondo in due
modi: il primo consiste nel dire che le spiegazioni esistono nel mondo per cui
un fatto-explanandum viene spiegato da fatti-explanans; quindi le spiegazioni
non sono argomenti o non sono suscettibili di radicali approcci
linguistici. Il secondo modo sostiene che la spiegazione è
composta
da enunciati o proposizioni che esplicano certi fatti, cioè che gli
enunciati-explanans spiegano il fatto-explanandum. Railton, che certamente con
Coffa e Salmon può essere annoverato tra tali sostenitori, basano la loro
concezione criticando la visione hempeliana dell’aspettabiltà nomica, cioè il
fatto che l’explanandum deve essere nomicamente atteso. I termini aspettabiltà e
nomicità possono infatti essere una contraddizione in termini. L’esempio
classico viene mutuato dalla chimica-fisica delle radiazioni: un decadimento
radioattivo spontaneo è abbastanza improbabile, eppure è governato da leggi
invariabilmente statistiche. Per Hempel non potremmo mai spiegare un evento del
genere. Per gli Railton, abbandonando la nozione di aspettabiltà a favore di
quella di nomicità, tali spiegazioni sono accettabili se soddisfano requisiti di
natura generale. Ossia, gli eventi che accadono in un mondo pieno di regolarità
sia deterministiche che statistiche, vanno spiegati mostrando che l’explanandum
fa parte di uno schema che esiste nel mondo oggettivo. Più semplicemente, le
spiegazioni devono rivelare i meccanismi che producono i fatti che si vogliono
spiegare.
Ma proprio
la determinazione della concezione ontica produsse un’ulteriore distinzione
nella concezione epistemica, che accennerò per sommi capi.
1. La
visione inferenziale, cioè quella proposta da Hempel e di cui non
aggiungo nulla.
2. La
visione teorico-informativa7. Le spiegazioni sono basate sulla
teoria dell’informazione, ossia l’informazione trasmessa è il criterio per
valutare la bontà della spiegazione statistica. La differenza con la visione di
Hempel è che l’informazione trasmessa è una relazione di rilevanza. Inoltre
viene valutato il potere esplicativo dell’informazione ma nulla viene detto per
valutare le spiegazioni dei fatti particolari.
3. La
visione erotetica. Sulla scia di Braithwaite, che aveva sostenuto che una
spiegazione è una risposta a una domanda perché, Bromberge8 escogita
una teoria elaborata sulla relazione tra le domande-perché e la spiegazione
scientifica. E siccome la logica delle domande viene tradizionalmente chiamata
logica erotetica, erotetica è l’aggettivazione usata per questa impostazione
della concezione epistemica.
Oggi, la sfida della filosofia
della scienza risiede soprattutto nella ricerca di spiegazioni soddisfacenti per
le microstrutture, soprattutto da quando l’articolo di Einstein, Podolsky e
Rosen9 ha trovato risultati e esperimenti da spiegare.
Da questa
panoramica sull’evoluzione della teoria della spiegazione, è mia opinione che,
come la dimostrazione parla il linguaggio specifico, così la spiegazione parla
il linguaggio dell’altro. Ogni spiegazione è data ex post facto, e per
sua natura deve essere rivolta certamente a un processo esplicativo, ma
soprattutto deve essere adattata all’interlocutore della spiegazione.
Considerando le molte teorie
escogitate, viene da chiedersi se questo criterio sia stato tenuto abbastanza in
considerazione. Personalmente non lo credo. E per questo che secondo me la
pragmatica della spiegazione ha svolto un ruolo decisivo nell’ambito della
spiegazione e continua certamente a svolgerlo. Può, infatti, una teoria essere
rigorosamente valida e organicamente autosussistente se non incontra
l’interlocutore, cioè l’altro? Il rischio di escogitare teorie che non abbiamo
relazione diretta con l’altro è quello di non ricorrere ad esse nella pratica,
sprecando l’immenso lavoro di elaborazione che ha sempre pregnato tale sforzo
del pensiero. Non sto affermando che non si debba ricercare un modello teorico
di spiegazione, bensì che non ci si deve limitare solo a tale ricerca.
Una spiegazione è, infatti, tanto migliore quanto più la prospettiva si
focalizzi sulla posizione altrui. Come non riconoscere che alcuni modelli
escogitati potrebbero essere adatti per alcune categorie di persone e per altre
no? La stessa etimologia indica come la spiegazione porta con se l’idea di
“sciogliere, trarre d’impaccio” (Badellino-Calonghi). Ed è possibile trarre
d’impaccio se non si considera la situazione in cui si trova l’altro? Solo
quando la spiegazione cerca di parlare il linguaggio dell’altro si può stabilire
un contatto iniziale in cui il conclusivo apprendimento certamente non è
presupposto o scontato, ma neppure ostacolato per motivi culturali, cognitivi o
di riferimento, se così posso dire, nomico.
________________________________________________________________
5. D. H.
Mellor, Probable Explanation, in Australian Journal of Philosophy 54
6. Coffa espose la sua
teoria secondo cui ogni legge deve esprimere una sua clausola sulle condizioni
limite. Ogni spiegazione deve contenere una premessa che asserisca che la
clausola è vera nel contesto della spiegazione
7.
G. Greeno, “Evaluation
of Statistical Hypotheses using Information Transmitted”, 1970
8.
Bromberger, 1966
9.
Albert Einstein et al. :“Can
Quantum Mechanical Description of Physical Description Be Considered Complete?”,
Physical Review 47 (1935), pp. 777
IV. LA COMPRENSIONE
La conoscenza che
comunemente viene detta razionale è quella discorsiva, che procede cioè da
premesse a conclusioni e da queste a conclusioni ulteriori, secondo il modello
che nell’antichità era stato realizzato con la sistemazione euclidea della
geometria e il sillogismo apodittico di Aristotele. Ma già prima, Platone aveva
contrapposto a questa conoscenza quella intuitiva, sostenendone la superiorità
sulla prima. Da qui si dipanò per l’itero corso del pensiero occidentale il
rapporto tra queste due forme di conoscenza, che qui non possiamo certo
ripercorrere se non ricordando che attraverso di esso si sviluppò l’autonomia
della ragione dalla fede e il contrasto tra ragione ed intelletto. Però ciò che
a noi serve ricordare è come dalla riflessione sulla conoscenza si possa partire
per ragionare sulla comprensione.
Con le tesi antipositivistiche
sorse per la prima volta la distinzione tra spiegazione (explanation o
Erklaren), concernente la sfera delle scienze naturali, e comprensione (understanding
o Verstehen), che riguarda la storia e più in generale le azioni degli
uomini. Dilthey sviluppò in seguito tale distinzione indicando esso l’intero
dominio della comprensione col termine Geisteswissenschaften, ossia
scienze dello spirito. E da qui si sviluppò tutto l’idealismo con la propria
tesi della superiorità della ragione che presiede alla spiegazione e che
raggiunge il sapere assoluto.
Ma è corretto distinguere la
comprensione dalla spiegazione, a quella assegnando la sfera delle azioni umane
e a questa il dominio delle scienze? Non ritengo che questa divisione sia
corretta, né tanto meno feconda.
Il titolo che ho dato a questo lavoro, in cui dopo la parola
“comprensione” compare tra parentesi l’aggettivo “scientifica”, sta ad indicare
come , a differenza di dimostrazione e spiegazione, la comprensione scientifica
non viaggia su binari autonomi di metodo o di contenuto. Anzi, la comprensione
tutta si inerpica solitaria sul suo cammino di scoperta di sé potendo affidarsi
solamente alla compatta unità in se stessa di ogni sapere, che siamo soliti
invece distinguere per campi di indagine. Ecco perché il discorso sulla
comprensione scientifica coincide con il discorso sulla comprensione in senso
lato.
Partiamo anche in questo caso
dall’etimologia: com-prendere significa afferrare, stringere insieme,
dove la parola insieme rimanda a sua volta sia all’unione che alla compagnia. La
comprensione, quindi, volge se stessa al compito di poter raggiungere un aspetto
della verità unendo le forze della ragione e della intuizione al fine di farlo
diventare parte di sé. Allora la conoscenza presuppone la com-prensione come
compimento e anelito, ma la seconda non presuppone la prima. E la
com-prensione, tramite la com-unicazione, tende verso la com-unione tra umani.
In che modo? Se, come ho in precedenza affermato, la dimostrazione parla il
linguaggio specifico e la spiegazione parla il linguaggio dell’altro,
allora possiamo azzardare di dire che la comprensione parla un altro
linguaggio o, meglio, parla un linguaggio altro che al limite può non
essere più linguaggio (quantomeno verbalmente inteso).
La comprensione, per usare una
frase di Hegel, è il prodotto de “lo spirito (alla fine) certo di se
stesso…”; è “il sì della conciliazione, in cui i due Io dimettono il loro
opposto esserci, è l’esserci dell’Io esteso fino alla dualità, Io che
quivi resta eguale a sé e che nella sua completa alienazione e nel suo completo
contrario ha la certezza di se stesso; - è il Dio apparente in mezzo a loro che
si sanno come il puro sapere”.¹
Qualora
ci si voglia inerpicare sulla strada solo in salita della comprensione, ognuno
scopre che l’unico atteggiamento costruttivo sono le dimissioni dalla propria
identità che si esplica primariamente nel linguaggio che esce dal proprio codice
per parlare nel codice altrui. L’intesa con l’altro va di pari passo alla
coscienza che l’altro è prioritario, che il volto dell’altro mi provoca più del
mio.² Se in gioco c’è l’altro e l’intesa con l’altro, si cede per primi alla
ricerca di nuove forme di comunicazione che possono arrivare anche alla
negazione della stessa forma verbale per esprimersi con linguaggi differenti.
L’esempio più lampante è nell’ambito della didattica, quando per meglio
comprendere un concetto si ricorre a figure, illustrazioni, disegni, grafici o
altro. Oppure all’uso di particolari linguaggi quando l’interlocutore non riesce
a esprimersi nel medesimo linguaggio codificato di chi intende comunicare (può
essere il caso di comunicazioni tra stranieri, con persone con impossibilità
verbali, etc). Ecco perché il linguaggio si fa altro, non solo come
diversità da sé ma anche come estraneità a se stesso.
Ci si dimette per comunicare; in quale modo, lo si stabilisce senza una
regolarità generale. Che la comunicazione sia funzione della comunione mi sembra
sia un asserto veritiero. Ora l’intuizione ci viene in soccorso, congiuntamente
alle esperienze che la vita può aver dato a ciascuno, perché si scopre che
questa dimissione e questa estraneità a sé non è annichilamento del proprio
essere e del proprio esser-ci. È invero scoperta della propria essenza che non è
esistenza singola o separata, ma essenza che tende alla dualità e che proprio
quivi, proprio per questo si scopre come verità e come certezza di se
stesso. A questo stadio , procedendo per sentieri interrotti, Hegel
sostiene si riveli Dio; in verità questa è la rivelazione cristiana, in cui il
deus absconditus non è mai stato così vicino.
Ho preso
a prestito la citazione di Hegel dal paragrafo sul male e sul perdono perché è
nel cammino del male che la comprensione è messa a sì dura prova, tanto che la
sfida³ ingaggiata con esso dalla filosofia e dalla teologia rimane fallimentare
per il pensiero e mette in scacco persino la capacità stessa dell’uomo di
sopravvivere. Il male è un unicum nella storia dell’uomo e nella sua capacità di
comprendere ciò che gli sta attorno e, ancora di più, ciò che avviene nel mondo,
a dispetto della sua volontà ed intenzionalità.
La Bibbia
probabilmente testimonia il più alto stadio della comprensione cui l’uomo può
tendere, partendo proprio dal significato originale di conoscenza e di
comprensione biblica. Non è solo atto intellettivo, è ricerca di vita piena, di
tensione costante e assoluta, ab-soluta, sciolta da qualunque altra cosa.
Per riprendere anche in questo ambito una locuzione linguistica, più volte viene
domandato all’uomo: ‘‘comprendi tu questo?”. È ricerca non solo di conoscenza,
ma di progetto di vita.
Quando,
dopo l’episodio del vitello d’oro, Mosè chiede a Dio di poter vedere il suo
volto, Egli risponde: “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può
vedere il mio volto e restare vivo…Vedrai il mio dietro, ma il mio volto non si
può vedere”.
“Il volto
di Dio è tutto ciò di cui abbiamo sete e fame, è gioia, riposo, gusto,
ritrovamenti innumerevoli. La schiena, il dietro, le spalle: ma la parola
ebraica si potrebbe anche leggere ‘il mio dopo’: quello che resta dopo il
passaggio di Dio. E anche questo si può intendere in due modi: la sua presenza
nella storia o la assenza dalla storia.”
La
comprensione è proprio questo: sete e fame di perché, di senso e tentativo di
risposta. Forse lo spirito insufflato al primo Adamo non è altro che spirito di
domanda e ricerca di senso. E la saggezza forse non consiste in nient’altro che
nel riconoscere il carattere aporetico del pensiero sulla comprensione in
genere, e del male nello specifico. E se per l’ambito della spiegazione ho
osservato quanto la pragmatica sia decisiva per l’esplicazione in un processo
duale o a più parti, nello stadio della comprensione è cruciale affrontare
l’aspetto pedagogico che ad essa è strettamente legato e ragionare su un cammino
di crescita che renda fruttuosa la fatica del comprendere.
Riporto, per concludere, un
itinerario proposto da Ricoeur (6. cfr., vedi sopra in nota), che illumina molto
bene il senso della comprensione e la direzione di tale ricerca. Per questo
grande filosofo personalista, il problema della comprensione non è solo
speculativo. È anzitutto convergenza di pensiero, azione e sentire. Il piano
del pensiero ci spinge e pensare di più e altrimenti, riconoscendo il carattere
aporetico della comprensione quando si avvicina al senso della vita. Ma a questa
aporia l’azione e il sentire sono chiamati a dare una risposta feconda. L’azione
ci porta a realizzare ciò che dovrebbe essere o a combattere ciò che non
dovrebbe essere. È proprio nell’azione della vita che la comprensione si scontra
con la sofferenza e la difficoltà. Da ciò nasce lo sprone ad agire eticamente e
politicamente. In questo stadio la questione “perché?” diventa “perché io?”. E
le risposte pratiche dell’azione non sono sempre sufficienti. Con la risposta
emozionale, però, la sofferenza e le difficoltà passano sotto gli effetti della
saggezza arricchiti dalla meditazione filosofica e teologica. Qui, però, inizia
il cammino solitario attraverso cui si avanza senza sosta. C’è anche chi ravvisa
in questa posizione un valore educativo e pedagogico. Ma questo senso, ci
avverte Ricoeur, non può essere insegnato, ma solo imparato, trovato o
ritrovato.
Hillel diceva:
“Non dire
che una cosa non si può comprendere, perché infine sarà compresa”.
Ma,
ki-vjakhol (‘se così si può dire’), resisteremo fino a quell’infine”?
_______________________________________________________________
1. G.W.F. Hegel,
Fenomenologia dello spirito, tr. It. di De Negri, La nuova Italia, Firenze
1976, pp 196. Per la precisione, Hegel afferma ciò nel cap. III intitolato Il
male e il perdono di esso. Ma come dirò dopo appartiene a pieno titolo alla
sfera della comprensione, dicendone anche il perché.
2. E. Lévinas.
3. A tale proposito si
veda P. Ricoeur, Il male – Una sfida alla filosofia e alla teologia, tr.
it. P. De Benedetti, Morcelliana, Brescia 1993
4. Es 33, 20.23
5. Paolo De Benedetti,
In margine a Ricoeur, Morcelliana
6. vedi sopra
7. Paolo De Benedetti,
cfr.
Fonte : www.minerva.unito.it
Gianmarco Ieluzzi ,
SPIEGAZIONE E COMPRENSIONE
(SCIENTIFICA) ,
Tesina presentata in vista del conseguimento della laurea in
chimica , Anno accademico 2000-2001 .
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