CATECHESI SULL'APOSTOLO SAN PAOLO
DI
PAPA BENEDETTO XVI
Udienze
Generali dal 20 luglio 2008 al 4 febbraio 2009
Statua di San Paolo nella Basilica di San Paolo
fuori le mura,
con sullo sfondo il ritratto di Benedetto XVI,
il Papa che ha voluto “l’anno Paolino”.
1)
CONTESTO CULTURALE 20.7.2008
Cari fratelli e sorelle,
vorrei oggi iniziare un
nuovo ciclo di Catechesi, dedicato al grande apostolo san Paolo. A lui, come
sapete, è consacrato questo anno che va dalla festa liturgica dei Santi Pietro e
Paolo del 29 giugno 2008 fino alla stessa festa del 2009. L'apostolo Paolo,
figura eccelsa e pressoché inimitabile, ma comunque stimolante, sta davanti a
noi come esempio di totale dedizione al Signore e alla sua Chiesa, oltre che di
grande apertura all'umanità e alle sue culture. È giusto dunque che gli
riserviamo un posto particolare, non solo nella nostra venerazione, ma anche
nello sforzo di comprendere ciò che egli ha da dire anche a noi, cristiani
di oggi. In questo nostro primo incontro vogliamo soffermarci a
considerare l'ambiente nel quale egli si trovò a vivere
e a operare. Un tema del genere sembrerebbe portarci lontano dal nostro
tempo, visto che dobbiamo inserirci nel mondo di duemila anni fa. E
tuttavia ciò è vero solo apparentemente e comunque solo in parte, poiché potremo
constatare che, sotto vari aspetti, il contesto socio-culturale di oggi
non differisce poi molto da quello di allora.
Un fattore primario e fondamentale
da tenere presente è costituito dal rapporto tra l’ambiente in cui Paolo
nasce e si sviluppa e il contesto globale in cui successivamente si
inserisce. Egli viene da una cultura ben precisa e circoscritta,
certamente minoritaria, che è quella del popolo di Israele e della sua
tradizione. Nel mondo antico e segnatamente all'interno dell'impero romano, come
ci insegnano gli studiosi della materia, gli ebrei dovevano aggirarsi attorno al
10% della popolazione totale; qui a Roma, poi, il loro numero verso la metà del
I° secolo era in un rapporto ancora minore, raggiungendo al massimo il 3% degli
abitanti della città. Le loro credenze e il loro stile di vita, come succede
ancora oggi, li distinguevano nettamente dall'ambiente circostante; e questo
poteva avere due risultati: o la derisione, che poteva portare
all'intolleranza, oppure l'ammirazione, che si esprimeva in forme varie di
simpatia come nel caso dei "timorati di Dio" o dei "proseliti", pagani che si
associavano alla Sinagoga e condividevano la fede nel Dio di Israele. Come
esempi concreti di questo doppio atteggiamento possiamo citare, da una parte, il
giudizio tagliente di un oratore quale fu Cicerone, che disprezzava la loro
religione e persino la città di Gerusalemme (cfr Pro Flacco, 66-69), e,
dall’altra, l’atteggiamento della moglie di Nerone, Poppea, che viene ricordata
da Flavio Giuseppe come "simpatizzante" dei Giudei (cfr Antichità giudaiche
20,195.252; Vita 16), per non dire che già Giulio Cesare aveva
ufficialmente riconosciuto loro dei diritti particolari che ci sono tramandati
dal menzionato storico ebreo Flavio Giuseppe (cfr ibid. 14,200-216).
Certo è che il numero degli ebrei, come del resto avviene ancora oggi, era molto
maggiore fuori della terra d'Israele, cioè nella diaspora, che non nel
territorio che gli altri chiamavano Palestina.
Non meraviglia, quindi, che Paolo stesso sia stato
oggetto della doppia, contrastante valutazione, di cui ho parlato. Una
cosa è sicura: il particolarismo della cultura e della religione giudaica
trovava tranquillamente posto all'interno di un’istituzione così onnipervadente
quale era l'impero romano. Più difficile e sofferta sarà la posizione del gruppo
di coloro, ebrei o gentili, che aderiranno con fede alla persona di Gesù di
Nazaret, nella misura in cui essi si distingueranno sia dal giudaismo sia dal
paganesimo imperante. In ogni caso, due fattori favorirono l'impegno di Paolo.
Il primo fu la cultura greca o meglio ellenistica, che dopo
Alessandro Magno era diventata patrimonio comune almeno del Mediterraneo
orientale e del Medio Oriente, sia pure integrando in sé molti elementi delle
culture di popoli tradizionalmente giudicati barbari. Uno scrittore del tempo
afferma, al riguardo, che Alessandro "ordinò che tutti ritenessero come patria
l'intera ecumene ... e che il Greco e il Barbaro non si distinguessero più"
(Plutarco, De Alexandri Magni fortuna aut virtute, §§ 6.8).
Il secondo fattore fu la struttura politico-amministrativa
dell'impero romano, che garantiva pace e stabilità dalla Britannia fino
all'Egitto meridionale, unificando un territorio dalle dimensioni mai viste
prima. In questo spazio ci si poteva muovere con sufficiente libertà e
sicurezza, usufruendo tra l'altro di un sistema stradale straordinario, e
trovando in ogni punto di arrivo caratteristiche culturali di base che, senza
andare a scapito dei valori locali, rappresentavano comunque un tessuto
comune di unificazione super partes, tanto che il filosofo
ebreo Filone Alessandrino, contemporaneo dello stesso Paolo, loda l’imperatore
Augusto perché "ha composto in armonia tutti i popoli selvaggi ... facendosi
guardiano della pace" (Legatio ad Caium, §§ 146-147).
La visione
universalistica tipica della personalità di san
Paolo, almeno del Paolo cristiano successivo all'evento della strada di Damasco,
deve certamente il suo impulso di base alla fede in Gesù Cristo, in quanto la
figura del Risorto si pone ormai al di là di ogni ristrettezza particolaristica;
infatti, per l'Apostolo "non c'è più Giudeo né Greco, non c'è più schiavo né
libero, non c'è più maschio né femmina, ma tutti siete uno solo in Cristo Gesù"
(Gal 3,28). Tuttavia, anche la
situazione storico-culturale del suo tempo e del suo ambiente non può
non aver avuto un influsso sulle sue scelte e sul suo impegno. Qualcuno ha
definito Paolo "uomo di tre culture", tenendo
conto della sua matrice giudaica, della sua lingua greca, e della sua
prerogativa di "civis romanus", come attesta anche il nome di origine
latina. Va ricordata in specie la
filosofia stoica, che era dominante al tempo di Paolo e che influì, se
pur in misura marginale, anche sul cristianesimo. A questo proposito, non
possiamo tacere alcuni nomi di filosofi stoici come gli iniziatori Zenone e
Cleante, e poi quelli cronologicamente più vicini a Paolo come Seneca, Musonio
ed Epitteto: in essi si trovano valori altissimi di umanità e di sapienza, che
saranno naturalmente recepiti nel cristianesimo. Come scrive ottimamente uno
studioso della materia, "la Stoa... annunciò un nuovo ideale, che imponeva sì
all’uomo dei doveri verso i suoi simili, ma nello stesso tempo lo liberava da
tutti i legami fisici e nazionali e ne faceva un essere puramente spirituale"
(M. Pohlenz, La Stoa, I, Firenze 2 1978, pagg. 565s).
Si pensi, per esempio, alla dottrina dell'universo inteso come un unico grande
corpo armonioso, e conseguentemente alla dottrina dell'uguaglianza tra tutti gli
uomini senza distinzioni sociali, all'equiparazione almeno di principio tra
l'uomo e la donna, e poi all'ideale della frugalità, della giusta misura e del
dominio di sé per evitare ogni eccesso. Quando Paolo scrive ai Filippesi: "Tutto
quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e
merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri" (Fil 4,8), non
fa che riprendere una concezione prettamente umanistica propria di quella
sapienza filosofica.
Al tempo di san Paolo era in atto anche una
crisi della religione tradizionale,
almeno nei suoi aspetti mitologici e anche civici.
Dopo che Lucrezio, già un secolo prima, aveva polemicamente sentenziato che "la
religione ha condotto a tanti misfatti" (De rerum natura, 1,101), un
filosofo come Seneca, andando bel al di là di ogni ritualismo esterioristico,
insegnava che "Dio è vicino a te, è con te, è dentro di
te" (Lettere a Lucilio, 41,1). Analogamente, quando Paolo si
rivolge a un uditorio di filosofi epicurei e stoici nell'Areopago di Atene, dice
testualmente che "Dio non dimora in templi costruiti da mani d'uomo ... ma in
lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo" (At 17,24.28). Con ciò egli
riecheggia certamente la fede giudaica in un Dio non rappresentabile in termini
antropomorfici, ma si pone anche su di una lunghezza d'onda religiosa che i suoi
uditori conoscevano bene. Dobbiamo inoltre tenere conto del fatto che
molti culti pagani prescindevano dai templi ufficiali
della città, e si svolgevano in luoghi privati che favorivano l'iniziazione degli adepti.
Non costituiva perciò motivo di meraviglia che anche le
riunioni cristiane (le ekklesíai), come ci attestano soprattutto
le Lettere paoline, avvenissero in case private. Al momento, del
resto, non esisteva ancora alcun edificio pubblico. Pertanto
i raduni dei cristiani dovevano apparire ai
contemporanei come una semplice variante di questa loro
prassi religiosa più intima. Comunque, le differenze tra i culti pagani e
il culto cristiano non sono di poco conto e riguardano tanto la coscienza
identitaria dei partecipanti quanto la partecipazione in comune di uomini e
donne, la celebrazione della "cena del Signore" e la lettura delle Scritture.
In conclusione, da questa rapida carrellata
sull’ambiente culturale del primo secolo dell’era cristiana appare chiaro che
non è possibile comprendere adeguatamente san Paolo senza collocarlo sullo
sfondo, tanto giudaico quanto pagano, del suo tempo. In questo modo la
sua figura acquista in spessore storico e ideale, rivelando insieme condivisione
e originalità nei confronti dell’ambiente. Ma ciò vale analogamente anche per il
cristianesimo in generale, di cui appunto l’apostolo Paolo è un paradigma di
prim’ordine, dal quale tutti noi abbiamo ancora sempre molto da imparare. È
questo lo scopo dell’Anno Paolino: imparare da san Paolo, imparare
la fede, imparare il
Cristo, imparare infine la strada della retta
vita.
2)
BIOGRAFIA 27.08.2008
Cari fratelli e sorelle,
nell’ultima catechesi
prima delle vacanze – due mesi fa, ai primi di luglio – avevo iniziato una nuova
serie di tematiche in occasione dell’anno paolino, considerando il mondo in cui
visse san Paolo. Vorrei oggi riprendere e continuare la riflessione
sull’Apostolo delle genti, proponendo una sua
breve biografia. Poiché dedicheremo il prossimo mercoledì
all'evento straordinario che si verificò sulla strada di Damasco, la conversione
di Paolo, svolta fondamentale della sua esistenza a seguito dell’incontro con
Cristo, oggi ci soffermiamo brevemente sull’insieme della sua vita.
Gli estremi biografici di Paolo li abbiamo rispettivamente nella Lettera a
Filemone, nella quale egli si dichiara "vecchio" (Fm 9: presbýtes)
e negli Atti degli Apostoli, che al momento della lapidazione di
Stefano lo qualificano "giovane" (7,58: neanías). Le due designazioni
sono evidentemente generiche, ma, secondo i computi antichi, "giovane" era
qualificato l’uomo sui trent’anni, mentre "vecchio" era detto quando giungeva
sulla sessantina. In termini assoluti, la data della nascita di Paolo dipende in
gran parte dalla datazione della Lettera a Filemone. Tradizionalmente la sua
redazione è posta durante la prigionia romana, a metà degli anni 60. Paolo
sarebbe nato l'anno 8, quindi avrebbe avuto più o meno sessant'anni, mentre
al momento della lapidazione di Stefano ne aveva 30. Dovrebbe essere questa la
cronologia giusta. E la celebrazione dell'anno paolino che facciamo segue
proprio questa cronologia. È stato scelto il 2008 pensando a una nascita più o
meno nell'anno 8.
In ogni caso, egli nacque a Tarso in Cilicia
(cfr At 22,3). La città era capoluogo amministrativo della regione e nel
51 a.C. aveva avuto come Proconsole nientemeno che Marco Tullio Cicerone, mentre
dieci anni dopo, nel 41, Tarso era stato il luogo del primo incontro tra
Marco Antonio e Cleopatra. Ebreo della diaspora, egli parlava greco
pur avendo un nome di origine latina, peraltro derivato per assonanza
dall'originario ebraico Saul/Saulos, ed era insignito della
cittadinanza romana (cfr At 22,25-28). Paolo appare quindi collocato
sulla frontiera di tre culture diverse - romana, greca, ebraica -
e forse anche per questo era disponibile a feconde aperture universalistiche, a
una mediazione tra le culture, a una vera universalità. Egli apprese anche
un lavoro manuale, forse derivato dal padre, consistente nel mestiere
di "fabbricatore di tende" (cfr At 18,3: skenopoiòs), da
intendersi probabilmente come lavoratore della lana ruvida di capra o delle
fibre di lino per farne stuoie o tende (cfr At 20,33-35). Verso i 12-13
anni, l'età in cui il ragazzo ebreo diventa bar mitzvà ("figlio del
precetto"), Paolo lasciò Tarso e si trasferì a Gerusalemme per essere
educato ai piedi di Rabbì Gamaliele il Vecchio, nipote del grande
Rabbì Hillèl, secondo le più rigide norme del fariseismo e acquisendo un grande
zelo per la Toràh mosaica (cfr Gal 1,14; Fil 3,5-6; At
22,3; 23,6; 26,5).
Sulla base di questa ortodossia profonda che aveva
imparato alla scuola di Hillèl, in Gerusalemme, intravide nel nuovo movimento
che si richiamava a Gesù di Nazaret un rischio, una minaccia per l'identità
giudaica, per la vera ortodossia dei padri. Ciò spiega il fatto che egli abbia
fieramente "perseguitato la Chiesa di Dio", come per tre volte ammetterà nelle
sue Lettere (1 Cor 15,9; Gal 1,13; Fil 3,6). Anche se non è
facile immaginarsi concretamente in che cosa consistesse questa persecuzione, il
suo fu comunque un atteggiamento di intolleranza. È qui che si
colloca l'evento di Damasco, su cui torneremo nella prossima catechesi. Certo è
che, da quel momento in poi, la sua vita cambiò ed egli diventò un apostolo
instancabile del Vangelo. Di fatto, Paolo passò alla storia più per quanto fece
da cristiano, anzi da apostolo, che non da fariseo. Tradizionalmente si
suddivide la sua attività apostolica sulla base
dei tre viaggi missionari, a cui si aggiunse il quarto dell'andata a Roma come
prigioniero. Tutti sono raccontati da Luca negli Atti. A
proposito dei tre viaggi missionari, però, bisogna
distinguere il primo dagli altri due.
Del primo,
infatti (cfr At 13-14), Paolo non ebbe la diretta responsabilità, che fu
affidata invece al cipriota Barnaba. Insieme essi partirono da Antiochia
sull'Oronte, inviati da quella Chiesa (cfr At 13,1-3), e, dopo essere
salpati dal porto di Seleucia sulla costa siriana, attraversarono l'isola di
Cipro da Salamina a Pafo; di qui giunsero alle coste meridionali dell'Anatolia,
oggi Turchia, e toccarono le città di Attalìa, Perge di Panfilia, Antiochia di
Pisidia, Iconio, Listra e Derbe, da cui ritornarono al punto di partenza. Era
così nata la Chiesa dei popoli, la Chiesa dei pagani. E nel frattempo,
soprattutto a Gerusalemme, era nata una discussione dura fino a quale punto
questi cristiani provenienti dal paganesimo fossero obbligati ad entrare anche
nella vita e nella legge di Israele (varie osservanze e prescrizioni che
separavano Israele dal resto del mondo) per essere partecipi realmente delle
promesse dei profeti e per entrare effettivamente nell’eredità di Israele. Per
risolvere questo problema fondamentale per la nascita della Chiesa futura si
riunì a Gerusalemme il cosiddetto Concilio degli Apostoli, per decidere su
questo problema dal quale dipendeva la effettiva nascita di una Chiesa
universale. E fu deciso di non imporre ai pagani convertiti l'osservanza della
legge mosaica (cfr At 15,6-30): non erano cioè obbligati alle norme del
giudaismo; l’unica necessità era essere di Cristo, di vivere con Cristo e
secondo le sue parole. Così, essendo di Cristo, erano anche di Abramo, di Dio e
partecipi di tutte le promesse.
Dopo questo
avvenimento decisivo, Paolo si separò da Barnaba, scelse Sila e iniziò il
secondo viaggio missionario (cfr At
15,36-18,22). Oltrepassata la Siria e la Cilicia, rivide la città di Listra,
dove accolse con sé Timoteo (figura molto importante della Chiesa
nascente, figlio di un’ebrea e di un pagano), e lo fece circoncidere,
attraversò l'Anatolia centrale e raggiunse la città di Troade sulla costa
settentrionale del Mar Egeo. E qui si ebbe di
nuovo un avvenimento importante: in sogno vide un macedone dall'altra parte del
mare, cioè in Europa, che diceva, "Vieni e aiutaci!". Era l'Europa futura che
chiedeva l'aiuto e la luce del Vangelo. Sulla spinta di questa visione entrò in
Europa. Di qui salpò per la Macedonia entrando così in Europa.
Sbarcato a Neapoli, arrivò a Filippi, ove fondò una bella comunità, poi passò a
Tessalonica, e, partito di qui per difficoltà procurategli dai Giudei, passò per
Berea, giunse ad Atene.
In questa capitale dell'antica cultura greca
predicò, prima nell'Agorà e poi nell'Areopago, ai pagani e ai greci. E il
discorso dell'Areopago, riferito negli Atti degli Apostoli, è modello di come
tradurre il Vangelo in cultura greca, di come far capire ai greci che questo Dio
dei cristiani, degli ebrei, non era un Dio straniero alla loro cultura ma il Dio
sconosciuto aspettato da loro, la vera risposta alle più profonde domande della
loro cultura. Poi da Atene arrivò a Corinto, dove si fermò un anno e
mezzo. E qui abbiamo un evento cronologicamente molto sicuro, il più
sicuro di tutta la sua biografia, perché durante questo primo soggiorno a
Corinto egli dovette comparire davanti al Governatore della provincia
senatoriale di Acaia, il Proconsole Gallione, accusato di un culto illegittimo.
Su questo Gallione e sul suo tempo a Corinto esiste un'antica iscrizione trovata
a Delfi, dove è detto che era Proconsole a Corinto tra gli anni 51 e 53.
Quindi qui abbiamo una data assolutamente sicura. Il soggiorno di Paolo a
Corinto si svolse in quegli anni. Pertanto possiamo supporre che sia arrivato
più o meno nel 50 e sia rimasto fino al 52. Da Corinto, poi, passando per
Cencre, porto orientale della città, si diresse verso la Palestina raggiungendo
Cesarea Marittima, di dove salì a Gerusalemme per tornare poi ad Antiochia
sull’Oronte.
Il terzo viaggio missionario
(cfr At 18,23-21,16) ebbe inizio come sempre ad
Antiochia, che era divenuta il punto di origine della Chiesa dei pagani,
della missione ai pagani, ed era anche il luogo dove nacque il termine
«cristiani». Qui per la prima volta, ci dice San Luca, i seguaci di Gesù furono
chiamati «cristiani». Da lì Paolo puntò dritto su Efeso, capitale della
provincia d'Asia, dove soggiornò per due anni, svolgendo un ministero
che ebbe delle feconde ricadute sulla regione. Da Efeso Paolo scrisse le lettere
ai Tessalonicesi e ai Corinzi. La popolazione della città però fu sobillata
contro di lui dagli argentieri locali, che vedevano diminuire le loro entrate
per la riduzione del culto di Artemide (il tempio a lei dedicato a Efeso, l'Artemysion,
era una delle sette meraviglie del mondo antico); perciò egli dovette fuggire
verso il nord. Riattraversata la Macedonia, scese
di nuovo in Grecia, probabilmente a Corinto, rimanendovi tre mesi e scrivendo la
celebre Lettera ai Romani.
Di qui tornò sui suoi passi: ripassò per la
Macedonia, per nave raggiunse Troade e poi, toccando appena le isole di
Mitilene, Chio, Samo, giunse a Mileto dove tenne un importante discorso
agli Anziani della Chiesa di Efeso, dando un ritratto del pastore vero della
Chiesa, cfr At 20. Di qui ripartì facendo vela verso Tiro, di
dove raggiunse Cesarea Marittima per salire ancora una volta a Gerusalemme.
Qui fu arrestato in base a un malinteso: alcuni Giudei avevano scambiato per
pagani altri Giudei di origine greca, introdotti da Paolo nell’area templare
riservata soltanto agli Israeliti. La prevista condanna a morte gli fu
risparmiata per l’intervento del tribuno romano di guardia all’area del Tempio
(cfr At 21,27-36); ciò si verificò mentre in Giudea era Procuratore
imperiale Antonio Felice. Passato un periodo di carcerazione (la cui durata è
discussa), ed essendosi Paolo, come cittadino romano, appellato a Cesare (che
allora era Nerone), il successivo Procuratore Porcio Festo lo inviò a Roma
sotto custodia militare.
Il viaggio
verso Roma toccò le isole mediterranee di
Creta e Malta, e poi le città di Siracusa, Reggio Calabria e Pozzuoli. I
cristiani di Roma gli andarono incontro sulla Via Appia fino al Foro di Appio
(ca. 70 km a sud della capitale ) e altri fino alle Tre Taverne (ca. 40 km). A
Roma incontrò i delegati della comunità ebraica, a cui confidò che era per "la
speranza d'Israele" che portava le sue catene (cfr At 28,20). Ma il
racconto di Luca termina sulla menzione di due anni passati a Roma sotto una
blanda custodia militare, senza accennare né a una sentenza di Cesare (Nerone)
né tanto meno alla morte dell'accusato. Tradizioni successive parlano di una sua
liberazione, che avrebbe favorito sia un viaggio missionario in Spagna, sia una
successiva puntata in Oriente e specificamente a Creta, a Efeso e a Nicopoli in
Epiro. Sempre su base ipotetica, si congettura di un nuovo arresto e una seconda
prigionia a Roma (da cui avrebbe scritto le tre Lettere cosiddette
Pastorali, cioè le due a Timoteo e quella a Tito) con un secondo processo,
che gli sarebbe risultato sfavorevole. Tuttavia, una serie di motivi induce
molti studiosi di san Paolo a terminare la biografia dell'Apostolo con il
racconto lucano degli Atti.
Sul suo martirio torneremo più avanti nel ciclo di
queste nostre catechesi. Per ora, in questo breve elenco dei viaggi di Paolo,
è sufficiente prendere atto di come egli si sia dedicato all’annuncio del
Vangelo senza risparmio di energie, affrontando una serie di prove gravose, di
cui ci ha lasciato l’elenco nella seconda Lettera ai Corinzi (cfr
11,21-28). Del resto, è lui che scrive: "Tutto faccio per il Vangelo" (1 Cor
9,23), esercitando con assoluta generosità quella che egli chiama
"preoccupazione per tutte le Chiese" (2 Cor 11,28). Vediamo un
impegno che si spiega soltanto con un'anima realmente affascinata dalla luce del
Vangelo, innamorata di Cristo, un’anima sostenuta da una convinzione profonda: è
necessario portare al mondo la luce di Cristo, annunciare il Vangelo a tutti.
Questo mi sembra sia quanto rimane da questa breve rassegna dei viaggi di san
Paolo: vedere la sua passione per il Vangelo, intuire così la grandezza, la
bellezza, anzi la necessità profonda del Vangelo per noi tutti. Preghiamo
affinché il Signore, che ha fatto vedere la sua luce a Paolo, gli ha fatto
sentire la sua Parola, ha toccato il suo cuore intimamente, faccia vedere anche
a noi la sua luce, perché anche il nostro cuore sia toccato dalla sua Parola e
possiamo così anche noi dare al mondo di oggi, che ne ha sete, la luce del
Vangelo e la verità di Cristo.
3) SULLA VIA DI
DAMASCO 3.09.2008
Cari fratelli e sorelle,
la catechesi di oggi sarà
dedicata all’esperienza che san Paolo ebbe sulla via di Damasco e quindi a
quella che comunemente si chiama la sua conversione. Proprio sulla strada di
Damasco, nei primi anni 30 del secolo I, e dopo un periodo in cui
aveva perseguitato la Chiesa, si verificò il momento decisivo della vita di
Paolo. Su di esso molto è stato scritto e naturalmente da diversi punti di
vista. Certo è che là avvenne una svolta, anzi un capovolgimento di
prospettiva. Allora egli, inaspettatamente, cominciò a considerare
"perdita" e "spazzatura" tutto ciò che prima costituiva per lui il massimo
ideale, quasi la ragion d'essere della sua esistenza (cfr Fil 3,7-8). Che
cos’era successo?
Abbiamo a questo proposito due tipi di fonti.
Il primo tipo, il più conosciuto, sono i racconti dovuti alla penna di
Luca, che per ben tre volte narra l’evento negli Atti degli Apostoli (cfr
9,1-19; 22,3-21; 26,4-23). Il lettore medio è forse tentato di fermarsi troppo
su alcuni dettagli, come la luce dal cielo, la caduta a terra, la voce che
chiama, la nuova condizione di cecità, la guarigione come per la caduta di
squame dagli occhi e il digiuno. Ma tutti questi
dettagli si riferiscono al centro dell’avvenimento: il Cristo risorto appare
come una luce splendida e parla a Saulo, trasforma il suo pensiero e la sua
stessa vita. Lo splendore del Risorto lo rende cieco:
appare così anche esteriormente ciò che era la sua realtà interiore, la sua
cecità nei confronti della verità, della luce che è Cristo. E poi il suo
definitivo "sì" a Cristo nel battesimo riapre di nuovo i suoi occhi, lo fa
realmente vedere.
Nella Chiesa antica il battesimo era chiamato anche
"illuminazione", perché tale sacramento dà la luce, fa vedere realmente. Quanto
così si indica teologicamente, in Paolo si realizza anche fisicamente: guarito
dalla sua cecità interiore, vede bene. San Paolo,
quindi, è stato trasformato non da un pensiero ma da un evento, dalla presenza
irresistibile del Risorto, della quale mai potrà in seguito dubitare tanto era
stata forte l’evidenza dell’evento, di questo incontro. Esso
cambiò fondamentalmente la vita di Paolo; in questo senso si può e si deve
parlare di una conversione. Questo incontro è il centro del racconto di san
Luca, il quale è ben possibile che abbia utilizzato un racconto nato
probabilmente nella comunità di Damasco. Lo fa pensare il colorito locale dato
dalla presenza di Ananìa e dai nomi sia della via che del proprietario della
casa in cui Paolo soggiornò (cfr At 9,11).
Il secondo tipo di fonti
sulla conversione è costituito dalle stesse Lettere di san
Paolo. Egli non ha mai parlato in dettaglio di questo avvenimento, penso
perché poteva supporre che tutti conoscessero l’essenziale di questa sua storia,
tutti sapevano che da persecutore era stato trasformato in apostolo fervente di
Cristo. E ciò era avvenuto non in seguito ad una propria riflessione, ma ad
un evento forte, ad un incontro con il Risorto. Pur non parlando dei
dettagli, egli accenna diverse volte a questo fatto importantissimo, che cioè
anche lui è testimone della risurrezione di Gesù, della quale ha ricevuto
immediatamente da Gesù stesso la rivelazione, insieme con la missione di
apostolo. Il testo più chiaro su questo punto si trova nel suo racconto su ciò
che costituisce il centro della storia della salvezza: la morte e la
risurrezione di Gesù e le apparizioni ai testimoni (cfr. 1 Cor 15). Con
parole della tradizione antichissima, che anch’egli ha ricevuto dalla Chiesa di
Gerusalemme, dice che Gesù morto crocifisso, sepolto, risorto apparve, dopo la
risurrezione, prima a Cefa, cioè a Pietro, poi ai Dodici, poi a cinquecento
fratelli che in gran parte in quel tempo vivevano ancora, poi a Giacomo, poi a
tutti gli Apostoli. E a questo racconto ricevuto dalla tradizione aggiunge: "Ultimo
fra tutti apparve anche a me" (1 Cor 15,8). Così fa capire
che questo è il fondamento del suo apostolato e della sua nuova vita. Vi sono
pure altri testi nei quali appare la stessa cosa: "Per mezzo di Gesù Cristo
abbiamo ricevuto la grazia dell'apostolato" (cfr Rm 1,5); e ancora: "Non
ho forse veduto Gesù, Signore nostro?" (1 Cor 9,1), parole con le quali
egli allude ad una cosa che tutti sanno. E finalmente il testo più diffuso si
legge in Gal 1,15-17: "Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia
madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio
perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo,
senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in
Arabia e poi ritornai a Damasco". In questa "autoapologia" sottolinea
decisamente che anche lui è vero testimone del Risorto, ha una propria missione
ricevuta immediatamente dal Risorto.
Possiamo così vedere che le due fonti,
gli Atti degli Apostoli e le Lettere di san Paolo, convergono e convengono sul
punto fondamentale: il Risorto ha parlato a Paolo, lo ha chiamato
all’apostolato, ha fatto di lui un vero apostolo, testimone della risurrezione,
con l’incarico specifico di annunciare il Vangelo ai pagani, al mondo
greco-romano. E nello stesso tempo Paolo ha imparato che, nonostante
l’immediatezza del suo rapporto con il Risorto, egli deve entrare nella
comunione della Chiesa, deve farsi battezzare, deve vivere in sintonia con gli
altri apostoli. Solo in questa comunione con tutti egli potrà essere un vero
apostolo, come scrive esplicitamente nella prima Lettera ai Corinti: "Sia io che
loro così predichiamo e così avete creduto" (15, 11). C’è solo un annuncio del
Risorto, perché Cristo è uno solo.
Come si vede, in tutti questi passi Paolo non
interpreta mai questo momento come un fatto di conversione. Perché? Ci sono
tante ipotesi, ma per me il motivo è molto evidente. Questa svolta della sua
vita, questa trasformazione di tutto il suo essere non fu frutto di un processo
psicologico, di una maturazione o evoluzione intellettuale e morale, ma venne
dall’esterno: non fu il frutto del suo pensiero, ma dell’incontro con Cristo
Gesù. In questo senso non fu semplicemente una conversione, una maturazione del
suo "io", ma fu morte e risurrezione per lui stesso: morì una sua
esistenza e un’altra nuova ne nacque con il Cristo Risorto. In nessun
altro modo si può spiegare questo rinnovamento di Paolo. Tutte le analisi
psicologiche non possono chiarire e risolvere il problema. Solo
l'avvenimento, l'incontro forte con Cristo, è la chiave per capire che cosa era
successo: morte e risurrezione, rinnovamento da parte di Colui che si era
mostrato e aveva parlato con lui. In questo senso più profondo possiamo
e dobbiamo parlare di conversione. Questo incontro
è un reale rinnovamento che ha cambiato tutti i suoi parametri.
Adesso può dire che ciò che prima era per lui essenziale e fondamentale, è
diventato per lui "spazzatura"; non è più "guadagno", ma perdita, perché ormai
conta solo la vita in Cristo.
Non dobbiamo tuttavia
pensare che Paolo sia stato così chiuso in un avvenimento cieco. È vero il
contrario, perché il Cristo Risorto è la luce della verità, la luce di Dio
stesso. Questo ha allargato il suo cuore, lo ha reso aperto a tutti. In questo
momento non ha perso quanto c'era di bene e di vero nella sua vita, nella sua
eredità, ma ha capito in modo nuovo la saggezza, la verità, la profondità della
legge e dei profeti, se n'è riappropriato in modo nuovo.
Nello stesso tempo, la sua ragione si è aperta alla saggezza dei pagani;
essendosi aperto a Cristo con tutto il cuore, è divenuto capace di un dialogo
ampio con tutti, è divenuto capace di farsi tutto a tutti. Così realmente poteva
essere l'apostolo dei pagani.
Venendo ora a noi stessi, ci chiediamo che
cosa vuol dire questo per noi? Vuol dire
che anche per noi il cristianesimo non è una nuova
filosofia o una nuova morale. Cristiani siamo soltanto se incontriamo Cristo.
Certamente Egli non si mostra a noi in questo modo irresistibile, luminoso, come
ha fatto con Paolo per farne l'apostolo di tutte le genti. Ma anche noi possiamo
incontrare Cristo, nella lettura della Sacra Scrittura, nella preghiera, nella
vita liturgica della Chiesa. Possiamo toccare il cuore di Cristo e sentire che
Egli tocca il nostro. Solo in questa relazione personale con Cristo, solo in
questo incontro con il Risorto diventiamo realmente cristiani. E così si apre la
nostra ragione, si apre tutta la saggezza di Cristo e tutta la ricchezza della
verità. Quindi preghiamo il Signore perché ci illumini, perché ci doni nel
nostro mondo l'incontro con la sua presenza: e così ci dia una fede vivace, un
cuore aperto, una grande carità per tutti, capace di rinnovare il mondo.
4) NASCE PAOLO APOSTOLO 17.09.2008
Cari fratelli e sorelle,
mercoledì scorso
ho parlato della grande svolta che si ebbe nella vita di san Paolo a seguito
dell’incontro con il Cristo risorto. Gesù entrò nella sua vita e lo trasformò da
persecutore in apostolo. Quell’incontro
segnò l’inizio della sua missione: Paolo non poteva continuare a vivere come
prima, adesso si sentiva investito dal Signore dell’incarico di annunciare il
suo Vangelo in qualità di apostolo. E’ proprio di questa sua nuova condizione di
vita, cioè dell’essere egli apostolo di Cristo,
che vorrei parlare oggi. Noi normalmente, seguendo i Vangeli,
identifichiamo i Dodici col titolo di apostoli, intendendo così indicare coloro
che erano compagni di vita e ascoltatori dell’insegnamento di Gesù. Ma anche
Paolo si sente vero apostolo e appare chiaro, pertanto, che il concetto paolino
di apostolato non si restringe al gruppo dei Dodici. Ovviamente, Paolo sa
distinguere bene il proprio caso da quello di coloro “che erano stati apostoli
prima” di lui (Gal 1,17): ad essi riconosce un posto del tutto speciale
nella vita della Chiesa. Eppure, come tutti sanno, anche san Paolo
interpreta se stesso come Apostolo in senso stretto. Certo è che,
al tempo delle origini cristiane, nessuno percorse tanti chilometri quanti lui,
per terra e per mare, con il solo scopo di annunciare il Vangelo.
Quindi, egli
aveva un concetto di apostolato che andava oltre quello legato soltanto al
gruppo dei Dodici e tramandato soprattutto da san Luca negli Atti
(cfr At 1,2.26; 6,2). Infatti, nella prima Lettera ai Corinzi
Paolo opera una chiara distinzione tra “i Dodici” e “tutti gli apostoli”,
menzionati come due diversi gruppi di beneficiari delle
apparizioni del Risorto (cfr 14,5.7). In quello stesso testo egli passa poi a
nominare umilmente se stesso come “l’infimo degli apostoli”,
paragonandosi persino a un aborto e affermando testualmente: “Io non sono degno
neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio.
Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata
vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però ma la grazia di Dio che è
con me” (1 Cor 15,9-10). La metafora dell’aborto esprime un’estrema
umiltà; la si troverà anche nella Lettera ai Romani di sant’Ignazio di
Antiochia: “Sono l’ultimo di tutti, sono un aborto; ma mi sarà concesso di
essere qualcosa, se raggiungerò Dio” (9,2). Ciò che il Vescovo di Antiochia dirà
in rapporto al suo imminente martirio, prevedendo che esso capovolgerà la sua
condizione di indegnità, san Paolo lo dice in relazione al proprio impegno
apostolico: è in esso che si manifesta la fecondità della grazia di Dio, che sa
appunto trasformare un uomo mal riuscito in uno splendido apostolo. Da
persecutore a fondatore di Chiese: questo ha fatto Dio in uno che, dal punto di
vista evangelico, avrebbe potuto essere considerato uno scarto!
Cos’è, dunque,
secondo la concezione di san Paolo, ciò che fa di lui e di altri degli apostoli?
Nelle sue Lettere appaiono tre
caratteristiche principali, che costituiscono l’apostolo.
La prima è di avere “visto il Signore”
(cfr 1 Cor 9,1), cioè di avere avuto con lui un incontro determinante per
la propria vita. Analogamente nella Lettera ai Galati (cfr 1,15-16) dirà
di essere stato chiamato, quasi selezionato, per grazia di Dio con la
rivelazione del Figlio suo in vista del lieto annuncio ai pagani. In definitiva,
è il Signore che costituisce nell’apostolato, non la propria presunzione.
L’apostolo non si fa da sé, ma tale è fatto dal Signore; quindi l’apostolo ha
bisogno di rapportarsi costantemente al Signore. Non per nulla Paolo dice di
essere “apostolo per vocazione” (Rm 1,1), cioè “non da parte di uomini né
per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre” (Gal 1,1).
Questa è la prima caratteristica: aver visto il Signore, essere stato
chiamato da Lui.
La seconda caratteristica
è di “essere stati inviati”. Lo stesso termine
greco apóstolos significa appunto “inviato, mandato”, cioè ambasciatore e
portatore di un messaggio; egli deve quindi agire come incaricato e
rappresentante di un mandante. È per questo che Paolo si definisce “apostolo
di Gesù Cristo” (1 Cor 1,1; 2 Cor 1,1), cioè suo
delegato, posto totalmente al suo servizio, tanto da chiamarsi anche “servo di
Gesù Cristo” (Rm 1,1). Ancora una volta emerge in primo piano l’idea di
una iniziativa altrui, quella di Dio in Cristo Gesù, a cui si è pienamente
obbligati; ma soprattutto si sottolinea il fatto che da Lui si è ricevuta una
missione da compiere in suo nome, mettendo assolutamente in secondo piano ogni
interesse personale.
Il terzo requisito
è l’esercizio dell’”annuncio del Vangelo”, con la
conseguente fondazione di Chiese. Quello di
“apostolo”, infatti, non è e non può essere un titolo onorifico. Esso impegna
concretamente e anche drammaticamente tutta l’esistenza del soggetto
interessato. Nella prima Lettera ai Corinzi Paolo esclama: “Non sono
forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia
opera nel Signore?” (9,1). Analogamente nella seconda Lettera ai Corinzi
afferma: “La nostra lettera siete voi…, una lettera di Cristo composta da noi,
scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente” (3,2-3).
Non ci si stupisce, dunque, se il Crisostomo parla
di Paolo come di “un’anima di diamante” (Panegirici, 1,8), e
continua dicendo: “Allo stesso modo che il fuoco appiccandosi a materiali
diversi si rafforza ancor di più…, così la parola di Paolo guadagnava alla
propria causa tutti coloro con cui entrava in relazione, e coloro che gli
facevano guerra, catturati dai suoi discorsi, diventavano un alimento per questo
fuoco spirituale” (ibid., 7.11). Questo spiega perché Paolo definisca gli
apostoli come “collaboratori di Dio” (1 Cor 3,9; 2 Cor 6,1), la
cui grazia agisce con loro. Un elemento tipico del vero apostolo, messo bene in
luce da san Paolo, è una sorta di identificazione tra Vangelo ed
evangelizzatore, entrambi destinati alla medesima sorte. Nessuno come Paolo,
infatti, ha evidenziato come l’annuncio della croce di Cristo appaia “scandalo e
stoltezza” (1 Cor 1,23), a cui molti reagiscono con l’incomprensione ed
il rifiuto. Ciò avveniva a quel tempo, e non deve stupire che altrettanto
avvenga anche oggi. A questa sorte, di apparire “scandalo e stoltezza”,
partecipa quindi l’apostolo e Paolo lo sa: è questa l’esperienza della sua vita.
Ai Corinzi scrive, non senza una venatura di ironia: “Ritengo infatti che Dio
abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché
siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a
causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi
disprezzati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità,
veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo
lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo;
calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il
rifiuto di tutti fino a oggi” (1 Cor 4,9-13). E’ un autoritratto della
vita apostolica di san Paolo: in tutte queste sofferenze prevale la gioia di
essere portatore della benedizione di Dio e della grazia del Vangelo.
Paolo, peraltro, condivide con la filosofia stoica
del suo tempo l’idea di una tenace costanza in tutte le difficoltà che gli si
presentano; ma egli supera la prospettiva meramente umanistica, richiamando la
componente dell’amore di Dio e di Cristo: “Chi ci separerà dunque dall’amore di
Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità,
il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a
morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte
queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io
sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente
né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà
mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm
8,35-39). Questa è la certezza, la gioia profonda che guida l’apostolo Paolo in
tutte queste vicende: niente può separarci dall’amore di Dio. E questo amore è
la vera ricchezza della vita umana.
Come si vede,
san Paolo si era donato al Vangelo con tutta la sua esistenza; potremmo dire
ventiquattr’ore su ventiquattro! E compiva
il suo ministero con fedeltà e con gioia, “per salvare ad ogni costo qualcuno” (1
Cor 9,22). E nei confronti delle Chiese, pur sapendo di avere con esse un
rapporto di paternità (cfr 1 Cor 4,15), se non addirittura di maternità
(cfr Gal 4,19), si poneva in atteggiamento di completo servizio,
dichiarando ammirevolmente: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra
fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2 Cor 1,24).
Questa rimane la missione di tutti gli apostoli di Cristo in tutti i tempi:
essere collaboratori della vera gioia.
5) RELAZIONE PAOLO_APOSTOLI 24.09.2008
Cari fratelli e sorelle,
vorrei oggi parlare sulla
relazione tra san Paolo e gli Apostoli che lo avevano preceduto
nella sequela di Gesù. Questi rapporti furono sempre segnati da profondo
rispetto e da quella franchezza che a Paolo derivava dalla difesa della verità
del Vangelo. Anche se egli era, in pratica, contemporaneo di Gesù di Nazareth,
non ebbe mai l’opportunità d’incontrarlo, durante la sua vita pubblica. Per
questo, dopo la folgorazione sulla strada di Damasco, avvertì il bisogno di
consultare i primi discepoli del Maestro, che erano stati scelti da Lui perché
ne portassero il Vangelo sino ai confini del mondo.
Nella Lettera ai Galati Paolo stila un
importante resoconto sui contatti intrattenuti con alcuni dei Dodici: anzitutto
con Pietro che era stato scelto come Kephas, la parola aramaica che
significa roccia, su cui si stava edificando la Chiesa (cfr Gal 1,18),
con Giacomo, “il fratello del Signore” (cfr Gal 1,19), e con Giovanni
(cfr Gal 2,9): Paolo non esita a
riconoscerli come “le colonne” della Chiesa. Particolarmente significativo è
l’incontro con Cefa (Pietro), verificatosi a Gerusalemme: Paolo rimase presso di
lui 15 giorni per “consultarlo” (cfr Gal 1,19), ossia per
essere informato sulla vita terrena del Risorto, che lo aveva “ghermito” sulla
strada di Damasco e gli stava cambiando, in modo radicale, l’esistenza: da
persecutore nei confronti della Chiesa di Dio era diventato evangelizzatore di
quella fede nel Messia crocifisso e Figlio di Dio, che in passato aveva cercato
di distruggere (cfr Gal 1,23).
Quale genere di informazioni Paolo ebbe su Gesù
Cristo nei tre anni che succedettero all’incontro di Damasco? Nella prima
Lettera ai Corinzi possiamo notare due brani, che Paolo ha conosciuto a
Gerusalemme, e che erano stati già formulati come elementi centrali della
tradizione cristiana, tradizione costitutiva. Egli li trasmette verbalmente,
così come li ha ricevuti, con una formula molto solenne: “Vi trasmetto
quanto anch’io ho ricevuto”. Insiste cioè sulla fedeltà a quanto egli
stesso ha ricevuto e che fedelmente trasmette ai nuovi cristiani. Sono elementi
costitutivi e concernono l’Eucaristia e la Risurrezione; si tratta di
brani già formulati negli anni trenta. Arriviamo così alla morte, sepoltura nel
cuore della terra e alla risurrezione di Gesù. (cfr 1 Cor 15,3-4).
Prendiamo l’uno e l’altro: le parole di Gesù nell’Ultima Cena (cfr 1 Cor
11,23-25) sono realmente per Paolo centro della vita della Chiesa: la Chiesa si
edifica a partire da questo centro, diventando così se stessa. Oltre questo
centro eucaristico, nel quale nasce sempre di nuovo la Chiesa – anche per tutta
la teologia di San Paolo, per tutto il suo pensiero – queste parole hanno avuto
un notevole impatto sulla relazione personale di Paolo con Gesù. Da una parte
attestano che l’Eucaristia illumina la maledizione della croce, rendendola
benedizione (Gal 3,13-14), e dall’altra spiegano la portata della stessa
morte e risurrezione di Gesù. Nelle sue Lettere il “per voi” dell’istituzione
eucaristica diventa il “per me” (Gal 2,20), personalizzando, sapendo che
in quel «voi» lui stesso era conosciuto e amato da Gesù e dell’altra parte “per
tutti” (2 Cor 5,14): questo «per voi» diventa «per me» e «per la Chiesa
(Ef 5, 25)», ossia anche «per tutti» del sacrificio espiatorio della croce (cfr
Rm 3,25). Dalla e nell’Eucaristia la Chiesa si edifica e si riconosce
quale “Corpo di Cristo” (1 Cor 12,27), alimentato ogni giorno dalla
potenza dello Spirito del Risorto.
L’altro testo, sulla Risurrezione, ci trasmette di
nuovo la stessa formula di fedeltà. Scrive San Paolo: “Vi ho trasmesso dunque,
anzitutto quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri
peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno
secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici” (1 Cor
15,3-5). Anche in questa tradizione trasmessa a Paolo torna quel “per i nostri
peccati”, che pone l’accento sul dono che Gesù ha fatto di sé al Padre, per
liberarci dai peccati e dalla morte. Da questo dono di sé, Paolo trarrà le
espressioni più coinvolgenti e affascinanti del nostro rapporto con Cristo: “Colui
che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore,
perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio” (2 Cor
5,21); “Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco
che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della
sua povertà” (2 Cor 8,9). Vale la pena ricordare il
commento col quale l’allora monaco agostiniano, Martin Lutero, accompagnava
queste espressioni paradossali di Paolo: “Questo è il grandioso mistero della
grazia divina verso i peccatori: che con un mirabile scambio i nostri peccati
non sono più nostri, ma di Cristo, e la giustizia di Cristo non è più di Cristo,
ma nostra” (Commento ai Salmi del 1513-1515). E così siamo salvati.
Nell’originale kerygma (annuncio), trasmesso
di bocca in bocca, merita di essere segnalato l’uso del verbo “è
risuscitato”, invece del “fu risuscitato” che sarebbe stato più logico
utilizzare, in continuità con “morì… e fu sepolto”. La forma verbale «è
risuscitato» è scelta per sottolineare che la risurrezione di Cristo incide
sino al presente dell’esistenza dei credenti: possiamo tradurlo con
“è risuscitato e continua a vivere” nell’Eucaristia e
nella Chiesa. Così tutte le Scritture rendono testimonianza della
morte e risurrezione di Cristo, perché – come scriverà Ugo di San Vittore –
“tutta la divina Scrittura costituisce un unico libro e quest’unico libro è
Cristo, perché tutta la Scrittura parla di Cristo e trova in Cristo il suo
compimento” (De arca Noe, 2,8). Se sant’Ambrogio di Milano potrà
dire che “nella Scrittura noi leggiamo Cristo”, è perché la Chiesa delle origini
ha riletto tutte le Scritture d’Israele partendo da e tornando a Cristo.
La scansione delle apparizioni del Risorto a Cefa,
ai Dodici, a più di cinquecento fratelli, e a Giacomo si chiude con l’accenno
alla personale apparizione, ricevuta da Paolo sulla strada di Damasco: “Ultimo
fra tutti apparve anche a me come a un aborto” (1 Cor 15,8). Poiché egli
ha perseguitato la Chiesa di Dio, in questa confessione esprime la sua indegnità
nell’essere considerato apostolo, sullo stesso livello di quelli che l’hanno
preceduto: ma la grazia di Dio in lui non è stata vana (1 Cor 15,10).
Pertanto l’affermarsi prepotente della grazia divina accomuna Paolo ai primi
testimoni della risurrezione di Cristo: “Sia io che loro, così predichiamo e
così avete creduto” (1 Cor 15,11). È importante l’identità e l’unicità
dell’annuncio del Vangelo: sia loro sia io predichiamo la stessa fede, lo stesso
Vangelo di Gesù Cristo morto e risorto che si dona nella Santissima Eucaristia.
L’importanza che egli conferisce alla
Tradizione viva della Chiesa, che trasmette alle sue comunità, dimostra quanto
sia errata la visione di chi attribuisce a
Paolo l’invenzione del cristianesimo:
prima di evangelizzare Gesù Cristo, il suo Signore, egli l’ha incontrato
sulla strada di Damasco e lo ha frequentato nella Chiesa, osservandone la vita
nei Dodici e in coloro che lo hanno seguito per le strade della Galilea.
Nelle prossime Catechesi avremo l’opportunità di approfondire i contributi che
Paolo ha donato alla Chiesa delle origini; ma la missione ricevuta dal Risorto
in ordine all’evangelizzazione dei gentili ha bisogno di essere confermata e
garantita da coloro che diedero a lui e a Barnaba la mano destra, in segno di
approvazione del loro apostolato e della loro evangelizzazione e di accoglienza
nella unica comunione della Chiesa di Cristo (cfr Gal 2,9). Si comprende
allora che l’espressione “anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne” (2
Cor 5,16) non significa che la sua esistenza terrena abbia uno scarso
rilievo per la nostra maturazione nella fede, bensì che dal momento della sua
Risurrezione, cambia il nostro modo di rapportarci con Lui. Egli è, nello stesso
tempo, il Figlio di Dio, “nato dalla stirpe di Davide secondo la carne,
costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione
mediante la risurrezione dai morti”, come ricorderà Paolo all’inizio della
Lettera ai Romani (1, 3-4).
Quanto più cerchiamo di rintracciare le orme di Gesù
di Nazaret per le strade della Galilea, tanto più possiamo comprendere che Egli
si è fatto carico della nostra umanità, condividendola in tutto, tranne che nel
peccato. La nostra fede non nasce da un mito, né da un’idea, bensì dall’incontro
con il Risorto, nella vita della Chiesa.
6) RISPETTO E FRANCHEZZA 01.10.2008
Cari fratelli e sorelle,
il rispetto e la
venerazione che Paolo ha sempre coltivato nei confronti dei Dodici non vengono
meno quando egli con franchezza difende la verità del Vangelo, che non è altro
se non Gesù Cristo, il Signore. Vogliamo oggi soffermarci su due episodi che
dimostrano la venerazione e, nello stesso tempo, la libertà con cui l’Apostolo
si rivolge a Cefa e agli altri Apostoli: il cosiddetto “Concilio” di Gerusalemme
e l’incidente di Antiochia di Siria, riportati nella Lettera ai Galati
(cfr 2,1-10; 2,11-14).
Ogni Concilio e Sinodo della Chiesa è “evento dello
Spirito” e reca nel suo compiersi le istanze di tutto il popolo di Dio: lo hanno
sperimentato in prima persona quanti hanno avuto il dono di partecipare al
Concilio Vaticano II. Per questo san Luca, informandoci sul primo Concilio della
Chiesa, svoltosi a Gerusalemme, così introduce la lettera che gli Apostoli
inviarono in quella circostanza alle comunità cristiane della diaspora: “Abbiamo
deciso lo Spirito Santo e noi…” (At 15,28). Lo Spirito, che opera
in tutta la Chiesa, conduce per mano gli Apostoli nell’intraprendere strade
nuove per realizzare i suoi progetti: è Lui l’artefice principale
dell’edificazione della Chiesa.
Eppure l’assemblea di Gerusalemme si svolse in un
momento di non piccola tensione all’interno della Comunità delle origini. Si
trattava di rispondere al quesito se occorresse richiedere ai pagani che stavano
aderendo a Gesù Cristo, il Signore, la circoncisione o se fosse lecito lasciarli
liberi dalla Legge mosaica, cioè dall’osservanza delle norme necessarie per
essere uomini giusti, ottemperanti alla Legge, e soprattutto liberi dalle norme
riguardanti le purificazioni cultuali, i cibi puri e impuri e il sabato.
Dell’assemblea di Gerusalemme riferisce anche san Paolo in Gal 2,1-10:
dopo quattordici anni dall’incontro con il Risorto a Damasco – siamo nella
seconda metà degli anni 40 d.C. – Paolo parte con Barnaba da Antiochia di Siria
e si fa accompagnare da Tito, il suo fedele collaboratore che, pur essendo di
origine greca, non era stato costretto a farsi circoncidere per entrare nella
Chiesa. In questa occasione Paolo espone ai Dodici, definiti come le persone più
ragguardevoli, il suo vangelo della libertà dalla Legge (cfr
Gal 2,6). Alla luce dell’incontro con Cristo risorto, egli aveva capito che
nel momento del passaggio al Vangelo di Gesù Cristo, ai pagani non erano più
necessarie la circoncisione, le regole sul cibo, sul sabato come contrassegni
della giustizia: Cristo è la nostra giustizia e “giusto” è tutto ciò che è a Lui
conforme. Non sono necessari altri contrassegni per essere giusti. Nella
Lettera ai Galati riferisce, con poche battute, lo svolgimento
dell’assemblea: con entusiasmo ricorda che il vangelo della libertà dalla Legge
fu approvato da Giacomo, Cefa e Giovanni, “le colonne”, che offrirono a lui e a
Barnaba la destra della comunione eccelesiale in Cristo (cfr Gal 2,9).
Se, come abbiamo notato, per Luca il Concilio di Gerusalemme esprime
l’azione dello Spirito Santo, per Paolo rappresenta il decisivo riconoscimento
della libertà condivisa fra tutti coloro che vi parteciparono: una libertà dalle
obbligazioni provenienti dalla circoncisione e dalla Legge; quella libertà per
la quale “Cristo ci ha liberati, perché restassimo liberi” e non ci lasciassimo
più imporre il giogo della schiavitù (cfr Gal 5,1). Le due modalità con
cui Paolo e Luca descrivono l’assemblea di Gerusalemme sono accomunate
dall’azione liberante dello Spirito, poiché “dove c’è lo Spirito del
Signore c’è libertà”, dirà nella seconda Lettera ai Corinzi (cfr
3,17).
Tuttavia, come appare con grande chiarezza nelle
Lettere di san Paolo, la libertà cristiana non s’identifica mai con il
libertinaggio o con l’arbitrio di fare ciò che si vuole; essa si attua nella
conformità a Cristo e perciò nell’autentico servizio per i fratelli,
soprattutto, per i più bisognosi. Per questo, il resoconto di Paolo
sull’assemblea si chiude con il ricordo della raccomandazione che gli rivolsero
gli Apostoli: “Soltanto ci pregarono di ricordarci dei poveri: ciò che mi sono
proprio preoccupato di fare” (Gal 2,10). Ogni Concilio nasce dalla Chiesa
e alla Chiesa torna: in quell’occasione vi ritorna con l’attenzione per i poveri
che, dalle diverse annotazioni di Paolo nelle sue Lettere, sono anzitutto
quelli della Chiesa di Gerusalemme. Nella preoccupazione per i poveri,
attestata, in particolare, nella seconda Lettera ai Corinzi (cfr 8-9) e
nella parte conclusiva della Lettera ai Romani (cfr Rm 15), Paolo
dimostra la sua fedeltà alle decisioni maturate durante l’assemblea.
Forse non siamo più in grado di comprendere appieno
il significato che Paolo e le sue comunità attribuirono alla colletta per i
poveri di Gerusalemme. Si trattò di un’iniziativa del tutto nuova nel panorama
delle attività religiose: non fu obbligatoria, ma libera e spontanea; vi presero
parte tutte le Chiese fondate da Paolo verso l’Occidente. La colletta
esprimeva il debito delle sue comunità per la Chiesa madre della Palestina, da
cui avevano ricevuto il dono inenarrabile del Vangelo. Tanto grande è il
valore che Paolo attribuisce a questo gesto di condivisione che raramente egli
la chiama semplicemente “colletta”: per lui essa è piuttosto “servizio”,
“benedizione”, “amore”, “grazia”, anzi “liturgia” (2 Cor 9).
Sorprende, in modo particolare, quest’ultimo termine, che conferisce alla
raccolta in denaro un valore anche cultuale: da una parte essa è
gesto liturgico o “servizio”, offerto da ogni comunità a Dio, dall’altra è
azione di amore compiuta a favore del popolo. Amore per i poveri e
liturgia divina vanno insieme, l’amore per i poveri è liturgia. I due orizzonti
sono presenti in ogni liturgia celebrata e vissuta nella Chiesa, che per sua
natura si oppone alla separazione tra il culto e la vita, tra la fede e le
opere, tra la preghiera e la carità per i fratelli. Così il Concilio di
Gerusalemme nasce per dirimere la questione sul come comportarsi con i pagani
che giungevano alla fede, scegliendo per la libertà dalla circoncisione e dalle
osservanze imposte dalla Legge, e si risolve nell’istanza ecclesiale e pastorale
che pone al centro la fede in Cristo Gesù e l’amore per i poveri di Gerusalemme
e di tutta la Chiesa.
Il secondo episodio è il noto incidente di
Antiochia, in Siria, che attesta la libertà interiore di cui Paolo godeva: come
comportarsi in occasione della comunione di mensa tra credenti di origine
giudaica e quelli di matrice gentile? Emerge qui
l’altro epicentro dell’osservanza mosaica: la distinzione tra cibi puri e
impuri, che divideva profondamente gli ebrei osservanti dai pagani. Inizialmente
Cefa, Pietro condivideva la mensa con gli uni e con gli altri; ma con l’arrivo
di alcuni cristiani legati a Giacomo, “il fratello del Signore” (Gal
1,19), Pietro aveva cominciato a evitare i contatti a tavola con i pagani, per
non scandalizzare coloro che continuavano ad osservare le leggi di purità
alimentare; e la scelta era stata condivisa da Barnaba. Tale scelta divideva
profondamente i cristiani venuti dalla circoncisione e i cristiani venuti dal
paganesimo. Questo comportamento, che minacciava realmente l’unità e la libertà
della Chiesa, suscitò le accese reazioni di Paolo, che giunse ad accusare Pietro
e gli altri d’ipocrisia: “Se tu che sei giudeo, vivi come i pagani e non alla
maniera dei giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei
giudei?” (Gal 2,14). In realtà, erano diverse le preoccupazioni di Paolo,
da una parte, e di Pietro e Barnaba, dall’altra: per questi ultimi la
separazione dai pagani rappresentava una modalità per tutelare e per non
scandalizzare i credenti provenienti dal giudaismo; per Paolo costituiva,
invece, un pericolo di fraintendimento dell’universale salvezza in Cristo
offerta sia ai pagani che ai giudei. Se la giustificazione si realizza soltanto
in virtù della fede in Cristo, della conformità con Lui, senza alcuna opera
della Legge, che senso ha osservare ancora le purità alimentari in occasione
della condivisione della mensa? Molto probabilmente erano diverse le prospettive
di Pietro e di Paolo: per il primo non perdere i giudei che avevano aderito al
Vangelo, per il secondo non sminuire il valore salvifico della morte di Cristo
per tutti i credenti.
Strano a dirsi, ma
scrivendo ai cristiani di Roma, alcuni anni dopo (intorno alla metà degli anni
50 d.C.), Paolo stesso si troverà di fronte ad una situazione analoga e chiederà
ai forti di non mangiare cibo impuro per non perdere o per non scandalizzare i
deboli: “Perciò è bene non mangiare carne, né bere vino, né altra cosa per la
quale il tuo fratello possa scandalizzarsi” (Rm 14,21). L’incidente di Antiochia
si rivelò così una lezione tanto per Pietro quanto per
Paolo. Solo il dialogo sincero, aperto alla
verità del Vangelo, poté orientare il cammino della Chiesa: “Il regno di Dio,
infatti, non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia
nello Spirito Santo” (Rm 14,17). E’ una lezione che dobbiamo imparare
anche noi: con i carismi diversi affidati a Pietro e a Paolo, lasciamoci tutti
guidare dallo Spirito, cercando di vivere nella libertà che trova il suo
orientamento nella fede in Cristo e si concretizza nel servizio ai fratelli.
Essenziale è essere sempre più conformi a Cristo. E’ così che si diventa
realmente liberi, così si esprime in noi il nucleo più profondo della Legge:
l’amore per Dio e per il prossimo. Preghiamo il Signore che ci insegni a
condividere i suoi sentimenti, per imparare da Lui la vera libertà e l’amore
evangelico che abbraccia ogni essere umano.
7) COSA SAPEVA DI GESù?
08.10.2008
Cari fratelli e sorelle,
nelle ultime catechesi su
san Paolo ho parlato del suo incontro con il Cristo risorto, che ha cambiato
profondamente la sua vita, e poi della sua relazione con i dodici Apostoli
chiamati da Gesù – particolarmente con Giacomo, Cefa e Giovanni – e della sua
relazione con la Chiesa di Gerusalemme. Rimane adesso
la questione su che cosa san Paolo ha saputo del Gesù terreno, della sua vita,
dei suoi insegnamenti, della sua passione. Prima di entrare in questa
questione, può essere utile tener presente che san Paolo stesso distingue due
modi di conoscere Gesù e più in generale due modi di conoscere una persona.
Scrive nella Seconda Lettera ai Corinzi: "Cosicché ormai noi non
conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo
secondo la carne, ora non lo conosciamo più così" (5,16). Conoscere "secondo la
carne", in modo carnale, vuol dire conoscere in modo solo esteriore, con criteri
esteriori: si può aver visto una persona diverse volte, conoscerne quindi le
fattezze ed i diversi dettagli del comportamento: come parla, come si muove,
ecc. Tuttavia, pur conoscendo uno in questo modo, non lo si conosce
realmente, non si conosce il nucleo della persona. Solo col cuore si conosce
veramente una persona. Di fatto, i farisei e i sadducei hanno conosciuto
Gesù in modo esteriore, hanno appreso il suo insegnamento, tanti dettagli su di
lui, ma non lo hanno conosciuto nella sua verità. C’è una distinzione analoga in
una parola di Gesù. Dopo la Trasfigurazione, egli chiede agli apostoli: "Che
cosa dice la gente che io sia?" e "Chi dite voi che io sia?". La gente lo
conosce, ma superficialmente; sa diverse cose di lui, ma non lo ha realmente
conosciuto. Invece i Dodici, grazie all’amicizia che chiama in causa il cuore,
hanno almeno capito nella sostanza e cominciato a conoscere chi è Gesù. Anche
oggi esiste questo diverso modo di conoscenza: ci sono persone dotte che
conoscono Gesù nei suoi molti dettagli e persone semplici che non hanno
conoscenza di questi dettagli, ma lo hanno conosciuto nella sua verità: "il
cuore parla al cuore". E Paolo vuol dire essenzialmente di conoscere Gesù
così, col cuore, e di conoscere in questo modo essenzialmente la persona nella
sua verità; e poi, in un secondo momento, di conoscerne i dettagli.
Detto questo rimane tuttavia la questione: che
cosa ha saputo san Paolo della vita concreta, delle parole, della passione, dei
miracoli di Gesù? Sembra accertato che non lo abbia incontrato durante la
sua vita terrena. Tramite gli Apostoli e la Chiesa nascente ha sicuramente
conosciuto anche dettagli sulla vita terrena di Gesù. Nelle sue Lettere possiamo
trovare tre forme di riferimento al Gesù
pre-pasquale. In primo luogo, ci sono
riferimenti espliciti e diretti. Paolo parla
della ascendenza davidica di Gesù (cfr Rm 1,3), conosce l'esistenza di
suoi "fratelli" o consanguinei (1 Cor 9,5; Gal 1,19), conosce lo
svolgimento dell'Ultima Cena (cfr 1 Cor 11,23), conosce altre parole di
Gesù, per esempio circa l'indissolubilità del matrimonio (cfr 1 Cor 7,10
con Mc 10,11-12), circa la necessità che chi annuncia il Vangelo sia
mantenuto dalla comunità in quanto l'operaio è degno della sua mercede (cfr 1
Cor 9,14 con Lc 10,7); Paolo conosce le parole pronunciate da Gesù
nell’Ultima Cena (cfr 1 Cor 11,24-25 con Lc 22,19-20) e conosce
anche la croce di Gesù. Questi sono riferimenti diretti a parole e fatti della
vita di Gesù.
In secondo luogo,
possiamo intravedere in alcune frasi delle Lettere paoline varie
allusioni alla tradizione attestata nei Vangeli
sinottici. Per esempio, le parole che leggiamo nella prima Lettera ai
Tessalonicesi, secondo cui "come un ladro di notte così verrà il giorno del
Signore" (5,2), non si spiegherebbero con un rimando alle profezie
veterotestamentarie, poiché il paragone del ladro notturno si trova solo nel
Vangelo di Matteo e di Luca, quindi è preso proprio dalla tradizione sinottica.
Così, quando leggiamo che "Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto..." (1
Cor 1,27-28), si sente l'eco fedele dell'insegnamento di Gesù sui semplici e
sui poveri (cfr Mt 5,3; 11,25; 19,30). Vi sono poi le parole pronunciate
da Gesù nel giubilo messianico: "Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della
terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e
le hai rivelate ai piccoli". Paolo sa - è la sua esperienza missionaria – come
siano vere queste parole, che cioè proprio i semplici hanno il cuore aperto alla
conoscenza di Gesù. Anche l'accenno all'obbedienza di Gesù "fino alla morte",
che si legge in Fil 2,8 non può non richiamare la totale disponibilità
del Gesù terreno a compiere la volontà del Padre suo (cfr Mc 3,35; Gv
4,34) Paolo dunque conosce la passione di Gesù, la sua croce, il modo in cui
egli ha vissuto i momenti ultimi della sua vita. La croce di Gesù e la
tradizione su questo evento della croce sta al centro del Kerygma paolino. Un
altro pilastro della vita di Gesù conosciuto da san Paolo è il Discorso della
Montagna, del quale cita alcuni elementi quasi alla lettera, quando scrive
ai Romani: "Amatevi gli uni gli altri... Benedite coloro che vi perseguitano...
Vivete in pace con tutti... Vinci il male con il bene...". Quindi nelle sue
Lettere c’è un riflesso fedele del Discorso della Montagna (cfr Mt 5-7).
Infine, è possibile riscontrare un terzo modo di
presenza delle parole di Gesù nelle Lettere di Paolo: è quando egli opera
una forma di trasposizione della tradizione pre-pasquale alla situazione dopo la
Pasqua. Un caso tipico è il tema del Regno di Dio. Esso sta
sicuramente al centro della predicazione del Gesù storico (cfr Mt 3,2;
Mc 1,15; Lc 4,43). In Paolo si può rilevare una trasposizione di
questa tematica, perché dopo la risurrezione è evidente che
Gesù in persona, il Risorto, è il Regno di Dio. Il Regno
pertanto arriva laddove sta arrivando Gesù. E così
necessariamente il tema del Regno di Dio, in cui era anticipato il mistero di
Gesù, si trasforma in cristologia. Tuttavia, le stesse disposizioni
richieste da Gesù per entrare nel Regno di Dio valgono esattamene per Paolo a
proposito della giustificazione mediante la fede: tanto l’ingresso nel Regno
quanto la giustificazione richiedono un atteggiamento di grande umiltà e
disponibilità, libera da presunzioni, per accogliere la grazia di Dio. Per
esempio, la parabola del fariseo e del pubblicano (cfr Lc 18,9-14)
impartisce un insegnamento che si trova tale e quale in Paolo, quando insiste
sulla doverosa esclusione di ogni vanto nei confronti di Dio. Anche le frasi di
Gesù sui pubblicani e le prostitute, più disponibili dei farisei ad accogliere
il Vangelo (cfr Mt 21,31; Lc 7,36-50), e le sue scelte di
condivisione della mensa con loro (cfr Mt 9,10-13; Lc 15,1-2)
trovano pieno riscontro nella dottrina di Paolo sull’amore misericordioso di Dio
verso i peccatori (cfr Rm 5,8-10; e anche Ef 2,3-5). Così il tema
del Regno di Dio viene riproposto in forma nuova, ma sempre in piena fedeltà
alla tradizione del Gesù storico.
Un altro esempio di trasformazione
fedele del nucleo dottrinale inteso da Gesù si trova nei "titoli" a lui riferiti.
Prima di Pasqua egli stesso si qualifica come Figlio dell'uomo; dopo la Pasqua
diventa evidente che il Figlio dell’uomo è anche il Figlio di Dio. Pertanto il
titolo preferito da Paolo per qualificare Gesù è Kýrios, "Signore"
(cfr Fil 2,9-11), che indica la divinità di Gesù. Il Signore Gesù, con
questo titolo, appare nella piena luce della risurrezione. Sul Monte degli
Ulivi, nel momento dell’estrema angoscia di Gesù (cfr Mc 14,36), i
discepoli prima di addormentarsi avevano udito come egli parlava col Padre e lo
chiamava "Abbà – Padre". E’ una parola molto familiare equivalente al
nostro "papà", usata solo da bambini in comunione col loro padre. Fino a quel
momento era impensabile che un ebreo usasse una simile parola per rivolgersi a
Dio; ma Gesù, essendo vero figlio, in questa ora di intimità parla così e dice:
"Abbà, Padre". Nelle Lettere di san Paolo ai Romani e ai Galati
sorprendentemente questa parola "Abbà", che esprime l’esclusività della
figliolanza di Gesù, appare sulla bocca dei battezzati (cfr Rm 8,15;
Gal 4,6), perché hanno ricevuto lo "Spirito del Figlio" e adesso portano in
sé tale Spirito e possono parlare come Gesù e con Gesù da veri figli al loro
Padre, possono dire "Abbà" perché sono divenuti figli nel Figlio.
E finalmente vorrei accennare alla dimensione
salvifica della morte di Gesù, quale noi troviamo nel detto evangelico
secondo cui "il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per
servire e dare la propria vita in riscatto per molti" (Mc 10,45; Mt
20,28). Il riflesso fedele di questa parola di Gesù appare nella dottrina
paolina sulla morte di Gesù come riscatto (cfr 1 Cor 6,20), come
redenzione (cfr Rm 3,24), come liberazione (cfr Gal 5,1) e come
riconciliazione (cfr Rm 5,10; 2 Cor 5,18-20). Qui sta il centro
della teologia paolina, che si basa su questa parola di Gesù.
In conclusione, san Paolo non pensa a Gesù in veste
di storico, come a una persona del passato. Conosce certamente la grande
tradizione sulla vita, le parole, la morte e la risurrezione di Gesù, ma non
tratta tutto ciò come cosa del passato; lo propone come realtà del Gesù vivo. Le
parole e le azioni di Gesù per Paolo non appartengono al tempo storico, al
passato. Gesù vive adesso e parla adesso con noi e vive per noi. Questo è il
modo vero di conoscere Gesù e di accogliere la tradizione su di lui. Dobbiamo
anche noi imparare a conoscere Gesù non secondo la carne, come una persona del
passato, ma come il nostro Signore e Fratello, che è oggi con noi e ci mostra
come vivere e come morire.
8) LA CHIESA IN SAN PAOLO 15.10.2008
Cari fratelli e sorelle,
nella catechesi di
mercoledì scorso ho parlato della relazione di Paolo con il Gesù pre-pasquale
nella sua vita terrena. La questione era: "Che cosa ha saputo Paolo della vita
di Gesù, delle sue parole, della sua passione?". Oggi vorrei parlare
dell’insegnamento di san Paolo sulla Chiesa. Dobbiamo cominciare dalla
costatazione che questa parola "Chiesa" nell’italiano - come nel francese
"Église" e nello spagnolo "Iglesia" - essa è presa dal greco "ekklēsía"!
Essa viene dall’Antico Testamento e significa l’assemblea del popolo di
Israele, convocata da Dio, particolarmente l’assemblea esemplare ai piedi del
Sinai. Con questa parola è ora significata la nuova comunità dei credenti in
Cristo che si sentono assemblea di Dio, la nuova convocazione di tutti i popoli
da parte di Dio e davanti a Lui. Il vocabolo ekklēsía fa la sua
apparizione solo sotto la penna di Paolo, che è il primo autore di uno scritto
cristiano. Ciò avviene nell’incipit della prima Lettera ai
Tessalonicesi, dove Paolo si rivolge testualmente "alla Chiesa dei
Tessalonicesi" (cfr poi anche "la Chiesa dei Laodicesi" in Col 4,16). In
altre Lettere egli parla della Chiesa di Dio che è in Corinto (1 Cor 1,2;
2 Cor 1,1), che è in Galazia (Gal 1,2 ecc.) – Chiese particolari,
dunque – ma dice anche di avere perseguitato "la Chiesa di Dio": non una
determinata comunità locale, ma "la Chiesa di Dio".
Così vediamo che questa parola "Chiesa" ha un
significato pluridimensionale: indica da una parte le assemblee
di Dio in determinati luoghi (una città, un paese, una casa), ma significa
anche tutta la Chiesa nel suo insieme. E così vediamo che "la Chiesa
di Dio" non è solo una somma di diverse Chiese locali, ma che le diverse Chiese
locali sono a loro volta realizzazione dell’unica Chiesa di Dio. Tutte
insieme sono "la Chiesa di Dio", che precede le singole Chiese locali e si
esprime, si realizza in esse.
È importante osservare che quasi sempre la parola
"Chiesa" appare con l’aggiunta della qualificazione "di Dio": non è una
associazione umana, nata da idee o interessi comuni, ma da una convocazione di
Dio. Egli l’ha convocata e perciò è una in tutte le sue realizzazioni.
L’unità di Dio crea l’unità della Chiesa in tutti i
luoghi dove essa si trova. Più tardi, nella Lettera agli
Efesini, Paolo elaborerà abbondantemente il concetto di unità della Chiesa,
in continuità col concetto di Popolo di Dio, Israele, considerato dai profeti
come "sposa di Dio", chiamata a vivere una relazione sponsale con Lui. Paolo
presenta l’unica Chiesa di Dio come "sposa di Cristo" nell’amore, un solo corpo
e un solo spirito con Cristo stesso. È noto che il giovane Paolo era stato
accanito avversario del nuovo movimento costituito dalla Chiesa di Cristo. Ne
era stato avversario, perché aveva visto minacciata in questo nuovo movimento la
fedeltà alla tradizione del popolo di Dio, animato dalla fede nel Dio unico.
Tale fedeltà si esprimeva soprattutto nella circoncisione, nell’osservanza delle
regole della purezza cultuale, dell’astensione da certi cibi, del rispetto del
sabato. Questa fedeltà gli Israeliti avevano pagato col sangue dei martiri, nel
periodo dei Maccabei, quando il regime ellenista voleva obbligare tutti i popoli
a conformarsi all’unica cultura ellenistica. Molti israeliti avevano difeso col
sangue la vocazione propria di Israele. I martiri avevano pagato con la vita
l’identità del loro popolo, che si esprimeva mediante questi elementi. Dopo
l’incontro con il Cristo risorto, Paolo capì che i cristiani non erano
traditori; al contrario, nella nuova situazione, il Dio di Israele, mediante
Cristo, aveva allargato la sua chiamata a tutte le genti, divenendo il Dio di
tutti i popoli. In questo modo si realizzava la fedeltà all’unico Dio; non erano
più necessari segni distintivi costituiti da norme e osservanze particolari,
perché tutti erano chiamati, nella loro varietà, a far parte dell’unico popolo
di Dio della "Chiesa di Dio" in Cristo.
Una cosa fu per Paolo subito chiara nella nuova
situazione: il valore fondamentale e fondante di Cristo e della "parola"
che Lo annunciava. Paolo sapeva che non solo non si diventa cristiani
per coercizione, ma che nella configurazione
interna della nuova comunità la componente istituzionale era inevitabilmente
legata alla "parola" viva, all’annuncio del Cristo vivo nel quale Dio si apre a
tutti i popoli e li unisce in un unico popolo di Dio. È
sintomatico che Luca negli Atti degli Apostoli impieghi più volte,
anche a proposito di Paolo, il sintagma "annunciare la parola" (At
4,29.31; 8,25; 11,19; 13,46; 14,25; 16,6.32), con l’evidente intenzione di
evidenziare al massimo la portata decisiva della "parola" dell’annuncio. In
concreto, tale parola è costituita dalla croce e dalla risurrezione di Cristo,
in cui hanno trovato realizzazione le Scritture. Il Mistero pasquale, che ha
provocato la svolta della sua vita sulla strada di Damasco, sta ovviamente al
centro della predicazione dell’Apostolo (cfr 1 Cor 2,2;15,14). Questo
Mistero, annunciato nella parola, si realizza nei sacramenti del Battesimo
e dell’Eucaristia e diventa poi realtà nella carità cristiana. L’opera
evangelizzatrice di Paolo non è finalizzata ad altro che ad impiantare la
comunità dei credenti in Cristo. Questa idea è insita nella etimologia stessa
del vocabolo ekklēsía, che Paolo, e con lui
l'intero cristianesimo, ha preferito all’altro termine di "sinagoga": non solo
perché originariamente il primo è più ‘laico’ (derivando dalla prassi greca
dell'assemblea politica e non propriamente religiosa), ma anche perché esso
implica direttamente l'idea più teologica di una chiamata ab extra, non
quindi di un semplice riunirsi insieme; i credenti sono chiamati da Dio, il
quale li raccoglie in una comunità, la sua Chiesa.
In questa linea possiamo intendere anche l'originale
concetto, esclusivamente paolino, della Chiesa come "Corpo di Cristo". Al
riguardo, occorre avere presente le due dimensioni di questo concetto. Una è di
carattere sociologico, secondo cui il corpo è costituito dai suoi
componenti e non esisterebbe senza di essi. Questa interpretazione appare nella
Lettera ai Romani e nella Prima Lettera ai Corinti, dove Paolo
assume un’immagine che esisteva già nella sociologia romana: egli dice che un
popolo è come un corpo con diverse membra, ognuna delle quali ha la sua
funzione, ma tutte, anche le più piccole e apparentemente insignificanti, sono
necessarie perché il corpo possa vivere e realizzare le proprie funzioni.
Opportunamente l’Apostolo osserva che nella Chiesa ci sono tante vocazioni:
profeti, apostoli, maestri, persone semplici, tutti chiamati a vivere ogni
giorno la carità, tutti necessari per costruire l’unità vivente di questo
organismo spirituale. L’altra interpretazione fa riferimento al Corpo stesso
di Cristo. Paolo sostiene che la Chiesa non è solo un organismo, ma
diventa realmente corpo di Cristo nel sacramento dell’Eucaristia, dove
tutti riceviamo il suo Corpo e diventiamo realmente suo Corpo. Si realizza così
il mistero sponsale che tutti diventano un solo corpo e un solo
spirito in Cristo. Così la realtà va molto oltre l’immagine sociologica,
esprimendo la sua vera essenza profonda, cioè l’unità di tutti i battezzati in
Cristo, considerati dall’Apostolo "uno" in Cristo, conformati al sacramento del
suo Corpo.
Dicendo questo, Paolo mostra di saper bene e fa
capire a noi tutti che la Chiesa non è sua e non è nostra: la Chiesa è corpo di
Cristo, è "Chiesa di Dio", "campo di Dio, edificazione
di Dio, ... tempio di Dio" (1Cor 3,9.16).
Quest'ultima designazione è particolarmente interessante, perché attribuisce a
un tessuto di relazioni interpersonali un termine che comunemente serviva per
indicare un luogo fisico, considerato sacro. Il rapporto tra Chiesa e tempio
viene perciò ad assumere due dimensioni complementari: da una parte, viene
applicata alla comunità ecclesiale la caratteristica di separatezza e purità che
spettava all’edificio sacro, ma, dall'altra, viene pure superato il concetto di
uno spazio materiale, per trasferire tale valenza alla realtà di una viva
comunità di fede. Se prima i templi erano considerati luoghi della presenza di
Dio, adesso si sa e si vede che Dio non abita in edifici fatti di pietre, ma il
luogo della presenza di Dio nel mondo è la comunità viva dei credenti.
Un discorso a parte meriterebbe la qualifica di
"popolo di Dio", che in Paolo è applicata sostanzialmente al popolo dell’Antico
Testamento e poi ai pagani che erano "il non popolo" e sono diventati anch’essi
popolo di Dio grazie al loro inserimento in Cristo mediante la parola e il
sacramento. E finalmente un’ultima sfumatura. Nella Lettera a Timoteo
Paolo qualifica la Chiesa come «casa di Dio» (1 Tm 3,15); e questa è una
definizione davvero originale, poiché si riferisce alla Chiesa come struttura
comunitaria in cui si vivono calde relazioni interpersonali di carattere
familiare. L’Apostolo ci aiuta a comprendere
sempre più a fondo il mistero della Chiesa nelle sue diverse dimensioni di
assemblea di Dio nel mondo. Questa è la grandezza della Chiesa e la grandezza
della nostra chiamata: siamo tempio di Dio nel mondo, luogo dove Dio abita
realmente, e siamo, al tempo stesso, comunità, famiglia di Dio, il Quale è
carità. Come famiglia e casa di Dio dobbiamo realizzare nel mondo la carità di
Dio e così essere, con la forza che viene dalla fede, luogo e segno della sua
presenza. Preghiamo il Signore affinchè ci conceda di essere sempre più la sua
Chiesa, il suo Corpo, il luogo della presenza della sua carità in questo nostro
mondo e nella nostra storia
9) CENTRALITà DI CRISTO RISORTO 22.10.2008
Cari fratelli e sorelle,
nelle catechesi
delle scorse settimane abbiamo meditato sulla ‘conversione’ di san Paolo, frutto
dell’incontro personale con Gesù crocifisso e risorto, e ci siamo interrogati su
quale sia stata la relazione dell’Apostolo delle genti con il Gesù terreno. Oggi
vorrei parlare dell’insegnamento che san Paolo ci ha lasciato sulla
centralità del Cristo risorto nel mistero della salvezza, sulla sua
cristologia. In verità, Gesù Cristo risorto, "esaltato sopra ogni nome", sta al
centro di ogni sua riflessione. Cristo è per l’Apostolo il criterio di
valutazione degli eventi e delle cose, il fine di ogni sforzo che egli compie
per annunciare il Vangelo, la grande passione che sostiene i suoi passi sulle
strade del mondo. E si tratta di un Cristo vivo, concreto: il Cristo – dice
Paolo – "che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me" (Gal 2, 20).
Questa persona che mi ama, con la quale posso parlare, che mi ascolta e mi
risponde, questo è realmente il principio per capire il mondo e per trovare la
strada nella storia.
Chi ha letto gli scritti di san Paolo sa bene che
egli non si è preoccupato di narrare i singoli fatti in cui si articola la vita
di Gesù, anche se possiamo pensare che nelle sue catechesi abbia raccontato
molto di più sul Gesù prepasquale di quanto egli scrive nelle Lettere, che sono
ammonimenti in situazioni precise. Il suo intento pastorale e teologico era
talmente teso all'edificazione delle nascenti comunità, che gli era spontaneo
concentrare tutto nell’annuncio di Gesù Cristo quale "Signore", vivo adesso e
presente adesso in mezzo ai suoi. Di qui la caratteristica essenzialità della
cristologia paolina, che sviluppa le profondità del mistero con una costante e
precisa preoccupazione: annunciare, certo, il Gesù vivo, il suo insegnamento, ma
annunciare soprattutto la realtà centrale della sua morte e risurrezione, come
culmine della sua esistenza terrena e radice del successivo sviluppo di tutta la
fede cristiana, di tutta la realtà della Chiesa. Per l’Apostolo la risurrezione
non è un avvenimento a sé stante, disgiunto dalla morte: il Risorto è sempre
colui che, prima, è stato crocifisso. Anche da Risorto porta le sue ferite: la
passione è presente in Lui e si può dire con Pascal che Egli è sofferente fino
alla fine del mondo, pur essendo il Risorto e vivendo con noi e per noi. Questa
identità del Risorto col Cristo crocifisso Paolo l’aveva capita nell’incontro
sulla via di Damasco: in quel momento gli si rivelò con chiarezza che il
Crocifisso è il Risorto e il Risorto è il Crocifisso, che dice a Paolo: "Perché
mi perseguiti?" (At 9,4). Paolo sta perseguitando Cristo nella Chiesa e
allora capisce che la croce è "una maledizione di Dio" (Dt 21,23), ma
sacrificio per la nostra redenzione.
L’Apostolo contempla affascinato il segreto nascosto
del Crocifisso-risorto e attraverso le sofferenze sperimentate da Cristo nella
sua umanità (dimensione terrena) risale a quell’esistenza eterna in cui
Egli è tutt’uno col Padre (dimensione pre-temporale): "Quando venne la
pienezza del tempo – egli scrive -, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato
sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché
ricevessimo l'adozione a figli" (Gal 4,4-5). Queste due dimensioni, la
preesistenza eterna presso il Padre e la discesa del Signore nella
incarnazione, si annunciano già nell’Antico Testamento, nella figura della
Sapienza. Troviamo nei Libri sapienziali dell’Antico Testamento alcuni testi che
esaltano il ruolo della Sapienza preesistente alla creazione del mondo. In
questo senso vanno letti passi come questo del Salmo 90: "Prima che nascessero i
monti e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sempre tu sei,
Dio" (v. 2); o passi come quello che parla della Sapienza creatrice: "Il Signore
mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera,
all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi
della terra" (Prv 8, 22-23). Suggestivo è anche l’elogio della Sapienza,
contenuto nell’omonimo libro: "La Sapienza si estende vigorosa da un’estremità
all’altra e governa a meraviglia l’universo" (Sap 8,1).
Gli stessi testi sapienziali che parlano della
preesistenza eterna della Sapienza, parlano anche della discesa,
dell’abbassamento di questa Sapienza, che si è creata una tenda tra gli uomini.
Così sentiamo echeggiare già le parole del Vangelo di Giovanni che parla della
tenda della carne del Signore. Si è creata una tenda nell’Antico Testamento: qui
è indicato il tempio, il culto secondo la "Thorà"; ma dal punto di vista del
Nuovo Testamento possiamo capire che questa era solo una prefigurazione della
tenda molto più reale e significativa: la tenda della carne di Cristo. E vediamo
già nei Libri dell’Antico Testamento che questo abbassamento della Sapienza, la
sua discesa nella carne, implica anche la possibilità che essa sia rifiutata.
San Paolo, sviluppando la sua cristologia, si richiama proprio a questa
prospettiva sapienziale: riconosce in Gesù la sapienza eterna esistente da
sempre, la sapienza che discende e si crea una tenda tra di noi e così egli può
descrivere Cristo, come "potenza e sapienza di Dio", può dire che Cristo è
diventato per noi "sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e
redenzione" (1 Cor 1,24.30). Similmente Paolo chiarisce che Cristo, al
pari della Sapienza, può essere rifiutato soprattutto dai dominatori di questo
mondo (cfr 1 Cor 2,6-9), cosicché può crearsi nei piani di Dio una
situazione paradossale, la croce, che si capovolgerà in via di salvezza per
tutto il genere umano.
Uno sviluppo ulteriore di questo ciclo sapienziale,
che vede la Sapienza abbassarsi per poi essere esaltata nonostante il rifiuto,
si ha nel famoso inno contenuto nella Lettera ai Filippesi (cfr 2,6-11).
Si tratta di uno dei testi più alti di tutto il Nuovo Testamento. Gli esegeti in
stragrande maggioranza concordano ormai nel ritenere che questa pericope riporti
una composizione precedente al testo della Lettera ai Filippesi. Questo è
un dato di grande importanza, perché significa che il giudeo-cristianesimo,
prima di san Paolo, credeva nella divinità di Gesù. In altre parole, la fede
nella divinità di Gesù non è una invenzione ellenistica, sorta molto dopo la
vita terrena di Gesù, un’invenzione che, dimenticando la sua umanità, lo avrebbe
divinizzato; vediamo in realtà che il primo giudeo-cristianesimo credeva nella
divinità di Gesù, anzi possiamo dire che gli Apostoli stessi, nei grandi momenti
della vita del loro Maestro, hanno capito che Egli era il Figlio di Dio, come
disse san Pietro a Cesarea di Filippi: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio
vivente" (Mt 16,16). Ma ritorniamo all’inno della Lettera ai Filippesi.
La struttura di questo testo può essere articolata in tre strofe, che illustrano
i momenti principali del percorso compiuto dal Cristo. La sua preesistenza è
espressa dalle parole: "pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un
privilegio l’essere come Dio" (v. 6); segue poi l’abbassamento volontario del
Figlio nella seconda strofa: "svuotò se stesso, assumendo una condizione di
servo" (v. 7), fino a umiliare se stesso "facendosi obbediente fino alla morte e
a una morte di croce" (v. 8). La terza strofa dell’inno annuncia la risposta del
Padre all’umiliazione del Figlio: "Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome" (v. 9). Ciò che colpisce è il contrasto tra
l’abbassamento radicale e la seguente glorificazione nella gloria di Dio. E’
evidente che questa seconda strofa è in contrasto con la pretesa di Adamo che da
sé voleva farsi Dio, è in contrasto anche col gesto dei costruttori della torre
di Babele che volevano da soli edificare il ponte verso il cielo e farsi loro
stessi divinità. Ma questa iniziativa della superbia finì nella autodistruzione:
non si arriva così al cielo, alla vera felicità, a Dio. Il gesto del Figlio di
Dio è esattamente il contrario: non la superbia, ma l’umiltà, che è
realizzazione dell’amore e l’amore è divino. L’iniziativa di abbassamento, di
umiltà radicale di Cristo, con la quale contrasta la superbia umana, è realmente
espressione dell’amore divino; ad essa segue quell’elevazione al cielo alla
quale Dio ci attira con il suo amore.
Oltre alla Lettera ai Filippesi, vi sono
altri luoghi della letteratura paolina dove i temi della preesistenza e della
discesa del Figlio di Dio sulla terra sono tra loro collegati. Una
riaffermazione dell'assimilazione tra Sapienza e Cristo, con tutti i connessi
risvolti cosmici e antropologici, si ritrova nella prima Lettera a Timoteo:
"Egli si manifestò nella carne, fu giustificato nello Spirito, apparve agli
angeli, fu annunziato ai pagani, fu creduto nel mondo, fu assunto nella gloria"
(3,16). E' soprattutto su queste premesse che si può meglio definire la funzione
di Cristo come Mediatore unico, sullo sfondo dell'unico Dio dell’Antico
Testamento (cfr 1 Tm 2,5 in relazione a Is 43,10-11; 44,6). E’
Cristo il vero ponte che ci guida al cielo, alla comunione con Dio.
E, finalmente, solo un accenno agli ultimi sviluppi
della cristologia di san Paolo nelle Lettere ai Colossesi e agli Efesini.
Nella prima, Cristo viene qualificato come "primogenito di tutte le creature"
(1,15-20). Questa parola "primogenito" implica che il primo tra tanti figli, il
primo tra tanti fratelli e sorelle, è disceso per attirarci e farci suoi
fratelli e sorelle. Nella Lettera agli Efesini troviamo una bella
esposizione del piano divino della salvezza, quando Paolo dice che in
Cristo Dio voleva ricapitolare tutto (cfr. Ef 1,23). Cristo è la
ricapitolazione di tutto, riassume tutto e ci guida a Dio. E così ci implica in
un movimento di discesa e di ascesa, invitandoci a partecipare alla sua umiltà,
cioè al suo amore verso il prossimo, per essere così partecipi anche della sua
glorificazione, divenendo con lui figli nel Figlio. Preghiamo che il Signore ci
aiuti a conformarci alla sua umiltà, al suo amore, per essere così resi
partecipi della sua divinizzazione.
10) TEOLOGIA DELLA CROCE 29.10.2008
Cari fratelli e sorelle,
nella personale
esperienza di san Paolo c'è un dato incontrovertibile: mentre all'inizio era
stato un persecutore ed aveva usato violenza contro i cristiani, dal momento
della sua conversione sulla via di Damasco, era passato dalla parte del Cristo
crocifisso, facendo di Lui la sua ragione di vita e il motivo della sua
predicazione. La sua fu un’esistenza interamente consumata per le anime (cfr
2 Cor 12,15), per niente tranquilla e al riparo da insidie e difficoltà.
Nell’incontro con Gesù gli si era reso chiaro il significato centrale della
Croce: aveva capito che Gesù era morto ed era risorto per tutti e per lui
stesso. Ambedue le cose erano importanti; l’universalità: Gesù è morto realmente
per tutti, e la soggettività: Egli è morto anche per me. Nella Croce, quindi, si
era manifestato l'amore gratuito e misericordioso di Dio. Questo amore Paolo
sperimentò anzitutto in se stesso (cfr Gal 2,20) e da peccatore diventò
credente, da persecutore apostolo. Giorno dopo giorno, nella sua nuova vita,
sperimentava che la salvezza era ‘grazia’, che tutto discendeva dalla morte di
Cristo e non dai suoi meriti, che del resto non c’erano. Il "vangelo della
grazia" diventò così per lui l'unico modo di intendere la Croce, il criterio non
solo della sua nuova esistenza, ma anche la risposta ai suoi interlocutori. Tra
questi vi erano, innanzitutto, i giudei che riponevano la loro speranza nelle
opere e speravano da queste la salvezza; vi erano poi i greci che opponevano la
loro sapienza umana alla croce; infine, vi erano quei gruppi di eretici, che si
erano formati una propria idea del cristianesimo secondo il proprio modello di
vita.
Per san Paolo la Croce ha un primato fondamentale
nella storia dell’umanità; essa rappresenta il punto focale della sua teologia,
perché dire Croce vuol dire salvezza come grazia donata ad ogni creatura.
Il tema della croce di Cristo diventa un elemento essenziale e primario della
predicazione dell’Apostolo: l'esempio più chiaro riguarda la comunità di
Corinto. Di fronte ad una Chiesa dove erano presenti in modo preoccupante
disordini e scandali, dove la comunione era minacciata da partiti e divisioni
interne che incrinavano l'unità del Corpo di Cristo, Paolo si presenta non con
sublimità di parola o di sapienza, ma con l'annuncio di Cristo, di Cristo
crocifisso. La sua forza non è il linguaggio persuasivo ma, paradossalmente, la
debolezza e la trepidazione di chi si affida soltanto alla "potenza di Dio" (cfr1
Cor 2,1-4). La Croce, per tutto quello che rappresenta e quindi anche per il
messaggio teologico che contiene, è scandalo e stoltezza. L'Apostolo lo afferma
con una forza impressionante, che è bene ascoltare dalle sue stesse parole: "La
parola della Croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli
che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio...è piaciuto a Dio salvare i
credenti con la stoltezza della predicazione. Mentre i Giudei chiedono segni e i
Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso, scandalo per i
Giudei e stoltezza per i pagani" (1 Cor 1,18-23).
Le prime comunità cristiane, alle quali Paolo si
rivolge, sanno benissimo che Gesù ormai è risorto e vivo; l'Apostolo vuole
ricordare non solo ai Corinzi o ai Galati, ma a tutti noi, che il Risorto è
sempre Colui che è stato crocifisso. Lo ‘scandalo’ e la ‘stoltezza’ della Croce
stanno proprio nel fatto che laddove sembra esserci solo fallimento, dolore,
sconfitta, proprio lì c'è tutta la potenza dell'Amore sconfinato di Dio, perché
la Croce è espressione di amore e l’amore è la vera potenza che si rivela
proprio in questa apparente debolezza. Per i Giudei la Croce è skandalon,
cioè trappola o pietra di inciampo: essa sembra ostacolare la fede del pio
israelita, che stenta a trovare qualcosa di simile nelle Sacre Scritture. Paolo,
con non poco coraggio, sembra qui dire che la posta in gioco è altissima: per i
Giudei la Croce contraddice l'essenza stessa di Dio, il quale si è manifestato
con segni prodigiosi. Dunque accettare la croce di Cristo significa operare una
profonda conversione nel modo di rapportarsi a Dio. Se per i Giudei il motivo
del rifiuto della Croce si trova nella Rivelazione, cioè la fedeltà al Dio dei
Padri, per i Greci, cioè i pagani, il criterio di giudizio per opporsi alla
Croce è la ragione. Per questi ultimi, infatti, la Croce è moría,
stoltezza, letteralmente insipienza, cioè un cibo senza sale;
quindi più che un errore, è un insulto al buon senso.
Paolo stesso in più di un'occasione fece l'amara
esperienza del rifiuto dell'annuncio cristiano giudicato ‘insipiente’, privo di
rilevanza, neppure degno di essere preso in considerazione sul piano della
logica razionale. Per chi, come i greci, vedeva la perfezione nello spirito, nel
pensiero puro, già era inaccettabile che Dio potesse divenire uomo, immergendosi
in tutti i limiti dello spazio e del tempo. Decisamente inconcepibile era poi
credere che un Dio potesse finire su una Croce! E vediamo come questa logica
greca è anche la logica comune del nostro tempo. Il concetto di apátheia,
indifferenza, quale assenza di passioni in Dio, come avrebbe potuto comprendere
un Dio diventato uomo e sconfitto, che addirittura si sarebbe poi ripreso il
corpo per vivere come risorto? "Ti sentiremo su questo un’altra volta" (At
17,32) dissero sprezzantemente gli Ateniesi a Paolo, quando sentirono parlare di
risurrezione dei morti. Ritenevano perfezione il liberarsi del corpo concepito
come prigione; come non considerare un’aberrazione il riprendersi il corpo?
Nella cultura antica non sembrava esservi spazio per il messaggio del Dio
incarnato. Tutto l’evento "Gesù di Nazaret" sembrava essere contrassegnato dalla
più totale insipienza e certamente la Croce ne era il punto più emblematico.
Ma perché san Paolo proprio di questo, della parola
della Croce, ha fatto il punto fondamentale della sua predicazione? La risposta
non è difficile: la Croce rivela "la potenza di Dio" (cfr1 Cor 1,24), che
è diversa dal potere umano; rivela infatti il suo amore: "Ciò che è stoltezza di
Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio, è più forte degli
uomini" (ivi v. 25). Distanti secoli da Paolo, noi vediamo che nella
storia ha vinto la Croce e non la saggezza che si oppone alla Croce. Il
Crocifisso è sapienza, perché manifesta davvero chi è Dio, cioè potenza di amore
che arriva fino alla Croce per salvare l'uomo. Dio si serve di modi e strumenti
che a noi sembrano a prima vista solo debolezza. Il Crocifisso svela, da una
parte, la debolezza dell'uomo e, dall'altra, la vera potenza di Dio, cioè la
gratuità dell'amore: proprio questa totale gratuità dell'amore è la vera
sapienza. Di ciò san Paolo ha fatto esperienza fin nella sua carne e ce lo
testimonia in svariati passaggi del suo percorso spirituale, divenuti precisi
punti di riferimento per ogni discepolo di Gesù: "Egli mi ha detto: ti basta la
mia grazia: la mia potenza, infatti si manifesta pienamente nella debolezza" (2
Cor 12,9); e ancora: "Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per
confondere i forti" (1 Cor 1,28). L’Apostolo si identifica a tal punto
con Cristo che anch'egli, benché in mezzo a tante prove, vive nella fede del
Figlio di Dio che lo ha amato e ha dato se stesso per i peccati di lui e per
quelli di tutti (cfr Gal 1,4; 2,20). Questo dato autobiografico
dell'Apostolo diventa paradigmatico per tutti noi.
San Paolo ha offerto una mirabile sintesi della
teologia della Croce nella seconda Lettera ai Corinzi (5,14-21), dove
tutto è racchiuso tra due affermazioni fondamentali: da una parte Cristo, che
Dio ha trattato da peccato in nostro favore (v. 21), è morto per tutti
(v. 14); dall'altra, Dio ci ha riconciliati con sé, non
imputando a noi le nostre colpe (vv. 18-20). E’ da questo "ministero della
riconciliazione" che ogni schiavitù è ormai riscattata (cfr 1 Cor 6,20;
7,23). Qui appare come tutto questo sia rilevante per la nostra vita. Anche noi
dobbiamo entrare in questo "ministero della riconciliazione", che suppone sempre
la rinuncia alla propria superiorità e la scelta della stoltezza dell’amore. San
Paolo ha rinunciato alla propria vita donando totalmente se stesso per il
ministero della riconciliazione, della Croce che è salvezza per tutti noi. E
questo dobbiamo saper fare anche noi: possiamo trovare la nostra forza proprio
nell’umiltà dell’amore e la nostra saggezza nella debolezza di rinunciare per
entrare così nella forza di Dio. Noi tutti dobbiamo formare la nostra vita su
questa vera saggezza: non vivere per noi stessi, ma vivere nella fede in quel
Dio del quale tutti possiamo dire: "Mi ha amato e ha dato se stesso per me".
*) LA SAPIENZA CRISTIANA IN S.PAOLO 30
ottobre 2008
Cari fratelli e sorelle!
È sempre per
me motivo di gioia questo tradizionale incontro con le Università ecclesiastiche
romane all’inizio dell’anno accademico. Vi saluto tutti con grande affetto, a
partire dal Signor Cardinale Zenon Grocholewski, Prefetto della Congregazione
per l’Educazione Cattolica, che ha presieduto la santa Messa e che ringrazio per
le parole con cui si è fatto interprete dei vostri sentimenti. Sono lieto di
salutare gli altri Cardinali e Presuli presenti, come pure i Rettori, i
Professori, i Responsabili e i Superiori dei Seminari e dei Collegi, e
naturalmente voi, cari studenti, che da diversi Paesi siete venuti a Roma per
compiere i vostri studi.
In questo anno, nel quale celebriamo il giubileo
bimillenario della nascita dell’apostolo Paolo, vorrei soffermarmi brevemente
insieme con voi su un aspetto del suo messaggio che mi sembra particolarmente
adatto per voi, studiosi e studenti, e sul quale mi sono intrattenuto anche ieri
nella catechesi durante l’Udienza generale. Intendo cioè riferirmi a quanto san
Paolo scrive sulla sapienza cristiana, in particolare nella sua prima
Lettera ai Corinzi, comunità nella quale erano scoppiate rivalità tra i
discepoli. L’Apostolo affronta il problema di tali divisioni nella comunità,
additando in esse un segno della falsa sapienza, cioè di una mentalità ancora
immatura perché carnale e non spirituale (cfr 1 Cor 3,1-3). Riferendosi
poi alla propria esperienza, Paolo ricorda ai Corinzi che Cristo lo ha mandato
ad annunciare il Vangelo "non con sapienza di parola, perché non venga resa vana
la croce di Cristo" (1,17).
Da qui prende avvio una riflessione sulla "sapienza
della Croce", vale a dire sulla sapienza di Dio, che si contrappone alla
sapienza di questo mondo. L’Apostolo insiste sul contrasto esistente tra le
due sapienze, delle quali una sola è vera, quella divina, mentre l’altra in
realtà è "stoltezza". Ora, la novità stupefacente,
che esige di essere sempre riscoperta ed accolta, è il fatto che la sapienza
divina, in Cristo, ci è stata donata, ci è stata partecipata. C’è,
alla fine del capitolo 2° della Lettera menzionata, un’espressione che riassume
tale novità e che proprio per questo non finisce mai di sorprendere. San Paolo
scrive: "Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo - (2,16). Questa
contrapposizione tra le due sapienze non è da identificare con la differenza tra
la teologia, da una parte, e la filosofia e le scienze, dall’altra. Si tratta,
in realtà, di due atteggiamenti fondamentali. La "sapienza di questo mondo" è
un modo di vivere e di vedere le cose prescindendo da Dio e seguendo le opinioni
dominanti, secondo i criteri del successo e del potere. La "sapienza divina"
consiste nel seguire la mente di Cristo – è Cristo che ci apre gli occhi del
cuore per seguire la strada della verità e dell’amore.
Cari studenti, voi siete venuti a Roma per
approfondire le vostre conoscenze in campo teologico, e anche se studiate altre
materie diverse dalla teologia, per esempio il diritto, la storia, le scienze
umane, l’arte, ecc., comunque la formazione spirituale secondo il pensiero di
Cristo resta per voi fondamentale, ed è questa la prospettiva dei vostri studi.
Perciò sono importanti per voi queste parole dell’apostolo Paolo e quelle che
leggiamo subito dopo, sempre nella prima Lettera ai Corinzi: "Chi conosce
infatti i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche
i segreti di Dio nessuno li ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio. Ora, noi
non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere
ciò che Dio ci ha donato" (2,11-12). Eccoci ancora all’interno dello schema di
contrapposizione tra la sapienza umana e quella divina. Per conoscere e
comprendere le cose spirituali bisogna essere uomini e donne spirituali,
poiché se si è carnali, si ricade inevitabilmente nella stoltezza, anche se
magari si studia molto e si diventa "dotti" e "sottili ragionatori di questo
mondo" (1,20).
Possiamo vedere in questo testo paolino un
accostamento quanto mai significativo con i versetti del Vangelo che riportano
la benedizione di Gesù rivolta a Dio Padre, perché – dice il Signore – "hai
nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli" (Mt
11,25). I "sapienti" di cui parla Gesù sono quelli che Paolo chiama i "sapienti
di questo mondo". Mentre i "piccoli" sono coloro che l’Apostolo qualifica
"stolti", "deboli", "ignobili e disprezzati" per il mondo (1,27-28), ma che in
realtà, se accolgono "la parola della Croce" (1,18), diventano i veri sapienti.
Al punto che Paolo esorta chi si ritiene sapiente secondo i criteri del mondo a
"farsi stolto", per diventare veramente sapiente davanti a Dio (3,18). Questo
non è un atteggiamento anti-intellettuale, non è opposizione alla "recta
ratio". Paolo - seguendo Gesù - si oppone ad un tipo di superbia
intellettuale, in cui l’uomo, pur sapendo molto, perde la sensibilità per la
verità e la disponibilità ad aprirsi alla novità dell’agire divino.
Cari amici, questa riflessione paolina quindi non
vuole affatto condurre a sottovalutare l’impegno umano necessario per la
conoscenza, ma si pone su un altro piano: a Paolo interessa sottolineare – e lo
fa senza mezzi termini – che cosa vale realmente per la salvezza e che cosa
invece può recare divisione e rovina. L’Apostolo cioè denuncia il veleno della
falsa sapienza, che è l’orgoglio umano. Non è infatti la conoscenza in sé che
può far male, ma la presunzione, il "vantarsi" di ciò che si è arrivati – o si
presume di essere arrivati – a conoscere. Proprio da qui derivano poi le fazioni
e le discordie nella Chiesa e, analogamente, nella società. Si tratta dunque di
coltivare la sapienza non secondo la carne, bensì secondo lo Spirito. Sappiamo
bene che san Paolo con le parole "carne, carnale" non si riferisce al corpo, ma
ad un modo di vivere solo per se stessi e secondo i criteri del mondo. Perciò,
secondo Paolo, è sempre necessario purificare il proprio cuore dal veleno
dell’orgoglio, presente in ognuno di noi. Anche noi dobbiamo dunque elevare con
san Paolo il grido: "Chi ci libererà?" (cfr Rm 7,24). E pure noi possiamo
ricevere con lui la risposta: la grazia di Gesù Cristo, che il Padre ci ha
donato mediante lo Spirito Santo (cfr Rm 7,25). Il "pensiero di Cristo",
che per grazia abbiamo ricevuto, ci purifica dalla falsa sapienza. E questo
"pensiero di Cristo" lo accogliamo attraverso la Chiesa e nella Chiesa,
lasciandoci portare dal fiume della sua viva tradizione. Lo esprime molto bene
l’iconografia che raffigura Gesù-Sapienza in grembo alla Madre Maria, simbolo
della Chiesa: In gremio Matris sedet Sapientia Patris: in grembo alla
Madre siede la Sapienza del Padre, cioè Cristo. Rimanendo fedeli a quel Gesù che
Maria ci offre, al Cristo che la Chiesa ci presenta, possiamo impegnarci
intensamente nel lavoro intellettuale, interiormente liberi dalla tentazione
dell’orgoglio e vantandoci sempre e solo nel Signore.
Cari fratelli e sorelle, è questo l’augurio che vi
rivolgo all’inizio del nuovo anno accademico, invocando su voi tutti la materna
protezione di Maria, Sedes Sapientiae, e dell’Apostolo Paolo. Vi
accompagni anche la mia affettuosa Benedizione.
11) RISURREZIONE DI CRISTO 5.11.2008
Cari fratelli e sorelle,
"Se Cristo non è
risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede... e
voi siete ancora nei vostri peccati" (1 Cor 15,14.17). Con queste forti
parole della prima Lettera ai Corinzi, san Paolo fa capire quale decisiva
importanza egli attribuisse alla risurrezione di Gesù. In tale evento infatti
sta la soluzione del problema posto dal dramma della Croce. Da sola la Croce non
potrebbe spiegare la fede cristiana, anzi rimarrebbe una tragedia, indicazione
dell’assurdità dell’essere. Il mistero pasquale consiste nel fatto che quel
Crocifisso "è risorto il terzo giorno secondo le Scritture" (1 Cor 15,4)
- così attesta la tradizione protocristiana. Sta qui la chiave di volta della
cristologia paolina: tutto ruota attorno a questo
centro gravitazionale. L'intero insegnamento dell’apostolo Paolo
parte dal e arriva sempre al mistero di Colui che il
Padre ha risuscitato da morte. La risurrezione è un dato fondamentale, quasi un
assioma previo (cfr 1 Cor 15,12), in base al quale Paolo può formulare il
suo annuncio (kerygma) sintetico: Colui che è stato crocifisso, e
che ha così manifestato l’immenso amore di Dio per l’uomo, è risorto ed è vivo
in mezzo a noi. E’ importante cogliere il legame tra l’annuncio della
risurrezione, così come Paolo lo formula, e quello in uso nelle prime comunità
cristiane prepaoline. Qui davvero si può vedere l'importanza della tradizione
che precede l’Apostolo e che egli, con grande rispetto e attenzione, vuole a sua
volta consegnare. Il testo sulla risurrezione, contenuto nel cap. 15,1-11 della
prima Lettera ai Corinzi, pone bene in risalto il nesso tra "ricevere"
e "trasmettere". San Paolo attribuisce molta importanza alla formulazione
letterale della tradizione; al termine del passo in esame sottolinea: "Sia io
che loro così predichiamo" (1 Cor 15,11), mettendo con ciò in luce
l'unità del kerigma, dell’annuncio per tutti i credenti e per
tutti coloro che annunceranno la risurrezione di Cristo. La tradizione a
cui si ricollega è la fonte alla quale attingere. L’originalità della sua
cristologia non va mai a discapito della fedeltà alla tradizione. Il kerigma
degli Apostoli presiede sempre alla personale rielaborazione di Paolo; ogni sua
argomentazione muove dalla tradizione comune, in cui s’esprime la fede condivisa
da tutte le Chiese, che sono una sola Chiesa. E così
san Paolo offre un modello per tutti i tempi sul come fare teologia e come
predicare. Il teologo, il predicatore non crea nuove visioni del
mondo e della vita, ma è al servizio della verità trasmessa, al servizio del
fatto reale di Cristo, della Croce, della risurrezione. Il suo compito è
aiutarci a comprendere oggi, dietro le antiche parole, la realtà del "Dio con
noi", quindi la realtà della vera vita.
E’ qui opportuno precisare: san Paolo,
nell’annunciare la risurrezione, non si preoccupa di presentarne un’esposizione
dottrinale organica - non vuol scrivere quasi un manuale di teologia - ma
affronta il tema rispondendo a dubbi e domande concrete che gli venivano
proposte dai fedeli; un discorso occasionale dunque, ma pieno di fede e di
teologia vissuta. Vi si riscontra una concentrazione
sull’essenziale: noi siamo stati "giustificati", cioè resi giusti,
salvati, dal Cristo morto e risorto per noi. Emerge innanzitutto
il fatto della risurrezione, senza il quale la vita cristiana sarebbe
semplicemente assurda. In quel mattino di Pasqua avvenne qualcosa di
straordinario, di nuovo e, al tempo stesso, di molto concreto, contrassegnato da
segni ben precisi, registrati da numerosi testimoni. Anche per Paolo, come per
gli altri autori del Nuovo Testamento, la risurrezione è legata alla
testimonianza di chi ha fatto un’esperienza diretta del Risorto. Si tratta
di vedere e di sentire non solo con gli occhi o con i sensi, ma anche con una
luce interiore che spinge a riconoscere ciò che i sensi esterni attestano come
dato oggettivo. Paolo dà perciò - come i quattro Vangeli – fondamentale
rilevanza al tema delle apparizioni, le quali sono condizione
fondamentale per la fede nel Risorto che ha lasciato la tomba vuota. Questi due
fatti sono importanti: la tomba è vuota e Gesù è apparso realmente.
Si costituisce così quella catena della tradizione che, attraverso la
testimonianza degli Apostoli e dei primi discepoli, giungerà alle generazioni
successive, fino a noi. La prima conseguenza, o il primo modo di esprimere
questa testimonianza, è di predicare la risurrezione di Cristo come sintesi
dell'annuncio evangelico e come punto culminante di un itinerario salvifico.
Tutto questo Paolo lo fa in diverse occasioni: si possono consultare le Lettere
e gli Atti degli Apostoli dove si vede sempre che il punto essenziale per lui è
essere testimone della risurrezione. Vorrei citare solo un testo: Paolo,
arrestato a Gerusalemme, sta davanti al Sinedrio come accusato. In questa
circostanza nella quale è in gioco per lui la morte o la vita, egli indica quale
è il senso e il contenuto di tutta la sua predicazione: "Io sono chiamato in
giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti" (At
23,6). Questo stesso ritornello Paolo ripete continuamente nelle sue Lettere
(cfr 1 Ts 1,9s; 4,13-18; 5,10), nelle quali fa appello anche alla sua
personale esperienza, al suo personale incontro con Cristo risorto (cfr Gal
1,15-16; 1 Cor 9,1).
Ma possiamo domandarci:
qual è, per san Paolo, il senso profondo dell'evento della risurrezione di Gesù?
Che cosa dice a noi a distanza di duemila anni?
L’affermazione "Cristo è risorto" è attuale anche per noi? Perché la
risurrezione è per lui e per noi oggi un tema così determinante? Paolo dà
solennemente risposta a questa domanda all'inizio della Lettera ai Romani,
ove esordisce riferendosi al "Vangelo di Dio … che riguarda il Figlio suo, nato
dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza
secondo lo Spirito di santità in virtù della risurrezione dei morti" (Rm
1,3-4). Paolo sa bene e lo dice molte volte che Gesù era Figlio di Dio sempre,
dal momento della sua incarnazione. La novità della risurrezione consiste nel
fatto che Gesù, elevato dall’umiltà della sua esistenza terrena, viene
costituito Figlio di Dio "con potenza". Il Gesù umiliato fino alla morte di
croce può dire adesso agli Undici: "Mi è stato dato ogni potere in cielo e in
terra" (Mt 28, 18). E’ realizzato quanto dice il Salmo 2, 8: "Chiedi a
me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra". Perciò con
la risurrezione comincia l’annuncio del Vangelo di Cristo a tutti i popoli -
comincia il Regno di Cristo, questo nuovo Regno che non conosce altro potere che
quello della verità e dell’amore. La risurrezione svela quindi definitivamente
qual è l’autentica identità e la straordinaria statura del Crocifisso. Una
dignità incomparabile e altissima: Gesù è Dio! Per san Paolo
la segreta identità di Gesù, più ancora che
nell'incarnazione, si rivela nel mistero della risurrezione. Mentre
il titolo di Cristo, cioè di ‘Messia’, ‘Unto’, in san Paolo tende a
diventare il nome proprio di Gesù e quello di Signore specifica il suo
rapporto personale con i credenti, ora il titolo di Figlio di Dio viene
ad illustrare l'intimo rapporto di Gesù con Dio, un rapporto che si rivela
pienamente nell’evento pasquale. Si può dire, pertanto, che Gesù è risuscitato
per essere il Signore dei morti e dei vivi (cfr Rm 14,9; e 2 Cor
5,15) o, in altri termini, il nostro Salvatore (cfr Rm 4,25).
Tutto questo è gravido di importanti conseguenze per
la nostra vita di fede: noi siamo chiamati a partecipare fin nell'intimo del
nostro essere a tutta la vicenda della morte e della risurrezione di Cristo.
Dice l’Apostolo: siamo "morti con Cristo" e crediamo che "vivremo con lui,
sapendo che Cristo risorto dai morti non muore più; la morte non ha più potere
su di lui" (Rm 6,8-9). Ciò si traduce in una condivisione delle
sofferenze di Cristo, che prelude a quella piena configurazione con Lui mediante
la risurrezione a cui miriamo nella speranza. E’ ciò che è avvenuto anche a san
Paolo, la cui personale esperienza è descritta nelle Lettere con toni
tanto accorati quanto realistici: "Perché io possa conoscere Lui, la potenza
della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme
alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti" (Fil
3,10-11; cfr 2 Tm 2,8-12). La teologia della Croce non è una teoria - è
la realtà della vita cristiana. Vivere nella fede in Gesù Cristo, vivere la
verità e l’amore implica rinunce ogni giorno, implica sofferenze. Il
cristianesimo non è la via della comodità, è piuttosto una scalata esigente,
illuminata però dalla luce di Cristo e dalla grande speranza che nasce da Lui.
Sant’Agostino dice: Ai cristiani non è risparmiata la sofferenza, anzi a loro ne
tocca un po’ di più, perché vivere la fede esprime il coraggio di affrontare la
vita e la storia più in profondità. Tuttavia solo così, sperimentando la
sofferenza, conosciamo la vita nella sua profondità, nella sua bellezza, nella
grande speranza suscitata da Cristo crocifisso e risorto. Il credente si trova
perciò collocato tra due poli: da un lato, la risurrezione che in qualche modo è
già presente e operante in noi (cfr Col 3,1-4; Ef 2,6);
dall'altro, l’urgenza di inserirsi in quel processo
che conduce tutti e tutto verso la pienezza, descritta nella
Lettera ai Romani con un’ardita immagine: come tutta la creazione geme e
soffre quasi le doglie del parto, così anche noi gemiamo nell'attesa della
redenzione del nostro corpo, della nostra redenzione e risurrezione (cfr Rm
8,18-23).
In sintesi, possiamo dire con Paolo che il vero
credente ottiene la salvezza professando con la sua bocca che Gesù è il
Signore e credendo con il suo cuore che Dio lo ha risuscitato dai
morti (cfr Rm 10,9). Importante è innanzitutto il cuore che crede in
Cristo e nella fede "tocca" il Risorto; ma non basta portare nel cuore la fede,
dobbiamo confessarla e testimoniarla con la bocca, con la nostra vita, rendendo
così presente la verità della croce e della risurrezione nella nostra storia In
questo modo infatti il cristiano si inserisce in quel processo grazie al quale
il primo Adamo, terrestre e soggetto alla corruzione e alla morte, va
trasformandosi nell'ultimo Adamo, quello celeste e incorruttibile (cfr 1 Cor
15,20-22.42-49). Tale processo è stato avviato con la risurrezione di Cristo,
nella quale pertanto si fonda la speranza di potere un giorno entrare anche noi
con Cristo nella vera nostra patria che sta nei Cieli. Sorretti da questa
speranza proseguiamo con coraggio e con gioia.
12) LA SECONDA VENUTA DEL SIGNORE 12.11.2008
Cari fratelli e sorelle,
il tema della risurrezione,
sul quale ci siamo soffermati la scorsa settimana, apre una nuova prospettiva,
quella dell'attesa del ritorno del Signore, e perciò ci porta a riflettere sul
rapporto tra il tempo presente, tempo della Chiesa e del Regno di Cristo, e
il futuro (éschaton) che ci attende, quando Cristo consegnerà
il Regno al Padre (cfr 1 Cor 15,24). Ogni discorso cristiano sulle cose
ultime, chiamato escatologia, parte sempre dall’evento della
risurrezione: in questo avvenimento le cose ultime sono già incominciate e, in
un certo senso, già presenti.
Probabilmente nell’anno 52 san Paolo ha scritto la
prima delle sue lettere, la prima Lettera ai Tessalonicesi, dove parla di
questo ritorno di Gesù, chiamato parusia, avvento, nuova e definitiva e
manifesta presenza (cfr 4,13-18). Ai Tessalonicesi, che hanno i loro dubbi e i
loro problemi, l'Apostolo scrive così: "Se infatti crediamo che Gesù è morto ed
è risorto, così anche Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono
morti" (4,14). E continua: "Prima risorgeranno i morti in Cristo, quindi noi,
che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle
nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così saremo sempre con il
Signore" (4,16-17). Paolo descrive la parusia di Cristo con accenti
quanto mai vivi e con immagini simboliche, che trasmettono però un messaggio
semplice e profondo: alla fine saremo sempre con il Signore. E’ questo,
al di là delle immagini, il messaggio essenziale: il nostro futuro è "essere con
il Signore"; in quanto credenti, nella nostra vita noi siamo già con il Signore;
il nostro futuro, la vità eterna, è già cominciata.
Nella seconda Lettera ai Tessalonicesi Paolo
cambia la prospettiva; parla di eventi negativi, che dovranno precedere quello
finale e conclusivo. Non bisogna lasciarsi ingannare – dice – come se il giorno
del Signore fosse davvero imminente, secondo un calcolo cronologico: "Riguardo
alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo e al nostro radunarci con lui, vi
preghiamo, fratelli, di non lasciarvi troppo presto confondere la mente e
allarmare né da ispirazioni né da discorsi, né da qualche lettera fatta passare
come nostra, quasi che il giorno del Signore sia già presente. Nessuno vi
inganni in alcun modo!" (2,1-3). Il prosieguo di questo testo annuncia che prima
dell’arrivo del Signore vi sarà l'apostasia e dovrà essere rivelato un non
meglio identificato ‘uomo iniquo’, il ‘figlio della perdizione’ (2,3), che la
tradizione chiamerà poi l’Anticristo. Ma l’intenzione di questa Lettera di san
Paolo è innanzitutto pratica; egli scrive: "Quando eravamo presso di voi, vi
abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuol lavorare, neppure mangi.
Sentiamo infatti che alcuni tra di voi vivono una vita disordina, senza fare
nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù
Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità" (3, 10-12).
In altre parole, l’attesa della parusia di Gesù non dispensa
dall’impegno in questo mondo, ma al contrario crea responsabilità davanti al
Giudice divino circa il nostro agire in questo mondo. Proprio così cresce la
nostra responsabilità di lavorare in e per
questo mondo. Vedremo la stessa cosa domenica prossima nel Vangelo
dei talenti, dove il Signore ci dice che ha affidato talenti a tutti e il
Giudice chiederà conto di essi dicendo: Avete portato frutto? Quindi l’attesa
del ritorno implica responsabilità per questo mondo.
La stessa cosa e lo stesso nesso tra parusia
– ritorno del Giudice/Salvatore – e impegno nostro nella nostra vita appare in
un altro contesto e con nuovi aspetti nella Lettera ai Filippesi. Paolo è
in carcere e aspetta la sentenza che può essere di condanna a morte. In questa
situazione pensa al suo futuro essere con il Signore, ma pensa anche alla
comunità di Filippi che ha bisogno del proprio padre, di Paolo, e scrive: "Per
me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo
significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto
infatti tra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere
con Cristo, il che sarebbe assai meglio; ma per voi è più necessario che io
rimanga nel corpo. Persuaso di questo, so che rimarrò e continuerò a rimanere in
mezzo a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede, affinchè il
vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo Gesù, con il mio
ritorno tra voi" (1, 21-26).
Paolo non ha paura della morte, al contrario: essa
indica infatti il completo essere con Cristo. Ma Paolo partecipa anche dei
sentimenti di Cristo, il quale non ha vissuto per sé, ma per noi.
Vivere per gli altri diventa il programma della sua vita
e perciò dimostra la sua perfetta disponibilità alla volontà di Dio, a quel che
Dio deciderà. È disponibile soprattutto, anche in futuro, a vivere su
questa terra per gli altri, a vivere per Cristo, a vivere per la sua viva
presenza e così per il rinnovamento del mondo. Vediamo che questo suo essere con
Cristo crea una grande libertà interiore: libertà davanti alla minaccia della
morte, ma libertà anche davanti a tutti gli impegni e le sofferenze della vita.
È semplicemente disponibile per Dio e realmente libero.
E passiamo adesso, dopo avere esaminato i diversi
aspetti dell'attesa della parusia del Cristo, a domandarci: quali sono gli
atteggiamenti fondamentali del cristiano riguardo alla cose ultime: la morte, la
fine del mondo? Il primo
atteggiamento è la certezza che Gesù è risorto, è col Padre, e proprio
così è con noi, per sempre. E nessuno è più forte di Cristo, perché Egli è col
Padre, è con noi. Siamo perciò sicuri, liberati dalla paura. Questo era un
effetto essenziale della predicazione cristiana. La paura degli spiriti, delle
divinità era diffusa in tutto il mondo antico. E anche oggi i missionari,
insieme con tanti elementi buoni delle religioni naturali, trovano la paura
degli spiriti, dei poteri nefasti che ci minacciano. Cristo vive, ha vinto la
morte e ha vinto tutti questi poteri. In questa certezza, in questa libertà, in
questa gioia viviamo. Questo è il primo aspetto del nostro vivere riguardo al
futuro.
In secondo luogo,
la certezza che Cristo è con me. E come in Cristo il mondo futuro è già
cominciato, questo dà anche certezza della speranza. Il futuro non è un buio nel
quale nessuno si orienta. Non è così. Senza Cristo, anche oggi per il mondo il
futuro è buio, c'è tanta paura del futuro. Il cristiano sa che la luce di Cristo
è più forte e perciò vive in una speranza non vaga, in una speranza che dà
certezza e dà coraggio per affrontare il futuro.
Infine, il terzo
atteggiamento. Il Giudice che ritorna - è giudice e salvatore
insieme - ci ha lasciato l’impegno di vivere in questo mondo secondo il suo
modo di vivere. Ci ha consegnato i suoi talenti. Perciò il nostro terzo
atteggiamento è: responsabilità per il mondo, per i fratelli davanti a
Cristo, e nello stesso tempo anche certezza della sua misericordia.
Ambedue le cose sono importanti. Non viviamo come se il bene e il male fossero
uguali, perché Dio può essere solo misericordioso. Questo sarebbe un inganno. In
realtà, viviamo in una grande responsabilità. Abbiamo i talenti, siamo
incaricati di lavorare perché questo mondo si apra a Cristo, sia rinnovato. Ma
pur lavorando e sapendo nella nostra responsabilità che Dio è giudice vero,
siamo anche sicuri che questo giudice è buono, conosciamo il suo volto, il volto
del Cristo risorto, del Cristo crocifisso per noi. Perciò possiamo essere sicuri
della sua bontà e andare avanti con grande coraggio.
Un ulteriore dato dell’insegnamento paolino riguardo
all'escatologia è quello dell’universalità della chiamata alla fede,
che riunisce Giudei e Gentili, cioè i pagani, come segno e anticipazione
della realtà futura, per cui possiamo dire che noi sediamo già nei cieli con
Gesù Cristo, ma per mostrare nei secoli futuri la ricchezza della grazia (cfr
Ef 2,6s): il dopo diventa un prima
per rendere evidente lo stato di incipiente realizzazione in cui viviamo.
Ciò rende tollerabili le sofferenze del momento presente, che non sono comunque
paragonabili alla gloria futura (cfr Rm 8,18). Si cammina nella fede e
non in visione, e se anche sarebbe preferibile andare in esilio dal corpo ed
abitare presso il Signore, quel che conta in definitiva, dimorando nel corpo o
esulando da esso, è che si sia graditi a Lui (cfr 2 Cor 5,7-9).
Infine, un ultimo punto che forse appare un po'
difficile per noi. San Paolo alla conclusione della sua seconda Lettera ai
Corinzi ripete e mette in bocca anche ai Corinzi una preghiera nata nelle
prime comunità cristiane dell'area palestinese: Maranà, thà! che
letteralmente significa "Signore nostro, vieni!" (16,22). Era la preghiera della
prima cristianità, e anche l'ultimo libro del Nuovo Testamento, l'Apocalisse, si
chiude con questa preghiera: "Signore, vieni!". Possiamo pregare anche noi così?
Mi sembra che per noi oggi, nella nostra vita, nel nostro mondo, sia difficile
pregare sinceramente perché perisca questo mondo, perché venga la nuova
Gerusalemme, perchè venga il giudizio ultimo e il giudice, Cristo. Penso che se
sinceramente non osiamo pregare così per molti motivi, tuttavia in un modo
giusto e corretto anche noi possiamo dire, con la prima cristianità: "Vieni,
Signore Gesù!". Certo, non vogliamo che adesso venga la fine del mondo. Ma,
d'altra parte, vogliamo
anche che finisca questo mondo ingiusto. Vogliamo anche noi che il mondo
sia fondamentalmente cambiato, che incominci la civiltà dell'amore, che arrivi
un mondo di giustizia, di pace, senza violenza, senza fame. Tutto questo
vogliamo: e come potrebbe succedere senza la presenza di Cristo?
Senza la presenza di Cristo non arriverà mai un mondo realmente giusto e
rinnovato. E anche se in un altro modo, totalmente e in profondità, possiamo e
dobbiamo dire anche noi, con grande urgenza e nelle circostanze del nostro
tempo: Vieni, Signore! Vieni nel tuo modo, nei modi che tu conosci. Vieni dove
c'è ingiustizia e violenza. Vieni nei campi di profughi, nel Darfur, nel Nord
Kivu, in tanti parti del mondo. Vieni dove domina la droga. Vieni anche tra quei
ricchi che ti hanno dimenticato, che vivono solo per se stessi. Vieni dove tu
sei sconosciuto. Vieni nel modo tuo e rinnova il mondo di oggi. Vieni anche nei
nostri cuori, vieni e rinnova il nostro vivere, vieni nel nostro cuore perché
noi stessi possiamo divenire luce di Dio, presenza tua. In questo senso
preghiamo con san Paolo: Maranà, thà! "Vieni, Signore Gesù!", e preghiamo
perché Cristo sia realmente presente oggi nel nostro mondo e lo rinnovi.
13) LA
GIUSTIFICAZIONE 19.11.2008
Cari fratelli e sorelle,
nel cammino che stiamo compiendo sotto la guida di san Paolo, vogliamo ora
soffermarci su un tema che sta al centro delle controversie del secolo della
Riforma: la questione della giustificazione.
Come diventa giusto l’uomo agli occhi di Dio? Quando Paolo incontrò il Risorto
sulla strada di Damasco era un uomo realizzato: irreprensibile quanto alla
giustizia derivante dalla Legge (cfr Fil 3,6), superava molti suoi
coetanei nell’osservanza delle prescrizioni mosaiche ed era zelante nel
sostenere le tradizioni dei padri (cfr Gal 1,14). L’illuminazione di
Damasco gli cambiò radicalmente l'esistenza: cominciò a considerare tutti
i meriti, acquisiti in una carriera religiosa integerrima, come
"spazzatura" di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo
(cfr Fil 3,8). La Lettera ai Filippesi ci offre una
toccante testimonianza del passaggio di Paolo da una giustizia fondata sulla
Legge e acquisita con l'osservanza delle opere prescritte, ad una giustizia
basata sulla fede in Cristo: egli aveva compreso che quanto fino ad allora gli
era parso un guadagno in realtà di fronte a Dio era una perdita e aveva deciso
perciò di scommettere tutta la sua esistenza su Gesù Cristo (cfr Fil
3,7). Il tesoro nascosto nel campo e la perla preziosa nel cui acquisto
investire tutto il resto non erano più le opere della Legge, ma Gesù Cristo, il
suo Signore.
Il rapporto tra Paolo e il Risorto diventò talmente
profondo da indurlo a sostenere che Cristo non era
più soltanto la sua vita ma il suo vivere, al punto che per poterlo raggiungere
persino il morire diventava un guadagno (cfr Fil 1,21).
Non che disprezzasse la vita, ma aveva compreso che per lui il
vivere non aveva ormai altro scopo e non nutriva perciò altro desiderio che di
raggiungere Cristo, come in una gara di atletica, per restare sempre con Lui:
il Risorto era diventato l’inizio e il fine della sua esistenza, il motivo e la
mèta della sua corsa. Soltanto la preoccupazione per la maturazione nella fede
di coloro che aveva evangelizzato e la sollecitudine per tutte le Chiese da lui
fondate (cfr 2 Cor 11,28) lo inducevano a rallentare la corsa
verso il suo unico Signore, per attendere i discepoli affinché con lui potessero
correre verso la mèta. Se nella precedente osservanza della Legge non aveva
nulla da rimproverarsi dal punto di vista dell’integrità morale, una volta
raggiunto da Cristo preferiva non pronunciare giudizi su se stesso (cfr 1 Cor
4,3-4), ma si limitava a proporsi di correre per conquistare Colui dal quale era
stato conquistato (cfr Fil 3,12).
È proprio per questa personale
esperienza del rapporto con Gesù Cristo che Paolo colloca ormai al centro del
suo Vangelo un’irriducibile opposizione tra due percorsi alternativi verso la
giustizia: uno costruito sulle opere della Legge,
l’altro fondato sulla grazia della fede in Cristo. L’alternativa
fra la giustizia per le opere della Legge e quella per la fede in Cristo diventa
così uno dei motivi dominanti che attraversano le sue Lettere: "Noi, che per
nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l'uomo non è
giustificato per le opere della Legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù
Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù, per essere giustificati per la
fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge
non verrà mai giustificato nessuno" (Gal 2,15-16). E ai cristiani di Roma
ribadisce che "tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono
giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è
in Cristo Gesù (Rm 3,23-24). E aggiunge "Noi riteniamo, infatti che
l’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge" (Ibid
28). Lutero a questo punto tradusse: "giustificato per la sola fede". Ritornerò
su questo punto alla fine della catechesi. Prima dobbiamo chiarire che cosa è
questa "Legge" dalla quale siamo liberati e che cosa sono quelle "opere della
Legge" che non giustificano. Già nella comunità di Corinto esisteva l’opinione
che sarebbe poi ritornata sistematicamente nella storia; l’opinione consisteva
nel ritenere che si trattasse della legge morale e che la libertà cristiana
consistesse quindi nella liberazione dall’etica. Così a Corinto circolava la
parola "tutto mi è lecito”. E’ ovvio che questa interpretazione è sbagliata: la
libertà cristiana non è libertinismo, la liberazione della quale parla san Paolo
non è liberazione dal fare il bene.
Ma che cosa significa dunque la Legge dalla quale
siamo liberati e che non salva? Per san Paolo, come per tutti i suoi
contemporanei, la parola Legge significava la Torah nella sua totalità, cioè i
cinque libri di Mosè. La Torah implicava, nell’interpretazione farisaica, quella
studiata e fatta propria da Paolo, un complesso di comportamenti
che andava dal nucleo etico fino alle osservanze rituali e cultuali che
derminavano sostanzialmente l’identità dell’uomo giusto. Particolarmente la
circoncisione, le osservanze circa il cibo puro e generalmente la purezza
rituale, le regole circa l’osservanza del sabato, ecc. Comportamenti che
appaiono spesso anche nei dibattiti tra Gesù e i suoi contemporanei. Tutte
queste osservanze che esprimono una identità sociale, culturale e religiosa
erano divenute singolarmente importanti al tempo della cultura ellenistica,
cominciando dal III secolo a.C. Questa cultura, che era diventata la cultura
universale di allora, ed era una cultura apparentemente razionale, una cultura
politeista, apparentemente tollerante, costituiva una pressione forte verso
l’uniformità culturale e minacciava così l’identità di Israele, che era
politicamente costretto ad entrare in questa identità comune della cultura
ellenistica con conseguente perdita della propria identità, perdita quindi anche
della preziosa eredità della fede dei Padri, della fede nell’unico Dio e nelle
promesse di Dio.
Contro questa pressione culturale, che minacciava
non solo l’identità israelitica, ma anche la fede nell’unico Dio e nelle sue
promesse, era necessario creare un muro di distinzione, uno scudo di difesa a
protezione della preziosa eredità della fede; tale muro consisteva proprio nelle
osservanze e prescrizioni giudaiche. Paolo, che aveva appreso tali osservanze
proprio nella loro funzione difensiva del dono di Dio, dell’eredità della fede
in un unico Dio, ha visto minacciata questa identità dalla libertà dei
cristiani: per questo li perseguitava. Al momento del suo incontro con il
Risorto capì che con la risurrezione di Cristo la situazione era cambiata
radicalmente. Con Cristo, il Dio di Israele, l’unico vero Dio, diventava il Dio
di tutti i popoli. Il muro – così dice nella
Lettera agli Efesini – tra Israele e i pagani non era più necessario: è
Cristo che ci protegge contro il politeismo e tutte le sue deviazioni; è Cristo
che ci unisce con e nell’unico Dio; è Cristo che garantisce la
nostra vera identità nella diversità delle culture. Il muro non è più
necessario, la nostra identità comune nella diversità delle culture è Cristo, ed
è lui che ci fa giusti. Essere giusto vuol semplicemente dire essere
con Cristo e in Cristo. E questo basta. Non sono più necessarie altre
osservanze. Perciò l’espressione "sola fide" di Lutero è vera, se non si
oppone la fede alla carità, all’amore. La fede è
guardare Cristo, affidarsi a Cristo, attaccarsi a Cristo, conformarsi a Cristo,
alla sua vita. E la forma, la vita di Cristo è l’amore; quindi credere è
conformarsi a Cristo ed entrare nel suo amore. Perciò san Paolo nella
Lettera ai Galati, nella quale soprattutto ha sviluppato la sua dottrina
sulla giustificazione, parla della fede che opera per mezzo della carità (cfr
Gal 5,14).
Paolo sa che nel duplice amore di Dio e del prossimo
è presente e adempiuta tutta la Legge. Così nella comunione con Cristo, nella
fede che crea la carità, tutta la Legge è realizzata. Diventiamo giusti entrando
in comunione con Cristo che è l'amore. Vedremo la stessa cosa nel Vangelo della
prossima domenica, solennità di Cristo Re. È il Vangelo del giudice il cui unico
criterio è l'amore. Ciò che domanda è solo questo: Tu mi hai visitato quando ero
ammalato? Quando ero in carcere? Tu mi hai dato da mangiare quando ho avuto
fame, tu mi hai vestito quando ero nudo? E così la giustizia si decide nella
carità. Così, al termine di questo Vangelo, possiamo quasi dire: solo amore,
sola carità. Ma non c'è contraddizione tra questo Vangelo e San Paolo. È la
medesima visione, quella secondo cui la comunione con Cristo, la fede in Cristo
crea la carità. E la carità è realizzazione della comunione con Cristo. Così,
essendo uniti a Lui siamo giusti e in nessun altro modo.
Alla fine, possiamo solo pregare il Signore che ci
aiuti a credere. Credere realmente; credere diventa così vita, unità con Cristo,
trasformazione della nostra vita. E così, trasformati dal suo amore, dall’amore
di Dio e del prossimo, possiamo essere realmente giusti agli occhi di Dio.
14) LA
GIUSTIFICAZIONE II/II 26.11.2008
Cari fratelli e sorelle,
nella
catechesi di mercoledì scorso ho parlato della questione di come l'uomo diventi
giusto davanti a Dio. Seguendo san Paolo, abbiamo visto che l'uomo non è in
grado di farsi "giusto" con le sue proprie azioni, ma può realmente divenire
"giusto" davanti a Dio solo perché Dio gli conferisce la sua "giustizia"
unendolo a Cristo suo Figlio. E questa unione con Cristo l’uomo l’ottiene
mediante la fede. In questo senso san Paolo ci dice: non le nostre opere, ma la
fede ci rende "giusti". Questa fede, tuttavia, non è un pensiero, un'opinione,
un'idea. Questa fede è comunione con Cristo, che il Signore ci dona e perciò
diventa vita, diventa conformità con Lui. O, con altre parole, la fede, se è
vera, se è reale, diventa amore, diventa carità, si esprime nella carità. Una
fede senza carità, senza questo frutto non sarebbe vera fede. Sarebbe fede
morta.
Abbiamo quindi trovato nell'ultima catechesi due
livelli: quello della non rilevanza delle nostre azioni, delle nostre opere per
il raggiungimento della salvezza e quello della "giustificazione" mediante la
fede che produce il frutto dello Spirito. La confusione di questi due livelli ha
causato, nel corso dei secoli, non pochi fraintendimenti nella cristianità. In
questo contesto è importante che san Paolo nella stessa Lettera ai Galati
ponga, da una parte, l’accento, in modo radicale, sulla gratuità della
giustificazione non per le nostre opere, ma che, al tempo stesso, sottolinei
pure la relazione tra la fede e la carità, tra la fede e le opere: "In Cristo
Gesù non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che si
rende operosa per mezzo della carità" (Gal 5,6). Di conseguenza,
vi sono, da una parte, le "opere della carne" che sono "fornicazione, impurità,
dissolutezza, idolatria..." (Gal 5,19-21): tutte opere contrarie alla
fede; dall’altra, vi è l’azione dello Spirito Santo, che alimenta la vita
cristiana suscitando "amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà,
fedeltà, mitezza, dominio di sé" (Gal 5,22): sono questi i frutti dello
Spirito che sbocciano dalla fede.
All’inizio di quest’elenco di virtù è citata
l’agape, l'amore, e nella conclusione il dominio di sé. In realtà, lo Spirito,
che è l’Amore del Padre e del Figlio, effonde il suo primo dono, l’agape, nei
nostri cuori (cfr Rm 5,5); e l’agape, l'amore,per esprimersi in
pienezza esige il dominio di sé. Dell’amore del Padre e del Figlio, che ci
raggiunge e trasforma la nostra esistenza in profondità, ho anche trattato nella
mia prima Enciclica: Deus caritas est. I credenti sanno che nell'amore
vicendevole s'incarna l'amore di Dio e di Cristo, per mezzo dello Spirito.
Ritorniamo alla Lettera ai Galati. Qui san Paolo dice che,
portando i pesi gli uni degli altri, i credenti adempiono il comandamento
dell’amore (cfr Gal 6,2). Giustificati per il dono della fede in
Cristo, siamo chiamati a vivere nell’amore di Cristo per il prossimo, perché è
su questo criterio che saremo, alla fine della nostra esistenza, giudicati. In
realtà, Paolo non fa che ripetere ciò che aveva detto Gesù stesso e che ci è
stato riproposto dal Vangelo di domenica scorsa, nella parabola dell'ultimo
Giudizio. Nella Prima Lettera ai Corinzi, san Paolo si diffonde in un
famoso elogio dell’amore. E’ il cosiddetto inno alla carità: "Se parlassi le
lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l'amore, sarei come bronzo che
rimbomba o come cimbalo che strepita... La carità è magnanima, benevola è la
carità, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di
rispetto, non cerca il proprio interesse..." (1 Cor 13,1.4-5). L’amore
cristiano è quanto mai esigente poiché sgorga dall’amore totale di Cristo per
noi: quell’amore che ci reclama, ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, sino a
tormentarci, poiché costringe ciascuno a non vivere più per se stesso, chiuso
nel proprio egoismo, ma per "Colui che è morto e risorto per noi" (cfr 2 Cor
5,15). L’amore di Cristo ci fa essere in Lui quella creatura nuova (cfr 2
Cor 5,17) che entra a far parte del suo Corpo mistico che è la Chiesa.
Vista in questa prospettiva, la centralità della
giustificazione senza le opere, oggetto primario della predicazione di Paolo,
non entra in contraddizione con la fede operante nell’amore; anzi esige che la
nostra stessa fede si esprima in una vita secondo lo Spirito. Spesso si è vista
un’infondata contrapposizione tra la teologia di san Paolo e quella di san
Giacomo, che nella sua Lettera scrive: "Come il corpo senza lo spirito è morto,
così anche la fede senza le opere è morta" (2,26). In realtà, mentre Paolo è
preoccupato anzitutto di dimostrare che la fede in Cristo è necessaria e
sufficiente, Giacomo pone l’accento sulle relazioni consequenziali tra la fede e
le opere (cfr Gc 2,2-4). Pertanto sia per Paolo sia per Giacomo la fede
operante nell’amore attesta il dono gratuito della giustificazione in Cristo. La
salvezza, ricevuta in Cristo, ha bisogno di essere custodita e testimoniata "con
rispetto e timore. E’ Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare
secondo il suo disegno d’amore. Fate tutto senza mormorare e senza esitare...
tenendo salda la parola di vita", dirà ancora san Paolo ai cristiani di Filippi
(cfr Fil 2,12-14.16).
Spesso siamo portati a cadere negli stessi
fraintendimenti che hanno caratterizzato la comunità di Corinto: quei cristiani
pensavano che, essendo stati giustificati gratuitamente in Cristo per la fede,
"tutto fosse loro lecito". E pensavano, e spesso sembra che lo pensino anche
cristiani di oggi, che sia lecito creare divisioni nella Chiesa, Corpo di
Cristo, celebrare l’Eucaristia senza farsi carico dei fratelli più bisognosi,
aspirare ai carismi migliori senza rendersi conto di essere membra gli uni degli
altri, e così via. Disastrose sono le conseguenze di una fede che non s’incarna
nell’amore, perché si riduce all’arbitrio e al soggettivismo più nocivo per noi
e per i fratelli. Al contrario, seguendo san Paolo, dobbiamo prendere rinnovata
coscienza del fatto che, proprio perché giustificati in Cristo, non apparteniamo
più a noi stessi, ma siamo diventati tempio dello Spirito e siamo perciò
chiamati a glorificare Dio nel nostro corpo con tutta la nostra esistenza (cfr
1 Cor 6,19) . Sarebbe uno svendere il valore inestimabile della
giustificazione se, comprati a caro prezzo dal sangue di Cristo, non lo
glorificassimo con il nostro corpo. In realtà, è proprio questo il nostro culto
"ragionevole" e insieme "spirituale", per cui siamo esortati da Paolo a "offrire
il nostro corpo come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio" (Rm
12,1). A che cosa si ridurrebbe una liturgia rivolta soltanto al Signore, senza
diventare, nello stesso tempo, servizio per i fratelli, una fede che non si
esprimesse nella carità? E l’Apostolo pone spesso le sue comunità di fronte al
giudizio finale, in occasione del quale tutti "dobbiamo comparire davanti al
tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute
quando era nel corpo, sia in bene che in male" (2 Cor 5,10; cfr
anche Rm 2,16). E questo pensiero del Giudizio deve illuminarci nella
nostra vita di ogni giorno.
Se l’etica che Paolo propone ai credenti non scade
in forme di moralismo e si dimostra attuale per noi, è perché, ogni volta,
riparte sempre dalla relazione personale e comunitaria con Cristo, per inverarsi
nella vita secondo lo Spirito. Questo è essenziale: l'etica cristiana non nasce
da un sistema di comandamenti, ma è conseguenza della nostra amicizia con
Cristo. Questa amicizia influenza la vita: se è vera si incarna e si realizza
nell'amore per il prossimo. Per questo, qualsiasi decadimento etico non si
limita alla sfera individuale, ma è nello stesso tempo svalutazione della fede
personale e comunitaria: da questa deriva e su essa incide in modo determinante.
Lasciamoci quindi raggiungere dalla riconciliazione, che Dio ci ha donato in
Cristo, dall'amore "folle" di Dio per noi: nulla e nessuno potranno mai
separarci dal suo amore (cfr Rm 8,39). In questa certezza viviamo. E’
questa certezza a donarci la forza di vivere concretamente la fede che opera
nell'amore.
15) RELAZIONE
ADAMO-CRISTO 3.12.2008
Cari fratelli e sorelle,
nell'odierna
catechesi ci soffermeremo sulle relazioni tra Adamo e Cristo, delineate da san
Paolo nella nota pagina della Lettera ai Romani (5,12-21), nella quale
egli consegna alla Chiesa le linee essenziali della dottrina sul peccato
originale. In verità, già nella prima Lettera ai Corinzi, trattando della
fede nella risurrezione, Paolo aveva introdotto il confronto tra il progenitore
e Cristo: "Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno
la vita... Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo
divenne spirito datore di vita" (1 Cor
15,22.45). Con Rm 5,12-21 il confronto tra Cristo e Adamo si fa più
articolato e illuminante: Paolo ripercorre la storia della salvezza da Adamo
alla Legge e da questa a Cristo. Al centro della scena non si trova tanto
Adamo con le conseguenze del peccato sull'umanità, quanto Gesù Cristo e la
grazia che, mediante Lui, è stata riversata in abbondanza sull'umanità. La
ripetizione del "molto più" riguardante Cristo sottolinea come il dono ricevuto
in Lui sorpassi, di gran lunga, il peccato di Adamo e le conseguenze prodotte
sull'umanità, così che Paolo può giungere alla conclusione: "Ma dove abbondò il
peccato, sovrabbondò la grazia" (Rm 5,20). Pertanto, il confronto che
Paolo traccia tra Adamo e Cristo mette in luce l’inferiorità del primo uomo
rispetto alla prevalenza del secondo.
D’altro canto, è proprio per mettere in evidenza
l'incommensurabile dono della grazia, in Cristo, che Paolo accenna al
peccato di Adamo: si direbbe che se non fosse stato per dimostrare la centralità
della grazia, egli non si sarebbe attardato a trattare del peccato che "a causa
di un solo uomo è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte" (Rm
5,12). Per questo se, nella fede della Chiesa, è maturata la consapevolezza del
dogma del peccato originale è perché esso è connesso
inscindibilmente con l’altro dogma, quello della salvezza e della libertà in
Cristo. La conseguenza di ciò è che non
dovremmo mai trattare del peccato di Adamo e dell’umanità in modo
distaccato dal contesto salvifico, senza
comprenderli cioè nell’orizzonte della giustificazione in Cristo.
Ma come uomini di oggi dobbiamo domandarci: che cosa
è questo peccato originale? Che cosa insegna san Paolo, che cosa insegna la
Chiesa? È ancora oggi sostenibile questa dottrina? Molti pensano che, alla luce
della storia dell'evoluzione, non ci sarebbe più posto per la dottrina di un
primo peccato, che poi si diffonderebbe in tutta la storia dell'umanità. E, di
conseguenza, anche la questione della Redenzione e del Redentore perderebbe il
suo fondamento. Dunque, esiste il peccato originale o no? Per poter rispondere
dobbiamo distinguere due aspetti della dottrina sul peccato originale.
Esiste un aspetto empirico, cioè una realtà concreta, visibile, direi
tangibile per tutti. E un aspetto misterico, riguardante il fondamento
ontologico di questo fatto. Il dato empirico è che
esiste una contraddizione nel nostro essere. Da una parte ogni uomo
sa che deve fare il bene e intimamente lo vuole anche fare. Ma, nello stesso
tempo, sente anche l'altro impulso di fare il contrario, di seguire la strada
dell'egoismo, della violenza, di fare solo quanto gli piace anche sapendo di
agire così contro il bene, contro Dio e contro il prossimo. San Paolo nella sua
Lettera ai Romani ha espresso questa contraddizione nel nostro essere
così: «C'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti
io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (7, 18-19).
Questa contraddizione interiore del nostro essere non è una teoria. Ognuno
di noi la prova ogni giorno. E soprattutto vediamo sempre intorno a noi la
prevalenza di questa seconda volontà. Basta pensare alle notizie quotidiane
su ingiustizie, violenza, menzogna, lussuria. Ogni giorno lo vediamo: è un
fatto.
Come conseguenza di questo potere del male nelle
nostre anime, si è sviluppato nella storia un fiume sporco, che avvelena la
geografia della storia umana. Il grande pensatore francese Blaise Pascal ha
parlato di una «seconda natura», che si sovrappone alla nostra natura
originaria, buona. Questa "seconda natura" fa apparire il male come normale per
l'uomo. Così anche l'espressione solita: «questo è umano» ha un duplice
significato. «Questo è umano» può voler dire: quest'uomo è buono, realmente
agisce come dovrebbe agire un uomo. Ma «questo è umano» può anche voler dire la
falsità: il male è normale, è umano. Il male sembra essere divenuto una seconda
natura. Questa contraddizione dell'essere umano, della nostra storia deve
provocare, e provoca anche oggi, il desiderio di redenzione. E, in realtà,
il desiderio che il mondo sia cambiato e la promessa che sarà creato un mondo di
giustizia, di pace, di bene, è presente dappertutto: in politica, ad esempio,
tutti parlano di questa necessità di cambiare il mondo, di creare un mondo
più giusto. E proprio questo è espressione del desiderio che ci sia una
liberazione dalla contraddizione che sperimentiamo in noi stessi.
Quindi il fatto del potere del male nel cuore umano
e nella storia umana è innegabile. La questione è: come si spiega questo
male? Nella storia del pensiero, prescindendo dalla fede cristiana, esiste
un modello principale di spiegazione, con diverse variazioni. Questo modello
dice: l'essere stesso è contraddittorio, porta in sè sia il bene sia il male.
Nell'antichità questa idea implicava l'opinione che esistessero due principi
ugualmente originari: un principio buono e un principio cattivo. Tale
dualismo sarebbe insuperabile; i due principi stanno sullo stesso livello,
perciò ci sarà sempre, fin dall'origine dell'essere, questa contraddizione. La
contraddizione del nostro essere, quindi, rifletterebbe solo la contrarietà dei
due principi divini, per così dire. Nella versione evoluzionistica, atea, del
mondo ritorna in modo nuovo la stessa visione. Anche se, in tale concezione, la
visione dell'essere è monistica, si suppone che l'essere come tale dall'inizio
porti in se il male e il bene. L'essere stesso non è semplicemente buono, ma
aperto al bene e al male. Il male è ugualmente originario come il bene. E la
storia umana svilupperebbe soltanto il modello già presente in tutta
l'evoluzione precedente. Ciò che i cristiani chiamano peccato originale sarebbe
in realtà solo il carattere misto dell'essere, una mescolanza di bene e di male
che, secondo questa teoria, apparterrebbe alla stessa stoffa dell'essere. È una
visione in fondo disperata: se è così, il male è invincibile. Alla fine conta
solo il proprio interesse. E ogni progresso sarebbe necessariamente da pagare
con un fiume di male e chi volesse servire al progresso dovrebbe accettare di
pagare questo prezzo. La politica, in fondo, è impostata proprio su queste
premesse: e ne vediamo gli effetti. Questo pensiero moderno può, alla fine, solo
creare tristezza e cinismo.
E così domandiamo di nuovo: che cosa dice la fede,
testimoniata da san Paolo? Come primo punto, essa
conferma il fatto della competizione tra le due nature, il fatto di
questo male la cui ombra pesa su tutta la creazione. Abbiamo sentito il capitolo
7 della Lettera ai Romani, potremmo aggiungere il capitolo 8. Il male
esiste, semplicemente. Come spiegazione, in contrasto con i dualismi e i monismi
che abbiamo brevemente considerato e trovato desolanti, la fede ci dice:
esistono due misteri di luce e un mistero di notte, che è però avvolto dai
misteri di luce. Il primo mistero di luce è questo: la fede ci dice che non ci
sono due principi, uno buono e uno cattivo, ma c'è un solo principio, il Dio
creatore, e questo principio è buono, solo buono, senza ombra di male. E perciò
anche l'essere non è un misto di bene e male;
l'essere come tale è buono e perciò è bene essere, è bene vivere. Questo è il
lieto annuncio della fede: c'è solo una fonte buona, il Creatore. E
perciò vivere è un bene, è buona cosa essere un uomo, una donna, è buona la
vita. Poi segue un mistero di buio, di notte.
Il male non viene dalla fonte dell'essere stesso, non è
ugualmente originario. Il male viene da una libertà creata, da una libertà
abusata.
Come è stato possibile, come è successo? Questo
rimane oscuro. Il male non è logico. Solo Dio e il bene sono logici, sono
luce. Il male rimane misterioso. Lo si è presentato in grandi immagini,
come fa il capitolo 3 della Genesi, con quella visione dei due alberi, del
serpente, dell'uomo peccatore. Una grande immagine che ci fa indovinare, ma
non può spiegare quanto è in se stesso illogico. Possiamo indovinare,
non spiegare; neppure possiamo raccontarlo come un fatto accanto
all'altro, perché è una realtà più profonda. Rimane un mistero di buio,
di notte. Ma si aggiunge subito un mistero di luce. Il male viene da una
fonte subordinata. Dio con la sua luce è più forte. E perciò il male può essere
superato. Perciò la creatura, l'uomo, è sanabile. Le visioni dualiste, anche
il monismo dell'evoluzionismo, non possono dire che l'uomo sia sanabile; ma se
il male viene solo da una fonte subordinata, rimane vero che l'uomo è
sanabile. E il Libro della Sapienza dice: "Hai creato sanabili le nazioni" (1,
14 volg). E finalmente, ultimo punto,
l’uomo non è solo sanabile, è sanato di fatto. Dio ha
introdotto la guarigione. È entrato in persona nella storia. Alla permanente
fonte del male ha opposto una fonte di puro bene. Cristo crocifisso e risorto,
nuovo Adamo, oppone al fiume sporco del male un fiume di luce. E questo
fiume è presente nelle storia: vediamo i santi, i grandi santi ma anche gli
umili santi, i semplici fedeli. Vediamo che il fiume di luce che viene da Cristo
è presente, è forte.
Fratelli e sorelle, è tempo di Avvento. Nel
linguaggio della Chiesa la parola Avvento ha due significati: presenza e attesa.
Presenza: la luce è presente, Cristo è il nuovo Adamo, è con noi e in mezzo a
noi. Già splende la luce e dobbiamo aprire gli occhi del cuore per vedere la
luce e per introdurci nel fiume della luce. Soprattutto essere grati del fatto
che Dio stesso è entrato nella storia come nuova fonte di bene. Ma Avvento dice
anche attesa. La notte oscura del male è ancora forte. E perciò preghiamo
nell'Avvento con l'antico popolo di Dio: «Rorate caeli desuper». E
preghiamo con insistenza: vieni Gesù; vieni, dà forza alla luce e al bene; vieni
dove domina la menzogna, l'ignoranza di Dio, la violenza, l'ingiustizia; vieni,
Signore Gesù, dà forza al bene nel mondo e aiutaci a essere portatori della tua
luce, operatori della pace, testimoni della verità. Vieni Signore Gesù!
16) LA COMUNIONE CON
CRISTO 10.12.2008
Cari fratelli e sorelle,
seguendo
san Paolo abbiamo visto nella catechesi di mercoledì scorso due cose. La prima è
che la nostra storia umana dagli inizi è inquinata dall'abuso della libertà
creata, che intende emanciparsi dalla Volontà divina. E così non trova la vera
libertà, ma si oppone alla verità e falsifica, di conseguenza, le nostre realtà
umane. Falsifica soprattutto le relazioni fondamentali: quella con Dio, quella
tra uomo e donna, quella tra l'uomo e la terra. Abbiamo detto che questo
inquinamento della nostra storia si diffonde sull’intero suo tessuto e che
questo difetto ereditato è andato aumentando ed è ora visibile dappertutto.
Questa era la prima cosa. La seconda è questa: da san Paolo abbiamo imparato che
esiste un nuovo inizio nella storia e della storia in Gesù Cristo,
Colui che è uomo e Dio. Con Gesù, che viene da Dio, comincia una nuova storia
formata dal suo sì al Padre, fondata perciò non sulla superbia di una falsa
emancipazione, ma sull'amore e sulla verità.
Ma adesso si pone la questione: come possiamo
entrare noi in questo nuovo inizio, in questa nuova storia? Come questa nuova
storia arriva a me? Con la prima storia inquinata siamo inevitabilmente
collegati per la nostra discendenza biologica, appartenendo noi tutti all'unico
corpo dell'umanità. Ma la comunione con Gesù, la nuova nascita per entrare a
far parte della nuova umanità, come si realizza? Come arriva Gesù nella mia
vita, nel mio essere? La risposta fondamentale di san Paolo, di tutto il Nuovo
Testamento è: arriva per opera dello Spirito Santo. Se la prima storia si
avvia, per così dire, con la biologia, la seconda si avvia nello Spirito
Santo, lo Spirito del Cristo risorto. Questo Spirito ha creato a
Pentecoste l'inizio della nuova umanità, della nuova comunità, la Chiesa, il
Corpo di Cristo.
Però dobbiamo essere ancora più concreti: questo
Spirito di Cristo, lo Spirito Santo, come può diventare Spirito mio? La
risposta è che ciò avviene in tre modi, intimamente
connessi l'uno con l'altro.
* Il primo è questo:
lo Spirito di Cristo bussa alle porte del mio cuore, mi tocca interiormente. Ma
poiché la nuova umanità deve essere un vero corpo, poiché lo Spirito deve
riunirci e realmente creare una comunità, poiché è caratteristico del nuovo
inizio il superare le divisioni e creare l’aggregazione dei dispersi, questo
Spirito di Cristo si serve di due elementi di aggregazione visibile:
della Parola dell'annuncio e dei Sacramenti,
particolarmente del Battesimo e dell'Eucaristia. Nella Lettera ai Romani,
dice san Paolo: «Se con la tua bocca proclamerai: ‘Gesù è il Signore’, e con il
tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (10, 9),
entrerai cioè nella nuova storia, storia di vita e non di morte. Poi san Paolo
continua: «Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come
crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno
parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati
inviati?» (Rm 10, 14-15). In un successivo passo dice ancora: «La fede
viene dall'ascolto» (Rm 10,17). La fede non è prodotto del nostro
pensiero, della nostra riflessione, è qualcosa di nuovo che non possiamo
inventare, ma solo ricevere come dono, come una novità prodotta da Dio.
E la fede non viene dalla lettura, ma dall'ascolto.
Non è una cosa soltanto interiore, ma una relazione con Qualcuno. Suppone un
incontro con l'annuncio, suppone l'esistenza dell'altro che annuncia e crea
comunione.
E finalmente
l'annuncio: colui che annuncia non parla da
sé, ma è inviato. Sta entro una struttura di missione che comincia con Gesù
inviato dal Padre, passa agli apostoli - la parola apostoli significa «inviati»
- e continua nel ministero, nelle missioni trasmesse dagli apostoli. Il nuovo
tessuto della storia appare in questa struttura delle missioni, nella quale
sentiamo ultimamente parlare Dio stesso, la sua Parola personale, il Figlio
parla con noi, arriva fino a noi. La Parola si è fatta carne, Gesù, per creare
realmente una nuova umanità. Perciò la parola dell'annuncio diventa Sacramento
nel Battesimo, che è rinascita dall'acqua e dallo Spirito, come dirà san
Giovanni. Nel sesto capitolo della Lettera ai Romani san Paolo parla in
modo molto profondo del Battesimo. Abbiamo sentito il testo. Ma forse è utile
ripeterlo: «Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo
battezzati nella sua morte? Per mezzo del Battesimo siamo dunque stati sepolti
insieme a Lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo
della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova»
(6,3-4).
In questa catechesi, naturalmente, non posso entrare
in una interpretazione dettagliata di questo testo non facile. Vorrei brevemente
notare solo tre cose. A) La prima: «siamo stati
battezzati» è un passivo. Nessun può battezzare se stesso, ha bisogno
dell'altro. Nessuno può farsi cristiano da se stesso. Divenire cristiani è un
processo passivo. Solo da un altro possiamo essere fatti cristiani. E questo
"altro" che ci fa cristiani, ci dà il dono della fede, è in prima istanza la
comunità dei credenti, la Chiesa. Dalla Chiesa riceviamo la fede, il Battesimo.
Senza lasciarci formare da questa comunità non diventiamo cristiani. Un
cristianesimo autonomo, autoprodotto, è una contraddizione in sé. In prima
istanza, questo altro è la comunità dei credenti, la Chiesa, ma in seconda
istanza anche questa comunità non agisce da sé, secondo le proprie idee e
desideri. Anche la comunità vive nello stesso processo passivo: solo
Cristo può costituire la Chiesa. Cristo è il vero donatore dei Sacramenti.
Questo è il primo punto: nessuno battezza se stesso, nessuno fa se stesso
cristiano. Cristiani lo diventiamo.
* La seconda cosa è questa: il
Battesimo è più che un lavaggio. È morte e risurrezione. Paolo stesso parlando
nella Lettera ai Galati della svolta della sua vita realizzatasi
nell'incontro con Cristo risorto, la descrive con la parola: sono morto.
Comincia in quel momento realmente una nuova vita. Divenire cristiani è più che
un’operazione cosmetica, che aggiungerebbe qualche cosa di bello a un’esistenza
già più o meno completa. È un nuovo inizio, è rinascita: morte e risurrezione.
Ovviamente nella risurrezione riemerge quanto era buono nell'esistenza
precedente.
* La terza cosa è: la materia fa parte
del Sacramento. Il cristianesimo non è una realtà puramente spirituale. Implica
il corpo. Implica il cosmo. Si estende verso la nuova terra e i nuovi cieli.
Ritorniamo all'ultima parola del testo di san Paolo: così - dice - possiamo
"camminare in una nuova vita". Elemento di un esame di coscienza per noi tutti:
camminare in una nuova vita. Questo per il Battesimo.
Veniamo adesso al Sacramento dell'Eucaristia. Ho già
mostrato in altre catechesi con quale profondo rispetto san Paolo trasmetta
verbalmente la tradizione sull'Eucaristia che ha ricevuto dagli stessi testimoni
dell'ultima notte. Trasmette queste parole come un prezioso tesoro affidato alla
sua fedeltà. E così sentiamo in queste parole realmente i testimoni dell'ultima
notte. Sentiamo le parole dell'Apostolo: «Io infatti ho ricevuto dal Signore
quello che a mia volta vi ho trasmesso. Il Signore Gesù nella notte in cui
veniva tradito prese del pane e dopo aver reso grazie lo spezzò e disse: questo
è il mio Corpo che è per voi, fate questo in memoria di me. Allo stesso modo
dopo aver cenato prese anche il calice dicendo: questo calice è la nuova
alleanza nel mio sangue, fate questo ogni volta che ne bevete in memoria di me»
(1 Cor 11,23-25). È un testo inesauribile. Anche qui, in questa
catechesi, solo due brevi osservazioni. Paolo trasmette le parole del Signore
sul calice così: questo calice è «la nuova alleanza nel mio sangue». In queste
parole si nasconde un accenno a due testi fondamentali dell'Antico Testamento.
Il primo accenno è alla promessa di una nuova alleanza nel Libro del profeta
Geremia. Gesù dice ai discepoli e dice a noi: adesso, in questa ora, con me
e con la mia morte si realizza la nuova alleanza; dal mio sangue comincia nel
mondo questa nuova storia dell'umanità. Ma è presente, in queste parole, anche
un accenno al momento dell'alleanza del Sinai, dove Mosè aveva detto: "Ecco il
sangue dell'alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di queste
parole" (Es 24,8). Là si trattava di sangue di animali. Il sangue degli
animali poteva essere solo espressione di un desiderio, attesa del vero
sacrificio, del vero culto. Col dono del calice il Signore ci dona il vero
sacrificio. L'unico vero sacrificio è l'amore del Figlio. Col dono di questo
amore, amore eterno, il mondo entra nella nuova alleanza. Celebrare l'Eucaristia
significa che Cristo ci dà se stesso, il suo amore, per conformarci a se stesso
e per creare così il mondo nuovo.
Il secondo importante
aspetto della dottrina sull'Eucaristia appare nella stessa prima Lettera ai
Corinzi dove san Paolo dice: «Il calice della benedizione che noi
benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? Il pane che noi
spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché vi è un solo
pane, noi siamo, benché molti, un corpo solo: tutti infatti partecipiamo
all'unico pane» (10, 16-17). In queste parole appare ugualmente il carattere
personale e il carattere sociale del Sacramento dell'Eucaristia. Cristo si
unisce personalmente ad ognuno di noi, ma lo stesso Cristo si unisce anche con
l'uomo e con la donna accanto a me. E il pane è per me e anche per l'altro. Così
Cristo ci unisce tutti a sé e unisce tutti noi, l’uno con l'altro. Riceviamo
nella comunione Cristo. Ma Cristo si unisce ugualmente con il mio prossimo:
Cristo e il prossimo sono inseparabili nell'Eucaristia. E così noi tutti siamo
un solo pane, un solo corpo. Un’Eucaristia senza solidarietà con gli altri è
un’Eucaristia abusata. E qui siamo anche alla radice e nello stesso tempo al
centro della dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo, del Cristo risorto.
Vediamo anche tutto il realismo di questa
dottrina. Cristo ci dà nell'Eucaristia il suo corpo,
dà se stesso nel suo corpo e così ci fa suo corpo, ci unisce al suo corpo
risorto. Se l'uomo mangia pane normale, questo pane nel processo della
digestione diventa parte del suo corpo, trasformato in sostanza di vita umana.
Ma nella santa Comunione si realizza il processo inverso. Cristo, il Signore, ci
assimila a sé, ci introduce nel suo Corpo glorioso e così noi tutti insieme
diventiamo Corpo suo. Chi legge solo il cap. 12 della prima Lettera ai
Corinzi e il cap. 12 della Lettera ai Romani potrebbe pensare che la
parola sul Corpo di Cristo come organismo dei carismi sia solo una specie di
parabola sociologico-teologica. Realmente
nella politologia romana questa parabola del corpo con diverse membra che
formano una unità era usata per lo Stato stesso, per dire che lo Stato è un
organismo nel quale ognuno ha la sua funzione, la molteplicità e diversità delle
funzioni formano un corpo e ognuno ha il suo posto. Leggendo solo il cap. 12
della prima Lettera ai Corinzi si potrebbe pensare che Paolo si limiti a
trasferire soltanto questo alla Chiesa, che anche qui si tratti solo di una
sociologia della Chiesa. Ma tenendo presente questo capitolo decimo vediamo che
il realismo della Chiesa è ben altro, molto più profondo e vero di quello di uno
Stato-organismo. Perché realmente Cristo dà il suo corpo e ci fa suo corpo.
Diventiamo realmente uniti col corpo risorto di Cristo, e così uniti l'uno con
l'altro. La Chiesa non è solo una corporazione come lo Stato, è un corpo. Non è
semplicemente un’organizzazione, ma un vero organismo.
Alla fine, solo una brevissima parola sul Sacramento
del matrimonio. Nella Lettera ai Corinzi si trovano solo alcuni accenni,
mentre la Lettera agli Efesini ha realmente sviluppato una profonda
teologia del Matrimonio. Paolo definisce qui il Matrimonio «mistero grande». Lo
dice «in riferimento a Cristo e alla sua Chiesa» (5, 32). Va rilevata in questo
passo una reciprocità che si configura in una dimensione verticale. La
sottomissione vicendevole deve adottare il linguaggio dell'amore, che ha il suo
modello nell'amore di Cristo verso la Chiesa. Questo rapporto Cristo-Chiesa
rende primario l'aspetto teologale dell'amore matrimoniale, esalta la relazione
affettiva tra gli sposi. Un autentico matrimonio sarà ben vissuto se nella
costante crescita umana e affettiva si sforzerà di restare sempre legato
all'efficacia della Parola e al significato del Battesimo. Cristo ha santificato
la Chiesa, purificandola per mezzo del lavacro dell'acqua, accompagnato dalla
Parola. La partecipazione al corpo e sangue del Signore non fa altro che
cementare, oltre che visibilizzare, una unione resa per grazia indissolubile.
E alla fine sentiamo la parola di san Paolo ai
Filippesi: "Il Signore è vicino" (Fil 4,5). Mi sembra che abbiamo capito
che, mediante la Parola e mediante i Sacramenti, in tutta la nostra vita il
Signore è vicino. Preghiamolo affinché possiamo sempre più essere toccati
nell'intimo del nostro essere da questa sua vicinanza, affinché nasca la gioia –
quella gioia che nasce quando Gesù è realmente vicino.
17) IL CULTO
SPIRITUALE 7.1.2009
Cari fratelli e sorelle,
in questa
prima Udienza generale del 2009, desidero formulare a tutti voi fervidi auguri
per il nuovo anno appena iniziato. Ravviviamo in noi l’impegno di aprire a
Cristo la mente ed il cuore, per essere e vivere da veri amici suoi. La sua
compagnia farà sì che quest’anno, pur con le sue inevitabili difficoltà, sia un
cammino pieno di gioia e di pace. Solo, infatti, se resteremo uniti a Gesù,
l’anno nuovo sarà buono e felice.
L’impegno di unione con Cristo è l’esempio che ci
offre anche san Paolo. Proseguendo le catechesi a lui dedicate, ci soffermiamo
oggi a riflettere su uno degli aspetti importanti del
suo pensiero, quello riguardante il culto che i cristiani sono chiamati a
esercitare. In passato, si amava parlare di una tendenza piuttosto
anti-cultuale dell’Apostolo, di una "spiritualizzazione" dell’idea del culto.
Oggi comprendiamo meglio che Paolo vede nella croce di Cristo una svolta
storica, che trasforma e rinnova radicalmente la realtà del culto. Ci sono
soprattutto tre testi della Lettera ai Romani nei quali appare questa
nuova visione del culto.
1. In Rm
3,25, dopo aver parlato della "redenzione
realizzata da Cristo Gesù", Paolo continua con una formula per noi misteriosa e
dice così: Dio lo "ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per
mezzo della fede, nel suo sangue". Con questa espressione per noi piuttosto
strana – "strumento di espiazione" – san Paolo accenna al cosiddetto
"propiziatorio" dell’antico tempio, cioè il coperchio dell’arca dell’alleanza,
che era pensato come punto di contatto tra Dio e l’uomo, punto della misteriosa
presenza di Lui nel mondo degli uomini. Questo "propiziatorio", nel grande
giorno della riconciliazione - "yom kippur" - veniva asperso col sangue
di animali sacrificati - sangue che simbolicamente portava i peccati dell’anno
trascorso in contatto con Dio e così i peccati gettati nell’abisso della bontà
divina erano quasi assorbiti dalla forza di Dio, superati, perdonati. La vita
cominciava di nuovo.
San Paolo, accenna a questo rito e dice: Questo rito
era espressione del desiderio che si potessero realmente mettere tutte le
nostre colpe nell’abisso della misericordia divina e così farle scomparire.
Ma col sangue di animali non si realizza questo processo. Era necessario un
contatto più reale tra colpa umana ed amore divino. Questo contatto ha avuto
luogo nella croce di Cristo. Cristo, Figlio vero di Dio, fattosi uomo vero, ha
assunto in se tutta la nostra colpa. Egli stesso è il luogo di contatto tra
miseria umana e misericordia divina; nel suo cuore si scioglie la massa triste
del male compiuto dall’umanità, e si rinnova la vita.
Rivelando questo cambiamento, san Paolo ci dice: Con
la croce di Cristo - l’atto supremo dell’amore divino divenuto amore umano - il
vecchio culto con i sacrifici degli animali nel tempio di Gerusalemme è finito.
Questo culto simbolico, culto di desiderio, è adesso sostituito
dal culto reale: l’amore di Dio incarnato in Cristo e portato alla
sua completezza nella morte sulla croce. Quindi non è questa una
spiritualizzazione di un culto reale, ma al contrario il culto reale, il vero
amore divino-umano, sostituisce il culto simbolico e provvisorio. La croce di
Cristo, il suo amore con carne e sangue è il culto reale, corrispondendo alla
realtà di Dio e dell’uomo. Già prima della distruzione esterna del tempio per
Paolo l’era del tempio e del suo culto è finita: Paolo si trova qui in perfetta
consonanza con le parole di Gesù, che aveva annunciato la fine del tempio ed
annunciato un altro tempio "non fatto da mani d’uomo" – il tempio del suo corpo
resuscitato (cfr Mc 14,58; Gv 2,19ss). Questo è il primo testo.
2. Il secondo
testo del quale vorrei oggi parlare si trova nel primo versetto del capitolo 12
della Lettera ai Romani. Lo abbiamo
ascoltato e lo ripeto ancora: "Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia
di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a
Dio; è questo il vostro culto spirituale". In queste parole si verifica un
apparente paradosso: mentre il sacrificio esige di norma la morte della
vittima, Paolo ne parla invece in rapporto alla vita del cristiano.
L'espressione "presentare i vostri corpi", stante il successivo concetto
di sacrificio, assume la sfumatura cultuale di "dare in oblazione, offrire".
L’esortazione a "offrire i corpi" si riferisce all’intera persona;
infatti, in Rm 6, 13 egli invita a "presentare voi stessi". Del resto,
l’esplicito riferimento alla dimensione fisica del cristiano coincide con
l’invito a "glorificare Dio nel vostro corpo" (1 Cor 6,20): si
tratta cioè di onorare Dio nella più concreta esistenza quotidiana, fatta di
visibilità relazionale e percepibile.
Un comportamento del genere viene da Paolo
qualificato come "sacrificio vivente, santo, gradito a Dio". È qui che
incontriamo appunto il vocabolo "sacrificio". Nell'uso corrente
questo termine fa parte di un contesto sacrale e serve a designare lo
sgozzamento di un animale, di cui una parte può essere bruciata in onore
degli dèi e un'altra parte essere consumata dagli offerenti in un banchetto.
Paolo lo applica invece alla vita del cristiano.
Infatti egli qualifica un tale sacrificio servendosi di
tre aggettivi. Il primo – "vivente"
– esprime una vitalità. Il secondo – "santo"
– ricorda l'idea paolina di una santità legata non a luoghi o ad oggetti, ma
alla persona stessa dei cristiani. Il terzo – "gradito
a Dio" – richiama forse la frequente espressione biblica del
sacrificio "in odore di soavità" (cfr Lev 1,13.17; 23,18; 26,31; ecc.).
Subito dopo, Paolo definisce così questo nuovo modo
di vivere: questo è "il vostro culto spirituale".
I commentatori del testo sanno bene che l'espressione greca (tçn logikçn
latreían) non è di facile traduzione. La Bibbia latina traduce:
"rationabile obsequium". La stessa parola "rationabile" appare nella
prima Preghiera eucaristica, il Canone Romano: in esso si prega che Dio accetti
questa offerta come "rationabile". La consueta traduzione italiana "culto
spirituale" non riflette tutte le sfumature del testo greco (e neppure di
quello latino). In ogni caso non si tratta di un culto meno reale, o
addirittura solo metaforico, ma di un culto più
concreto e realistico – un culto nel quale
l’uomo stesso nella sua totalità di un essere dotato di
ragione, diventa adorazione, glorificazione del Dio vivente.
Questa formula paolina, che ritorna poi nella
Preghiera eucaristica romana, è frutto di un lungo sviluppo dell’esperienza
religiosa nei secoli antecedenti a Cristo. In tale esperienza si incontrano
sviluppi teologici dell’Antico Testamento e correnti del pensiero greco. Vorrei
mostrare almeno qualche elemento di questo sviluppo.
I Profeti e molti Salmi criticano fortemente i sacrifici cruenti
del tempio. Dice per esempio il Salmo 50 (49), in cui è Dio che parla:
"Se avessi fame a te non lo direi, mio è il mondo e quanto contiene. Mangerò
forse la carne dei tori, berrò forse il sangue dei capri? Offri a Dio un
sacrificio di lode…" (vv 12–14). Nello stesso senso dice il Salmo
seguente, 51 (50): "..non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li
accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato,
Dio, tu non disprezzi" (vv 18s). Nel Libro di Daniele, al tempo della
nuova distruzione del tempio da parte del regime ellenistico (II secolo a. C.)
troviamo un nuovo passo nella stessa direzione. In mezzo al fuoco – cioè alla
persecuzione, alla sofferenza – Azaria prega così: "Ora non abbiamo più né
principe, né capo, né profeta, né olocausto, né sacrificio, né oblazione, né
incenso, né luogo per presentarti le primizie e trovar misericordia. Potessimo
essere accolti con cuore contrito e con lo spirito umiliato, come olocausti di
montoni e di tori… Tale sia oggi il nostro sacrificio davanti a te e ti sia
gradito …" (Dan 3,38ss). Nella distruzione del santuario e del culto, in
questa situazione di privazione di ogni segno della presenza di Dio, il credente
offre come vero olocausto il cuore contrito – il suo desiderio di Dio. Vediamo
uno sviluppo importante, bello, ma con un pericolo. C’è una
spiritualizzazione, una moralizzazione del culto: il culto diventa
solo cosa del cuore, dello spirito. Ma
manca il corpo, manca la comunità.
Così si capisce per esempio che il Salmo 51 e anche il Libro di
Daniele, nonostante la critica del culto, desiderano il ritorno al tempo dei
sacrifici. Ma si tratta di un tempo rinnovato, un sacrificio rinnovato, in una
sintesi che ancora non era prevedibile, che ancora non si poteva pensare.
Ritorniamo a san Paolo. Egli è erede di questi
sviluppi, del desiderio del vero culto, nel quale l’uomo stesso diventi
gloria di Dio, adorazione vivente con tutto il suo essere. In questo
senso egli dice ai Romani: "Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente…: è
questo il vostro culto spirituale" (Rm 12,1). Paolo ripete così quanto
aveva già indicato nel capitolo 3: Il tempo dei
sacrifici di animali, sacrifici di sostituzione, è finito. È venuto il tempo del
vero culto. Ma qui c’è anche il pericolo di un malinteso:
si potrebbe facilmente interpretare questo nuovo culto in un senso
moralistico: offrendo la nostra vita facciamo noi il vero culto. In
questo modo il culto con gli animali sarebbe sostituito dal moralismo:
l’uomo stesso farebbe tutto da sé con il suo sforzo morale. E questo certamente
non era l’intenzione di san Paolo. Ma rimane la questione: Come dobbiamo dunque
interpretare questo "culto spirituale, ragionevole"? Paolo suppone sempre che
noi siamo divenuti "uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28), che siamo morti nel
battesimo (cfr Rm 1) e viviamo adesso con Cristo, per Cristo, in Cristo.
In questa unione - e solo così - possiamo divenire in Lui e con Lui "sacrificio
vivente", offrire il "culto vero". Gli animali sacrificati avrebbero dovuto
sostituire l’uomo, il dono di sé dell’uomo, e non potevano. Gesù Cristo, nella
sua donazione al Padre e a noi, non è una sostituzione, ma porta realmente in sé
l’essere umano, le nostre colpe ed il nostro desiderio; ci rappresenta
realmente, ci assume in sé. Nella comunione con Cristo, realizzata nella fede e
nei sacramenti, diventiamo, nonostante tutte le nostre insufficienze, sacrificio
vivente: si realizza il "culto vero".
Questa sintesi sta al fondo del Canone romano in cui
si prega affinché questa offerta diventi "rationabile" – che si realizzi
il culto spirituale. La Chiesa sa che nella Santissima Eucaristia
l’autodonazione di Cristo, il suo sacrificio vero diventa presente. Ma la Chiesa
prega che la comunità celebrante sia realmente unita con Cristo, sia
trasformata; prega perché noi stessi diventiamo quanto non possiamo essere con
le nostre forze: offerta "rationabile" che piace a Dio. Così la Preghiera
eucaristica interpreta in modo giusto le parole di san Paolo. Sant’Agostino ha
chiarito tutto questo in modo meraviglioso nel 10° libro della sua Città di
Dio. Cito solo due frasi. "Questo è il sacrificio dei cristiani: pur essendo
molti siamo un solo corpo in Cristo"… "Tutta la comunità (civitas)
redenta, cioè la congregazione e la società dei santi, è offerta a Dio mediante
il Sommo Sacerdote che ha donato se stesso" (10,6: CCL 47, 27 ss).
3. Alla fine
ancora una brevissima parola sul terzo testo della Lettera ai Romani
concernente il nuovo culto. San Paolo dice
così nel cap. 15: "La grazia che mi è stata concessa da parte di Dio di essere
"liturgo" di Cristo Gesù per i pagani, di essere sacerdote (hierourgein)
del vangelo di Dio perché i pagani divengano una oblazione gradita, santificata
nello Spirito Santo" (15, 15s). Vorrei sottolineare solo due aspetti
di questo testo meraviglioso e quanto alla terminologia unica
nelle lettere paoline. Innanzitutto, san Paolo interpreta la sua azione
missionaria tra i popoli del mondo per costruire la Chiesa universale come
azione sacerdotale. Annunciare il Vangelo per unire i popoli nella
comunione del Cristo risorto è una azione "sacerdotale". L’apostolo del Vangelo
è un vero sacerdote, fa ciò che è il centro del sacerdozio:
prepara il vero sacrificio. E poi il secondo aspetto: la meta dell’azione
missionaria è – così possiamo dire – la liturgia cosmica: che i popoli uniti in
Cristo, il mondo, diventi come tale gloria di Dio, "oblazione gradita,
santificata nello Spirito Santo". Qui appare l’aspetto dinamico,
l’aspetto della speranza nel concetto paolino del culto: l’autodonazione
di Cristo implica la tendenza di attirare tutti alla comunione del suo Corpo, di
unire il mondo. Solo in comunione con Cristo, l’Uomo esemplare, uno con
Dio, il mondo diventa così come tutti noi lo desideriamo: specchio dell’amore
divino. Questo dinamismo è presente sempre nell’Eucaristia – questo dinamismo
deve ispirare e formare la nostra vita. E con questo dinamismo cominciamo il
nuovo anno. Grazie per la vostra pazienza.
18) LE LETTERE AI
COLOSSESI E AGLI EFESINI 14.1.2009
Cari fratelli e sorelle,
tra le Lettere
dell'epistolario paolino, ce ne sono due, quelle ai Colossesi e agli Efesini,
che in una certa misura si possono considerare gemelle. Infatti, l'una e l'altra
hanno dei modi di dire che si trovano solo in esse, ed è stato calcolato che più
di un terzo delle parole della Lettera ai Colossesi si trova anche in
quella agli Efesini. Per esempio, mentre in Colossesi si legge
letteralmente l'invito a "esortarvi con salmi, inni, canti spirituali, con
gratitudine cantando a Dio con i vostri cuori" (Col 3,16), in Efesini
si raccomanda ugualmente di "parlare tra di voi con salmi e inni e canti
spirituali, cantando e lodando il Signore con il vostro cuore" (Ef 5,19).
Potremmo meditare su queste parole: il cuore deve cantare, e così anche la
voce, con salmi e inni per entrare nella tradizione della preghiera di tutta la
Chiesa dell'Antico e del Nuovo Testamento; impariamo così ad essere insieme
con noi e tra noi, e con Dio. Inoltre, in entrambe le Lettere si trova un
cosiddetto "codice domestico", assente nelle altre Lettere paoline, cioè
una serie di raccomandazioni rivolte a mariti e mogli, a genitori e figli, a
padroni e schiavi (cfr rispettivamente Col 3,18-4,1 e Ef
5,22-6,9).
Più importante ancora è constatare che solo in
queste due Lettere è attestato il titolo di "capo",
kefalé, dato a Gesù Cristo. E questo titolo viene
impiegato a un doppio livello. In un primo senso, Cristo è inteso
come capo della Chiesa (cfr Col
2,18-19 e Ef 4,15-16). Ciò significa due cose: innanzitutto, che egli è
il governante, il dirigente, il responsabile che guida la comunità cristiana
come suo leader e suo Signore (cfr Col 1,18: "Egli è il capo del corpo,
cioè della Chiesa"; e poi l’altro significato è che lui è come la testa che
innerva e vivifica tutte le membra del corpo a cui è preposta (infatti, secondo
Col 2,19 bisogna "tenersi fermi al capo, dal quale tutto il corpo riceve
sostentamento e coesione"): cioè non è solo uno che comanda, ma uno che
organicamente è connesso con noi, dal quale viene anche la forza di agire in
modo retto.
In entrambi i casi, la Chiesa è considerata
sottoposta a Cristo, sia per seguire la sua superiore conduzione - i
comandamenti -, sia anche per accogliere tutti gli influssi vitali che da Lui
promanano. I suoi comandamenti non sono solo parole, comandi, ma
sono forze vitali che vengono da Lui e ci
aiutano.
Questa idea è particolarmente sviluppata in Efesini,
dove persino i ministeri della Chiesa, invece di essere ricondotti allo
Spirito Santo (come 1 Cor 12) sono conferiti dal Cristo risorto: è
Lui che "ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come
evangelisti, altri come pastori e maestri" (4,11). Ed è da Lui che "tutto il
corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura,
... riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità"
(4,16). Cristo infatti è tutto teso a "farsi comparire davanti la sua Chiesa
tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e
immacolata" (Ef 5,27). Con questo ci dice che
la forza con la quale costruisce la Chiesa, con la quale guida la Chiesa, con la
quale dà anche la giusta direzione alla Chiesa, è proprio il suo amore.
Quindi il primo significato è Cristo Capo della
Chiesa: sia quanto alla conduzione, sia, soprattutto, quanto alla
ispirazione e vitalizzazione organica in
virtù del suo amore. Poi, in un secondo senso, Cristo è
considerato non solo come capo della Chiesa, ma come
capo delle potenze celesti e del cosmo intero.
Così in Colossesi leggiamo che Cristo "ha privato della loro forza i
principati e le potestà e ne ha fatto pubblico spettacolo dietro al corteo
trionfale" di Lui (2,15). Analogamente in Efesini troviamo scritto che,
con la sua risurrezione, Dio pose Cristo "al di sopra di ogni principato e
autorità, di ogni potenza e dominazione e di ogni altro nome che si possa
nominare non solo nel secolo presente ma anche in quello futuro" (1,21). Con
queste parole le due Lettere ci consegnano un messaggio altamente
positivo e fecondo. Questo: Cristo non ha da temere nessun eventuale
concorrente, perché è superiore a ogni qualsivoglia forma di potere che
presumesse di umiliare l'uomo. Solo Lui "ci ha amati e ha dato se stesso per
noi" (Ef 5,2). Perciò, se siamo uniti a
Cristo, non dobbiamo temere nessun nemico e nessuna avversità; ma ciò significa
dunque che dobbiamo tenerci ben saldi a Lui, senza allentare la presa!
Per il mondo pagano,
che credeva in un mondo pieno di spiriti, in gran parte pericolosi e contro i
quali bisognava difendersi, appariva come una vera liberazione l'annuncio che
Cristo era il solo vincitore e che chi era con Cristo non aveva da temere
nessuno. Lo stesso vale anche per il paganesimo di
oggi, poiché anche gli attuali seguaci di simili ideologie vedono il
mondo pieno di poteri pericolosi. A costoro occorre annunciare che Cristo è il
vincitore, così che chi è con Cristo, chi resta unito a Lui, non deve temere
niente e nessuno. Mi sembra che questo sia importante anche per noi, che
dobbiamo imparare a far fronte a tutte le paure, perchè Lui è sopra ogni
dominazione, è il vero Signore del mondo.
Addirittura il cosmo intero è sottoposto a Lui, e a
Lui converge come al proprio capo. Sono celebri le parole della Lettera agli
Efesini, che parla del progetto di Dio di "ricapitolare in Cristo tutte le
cose, quelle del cielo e quelle della terra" (1,10). Analogamente nella
Lettera ai Colossesi si legge che "per mezzo di Lui sono state create tutte
le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle
invisibili" (1,16) e che "con il sangue della sua croce ... ha rappacificato le
cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli" (1,20). Quindi non c’è, da una
parte, il grande mondo materiale e dall'altra questa piccola realtà della storia
della nostra terra, il mondo delle persone: tutto è uno in Cristo. Egli è il
capo del cosmo; anche il cosmo è creato da Lui, è creato per noi in quanto siamo
uniti a Lui. È una visione razionale e personalistica dell'universo.
E direi una visione più universalistica di questa non
era possibile concepire, ed essa conviene soltanto al Cristo risorto.
Cristo è il Pantokrátor, a cui sono sottoposte tutte le cose: il pensiero
va appunto al Cristo Pantocratòre, che riempie il catino absidale delle chiese
bizantine, a volte raffigurato seduto in alto sul mondo intero o addirittura su
di un arcobaleno per indicare la sua equiparazione a Dio stesso, alla cui destra
è assiso (cfr Ef 1,20; Col 3,1), e quindi anche la sua
ineguagliabile funzione di conduttore dei destini umani.
Una visione del genere è concepibile solo da parte
della Chiesa, non nel senso che essa voglia indebitamente appropriarsi di ciò
che non le spetta, ma in un altro duplice senso: sia in quanto la Chiesa
riconosce che in qualche modo Cristo è più grande
di lei, dato che la sua signoria si estende anche al di là dei
suoi confini, e sia in quanto solo la Chiesa è
qualificata come Corpo di Cristo, non il cosmo. Tutto questo
significa che noi dobbiamo considerare positivamente le realtà terrene, poiché
Cristo le ricapitola in sé, e in pari tempo dobbiamo vivere in pienezza la
nostra specifica identità ecclesiale, che è la più omogenea all'identità
di Cristo stesso.
C'è poi anche un concetto speciale, che è tipico di
queste due Lettere, ed è il concetto di "mistero".
Una volta si parla del "mistero della volontà" di Dio (Ef 1,9) e altre
volte del "mistero di Cristo" (Ef 3,4; Col 4,3) o addirittura del
"mistero di Dio, che è Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della
sapienza e della conoscenza" (Col 3,2-3). Esso sta a significare
l'imperscrutabile disegno divino sulle sorti dell'uomo, dei popoli e del mondo.
Con questo linguaggio le due Epistole ci dicono che è in Cristo che si
trova il compimento di questo mistero. Se siamo con Cristo, anche se non
possiamo intellettualmente capire tutto, sappiamo di essere nel nucleo del
"mistero" e sulla strada della verità. È Lui nella sua totalità, e non solo in
un aspetto della sua persona o in un momento della sua esistenza, che reca in sé
la pienezza dell'insondabile piano divino di salvezza. In Lui prende forma
quella che viene chiamata "la multiforme sapienza di Dio" (Ef 3,10),
poiché in Lui "abita corporalmente tutta la pienezza della divinità" (Col
2,9). D'ora in poi, quindi, non è possibile pensare e adorare il beneplacito di
Dio, la sua sovrana disposizione, senza confrontarci personalmente con
Cristo in persona, in cui quel "mistero" si incarna e può essere tangibilmente
percepito. Si perviene così a contemplare la "ininvestigabile ricchezza di
Cristo" (Ef 3,8), che sta oltre ogni umana comprensione. Non che Dio non
abbia lasciato delle impronte del suo passaggio, poiché è Cristo stesso l'orma
di Dio, la sua impronta massima; ma ci si rende conto di "quale sia l'ampiezza,
la lunghezza, l'altezza e la profondità" di questo mistero "che sorpassa ogni
conoscenza" (Ef 3,18-19). Le mere categorie intellettuali qui risultano
insufficienti, e, riconoscendo che molte cose stanno al di là delle nostre
capacità razionali, ci si deve affidare alla contemplazione umile e gioiosa non
solo della mente ma anche del cuore. I Padri della Chiesa, del resto, ci dicono
che l’amore comprende di più che la sola ragione.
Un'ultima parola va detta sul concetto, già
accennato sopra, concernente la Chiesa come
partner sponsale di Cristo. Nella seconda Lettera ai Corinzi
l’apostolo Paolo aveva paragonato la comunità cristiana a una fidanzata,
scrivendo così: "Io provo per voi una specie di gelosia divina, avendovi
promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo" (2
Cor 11,2). La Lettera agli Efesini sviluppa quest’immagine,
precisando che la Chiesa non è solo una promessa sposa, ma è la reale sposa
di Cristo. Egli, per così dire, se l’è conquistata, e lo ha fatto a prezzo della
sua vita: come dice il testo, "ha dato se stesso per lei" (Ef 5,25).
Quale dimostrazione d'amore può essere più grande di
questa? Ma, in più, egli è preoccupato per la sua bellezza: non
solo di quella già acquisita con il battesimo, ma anche di quella che deve
crescere ogni giorno grazie ad una vita ineccepibile, "senza ruga né macchia",
nel suo comportamento morale (cfr Ef 5,26-27). Da qui alla comune
esperienza del matrimonio cristiano il passo è breve; anzi, non è neppure ben
chiaro quale sia per l'autore della Lettera il punto di riferimento
iniziale: se sia il rapporto Cristo-Chiesa, alla
cui luce pensare l'unione dell'uomo e della donna, oppure se sia il dato
esperienziale dell'unione coniugale, alla cui luce pensare il rapporto tra
Cristo e la Chiesa. Ma ambedue gli aspetti si illuminano
reciprocamente: impariamo che cosa è il matrimonio nella luce della comunione di
Cristo e della Chiesa, impariamo come Cristo si unisce a noi pensando al mistero
del matrimonio. In ogni caso, la nostra Lettera si pone quasi a metà
strada tra il profeta Osea, che indicava il rapporto tra Dio e il suo popolo nei
termini di nozze già avvenute (cfr Os 2,4.16.21), e il Veggente
dell’Apocalisse, che prospetterà l'incontro escatologico tra la Chiesa e
l’Agnello come uno sposalizio gioioso e indefettibile (cfr Ap 19,7-9;
21,9).
Ci sarebbe ancora molto da dire, ma mi sembra che,
da quanto esposto, già si possa capire che queste due Lettere sono una
grande catechesi, dalla quale possiamo imparare non solo come essere buoni
cristiani, ma anche come divenire realmente uomini. Se cominciamo a
capire che il cosmo è l'impronta di Cristo, impariamo il nostro retto
rapporto con il cosmo, con tutti i problemi della conservazione del cosmo.
Impariamo a vederlo con la ragione, ma con una ragione mossa dall’amore, e con
l’umiltà e il rispetto che consentono di agire in modo retto. E se pensiamo che
la Chiesa è il Corpo di Cristo, che Cristo ha dato se stesso per essa, impariamo
come vivere con Cristo l'amore reciproco, l'amore che ci unisce a Dio e che ci
fa vedere nell'altro l'immagine di Cristo, Cristo stesso. Preghiamo il Signore
che ci aiuti a meditare bene la Sacra Scrittura, la sua Parola, e imparare così
realmente a vivere bene.
19) LE LETTERE A
TIMOTEO E TITO 28.1.2009
Cari fratelli e sorelle,
le ultime
Lettere dell'epistolario paolino, delle quali vorrei parlare oggi, vengono
chiamate Lettere Pastorali, perché sono state inviate a singole figure di
Pastori della Chiesa: due a Timoteo e una a Tito, collaboratori stretti di san
Paolo. In Timoteo l’Apostolo vedeva quasi un alter ego; infatti gli
affidò delle missioni importanti (in Macedonia: cfr At 19,22; a
Tessalonica: cfr 1 Ts 3,6-7; a Corinto: cfr 1 Cor 4,17; 16,10-11),
e poi scrisse di lui un elogio lusinghiero: "Io non ho nessuno di animo uguale
come lui, che sappia occuparsi così di cuore delle cose che vi riguardano" (Fil
2,20). Secondo la Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, del IV
secolo, Timoteo fu poi il primo Vescovo di Efeso (cfr 3,4). Quanto a Tito,
anch'egli doveva essere stato molto caro all'Apostolo, che lo definisce
esplicitamente "pieno di zelo... mio compagno e collaboratore" (2 Cor
8,17.23), anzi "mio vero figlio nella fede comune" (Tt 1,4). Egli era
stato incaricato di un paio di missioni molto delicate nella Chiesa di Corinto,
il cui risultato rincuorò Paolo (cfr 2 Cor 7,6-7.13; 8,6). In seguito,
per quanto ci è tramandato, Tito raggiunse Paolo a Nicopoli nell’Epiro, in
Grecia (cfr Tt 3,12), e fu poi da lui inviato in Dalmazia (cfr 2 Tm
4,10). Secondo la Lettera a lui indirizzata, egli risulta poi essere stato
Vescovo di Creta (cfr Tt 1,5).
Le Lettere indirizzate a questi due Pastori occupano
un posto tutto particolare all'interno del Nuovo Testamento. La maggioranza
degli esegeti è oggi del parere che queste Lettere non sarebbero state scritte
da Paolo stesso, ma la loro origine sarebbe nella "scuola di Paolo", e
rifletterebbe la sua eredità per una nuova generazione, forse integrando qualche
breve scritto o parola dell’Apostolo stesso. Ad esempio, alcune parole della
Seconda Lettera a Timoteo appaiono talmente autentiche da poter venire solo dal
cuore e dalla bocca dell’Apostolo.
Senza dubbio la situazione ecclesiale che emerge da
queste Lettere è diversa da quella degli anni centrali della vita di Paolo.
Egli, adesso, in retrospettiva si autodefinisce "araldo, apostolo, e maestro"
dei pagani nella fede e nella verità, (cfr 1 Tm 2,7; 2 Tm 1,11);
si presenta come uno che ha ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo - così
scrive - "ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta la sua magnanimità,
perché io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la
vita eterna". (1 Tm 1,16). Quindi essenziale è che realmente in Paolo,
persecutore convertito dalla presenza del Risorto, appare la magnanimità del
Signore a incoraggiamento per noi, per indurci a sperare e ad avere fiducia
nella misericordia del Signore che, nonostante la nostra piccolezza, può fare
cose grandi. Oltre gli anni centrali della vita di Paolo vanno anche i nuovi
contesti culturali qui presupposti. Infatti si fa allusione all'insorgenza di
insegnamenti da considerare del tutto errati e falsi (cfr 1 Tm 4,1-2;
2 Tm 3,1-5), come quelli di chi pretendeva che il matrimonio non fosse buono
(cfr 1 Tm 4,3a). Vediamo come sia moderna questa preoccupazione, perché
anche oggi si legge a volte la Scrittura come oggetto di curiosità storica e non
come parola dello Spirito Santo, nella quale possiamo sentire la stessa voce del
Signore e conoscere la sua presenza nella storia. Potremmo dire che, con questo
breve elenco di errori presenti nelle tre Lettere, appaiono anticipati alcuni
tratti di quel successivo orientamento erroneo che va sotto il nome di
Gnosticismo (cfr 1 Tm 2,5-6; 2 Tm 3,6-8).
A queste dottrine l'autore fa fronte con due
richiami di fondo. L'uno consiste nel rimando a una lettura spirituale della
Sacra Scrittura (cfr 2 Tm 3,14-17), cioè a una lettura che la
considera realmente come "ispirata" e proveniente dallo Spirito Santo, così che
da essa si può essere "istruiti per la salvezza". Si legge la Scrittura
giustamente ponendosi in colloquio con lo Spirito Santo, così da trarne
luce "per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia" (2 Tm
3,16). In questo senso aggiunge la Lettera: "perché l’uomo di Dio sia completo e
ben preparato per ogni opera buona" (2 Tm 3,17). L’altro richiamo
consiste nell’accenno al buon "deposito" (parathéke): è una
parola speciale delle Lettere pastorali con cui si indica la tradizione della
fede apostolica da custodire con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi.
Questo cosiddetto "deposito" è quindi da considerare come la somma della
Tradizione apostolica e come criterio di fedeltà all’annuncio del Vangelo. E
qui dobbiamo tenere presente che nelle Lettere pastorali come in tutto il Nuovo
Testamento, il termine "Scritture" significa esplicitamente l’Antico Testamento,
perché gli scritti del Nuovo Testamento o non c’erano ancora o non facevano
ancora parte di un canone delle Scritture. Quindi la Tradizione dell’annuncio
apostolico, questo "deposito", è la chiave di lettura per capire la Scrittura,
il Nuovo Testamento. In questo senso, Scrittura e Tradizione, Scrittura e
annuncio apostolico come chiave di lettura, vengono accostate e quasi si
fondono, per formare insieme il "fondamento saldo gettato da Dio" (2 Tm
2,19). L’annuncio apostolico, cioè la Tradizione, è necessario per introdursi
nella comprensione della Scrittura e cogliervi la voce di Cristo. Occorre
infatti essere "tenacemente ancorati alla parola degna di fede, quella conforme
agli insegnamenti ricevuti" (Tt 1,9). Alla base di tutto c'è appunto
la fede nella rivelazione storica della bontà di Dio, il quale in Gesù Cristo ha
manifestato concretamente il suo "amore per gli uomini", un amore che nel
testo originale greco è significativamente qualificato come filanthropía
(Tt 3,4; cfr 2 Tm 1,9-10); Dio ama l’umanità.
Nell’insieme, si vede bene che la comunità cristiana
va configurandosi in termini molto netti, secondo una identità che non solo
prende le distanze da interpretazioni incongrue, ma soprattutto afferma il
proprio ancoraggio ai punti essenziali della fede, che qui è sinonimo di
"verità" (1 Tm 2,4.7; 4,3; 6,5; 2 Tm 2,15.18.25; 3,7.8; 4,4; Tt
1,1.14). Nella fede appare la verità essenziale di
chi siamo noi, chi è Dio, come dobbiamo vivere. E di questa verità
(la verità della fede) la Chiesa è definita "colonna e sostegno" (1 Tm
3,15). In ogni caso, essa resta una comunità aperta, dal respiro universale, la
quale prega per tutti gli uomini di ogni ordine e grado, perché giungano alla
conoscenza della verità: "Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e
giungano alla conoscenza della verità", perché "Gesù Cristo ha dato se stesso in
riscatto per tutti" (1 Tm 2,4-5). Quindi il senso dell’universalità,
anche se le comunità sono ancora piccole, è forte e determinante per queste
Lettere. Inoltre tale comunità cristiana "non parla male di nessuno" e "mostra
ogni dolcezza verso tutti gli uomini" (Tt 3,2). Questa è una prima
componente importante di queste Lettere: l’universalità e la fede come verità,
come chiave di lettura della Sacra Scrittura, dell’Antico Testamento e così si
delinea una unità di annuncio e di Scrittura e una fede viva aperta a tutti e
testimone dell’amore di Dio per tutti.
Un’altra componente tipica di queste Lettere
è la loro riflessione sulla struttura ministeriale della Chiesa. Sono
esse che per la prima volta presentano la triplice suddivisione di
episcopi, presbiteri e diaconi (cfr 1 Tm
3,1-13; 4,13; 2 Tm 1,6; Tt 1,5-9). Possiamo osservare nelle
Lettere pastorali il confluire di due diverse strutture ministeriali e così la
costituzione della forma definitiva del ministero nella Chiesa. Nelle Lettere
paoline degli anni centrali della sua vita, Paolo parla di "episcopi" (Fil
1,1), e di "diaconi": questa è la struttura tipica della Chiesa formatasi
all’epoca nel mondo pagano. Rimane pertanto dominante la figura dell’apostolo
stesso e perciò solo man mano si sviluppano gli altri ministeri.
Se, come detto, nelle Chiese formate nel mondo
pagano abbiamo episcopi e diaconi, e non presbiteri, nelle Chiese
formate nel mondo giudeo-cristiano i presbiteri sono la struttura
dominante. Alla fine nelle Lettere pastorali, le due strutture si uniscono:
appare adesso "l’episcopo", (il vescovo) (cfr 1 Tm 3,2; Tt
1,7), sempre al singolare, accompagnato dall’articolo determinativo "l’episcopo".
E accanto a "l’episcopo" troviamo i presbiteri e i diaconi. Sempre ancora
è determinante la figura dell’Apostolo, ma le tre Lettere, come ho già detto,
sono indirizzate non più a comunità, ma a persone: Timoteo e Tito, i quali da
una parte appaiono come Vescovi, dall’altra cominciano a stare al posto
dell’Apostolo.
Si nota così inizialmente la realtà che più tardi si
chiamerà "successione apostolica". Paolo dice con tono di grande solennità a
Timoteo: "Non trascurare il dono che è in te e che ti è stato conferito,
mediante una parola profetica, con l’imposizione delle mani da parte dei
presbiteri" (1 Tim 4, 14). Possiamo dire che in queste parole appare
inizialmente anche il carattere sacramentale del ministero. E così
abbiamo l’essenziale della struttura cattolica: Scrittura e Tradizione,
Scrittura e annuncio, formano un insieme, ma a questa struttura, per così dire
dottrinale, deve aggiungersi la struttura personale, i successori degli
Apostoli, come testimoni dell’annuncio apostolico.
Importante infine notare che in queste Lettere
la Chiesa comprende se stessa in termini molto umani,
in analogia con la casa e la famiglia.
Particolarmente in 1 Tm 3,2-7 si leggono istruzioni molto dettagliate
sull'episcopo, come queste: egli dev'essere "irreprensibile, non sposato che una
sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non
dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al
denaro. Sappia dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con
ogni dignità, perché se uno non sa dirigere la propria casa, come potrà aver
cura della Chiesa di Dio? Inoltre... è necessario che egli goda buona
testimonianza presso quelli di fuori". Si devono notare qui soprattutto
l'importante attitudine all'insegnamento (cfr anche 1 Tm 5,17), di cui si
trovano echi anche in altri passi (cfr 1 Tm 6,2c; 2 Tm 3,10; Tt
2,1), e poi una speciale caratteristica personale, quella della "paternità".
L’episcopo infatti è considerato padre della comunità cristiana (cfr anche
1 Tm 3,15). Del resto l'idea di Chiesa come "casa di Dio" affonda le sue
radici nell'Antico Testamento (cfr Nm 12,7) e si trova riformulata in
Eb 3,2.6, mentre altrove si legge che tutti i cristiani non sono più
stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e familiari della casa di Dio
(cfr Ef 2,19).
Preghiamo il Signore e san Paolo perché anche
noi, come cristiani, possiamo sempre più caratterizzarci, in rapporto alla
società in cui viviamo, come membri della "famiglia di Dio". E preghiamo anche
perché i pastori della Chiesa acquisiscano sempre più sentimenti paterni,
insieme teneri e forti, nella formazione della Casa di Dio, della comunità,
della Chiesa.
20) LA CONCLUSIONE
DEL CICLO SU S.PAOLO 4.2.2009
Cari fratelli e sorelle,
la serie delle
nostre catechesi sulla figura di san Paolo è arrivata alla sua conclusione:
vogliamo parlare oggi del termine della sua vita terrena. L'antica
tradizione cristiana testimonia unanimemente che la morte di Paolo avvenne in
conseguenza del martirio subito qui a Roma. Gli scritti del Nuovo Testamento non
ci riportano il fatto. Gli Atti degli Apostoli terminano il loro racconto
accennando alla condizione di prigionia dell'Apostolo, che poteva tuttavia
accogliere tutti quelli che andavano da lui (cfr At 28,30-31). Solo
nella seconda Lettera a Timoteo troviamo queste sue parole premonitrici:
"Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso
in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le
vele" (2 Tm 4,6; cfr Fil 2,17). Si usano qui due immagini,
quella cultuale del sacrificio, che aveva usato già nella Lettera
ai Filippesi interpretando il martirio come parte del sacrificio di Cristo, e
quella marinaresca del mollare gli ormeggi: due immagini che
insieme alludono discretamente all'evento della morte e di una morte cruenta.
La prima testimonianza esplicita sulla fine di san
Paolo ci viene dalla metà degli anni 90 del secolo I, quindi poco più di tre
decenni dopo la sua morte effettiva. Si tratta precisamente della Lettera
che la Chiesa di Roma, con il suo Vescovo Clemente I, scrisse alla Chiesa di
Corinto. In quel testo epistolare si invita a tenere davanti agli occhi
l'esempio degli Apostoli, e, subito dopo aver menzionato il martirio di Pietro,
si legge così: "Per la gelosia e la discordia Paolo fu obbligato a mostrarci
come si consegue il premio della pazienza. Arrestato sette volte, esiliato,
lapidato, fu l'araldo di Cristo nell'Oriente e nell'Occidente, e per la sua fede
si acquistò una gloria pura. Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo,
e dopo essere giunto fino all'estremità dell'occidente, sostenne il martirio
davanti ai governanti; così partì da questo mondo e raggiunse il luogo santo,
divenuto con ciò il più grande modello di pazienza" (1 Clem 5,2). La
pazienza di cui parla è espressione della sua comunione alla passione di Cristo,
della generosità e costanza con la quale ha accettato un lungo cammino di
sofferenza, così da poter dire: «Io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo»
(Gal. 6,17). Abbiamo sentito nel testo di san Clemente che Paolo sarebbe
arrivato fino all'«estremità dell'occidente». Si discute se questo sia un
accenno a un viaggio in Spagna che san Paolo avrebbe fatto. Non esiste certezza
su questo, ma è vero che san Paolo nella sua Lettera ai Romani esprime la sua
intenzione di andare in Spagna (cfr Rm 15,24).
Molto interessante invece è nella lettera di
Clemente il succedersi dei due nomi di Pietro e di Paolo, anche se essi verranno
invertiti nella testimonianza di Eusebio di Cesarea del secolo IV, che parlando
dell'imperatore Nerone scriverà: "Durante il suo regno Paolo fu decapitato
proprio a Roma e Pietro vi fu crocifisso. Il racconto è confermato dal nome di
Pietro e di Paolo, che è ancor oggi conservato sui loro sepolcri in quella città"
(Hist. eccl. 2,25,5). Eusebio poi continua riportando l’antecedente
dichiarazione di un presbitero romano di nome Gaio, risalente agli inizi del
secolo II: "Io ti posso mostrare i trofei degli apostoli: se andrai al Vaticano
o sulla Via Ostiense, vi troverai i trofei dei fondatori della Chiesa" (ibid.
2,25,6-7). I "trofei" sono i monumenti sepolcrali, e si tratta delle stesse
sepolture di Pietro e di Paolo, che ancora oggi noi veneriamo dopo due millenni
negli stessi luoghi: sia qui in Vaticano per quanto riguarda san Pietro, sia
nella Basilica di san Paolo Fuori le Mura sulla Via Ostiense per quanto riguarda
l'Apostolo delle genti.
È interessante rilevare che i due grandi Apostoli
sono menzionati insieme. Anche se nessuna fonte antica parla di un loro
contemporaneo ministero a Roma, la successiva coscienza cristiana, sulla base
del loro comune seppellimento nella capitale dell'impero, li assocerà anche come
fondatori della Chiesa di Roma. Così infatti si legge in Ireneo di Lione, verso
la fine del II secolo, a proposito della successione apostolica nelle varie
Chiese: "Poiché sarebbe troppo lungo enumerare le successioni di tutte le
Chiese, prenderemo la Chiesa grandissima e antichissima e a tutti nota, la
Chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo"
(Adv. haer. 3,3,2).
Lasciamo però da parte adesso la figura di Pietro e
concentriamoci su quella di Paolo. Il suo martirio viene raccontato per la prima
volta dagli Atti di Paolo, scritti verso la fine del II secolo.
Essi riferiscono che Nerone lo condannò a morte per decapitazione, eseguita
subito dopo (cfr 9,5). La data della morte varia già nelle fonti antiche, che la
pongono tra la persecuzione scatenata da Nerone stesso dopo l’incendio di Roma
nel luglio del 64 e l’ultimo anno del suo regno, cioè il 68 (cfr Gerolamo, De
viris ill. 5,8). Il calcolo dipende molto dalla cronologia dell’arrivo di
Paolo a Roma, una discussione nella quale non possiamo qui entrare. Tradizioni
successive preciseranno due altri elementi. L’uno, il più leggendario, è che il
martirio avvenne alle Acquae Salviae, sulla Via Laurentina, con
un triplice rimbalzo della testa, ognuno dei quali causò l'uscita di un
fiotto d'acqua, per cui il luogo fu detto fino ad oggi "Tre Fontane" (Atti di
Pietro e Paolo dello Pseudo Marcello, del secolo V). L’altro, in
consonanza con l'antica testimonianza, già menzionata, del presbitero Gaio, è
che la sua sepoltura avvenne non solo "fuori della città... al secondo miglio
sulla Via Ostiense", ma più precisamente "nel podere di Lucina", che era una
matrona cristiana (Passione di Paolo dello Pseudo Abdia, del
secolo VI). Qui, nel secolo IV, l’imperatore Costantino eresse una prima chiesa,
poi grandemente ampliata tra secolo IV e V dagli imperatori Valentiniano II,
Teodosio e Arcadio. Dopo l’incendio del 1800, fu qui eretta l’attuale basilica
di San Paolo fuori le Mura.
In ogni caso, la figura di san Paolo grandeggia ben
al di là della sua vita terrena e della sua morte; egli infatti ha lasciato una
straordinaria eredità spirituale. Anch’egli, come vero discepolo di Gesù,
divenne segno di contraddizione. Mentre tra i cosiddetti "ebioniti" – una
corrente giudeo-cristiana – era considerato come apostata dalla legge mosaica,
già nel libro degli Atti degli Apostoli appare una grande venerazione
verso l’Apostolo Paolo. Vorrei prescindere ora dalla letteratura apocrifa, come
gli Atti di Paolo e Tecla e un epistolario apocrifo tra l’Apostolo Paolo
e il filosofo Seneca. Importante è constatare soprattutto che
ben presto le Lettere di san Paolo entrano nella
liturgia, dove la struttura profeta-apostolo-Vangelo è determinante per la forma
della liturgia della Parola. Così, grazie a questa "presenza" nella
liturgia della Chiesa, il pensiero dell’Apostolo diventa
da subito nutrimento spirituale dei fedeli di tutti i tempi.
E’ ovvio che i Padri della Chiesa e poi tutti i
teologi si sono nutriti delle Lettere di san Paolo e della sua spiritualità.
Egli è così rimasto nei secoli, fino ad oggi, il vero maestro e apostolo delle
genti. Il primo commento patristico, a noi pervenuto, su uno scritto del Nuovo
Testamento è quello del grande teologo alessandrino
Origene, che commenta la Lettera di Paolo ai Romani.
Tale commento purtroppo è conservato solo in parte.
San Giovanni Crisostomo, oltre a commentare le sue Lettere, ha
scritto di lui sette Panegirici memorabili.
Sant'Agostino dovrà a lui il passo decisivo della propria
conversione, e a Paolo egli ritornerà durante tutta la sua vita. Da questo
dialogo permanente con l’Apostolo deriva la sua grande teologia cattolica e
anche per quella protestante di tutti i tempi. San
Tommaso d’Aquino ci ha lasciato un bel commento alle Lettere
paoline, che rappresenta il frutto più maturo dell'esegesi medioevale. Una
vera svolta si verificò nel secolo XVI con la Riforma protestante. Il momento
decisivo nella vita di Lutero fu il
cosiddetto «Turmerlebnis», (1517) nel quale in un
attimo egli trovò una nuova interpretazione della dottrina paolina della
giustificazione. Una interpretazione che lo liberò dagli scrupoli e
dalle ansie della sua vita precedente e gli diede una nuova, radicale fiducia
nella bontà di Dio che perdona tutto senza condizione. Da quel momento Lutero
identificò il legalismo giudeo-cristiano, condannato dall'Apostolo, con l'ordine
di vita della Chiesa cattolica. E la Chiesa gli apparve quindi come espressione
della schiavitù della legge alla quale oppose la libertà del Vangelo. Il
Concilio di Trento, dal 1545 al 1563, interpretò in modo profondo la questione
della giustificazione e trovò nella linea di tutta la tradizione cattolica la
sintesi tra legge e Vangelo, in conformità col messaggio della Sacra Scrittura
letta nella sua totalità e unità.
Il secolo XIX, raccogliendo l’eredità migliore
dell'Illuminismo, conobbe una nuova reviviscenza del paolinismo adesso
soprattutto sul piano del lavoro scientifico sviluppato dall'interpretazione
storico-critica della Sacra Scrittura. Prescindiamo qui dal fatto che anche in
quel secolo, come poi nel secolo ventesimo, emerse una vera e propria
denigrazione di san Paolo. Penso soprattutto a Nietszche che derideva la
teologia dell'umiltà di san Paolo, opponendo ad essa la sua teologia dell'uomo
forte e potente. Però prescindiamo da questo e vediamo la corrente essenziale
della nuova interpretazione scientifica della Sacra Scrittura e del nuovo
paolinismo di tale secolo. Qui è stato sottolineato soprattutto come centrale
nel pensiero paolino il concetto di libertà:
in esso è stato visto il cuore del pensiero paolino, come del resto aveva già
intuito Lutero. Ora però il concetto di libertà veniva reinterpretato nel
contesto del liberalismo moderno. E poi è sottolineata fortemente la
differenziazione tra l'annuncio di san Paolo e l'annuncio di Gesù. E san Paolo
appare quasi come un nuovo fondatore del cristianesimo.
Vero è che in san Paolo la centralità del Regno di Dio,
determinante per l'annuncio di Gesù, viene trasformata nella centralità della
cristologia, il cui punto determinante è il mistero pasquale. E
dal mistero pasquale risultano i Sacramenti del Battesimo e dell'Eucaristia,
come presenza permanente di questo mistero, dal quale cresce il Corpo di Cristo,
si costruisce la Chiesa. Ma direi, senza entrare adesso in dettagli, che proprio
nella nuova centralità della cristologia e del
mistero pasquale si realizza il Regno di Dio, diventa concreto,
presente, operante l'annuncio autentico di Gesù. Abbiamo visto nelle catechesi
precedenti che proprio questa novità paolina è la fedeltà più profonda
all'annuncio di Gesù. Nel progresso dell'esegesi, soprattutto negli ultimi
duecento anni, crescono anche le convergenze tra esegesi cattolica ed esegesi
protestante realizzando così un notevole consenso proprio nel punto che fu
all’origine del massimo dissenso storico. Quindi una
grande speranza per la causa dell'ecumenismo, così centrale per il Concilio
Vaticano II.
Brevemente vorrei alla fine ancora accennare ai vari movimenti
religiosi, sorti in età moderna all’interno della Chiesa cattolica, che si
rifanno al nome di san Paolo. Così è avvenuto nel secolo XVI con la
"Congregazione di san Paolo" detta dei Barnabiti, nel secolo XIX con i
"Missionari di san Paolo" o Paulisti, e nel secolo XX con la poliedrica
"Famiglia Paolina" fondata dal Beato Giacomo Alberione, per non dire
dell'Istituto Secolare della "Compagnia di san Paolo". In buona sostanza, resta
luminosa davanti a noi la figura di un apostolo e di un pensatore cristiano
estremamente fecondo e profondo, dal cui accostamento ciascuno può trarre
giovamento. In uno dei suoi panegirici, San Giovanni Crisostomo instaurò un
originale paragone tra Paolo e Noè, esprimendosi così: Paolo "non mise insieme
delle assi per fabbricare un'arca; piuttosto, invece di unire delle tavole di
legno, compose delle lettere e così strappò di mezzo ai flutti, non due, tre o
cinque membri della propria famiglia, ma l'intera ecumene che era sul punto di
perire" (Paneg. 1,5). Proprio questo può ancora e sempre fare
l’apostolo Paolo. Attingere a lui, tanto al suo esempio apostolico quanto alla
sua dottrina, sarà quindi uno stimolo, se non una garanzia, per il
consolidamento dell’identità cristiana di ciascuno di
noi e per il ringiovanimento dell’intera Chiesa.
Fonte : www.vatican.va ( raccolta testi a cura di Don Angelo Mansi )
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