Angel Rodriguez Luno
COME SI INTRECCIANO SCIENZA E MORALE
Scienza, tecnica e morale
Scienza e morale sono due manifestazioni
essenziali dell'umanità. L'uomo porta in sé un inappagabile desiderio di verità
e di bene. Per quanto riguarda la verità, sono emblematiche le parole con cui
Aristotele dà inizio alla sua Metafisica: l'uomo desidera per natura sapere. Ma
altrettanto viva è la necessità di agire e di fare.
A differenza di quanto succede negli altri
viventi, il nostro agire non si adatta istintivamente e automaticamente alla
situazione in cui ci tro-viamo, alla realtà che ci circonda. Siamo noi stessi
che dobbiamo adattarlo. Si parla perciò di "condotta", perché noi stessi ci
dobbiamo "condurre", serven-doci a questo scopo delle nostre conoscenze sulla
situazione e sulla realtà in cui viviamo. Abbiamo così, accanto all'uso
teoretico della ragione - sapere per sapere - quello pratico: il sapere stesso
che si protende verso l'azione allo scopo di organizzarla, di dirigerla.
All'interno del sapere pratico possiamo
distinguere almeno due dimensioni: la dimensione tecnica e la dimensione morale.
L'ambito della tecnica, intesa nel senso più largo, risponde all'esigenza
generale di adattamento, di adattare il nostro agire ai nostri scopi, includendo
la produzione degli artefatti che permettono di soddisfare le nostre necessità.
La perfetta realizzazione di quest'esigenza riceve i nomi di efficacia e di
utilità (1).
Più difficile da definire è la dimensione
morale. Rivolgiamoci alla nostra esperienza. La dimensione morale emerge, ad
esempio, quando una volta raggiunto con efficacia uno scopo, vediamo che esso è
stato più una perdita che un guadagno, e quindi che ci siamo sbagliati nel
proporcelo; avvertiamo, insomma, che non abbiamo agito giustamente. L'ambito
morale risponde non più ad una esigenza di semplice adattamento, ma ad una
esi-genza di giustizia. La necessità che il nostro agire sia giusto è appunto il
dovere morale.
Come mai abbiamo capito che lo scopo
raggiunto era un bene soltanto apparente, e non un vero bene? Rispondiamo:
perché l'uomo ha l'in-tima convinzione che il proprio agire non è solo
"produzione" o "amministrazione" di cose, di vantaggi, di utilità o di piacere,
ma che è prima e in ogni caso un "condurre" se stesso come persona. Ora,
avvertire che abbiamo agito in maniera sbagliata significa avvertire che il
traguardo da noi raggiunto ci pone in contraddizione con "qualcosa" che
necessariamente e irrinunciabilmente desideriamo, in quanto questo "qualcosa" è
l'oggetto costitutivo e originante di quell'inappagabile desiderio di bene che
ci appartiene.
Questo "qualcosa" possiamo chiamarlo
felicità, purché la si intenda come il bene perfetto dell'uomo come essere
razionale, la completa realizzazione della persona come tale, oppure la pienezza
di senso della condizione umana. La riflessione metafisica mostra, e la fede
conferma, che questa pienezza di senso della condizione umana consiste
nell'unione con Dio, ma in un'unione che può essere effettiva soltanto se l'uomo
liberamente vi acconsente. Il cammino morale si presenta così come la libera
risposta dell'uomo ad una chiamata di Dio.
Concludiamo la prima parte della nostra
riflessione. Desiderio di verità e di bene sono ugualmente costitutivi della
persona umana. Se il nostro agire ci pone in contraddizione col nostro bene,
concludiamo giustamente che la conoscenza che ha guidato la nostra scelta è
priva di verità, anche se forse ci ha recato utilità o piacere. Se esistesse
realmente un conflitto tra verità e bene, dovremmo accettare che esiste entro di
noi una frattura, il che significherebbe che non è possibile un'antropologia
unitaria.
La perdita dell'unità dell'antropologia
e il conflitto tra scienze ed etica
La perdita dell'unità dell'antropologia è
stata una delle più negative conseguenze della scomparsa dell'articolazione
unitaria di tutti i saperi intorno alla metafisica, che sboccia nella teologia
naturale, cioè nella conoscenza razionale di Dio. Il fatale avvenimento è stato
preparato nel XIV secolo, con la crisi nominalistica e il sopravvento del metodo
empiristico. Non intendo approfondire questo fenomeno, che ci porterebbe assai
lontano. Piuttosto cercherò di illustrare con qualche esempio la situazione
creatasi, e come i tentativi fatti per superarla non siano riusciti a
ricostruire l'unità dell'antropologia né a ristabilire l'equilibrio fra scienze
ed etica.
Espressione matura e compiuta della
mentalità scientifica creatasi nell'Europa moderna fu la meccanica razionale di
Newton. Riflettendo sulle condizioni di tale successo, i filosofi coniarono un
concetto molto riduttivo di causalità, secondo il quale doveva svolgersi ogni
spiegazione scientifica. Causalità - dirà Hume e ripeterà Kant - è la
connessione necessaria tra due fenomeni, in maniera che, conosciuta la causa,
conosceremo come sarà necessariamente l'effetto (2).
Il problema emerge subito: se causalità è connessione necessaria tra due
fenomeni, la libertà, in quanto negazione della necessità, è ugualmente la
negazione della causalità, e s'identifica esattamente con il caso (3).
Orbene, se la via obbligata della spiegazione scientifica è la spiegazione
causale, ciò significa due cose:
1) che lo studio scientifico dell'uomo -
la psicologia, la sociologia, ecc. - non può tener conto della libertà;
2) che il sapere sull'uomo in quanto
essere libero (l'Etica) o non esiste o non è un sapere scientifico, non può
raggiungere con certezza la verità. Tutto ciò non significa necessariamente
negazione della libertà; può significare solo che la libertà non interessa alla
scienza e quindi va radiata da essa.
La nascita e lo sviluppo della scienza
moderna è stata condizionata in questo modo da una metodologia riduttiva.
Riduttiva non perché priva di qualsiasi legittimità, ma perché conferiva valore
assoluto ad un metodo che risulta adeguato soltanto per certi settori della
realtà e per certi interessi. Il sapere, infatti, non veniva più concepito come
conoscenza della totalità del reale, ma come costruzione e sfruttamento della
natura allo scopo di trarne profitto: il sapere si configura cioè come sapere
tecnico, come tecnologia. Da questa angolatura solo la conoscenza di connessioni
necessarie fra le cose è progresso, e in un certo senso ciò è vero: sapere che
esiste un rapporto necessario fra il movimento della luna e le maree interessa
ai naviganti; sapere che esiste un rapporto necessario fra l'acido
acetil-salicilico e la scomparsa del mal di testa interessa ai medici. Ma
stabilire rapporti di libertà fra due cose non serve a niente. La libertà è
perciò lasciata da parte, non perché non esista, ma perché non può venir
utilizzata a effetti tecnici, medici, ecc.
Il modo in cui gli stati combattono,
nell'attualità, un problema come la diffusione dell'Aids può essere un esempio
di tale atteggiamento. Certamente lo Stato e le autorità sanitarie non hanno il
dovere di riferirsi a tutti gli aspetti dell'Aids ogni volta che si occupano di
esso, e quindi possono parlare isolatamente degli aspetti medici dell'Aids.
Tuttavia, certi modi di informare e di agire da parte dello Stato potrebbero far
pensare a molti cittadini che, di fronte al problema dell'Aids, non ci sia altro
da dire sul piano educativo (non parliamo qui di coazione né di punizione) che
pubblicizzare slogan come "sesso senza rischio", che come sappiamo si
riferiscono ad un intenento di tipo "tecnico" sulle vie di trasmissione della
malattia.
Occorre osservare qui che espressioni come
"sesso senza rischio" presentano un'informazione parziale come se fosse
completa. La promiscuità sessuale, l'uso della droga, ecc. non sono mai senza
rischi, anche lasciando da parte l'aspetto prettamente morale: quei
comportamenti hanno delle conseguenze sull'equilibrio della personalità, sulla
capacità di lavoro, sul piano della delinquenza, ecc. Tutto ciò non va ripetuto
ogni volta che si parla dell'Aids, ma senz'altro non deve essere negato dal modo
stesso di informare. Ritengo che ciò costituisca un preciso dovere dello Stato
nei confronti di tutti i cittadini: se si deve informare, si dia un'informazione
che almeno non sia fuorviante.
Ritorniamo al filo del nostro discorso.
Uno dei tentativi più importanti di ribaltare la situazione creatasi all'interno
dell'Illuminismo è stato quello di Kant, uomo dotato di uno spiccato senso
morale. La sua risposta, in termini molto semplici, è questa: se nel mondo della
scienza (mondo fenomenico) non c'è posto per la libertà né per la morale, ciò
significa che ci dovrà essere un altro mondo (mondo noumenico o intelligibile)
in cui la libertà è l'unica legge. In questo modo viene proposto un dualismo
antropologico: vengono separati, infatti, e con un taglio netto, la ragione
teoretica o scientifica da una parte e la ragione pratica o morale dall'altra;
il mondo della natura e il mondo della libertà; il mondo della verità e il mondo
del bene; e persino il soggetto empirico, determinato dalla necessità naturale,
e il soggetto intelligibile o morale.
Si capisce subito che il progetto kantiano
non risolve il problema. Invece di mostrare la parzialità metodologica della
scienza moderna, ne accetta pienamente le pretese di assolutezza, limitandosi a
stabilire soltanto una tregua: voi, scienziati, avete il vostro mondo, di cui
siete i soli padroni; noi, moralisti, abbiamo il nostro, che sfugge
completamente al vostro metodo e alle vostre possibilità. Ciascuno rlel suo e
tutti in pace.
Ma la tregua non poteva essere durevole.
Come si può accettare, infatti, che l'imperativo morale ci costringa ad agire
contrariamente o senza tener conto dei risultati della scienza? Come si può
accettare che, non essendo scientificamente dimostrato che siamo liberi, sia
categoricamente obbligatorio agire "come se" lo fossimo? L'impostazione di Kant,
suo malgrado, ha finito per far pensare a tutti che le idee morali sono delle
illusioni, di modo che sarebbe irragionevole voler arrestare lo sviluppo
scientifico per ragioni etiche. Nasce così il cosiddetto "imperativo
tecnologico": tutto ciò che è tecnicamente possibile si deve fare; altrimenti il
progresso scientifico e sociale viene immotivatamente fermato. L'imperativo
tecnologico diventa così una decisione che non si discute.
Farò alcuni riferimenti a fatti attuali
prima di passare alla terza parte di questa riflessione. Sappiamo che il recente
documento della Congregazione per la Dottrina della Fede su alcune questioni di
bioetica ha suscitato un ampio dibattito, che ha avuto aspetti positivi e
negativi. Un aspetto indubbiamente positivo della discussione in corso è che
oggi risulta possibile avere una conoscenza più completa e approfondita del
fenomeno Fivet (fecondazione artificiale) nelle sue diverse dimensioni e
implicazioni: mediche, psicologiche, giuridiche, sociali, etiche e anche
religiose.
Frutto di questa maggiore conoscenza è la
generale consapevolezza dei pericoli degli ultimi sviluppi della biomedicina, e
il consenso sulla necessità di una regolamentazione etica e deontologica. È
invece preoccupante che molte delle risposte date dagli scienziati intervistati
siano state impostate su una base esclusivamente decisionistica: le persone
interessate fanno sapere alla stampa le loro decisioni, quanto hanno deciso di
fare o di omettere, e basta. Dal punto di vista etico e deontologico, invece, la
discussione sulle norme di comportamento dovrebbe mirare alla loro fondazione in
base ai principi chiari, ragionevoli ed equi. Personalmente mi riesce difficile
accettare che lo sviluppo della scienza e gli interessi professionali non
consentano una fondazione razionale ed equa delle decisioni umane.
Altri scienziati e giornalisti si sono
richiamati all'imperativo tecnologico, che di razionalità ed equità ha soltanto
una parvenza. Si è detto, ad esempio, che la Fivet costituisce un
innegabile passo avanti della scienza medica, e che, quindi, non è ragionevole
opporsi al progresso della scienza, perché sarebbe opporsi all'umanità che con
essa e attraverso di essa si realizza. Quest'argomentazione suscita delle
perplessità, derivanti a mio avviso dall'ambiguo e molto discutibile concetto di
"progresso della scienza". I medici sanno bene che l'apertura di nuove vie, il
superamento di barriere biologiche e psicologiche, non costituisce
necessariamente un vero progresso. Altrimenti si dovrebbe affermare che le
sperimentazioni genetiche e biologiche realizzate in alcuni campi di
concentramento durante la seconda guerra mondiale costituiscono delle pagine
gloriose della storia della medicina, e che le attuali tecniche di tortura
psicologica vanno annoverate tra i trionfi della psichiatria moderna. Chi
ammette che non è ragionevole né equo giungere a tali estremi dovrà pure
riconoscere che il semplice superamento di certe barriere biologiche non
costituisce di per sé, e necessariamente, un principio atto a fondare una norma
di comportamento in medicina.
Prospettive di soluzione
Non vorrei finire senza indicare alcune
prospettive di soluzione.
A lungo termine non c'è altra risposta, a
mio avviso, che ricomporre l'unità del sapere e l'unità dell'antropologia
attraverso la riabilitazione filosofica e sociale della metafisica e della
teologia naturale, il che mi sembra anche necessario affinché la fede possa
aiutare positivamente la ragione scientifica. È un compito affascinante, ma non
facile.
Ma cerchiamo di tracciare anche un
progetto a breve scadenza. Il predominio dello scientismo risponde, come abbiamo
visto, all'instaurarsi indisturbato della logica dell'utilità e dell'efficacia,
a cui segue sul piano etico la morale utilitaristica. Per questa morale la
soddisfazione del desiderio è, per eccellenza, il valore da promuovere. A questo
scopo l'utilitarismo porta avanti un processo di ottimizzazione del sistema
sociale, che fa astrazione dalla natura delle cose prese come mezzo o come
scopo. Ogni cosa può giungere ad essere un mezzo per un fine (anche la vita
umana), come anche essere considerata come un fine per una serie di mezzi. Per
l'utilitarismo, infatti, ogni possibile comportamento deve considerarsi
disponibile, in linea di principio, per l'attuazione della strategia che, in
qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, sembri promuovere una maggiore somma
totale di benessere (4).
E emersa così nella nostra
società una logica finalistica del desiderio, che non è altro che utilitarismo.
Rivolgiamoci un'altra volta al dibattito sulla "fecondazione in vitro". Si è
scritto che la Fivet sarebbe un valido contributo alla dignità e al bene
dell'uomo, poiché mira alla promozione di una vita intensamente desiderata non
raggiungibile in modo naturale. Un giornale italiano dava all'articolo di un
autore francese il seguente titolo: "Se il fine è buono...". Ma questo principio
è ancora ambiguo sul piano della ragionevolezza e dell'equità. Nella seconda
guerra mondiale alcuni medici ritenevano che la conoscenza della fisiopatologia
della morte per immersione in acqua molto fredda giustificava il condannare un
numero elevato di prigionieri ad una morte lenta, giacché il proposito era
"buono" e vivamente desiderato: si trattava, infatti, di trovare attraverso la
sperimentazione (umana) le vie mediche per aiutare i propri connazionali, piloti
dell'aviazione militare, che precipitavano nelle gelide acque del Mar del Nord.
Non si contesta la legittimità del traguardo di quei medici, si contesta
piuttosto il modo di raggiungerlo, e ciò in base ad un elementare principio di
ragionevolezza ed equità: secondo un giudizio oggettivo la soddisfazione
ottenuta al prezzo dell'ingiustizia subita da altri non è legittima né equa. Chi
non la pensa così, sa almeno che difende un principio egoistico che non potrebbe
sostenere se venisse a trovarsi al posto dell'altro, al posto cioè di chi è
ingiustamente colpito. Si deve quindi concludere che l'equità non permette di
fondare una norma di comportamento esclusivamente in base alla legittimità
astratta dello scopo o del desiderio (5).
A questa logica è possibile
contrapporre oggi la logica propria della morale, che è incentrata, come abbiamo
detto all'inizio, sul bene della persona. La logica morale è determinata dalla
natura stessa delle realtà prese di mira, per cui alcune saranno per loro natura
fini e non potranno mai, come tali, essere considerate legittimamente come
mezzi, mentre altre saranno per loro natura mezzi e non potranno mai essere
assunte propriamente come fini (6).
Da questo punto di vista, uno dei
canoni più elementari dell'Etica è questo: la persona non può mai essere
trattata - né da se stessa né dagli altri - come semplice mezzo, non può essere
strumentalizzata. La persona deve essere rispettata nel suo valore e nelle sue
finalità intrinseche, e non può essere considerata come uno strumento per il
progresso sociale o scientifico. La persona deve essere riconosciuta per ciò che
è e per ciò che vale in se stessa: va quindi rispettata e amata (7).
Questo principio richiede due chiarimenti:
uno riguarda la sua fondazione e l'altro la sua applicazione. Il principio
morale testè menzionato si fonda immediatamente sul fatto che la persona umana
possiede un senso e un destino in se stessa. Ma il valore di questo senso e di
questo destino non è ultimamente fondato finché non si riconosce che si tratta
di un senso e di un destino riferiti a Dio: uomo come immagine di Dio e
destinato alla comunione con Dio.
Per quanto riguarda l'applicazione, si
deve tener conto che quando parliamo qui di persona intendiamo riferirci alla
totalità della persona, cioè a tutte le dimensioni essenzialmente legate alla
personalità dell'uomo, nel suo spirito e nel suo corpo: la libertà, il
linguaggio, la vita fisica, la sessualità, ecc. Queste e altre dimensioni
partecipano, integrano o esprimono la dignità personale, e perciò sono oggetto
di rispetto e non ammettono un trattamento puramente strumentale. Ciò significa
che tali dimensioni, per avere in se stesse un senso e un significato
nell'ambito della dignità personale, non sono e non possono essere considerate
come un mezzo interamente disponibile per una strategia volta alla
massimizzazione dell'utile o del piacevole (8).
Vanno trattate sempre in conformità al loro significato integrale. Si capisce
che questo principio etico pone dei limiti alla sperimentazione scientifica
sull'uomo e agli interventi biomedici, nonché al modo di servirsi del proprio
corpo, della sessualità, ecc. Così, per esempio, è da considerarsi
strumentalizzazione della sessualità ogni attuazione o intervento su di essa che
non rispetti interamente il suo significato specificamente umano, definito dalla
compresenza dei due aspetti essenziali: quello unitivo e quello procreativo.
Vorrei concludere insistendo su alcuni
aspetti della fondazione del principio morale. Per molto tempo si è creduto che
la dignità personale fosse un valore evidente per tutti, indipendentemente dalle
concezioni filosofiche o religiose. Ed è vero che si tratta di un valore
comprensibile per la ragione umana. Ma oggi possiamo constatare che quando
l'uomo e la società si allontanano da Dio, crolla anche il valore della dignità
umana (basti pensare alla diffusione e banalizzazione dell'aborto). Tutto ciò
non è strano: è stata necessaria un'insistente e tenace azione del cristianesimo
perché le grandi civiltà classiche (si pensi all'impero romano) accettassero di
rispettare incondizionatamente la dignità della persona. Ritengo quindi che al
di fuori di una concezione teistica e creazionistica il valore della persona non
sarà completamente rispettato, a cominciare dal valore della propria persona,
che è un compito per se stessa prima di essere un limite per gli altri. E così
appare ancora più urgente la necessità di elaborare tutto il sapere umano sulle
basi creazionistiche offerte dalla metafisica e dalla teologia naturale, e in
ultimo termine dalla fede.
- Angel Rodriguez Luño
- Docente di Etica al Centro Accademico Romano della Santa Croce e all'Istituto Giovanni Paolo II della Pontificia Università Lateranense
Note
(1)
Per l'approfondimento delle differenze essenziali fra la razionalità tecnica e
la razionalità etica si veda A. RODRIGUEZ LUNO R. LOPEZ MONDEJAR, La
fecondazione in vitro: aspetti medici e morali, Città Nuova, Roma 1986, cap. IV.
(2)
Cfr. HUME, D., Treatise of Human nature, lib. Il, parte III, sez. I in
ThePhilosophical works, a cura di T.H. Green e T.H. Grose, ed. Scientia, Aalen
1964, vol. II, pp. 181-12 KANT, I., Critica della ragione pratica, 9a ed.
Laterza, Bari 1966, pp. 119 ss.
(4)
Sull'utilitarismo cfr. WOJTYLA, K., Amore e responsabilità, 1. ed., Marietti,
Torino 1969, p. 25-30; FINNIS, J., Fundamentals of Ethics, Clarendon Press,
Oxford 1983, e anche il nostro studio Sulla recezione del modellofilosofico
utilitanstico da pane di alcuni teologi moralisti in "Rivista di studi sulla
persona e la famiglia. Anthropos" 2 (1985) pp. 203-213.
(5)
L'esempio vuole mostrare soltanto che la legittimità di un fine non giustifica
l'impiego di un qualsiasi mezzo. Tuttavia, è pertinente anche riguardo alla
FIVET, che ancora oggi implica la perdita di numerose vite umane, come dimostra
ad esempio lo studio multicentrico elaborato nel III Congresso Mondiale di
Helsinki (1984). Si può pensare che le tecniche miglioreranno e il loro costo in
vite umane sarà minore; ammettiamolo pure. Ma, dal punto di vista morale, il
fatto cruciale è che mentre il costo umano è elevato, queste tecniche sono state
applicate senza scrupoli di sorta. Oggettivamente, il movente non è il rispetto
per la persona, perché "non rispettare oggi" per "rispettare forse domani" è un
atteggiamento contraddittorio.
(6)
Sulla differenza fra la finalità tecnica e la finalità morale, cfr. PINCKAERS,
S., Ce qu'on ne peut jamaisfaire. La question des actes intrinsèquement mauvais.
Histoire et discussion, Editions Universitaires Fribourg Suisse - Ed. du Cerf
Paris 1986.
(8)
Cfr. SPAEMANN, R., La responsabilità personale e il suafondamento, in AA.W.
Etica teleologica o et:ca deontologica? Un dibattito al centro della teologia
morale odierna, Documenti CRIS, 49/50, Roma 1983, pp. 19 ss.
Fonte testo : http://www.clerus.org
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