venerdì 2 agosto 2019

IDEA DI DIO E RIVELAZIONE, di Beppe Fragomeni



IDEA DI DIO E RIVELAZIONE
di Beppe Fragomeni


Breve nota
Su questi argomenti sono stati scritti centinaia di volumi da grandissimi autori. Noi non abbiamo nulla da aggiungere, nulla di nuovo da dire”. I nostri appunti vorrebbero richiamare l’attenzione di chi ci legge o ascolta su temi che riteniamo di un certo interesse, allo scopo di promuovere affezione per la ricerca spirituale. Proponiamo quindi brani di vari autori e nostri, messi assieme alla buona, nella speranza che qualcuno voglia farne oggetto di approfondimento sui testi che citiamo. Questo modo di procedere ci impone di lasciare aperti degli argomenti e va a scapito di una certa omogeneità. Ce ne scusiamo.

In questi ultimi tempi si è notato un crescente interesse dei giovani per la ricerca spirituale.
Secondo Karl Rahner  l’atteggiamento che caratterizza l’uomo spirituale è questo: ”Apertura all’essere e, nello stesso tempo, in misura uguale, apertura a ciò che egli è o non è. Queste due aperture, all’essere universale e a se stesso, costituiscono i tratti fondamentali dello spirito umano e si manifestano come capacità di trascendenza e di riflessione. Nell’elevarsi verso la totalità dell’essere, l’essere umano esperimenta la propria realtà come “vivente” e come “soggetto”.
“La Parola di Dio (o insegnamento di Gesù) -  ha affermato con fare un po' complice uno di questi giovani - è per me la via che porta alla verità e alla vita , vita libera, vera, non condizionata da nulla”.
La visione di questo giovane è da condividere senz’altro, purchè, col tempo, non degeneri in rifiuto di quanto gli si prospetterà come “diverso”: ogni creatura compie il massimo sforzo per essere ciò che è, proprio come facciamo noi, e bisogna averne rispetto.
Scrive al riguardo san Massimo il Confessore, riferendosi al Verbo di Dio:
“..…..Per amor nostro egli si cela misteriosamente nelle essenze spirituali degli esseri creati [...], con tutta la sua presenza:
-in tutto il diverso è celato colui che è uno ed eternamente identico;
-nelle cose composte colui che è semplice e senza parti [...];
-nel visibile l’invisibile;
-nel tangibile colui che è intangibile.
Ecco che bisogna aprirsi al “diverso” ed apprezzare (se c’é) quanto di analogo al messaggio cristiano si trova nelle altre religioni. Queste, come avremo modo di vedere, non ci sono del tutto estranee.
 
La Parola di Dio
 
Con l’espressione “Parola di Dio” la tradizione cristiana si riferisce al Logos, Verbo, seconda persona della Trinità. Con questo nome è chiamato il Figlio di Dio, Gesù Cristo, in Giov. 1, 1-14 e 1 Giov. 1, 1.
Secondo questi brani, al Logos compete la preesistenza; egli è (dall’eternità) presso Dio ed è Dio; “per mezzo di lui Dio ha creato ogni cosa. Senza di lui non ha creato nulla. Egli era la vita e la vita era luce per gli uomini. Colui che è la Parola è diventato un uomo. È venuto nel mondo che è suo ma i suoi non l’hanno accolto”.
E ancora: “La Parola che dà la vita esisteva fin dal principio: noi l’abbiamo udita, l’abbiamo vista con i nostri occhi, l’abbiamo contemplata, l’abbiamo toccata con le nostre mani”
Il Vangelo, o Buona novella, ci parla della nascita di Gesù, della sua vita, delle sue opere, del suo insegnamento, e ci riferisce della sua morte e risurrezione.
Scrive Ignazio di Antiochia
Vi è un solo Dio
manifestato da Gesù, suo Figlio
che è il suo Verbo uscito dal Silenzio  (Ai Magnesii, 8,2, (Sch 10, p. 102).
Dio, in Cristo, viene a cercare l’umanità, la “pecorella smarrita” della parabola evangelica, fino nella “profondità della terra”, espressione di una finitudine diventata opaca e ribelle, sepolta nel nulla.
 
Nel Logos, trova fondamento e realizzazione nella misura più alta, irripetibile e assoluta il fatto che Dio sia (finalmente) esprimibile, sia dicibile. Ne parla il Verbo, il Figlio suo, sua “autorivelazione”, sua “espressione”, sua “immagine”, sua “Parola” come fatto del suo “autopossesso spirituale”.
Ecco come il mistico tedesco discepolo di Eckhart Giovanni Taulero (1300 ca.-1361), parla della generazione del Figlio:
“Il Padre nel suo modo di essere si rivolge in sé stesso con la sua divina intelligenza: penetra in sé stesso, in chiara comprensione, il fondo essenziale del suo essere eterno e per la nuda comprensione di sé stesso si esprime totalmente; e questa parola è il Figlio suo, e la conoscenza di sé stesso è la generazione del suo Figlio nell'eternità. Egli resta in sé stesso in unità essenziale e si effonde in distinzione personale. Cosí egli entra in sé stesso e si conosce, esce poi da sé stesso nella generazione della sua immagine che in sé ha riconosciuto e compreso, e rientra infine in sé in una perfetta compiacenza di sé stesso. Questa compiacenza si effonde in un amore ineffabile che è lo Spirito Santo: cosí Dio resta in sé stesso, esce da sé e vi rientra”.
Per mezzo del Figlio, dunque, il Padre parla agli uomini; per mezzo dello Spirito santo illumina il loro intelletto e libera il loro cuore dai falsi problemi e dal fascino delle cose del mondo.
Innumerevoli sono, nel Vecchio Testamento, i riferimenti alla “vicinanza” di Dio e alla sua paterna tenerezza.
La medesima sollecitudine e una presenza se possibile più diretta si avvertono nel Nuovo Testamento: Dio si fa uomo e viene tra i suoi, nella Terra promessa e data a Israele ! Il contesto è lo stesso, Dio lo stesso..
Scrive san Paolo sulla provenienza di Gesù e quindi sulla continuità del rapporto tra Dio e il suo popolo (Rom. 9, 4-5):.
-“Dio li ha scelti come figli e ha manifestato loro la sua gloriosa presenza. Con loro Dio ha stabilito i suoi patti e a loro ha dato la Legge, il culto e le promesse. Essi sono discendenti dei patriarchi e da loro, sul piano umano, proviene il Cristo che è Dio e regna su tutto il creato”.
Dunque, il Dio ebraico e il Dio cristiano sono un solo Dio, lo stesso Dio del Vecchio Testamento che stringe una alleanza particolare con un piccolo popolo, perchè questa via di un’alleanza particolare si sviluppasse e si tramutasse nella storia in una via universale, il cui compimento si ravvisa nell’unità di Dio con tutta l’umanità nel Dio fatto uomo.
Evitiamo di proposito un commento sulla separazione tra ebrei e cristiani, che non sarebbe mai dovuta essere l’occasione perchè cristiani si lanciassero contro gli Ebrei e in qualità di cristiani commettessero indescrivibili ingiustizie contro i cosiddetti deicidi, motivando tale condotta con ragioni pseudo teologiche e pseudo religiose. Una teologia cristiana e cattolica, che sul piano riflesso della storia della salvezza elimini radicalmente l’ostilità nei confronti del giudaismo, è appena sul nascere. Noi possiamo e dobbiamo operare e sperare che cresca e si affermi.
 
A noi cristiani capita sovente, proprio come stiamo facendo adesso, di argomentare sul Verbo di Dio, sul Figlio di Dio, sulla Parola di Dio, dicendo che è Espressione di Dio, Immagine di Dio, Autorivelazione di Dio, ecc..- E ne parliamo con tale naturalezza da dare l’impressione di possedere una certa idea di Dio, una certa (nel senso di sicura) idea dell’ Inconoscibile. Ma non è sempre così.
In genere, chi non è portato alla speculazione (filosofica, teologica o mistica) si fa di dio un’idea molto lontana da Dio.
Il Dio di queste persone -scrive Marco Vannini- ”è il Dio determinato nei modi; il Dio di ogni religione positiva, il Dio di ogni invocazione e riferimento sentimentale, con tutte le caratteristiche che l’uomo di volta in volta gli attribuisce, il Dio delle morali, il Dio delle psicologie”.
In altra occasione, trattando dell’idea di Dio, sempre citando Vannini, ci siamo occupati di quella particolare negligenza razionale che ci porta a volte ad “appoggiarci ad un preteso trascendente, senza vedere cosa esso significhi realmente per noi, quali radici abbia nella nostra psiche, nei nostri bisogni, nei suoi legami, nelle sue attese”. Questa superficialità porta ad un credo che a detta di Eckhart “lungi dal costituire una fede meritoria, è invece actus mortalis peccati, ovvero suprema negazione della verità, del valore, di Dio.”. La fede, come sapersi dello spirito nello Spirito, come abbandono a/in Dio di ogni ripiegamento egocentrato, di ogni presa e pretesa della volontà appropriativa, non si identifica mai con
alcuna strumentalizzazione della divinità asservita alle esigenze dell’io ma lascia davvero essere l’Essere, riconoscendo Dio come veramente Altro rispetto ad ogni oggettivazione e presa concettuale.
Per spiegare agevolmente questo pensiero, abbiamo preso come filo conduttore della nostra breve indagine un “luogo” classico del cristianesimo, ovvero la antropologia tripartita di San Paolo soma, psyche, pneuma e, in particolare, la opposizione tra psyche e pneuma.
Vediamo brevemente

 

Soma (Il corpo inteso nel senso di carnalità)

 
Che la carnalità sia opposta allo spirito e lo spirito opposto alla carnalità, non è necessario spiegarlo. La natura animale è libìdo, mero egoismo, volontà di appropriazione. [...]. La carnalità non è la corporeità originariamente creata come sacramento della divinità, come luogo di incontro e di comunione con Dio ed il fratello ma la sua oggettivazione, il ripiegamento dell’amor proprio, della filautìa su un corpo ridotto così a strumento di possesso ed autopossesso e non di donazione di sé, di offerta di sé stessi nella carità.
Nella “carne” non si conosce altro che cupidigia o timore - due facce della stessa medaglia - e le eventuali rappresentazioni di Dio sono meramente idolatriche, nel senso che quella immagine è dipendente e al servizio della stessa volontà appropriativa.

 

Psyche

 
Meno consueta invece, più fine ed interessante, è la riflessione sulla psiche, sullo psicologico.
Esso è tutto l’universo di contenuti, di volizioni, di pensieri, che costituiscono l’orizzonte entro cui si muove il soggetto, l’io psicologico, appunto. Tra tali pensieri c’è anche quello di Dio, variamente determinato a seconda delle condizioni del momento, e la religione in generale.
La consapevolezza di vivere in un universo di condizionamento storico, sociale, ambientale, culturale, ecc., è ampiamente diffusa. Tutti comprendono di essere e di pensare, in misura non indagata fino in fondo, secondo le forme culturali del luogo, del tempo, secondo l’educazione ricevuta, ma anche in dipendenza dei rapporti sociali in cui si trovano e dei bisogni e desideri del momento.
La connotazione negativa che psyche ha in San Paolo, e che si mantiene in Eckhart, dipende dal fatto che essa è strettamente legata alla carne (non al corpo che è struttura relazionale aperta al compimento nello Spirito-Amore delle sue virtualità comunionali); anzi, è la stessa carne nel suo emergere ideologico, emozionale, rappresentativo, culturale. La sua logica è sempre quella della forza, della concupiscenza, della autoaffermazione.
 
Occorre pertanto liberarsi del divino come contenuto determinato, corrispondente allo psicologico, frutto dei bisogni personali - il dio del sentimento, prodotto dalla debolezza, dalla paura, dalla attesa, dalla cupidigia e avidità di dominio - perchè appaia il Dio vero.
In questo senso, Eckhart dice la paradossale frase: “Prego Dio che mi liberi da Dio”. Ma, si noti ancora, “prego Dio” egli dice, perchè non si può superare lo psicologico che nella fede. Fede, dicevamo appunto, non credenza, ma proprio etimologicamente come fides, fiducia. Fiducia nel bene, nella verità, nell’Assoluto, e dunque incessante capacità di rimuovere tutto ciò che è altro da esso.
Così, il Dio che ne deriva, è il Dio sine modis, senza determinazione alcuna: non connotabile dunque sub specie essendi, ma al di là dell’essere.
È il Dio del distacco e della rinuncia a se stessi; il Dio vero che sta oltre le religioni storiche e oltre i bisogni psicologici, il Dio che sfugge sempre al nostro tentativo di impossessarci dell’essere e di metterlo a nostro servizio.
Alcuni maestri dicono che Dio è un essere, un essere dotato di intelletto, che tutto conosce. Ma io dico che Dio non è né un essere né un essere dotato di intelletto e neppure conosce questo o quello, ed è privo di tutte le cose”.
 
Perciò Eckhart scrive che Dio è un ente solo per i peccatori (Commento alla Genesi), ovvero per coloro che sono legati al tempo e allo spazio, alla fruizione e ai “perchè”, e, dunque, in ultima analisi, a quell’impasto di menzogna che è la volontà individualistica, il peccato come “autoaffermazione inospitale dell’Altro” (P.Florenskji) e degli altri in sé, come se stessi.
“A tale menzogna corrisponde un modo di pensare e di parlare che rende Dio un soggetto agente, il quale fa, non fa, manda, non manda, ecc. - il linguaggio banale e untuoso, veramente insopportabile, della superstizione, religiosa o laica che sia” (Vannini).
 L’incarnazione del Verbo, il dirsi e darsi della Parola nel linguaggio umano pur senza esaurirvisi lo apre ad un’ulteriorità simbolica che, se pure già costitutiva il suo statuto di “casa dell’essere”, di apertura rinviante al mistero del mondo, resta tuttavia arrischiata ad una declinazione oggettivante, strumentale o ad una ermeneutica dell’inesauribile o dell’inesorabile (Pareyson) alfine vacua ed estetizzante laddove non sia radicato nel simbolo cristologico e triunitario come sua origine e patria. Tanto un’ingenuo e superstizioso ripiegamento sulla “lettera” univocamente considerata, quanto un orgoglioso superamento apofatico di ogni parola verso il silenzio di un’ineffabilità ai limiti del mutismo sfuggono alla novità che la cristo-logìa imprime al dire Dio.
 
“Perciò essa affonda nel dolore [...] quando intravede il nulla del suo fondamento, il rimandare senza fine verso la morte, la assenza di verità e di valore che le è alla base - e perciò si affretta ad occultare questa scoperta.
Una delle forme di occultamento è la rappresentazione del divino, che “serve” alla vita: in questo senso la “fede” è menzogna (hegelianamente diremmo alienazione) e negazione di Dio.
Le esigenze “religiose” – premio, merito e soprattutto salvezza – sono frutto della egoistica affermazione della volontà di permanenza e conservazione assoluta dell’io. Perciò sono, per eccellenza, negazione di verità. [...] …… La logica dello psicologico è una logica dell’utile, che costituisce il solo vero criterio ordinatore delle emozioni e dei contenuti. In questa logica servile, ripete spesso Eckhart, Dio è uno strumento, solo uno strumento a servizio di qualche bisogno, desiderio, passione dell’uomo. Una tale concezione di Dio è blasfema.
La onestà e verità del distacco, che non vuole cogliere nulla, ma continuamente si spoglia del falso riconoscendolo come determinato, altro dall’Assoluto, elimina ogni preteso sapere di Dio, ma soprattutto permette di riconoscere la radice appropriativa della cosiddetta “ricerca di Dio”, che approda sempre al terreno psicologico, dove la rappresentazione “serve” a qualcosa.
Ma la nobiltà dell’anima è tale che essa può andare oltre la propria volontà personale, ovvero oltre la propria creaturalità, riscoprendo l’identità originaria con Dio, che dunque non è più il Dio-altro in rapporto alla creatura, ma (essenzialmente) l’io stesso che noi siamo” (Vannini), o meglio ancora quell’Io divino la cui compattezza monolitica  la rivelazione del Cristo nello Spirito ha per così dire squarciato sulla Croce, rivelandolo abitato e coincidente con il “Noi Siamo” della comunione triunitaria alla  cui vita di Agape senza limiti l’uomo partecipa nella deificazione, oltre ogni separazione ed oltre ogni confusione.
 
Pneuma
 Lo spirito è il luogo dei santi, il santo è il luogo dello spirito.
 (Basilio di Cesarea, Trattato sullo Spirito, 26 - PG 32,184)

Non abbiamo qui il tempo di spiegare compiutamente l’origine e il significato di “spirito”, nella sua duplice discendenza dal nous greco, da Aristotele a Plotino, e dal biblico ruah  (ricordiamo solo che a partire da Filone Alessandrino, è consueto rendere con pneuma quello che era il nous aristotelico). [...]
(Pneuma) indica – in Paolo, in Plotino, in Eckhart – una realtà diversa, superiore a quella della psyche. Indica il terreno della verità e della carità opposto a quello dell’utilitarismo; il terreno della libertà, opposto a quello del condizionamento.
Nel linguaggio paolino e agostiniano, l’uomo spirituale è l’uomo nuovo, mentre l’uomo carnale e psichico è l’uomo vecchio: questo è l’uomo della naturalità animale, quello l’uomo della grazia di Dio.
Più specificamente, troviamo in Eckhart la dottrina del “fondo dell’anima”, ovvero di quella parte dell’anima – la più profonda e la più alta, descritta con molte immagini e metafore - che non è soggetta al determinismo spazio-temporale, che permane identica a se stessa in ogni condizione e situazione (anche nell’inferno rimarrebbe orientata a Dio), e che è il “luogo” dell’incontro tra l’uomo e Dio.[...] Hoc est intellectus” - afferma Eckhart, riferendosi al fondo dell’anima- ovvero pura ragione, proprio a sottolineare la sua realtà spirituale, sfuggente al determinismo carnale e psichico. [...] E ancora,…”Il fondo dell’anima non è altro che la ragione, che appare quando tacciono le potenze esteriori”.
Scrive Plotino riferendosi agli esseri umani che per mezzo della ragione si sono approssimate al fondo dell’anima, al luogo intelligibile :
“Là …essi vedono tutto, non nel suo divenire, ma nel suo essere, e vedono se stessi nell’altro. Ciascun essere abbraccia in se stesso tutto il mondo spirituale, e lo contempla di nuovo tutto quanto in ogni altro essere. Perciò tutto è dappertutto. Là ogni cosa è tutto, e tutto è in ogni cosa”. (Enneadi 5, 8)
 
 
Desideriamo ora dare evidenza alla [...] singolare logica della mistica, che esclude le due leggi fondamentali della logica naturale, che sono il principio di non contraddizione e quello del terzo escluso [...].
La razionalità decaduta dal suo originario statuto di ragione - di logos intesa come capacità di legare, di re-ligere, di unificare i distinti e di percorrere i nessi che compongono le differenze in comunione oltre lo sguardo separato e separante della passione, di quelli che i Padri della Chiesa definivano i loghismoì, i pensieri passione, opposto appunto ad un logos crocifisso e tutto trasparenza del Logos fatto carne – è fondamentalmente eretica, capace solo di opporre e/o di confondere divinità ed umanità, carne e spirito, intelletto e fede, incapace appunto di quella coincidentia oppositorum tra i distinti che alla luce della divinità triunitaria, partecipataci in Cristo nell’unità e nell’amore dello Spirito, si colgono in comunione e come comunione, in coinerenza e pericoresi perfetta e simultanea, “senza separazione e senza confusione” (dogma celcedonense)
Scrive Sant’Agostino ne Le Confessioni (libro XI, c. IX, Ed. Paoline): -“Rabbrividisco e m’infiammo, rabbrividisco perché gli sono dissimile; m’infiammo perchè gli sono simile!”. Ed una nota: “La verità è nell’intimo dell’uomo ed è da se stessa, nel nostro spirito, un testimone che non è possibile ignorare”.
 
 
Riuscissimo a superare gli interessi contrapposti del mio e del tuo, che tanto spesso portano al rifiuto dell’altro (“ama il prossimo tuo come te stesso”) e le “maschere” caratteriali, culturali e sociali che generano distinzione e negazione, nulla più ci separerebbe, e ci ameremmo come Dio comanda (“amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” cioè spiritualmente). Realizzeremmo allora in breve quella unita nella diversità che, seppure paradossale per la logica comune, è ciò che Dio vuole da noi.
La ragione - logos e non loghismos - [...] permane rigorosamente orientata alla verità, anche quando questa comporta l’annientamento dell’io, proprio perché tale ragione è coestensiva alla fede. Fede - si badi bene - non credenza. Fede come orientamento dello spirito ad un Bene riconosciuto platonicamente (e cristianamente) sempre al di là dell’essere creaturale e delle sue pretese egoistiche ed appropriative, sempre contemporaneamente intimo ed Altro, inoggettivabile pur e proprio nella sua partecipazione inesauribile alle e nelle fibre della creazione chiamata all’uscita deificante da ogni ripiegamento, lacerazione e disunione. In tal senso la fede è oscura ed oscurata in quanto alle concezioni distinte, non sapere e “dotta ignoranza” che nulla più conosce di di-stinto e nella opposizione reciproca ma tutto intuisce in una luce unificante che è buio e tenebra per l’esercizio separato e separante delle potenze dell’anima egoica La credenza sta invece tutta nell’orizzonte dello psicologico, è un povero contenuto determinato (ma in realtà, una rappresentazione indeterminata e indeterminabile, che è costretta a rimandare senza fine ad altro, perché non può affatto fondarsi, non può precisarsi). Potremmo così riconoscere una mutua coinerenza tra fede come ignoranza che sa, che coglie intuitivamente l’Uno oltre le conoscenze empiriche separate ed oggettivanti, e la ragione come saggezza che ignora, che davvero ni-ente sa, non coglie più gli enti se non all’interno di quella luce in cui essi dismettono la giustapposizione reciproca per cogliersi consegnati gli uni agli altri e tutti nell’Unità
Scrive Meister Eckhart:
 
“Per l’anima contemplante, là è tutto è uno e uno in tutto.
L’essere mondano porta in sé contraddizione.
Cosa è la contraddizione ? Amore e dolore, bianco e nero, questo ha contraddizione e questo non può sussistere nell’essere.
In questo sta la purezza dell’anima, che essa è purificata da una vita divisa ed entra in una vita unita.
Tutto quel che è diviso nelle cose inferiori, viene unito appena l’anima ascende a una vita in cui non esiste la contraddizione.
Quando l’anima giunge alla luce della ragione, essa non sa più niente dei contrari. (Rudolf Otto, Mistica orientale, mistica occidentale, a cura di Marco Vannini, Marietti Editore, 1985).

 

L’idea di Dio


Come dice Berdjaev, “la verità assoluta della rivelazione si rifrange e si assimila variamente secondo l’ organizzazione (cui si fa capo) e il livello spirituale di chi la riceve”.
L’idea di Dio ne dipende.
Tra le tante, alcune significative idee di Dio.

Meister Eckhart:
 
L’idea che Meister Eckhart ha di Dio la si può desumere agevolmente dalla conclusione cui giunge Marco Vannini commentando l’ antropologia tripartita di san Paolo (Soma, psyche, pneuma). Ci sembra tuttavia il caso di puntualizzare che una buona chiave di lettura, per quanto riportato prima e quanto diremo adesso, si può cogliere nel famoso assioma eckhartiano: ”Tutto ciò che è nell’Uno, è Uno con l’Uno”.
Egli, infatti, nel sermone “Beati pauperes spiritu, quia ipsorum est regnum coelorum” risale a quando era ancora nella Causa prima, ed afferma, in forza del suo assioma, che era la stessa Causa prima:
“Quando ero nella mia Causa prima - egli dice -, non avevo alcun Dio, e là ero causa di me stesso. [...]. Ma quando, per libera decisione uscii e presi il mio essere creato (quindi relativo), allora ebbi un Dio; infatti, prima che le creature fossero, Dio non era Dio, ma era quello che era.
Quando le creature furono e ricevettero il loro essere creato, Dio non era Dio in se stesso, ma era Dio nelle creature, (ossia, l’altra polarità del rapporto Dio-uomo).
Ora diciamo che Dio in quanto è Dio, non è il più alto fine della creatura. Infatti anche la più piccola creatura in Dio ha una altrettanto alta dignità. E se avvenisse che una mosca avesse intelletto, e potesse ricercare per mezzo di esso l’eterno abisso dell’essere divino dal quale è venuta, allora dovremmo dire che Dio, con tutto ciò che è in quanto Dio, non potrebbe dare a questa mosca compimento e soddisfazione. Perciò preghiamo Dio di diventare liberi da Dio, e di concepire e godere eternamente la verità là dove l’angelo più alto e la mosca e l’anima sono uguali; là stavo e volevo quello che ero, ed ero quel che volevo. (Egli, altrove, considera coincidenti l’essere e l’azione del divenire senza fine dal quale occorre affrancarsi).
Cosa invece sono secondo il mio essere nato dovrà morire ed essere annientato, perchè è mortale, e perciò deve corrompersi con il tempo.
E prosegue con espressioni inusitate, certamente non comuni:
·       “In quell’essere di Dio, in cui Egli è al di sopra di ogni essere e di ogni differenza, là ero io stesso. Perciò io sono la causa originaria di me stesso, secondo il mio essere, che è eterno, e non secondo il mio divenire, che è temporale.
·       Perciò io sono non nato e, secondo il modo del mio non essere nato, non posso mai morire. Secondo il modo del mio non esser nato, io sono stato in eterno, e sono ora, e rimarrò in eterno.
·       Nella mia nascita eterna nacquero tutte le cose, e, se non lo avessi voluto, né io né le cose saremmo; ma se io non fossi, nemmeno Dio sarebbe: io sono causa originaria dell’essere Dio da parte di Dio; se io non fossi, Dio non sarebbe Dio”.
 
Il sermone si conclude così:
“Quando io fluii da Dio, allora tutte le cose dissero: Dio è.
Ma ciò non può rendermi beato, perchè in questo io mi riconosco come creatura.
 
Ma nel ritorno, in cui sono libero dal mio volere proprio, e dal volere di Dio, e da tutte le sue opere e da Dio stesso, là io sono al di sopra di tutte le creature, e non sono Dio né creatura, ma piuttosto sono “Quello che ero”, e quello che sarò ora e sempre.
 
Là ho ricevuto uno slancio, capace di portarmi sopra tutti gli angeli.
 
In questo slancio ho ricevuto una ricchezza tanto grande, che Dio non può bastarmi, con tutto quello che è in quanto è Dio, e con tutte le sue opere divine; infatti in questo ritorno mi è toccato in sorte essere una sola cosa con Dio.
Allora io sono quello che ero, e non aumento né diminuisco, perchè là sono Causa prima immobile, che muove tutte le cose.
 
Qui Dio non trova alcun luogo nell’uomo, perchè l’uomo (spogliandosi di ciò che lo fa creatura mortale) conquista con questa povertà (di io, di mio, di creatura) quel che è stato in eterno, e che sempre sarà.
 
Qui Dio è una cosa sola con lo spirito, e questa è la povertà più vera che si possa trovare.
 
Chi non comprende questo discorso non affligga per ciò il suo cuore. Perchè l’uomo non può comprendere questo discorso, finchè non diventa uguale a questa verità. Infatti si tratta di una verità senza veli, che giunge dal cuore di Dio, senza mediazione.
Dio ci aiuti a vivere in modo da poterla conoscere in eterno. Amen”.
(Meister Eckhart, Sermoni Tedeschi , a cura di Marco Vannini, Adelphi 1985).
 
In questo sermone Meister Eckhart, con l’arditezza del linguaggio speculativo che ne contraddistingue un teologare pur sempre radicato nel dato Scritturistico, sottolinea con un vigore quasi senza pari, all’interno della tradizione cristiana occidentale, l’attingimento di quella che per i Padri greci ed orientali è definita la theosis, la divinizzazione per grazia, il “divenire per grazia ciò che Dio è per natura” (Atanasio). Non semplicemente una relazione estraposta tra Creatore e creatura ma, all’interno di questa che ne è per così dire la condizione di possibilità, la realizzazione della filiazione eterna, “l’acquisizione dell’Amore quale sostanza divina” (Pavel Florenskji). Non la partecipazione a “qualche cosa” di Dio, ad una grazia creata, all’operare soprannaturale delle potenze dell’anima ma l’unificazione di ogni potenza dell’anima nel suo fondo e nella trasparenza di tutto l’essere creato trans-figurato nello Spirito santo,  divenuto la Vita della vita dell’uomo, il respiro stesso di Dio nell’uomo e dell’uomo in Dio, in un’unione così profonda da non essere semplicemente prodotta dallo Spirito Santo ma da identificarsi con lo Spirito Santo stesso come afferma Guglielmo di St.Thierry. La differenza tra Creatore e creatura è così la condizione di possibilità per l’attingimento di un’unione con Dio Padre, nello Spirito, in Cristo, infinitamente più profonda e feconda di ogni fusione panteistica o monistica, di un’unione nell’agape e nella libertà, nella libertà infinita dell’Agape di Dio, che è Dio in quanto Vita e comunione, oltre ogni identità ed ogni differenza separatamente intese.
 
 
Unità divina e Trinità
 
Olivier Clément (Alle fonti con i padri, mistici cristiani delle origini, Città nuova Ed.):
 
“Gregorio Nazianzeno parla della Trinità come moto immobile dell’Uno che non resta chiuso nella sua solitudine, ma neppure si diffonde indefinitamente; perchè Dio è comunione, non diffusione impersonale. La stessa perfezione dell’Uno esige la presenza in lui dell’Altro, un Altro che, nell’assoluto, può soltanto essere interiore e uguale a lui in infinità.
Ma quì non c’è affatto opposizione, composizione, come nel gioco dei numeri. Il Terzo, Altro non-Altro, permette il superamento infinito dell’opposizione nella perfezione diversificata dell’Unità: diversità assoluta che coincide con una assoluta unità”.
 
Gregorio Nazianzeno
 
“Quando io parlo di Dio, voi vi dovete sentire immersi in un’unica luce e in tre luci [...]. Lì c’è divisione indivisa, unità con differenza, Uno solo nei Tre; (Questo Uno solo nei Tre) è la divinità. I Tre come Uno solo: sono i Tre in cui la divinità, o, per parlare più esattamente, che sono la divinità”.(Discorso 39, 11 (PG 36, 354).
 
San Massimo il Confessore
“Anche se la divinità, che è al di là di tutto, è da noi celebrata come Trinità e come Unità, non è né il tre né l’uno che noi conosciamo come numeri”. (Sui nomi divini, 13 (PG 4, 412).
 
Olivier Clèment
“L’essenza divina non esiste altrimenti che nelle Persone.
La fonte della divinità, il principio unico del Figlio e dello Spirito, è il Padre.
 La Chiesa dell’antichità non parlava affatto di “Dio” nel quale poi si distinguessero le Persone.
Parlava del Padre, perchè “il nome del Padre è superiore allo stesso nome di Dio”.
L’oceano dell’essenza divina sgorga da una Persona abissale, il Padre, che noi possiamo tuttavia, con Cristo, nello Spirito Santo, chiamare abà, la parola fiduciosa e tenera con cui il bambino nomina suo padre.
L’antinomia apofatica è anche antinomia tra il Padre origine-abissale e il Padre abbà, “papà”.
 
Dionigi l’Areopagita
“Il Padre è nel seno della divinità l’elemento generatore, Gesù e lo Spirito sono in certo modo i divini germogli della divinità feconda di Dio, come i suoi fiori e il suo irradiamento sopraessenziale”
(Nomi divini, II, 7-8 (PG 3 645).
“Se accade che, vedendo Dio, si capisca ciò che si vede, significa che non si è visto Dio [...] Perchè in sé egli supera ogni intelligenza. Egli esiste in modo sopraessenziale ed è conosciuto al di là di ogni intellezione solo in quanto è totalmente sconosciuto e non esiste affatto. Ed è codesta non conoscenza, presa nel miglior senso della parola, a costituire la vera conoscenza di colui che supera ogni conoscenza”. (Ambigua PG 3, 1065).
“Noi dunque diciamo che la Causa universale, posta al di là dell’uni- verso, non è né materia [...] né corpo, non ha né figura né forma, né qualità né massa, che non è in alcun luogo, che sfugge ad ogni presa dei sensi [...]. Diciamo che questa Causa non è né anima né intelligenza, [...] che non si può esprimerla né concepirla, che non ha né numero né ordine, né grandezza, né piccolezza, né uguaglianza, né disuguaglianza [...]; che non è né tenebre né luce, né errore né verità; che non se ne può affermare assolutamente nulla, e nulla negare; che quando facciamo affermazioni e negazioni relative a realtà ad essa inferiori, di essa stessa non affermiamo né neghiamo cosa alcuna: perchè ogni affermazione resta al di quà della Causa unica e perfetta di tutte le cose, perchè ogni negazione resta al di quà della trascendenza di colui che è spoglio di tutto e rimane al di là di tutto”.
(Teologia mistica, IV e V (PG 3, 1047-1048).
 
“Il mistero che è al di là di Dio stesso
l’Ineffabile,
colui che da tutto è nominato
l’affermazione totale
la negazione totale
l’al di là di ogni affermazione e di ogni negazione”.
 (Nomi divini, II, (PG 3, 641).
 
Dobbiamo ora celebrare quella perpetua Vita da cui procede ogni vita e per mezzo della quale ogni vivente, secondo la propria capacità, riceve la vita [...].
Sia che tu parli della vita spirituale, razionale o sensibile, di quella che nutre e fa crescere, o di qualsiasi altra vita che possa dirsi, essa vive e vivifica grazie alla Vita che trascende ogni vita [...]. Infatti è troppo poco dire che codesta Vita è vivente. Essa è principio di vita, sorgente unica di vita. Essa perfeziona e differenzia ogni vita, e a partire da ogni vita bisogna celebrare la sua lode [...].
Datrice di vita e più che vita, merita di essere celebrata con tutti i nomi che gli uomini possono attribuire a codesta Vita indicibile”.
(Nomi divini, VI, I e 3 (PG) 3, 856-857)
 
Olivier Clément: (breve commento ai brani di Dionigi l’Areopagita sopra riportati)
“Codesta simultanea negazione dell’affermazione e della negazione significa che la trascendenza di Dio sfugge alla nostra stessa nozione di trascendenza.
Dio trascende la sua trascendenza non per perdersi in un astratto nulla, ma per donarsi.
Il simultaneo superamento dell’affermazione e della negazione delinea già l’antinomia (*) dell’esistenza personale, tanto più segreta quanto più si dona. tanto più donata, quanto più segreta. Per questo i Padri parlano anche del Dio inaccessibile, del Dio al di là di Dio, come di uno scaturire, di un saltare (al di là di se stesso) per creare e redimere, fuori dalla sua essenza, secondo il moto eterno delle forze divine, ma anche per comunicare queste ultime alle creature con atti personali, perchè il Dio vivente è un Dio che opera.
Egli non è l’Essere, ma contiene l’Essere e con i suoi atti lo comunica. (Alle Fonti con i Padri, citato.).
(*) ANTINOMIA: Compresenza in un ragionamento, di due soluzioni reciprocamente esclusive e contraddittorie, entrambe ugualmente dimostrabili. Dal gr. antinomia, comp. di antii=contro e nòmos=legge.
San Massimo il Confessore (Sui Nomi divini , I,4 (PG 4, 208)
“Dio è Spirito, perchè lo spirare del vento è partecipato a tutti attraverso tutto, niente lo rinchiude, niente lo imprigiona”.
 
Giovanni Climaco
“Dio è Amore. Chi volesse definirlo sarebbe come un cieco che vuole contare i granelli della sabbia del mare”.
(Scala del Paradiso, 30° gradino, 2 (6), p. 167).
 
Gregorio Nazianzeno
“O tu, l’al di là di tutto,
come chiamarti con un altro nome?
Quale inno si può cantare di te?
Nessun nome ti esprime.
Nessuna intelligenza ti concepisce.
Tu solo sei infallibile;
tutto ciò che si pensa, da te è uscito.
Tutti gli esseri ti celebrano,
i parlanti e i muti.
Tutti gli esseri ti rendono onore
i pensanti e i non pensanti.
L’universale brama, il gemito di tutti
verso te si protende. Tutto ciò che esiste ti prega
e verso di te ogni essere che sa leggere l’universo
eleva un inno di silenzio.
Tutto in te solo dimora
e in te, con unico slancio, tutto approda.
Il fine di tutti gli esseri tu sei.
Unico tu sei.
Sei ciascuno e non sei alcuno..
Non sei un essere, non sei il loro insieme,
hai tutti i nomi: come ti chiamerò,
Te, il solo cui non si può dare un nome .
[...]Abbi pietà, o tu, l’al di là di tutto:
Come chiamarti con un altro nome ?   (Poemi dogmatici, (PG 37, 507-508)
 
Dobbiamo proprio prenderne atto: l’uomo, qualunque sia il suo grado di sviluppo, ha ben presente Dio nella sua vita !
Mentre non stupisce che Dio riempia la vita dell’uomo spirituale, fa un certo effetto scoprire che, sia pure in modo idolatrico e a sostegno della volontà appropriativa del soggetto, Dio è presente nell’uomo “carnale”, come lo è, in forma più accentuata, nell’uomo “psichico”. Inoltre, in aperta contraddizione con ciò che egli pensa e dice, ricolma la vita dell’ateo.

 

 
Rivelazione di Dio, idea di Dio e storia della salvezza
(DIO: lat. Deus, gr. Theos, ebr. El, Eloim e Jahweh)
 
Nella testimonianza dell’Antico Testamento Dio si rivela come colui che non è limitato da alcun confine (Is. 6; I Re 8, 27), l’Incomparabile in senso assoluto (Sal. 139, 7 -12), il radicalmente Vivo (Sal. 90), con potere assoluto nell’essere (Es. 3,13 s). La sua onnipotenza non si manifesta astrattamente, ma nell’azione, attestante il suo potere nella storia, ch’egli esercita sul suo popolo Israele al di sopra dei popoli tutti. Scegliendo con elezione d’amore il popolo del patto e gli individui, Egli si mostra personale senza possibilità di equivoco. Gesù lo riconosce come il Padre che in Lui ha misericordiosamente accolto l’uomo e aperto l’accesso al suo regno.
Dio è per essenza invisibile (Rom. 1, 20; Giov. 1, 18; 6, 46), conosciuto solo dal Figlio (Giov. 1, 18 s), ma comunicandosi al Figlio, e da questo ai fratelli, è conosciuto come amore (1 Giov. 4, 16 s), mentre è diventato visibile in Gesù, sua immagine fedele (2 Cor. 4, 4; Col. 1, 15).
In una conoscenza ontologica analogica la filosofia e teologia cristiana lo vede come l’Essere assolutamente santo, supremo, trascendente il mondo, personale, incondizionatamente necessario, incausato, esistente di per se stesso e perciò eterno e infinitamente perfetto, che ha creato dal nulla tutte le altre cose.
(Karl Rahner, Dizionario di teologia, TEA - Dizionari Utet, 1998).
 
Storia della Parola, economia (razionale gestione) della rivelazione
 
“Il Dio, che aveva parlato anticamente ai padri molte volte e in molti modi nei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi nel Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto i secoli” (Eb. 1, 1-2).
Il solenne prologo della Lettera agli Ebrei, evidenziando l’unità della storia della rivelazione fondata nell’unicità dell’iniziativa divina in essa, presenta i tempi della Parola fino al loro compimento escatologico nell’evento dell’incarnazione del Verbo, e indica in questo evento il luogo dove è possibile percepire in tutta la sua densità la forma della Parola, le strutture e le caratteristiche fondamentali, cioè, dell’atto dell’autocomunicazione del Dio vivente, venutosi a compiere nel tempo attraverso la mediazione delle parole e degli eventi, intimamente connessi, che costituiscono la rivelazione come Parola di Dio.
 
I tempi della parola: l’Antico Patto
 
Il Dio, che aveva parlato anticamente ai padri molte volte e in molti modi nei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi nel Figlio”: la “pienezza del tempo” della Parola (cfr. Gal. 4, 4; Ef. 1, 1o) rinvia alla storia della rivelazione, che la precede e la prepara. Questa storia “profetica” è quella dell’Antica Alleanza, in cui è già possibile riconoscere la “grammatica” del linguaggio di Dio agli uomini.
 
L’Antico Testamento non ha un termine unico che renda l’idea di rivelazione : la comunicazione divina, tuttavia, è espressa in maniera privilegiata con la formula “parola del Signore”, che non solo è molto frequente, ma è anche significativa e caratterizzante per l’esperienza che Israele fa del suo Dio.
Se altre religioni e culture hanno ricercato ed esaltato la “visione” del divino, il popolo eletto è stato educato a dare il rilievo più grande - anche se non esclusivo - all’ “ascolto, al punto che nelle stesse “teofanie” la manifestazione sensibile è totalmente al servizio della parola.
Attraverso la parola si compiono tutti i grandi inizi della storia della salvezza: così la vocazione di Abramo : “Il Signore disse ad Abramo...” (Gen. 12,11): così quella di Mosè: “Dio lo chiamò dal roveto e disse: Mosè, Mosè !” (Es. 3, 4); Mosè disse a Dio: “Ecco io arrivo dagli Israeliti e dico loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: come si chiama? E io che cosa risponderò loro?”. Dio disse a Mosè: “ Io sono colui che sono”. (Es. 33, 11 s).
Mosè converserà con Dio come con un amico (cfr. Es 33, 21- 23): l’intimità espressa dalla parola e non la visione è alla base dell’esperienza che fa di lui il profeta, figura e anticipazione del profeta degli ultimi tempi: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me: a lui darete ascolto....Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò” (Dt 18, 15 - 18).
Tutta la storia del profetismo e del ruolo decisivo che esso ha svolto per la coscienza messianica di Israele è nel segno del primato della parola, come strumento dell’autocomunicazione divina.
Le clausole fondamentali del patto fra Dio e il suo popolo sono raccolte nelle “dieci parole”, i comandamenti (Es. 34, 28), le “parole dell’alleanza”, in cui si manifesta la volontà del Signore, cui Israele è tenuto a obbedire (cfr. Dt. 4, 13; 10, 4; 28, 69; ecc.).
 
Veramente “il popolo di Dio, nel quale Gesù è nato e del quale è come il fiore supremo e il frutto che sorpassa la promessa dei fiori, è il popolo della Parola”. E come tale ha riletto nella sua fede il primo inizio degli esseri: “Dalla parola del Signore furono fatti i cieli. Egli parla e tutto è fatto, comanda e tutto esiste” (Sal. 33, 6-9; cfr. Gen. 1). La Parola che salva è la Parola che crea, dando a tutto esistenza, energia e vita.
 
Che idea veicola (porta con sé) il termine dabar (parola) nell’uso che ne fa l’Antico Testamento?
Anche da un semplice approccio ai testi risulta il duplice carattere della comunicazione che il dabar stabilisce: è la parola carica di significato, ricca di un contenuto noetico (*); ed è parola che opera, che fa quel che dice, evocando e provocando la vita, incidendo sulla trasformazione del cuore e sugli eventi della storia.
Il carattere “informativo” si congiunge a quello “performativo” (della mutazione come conseguenza e risultato): la parola non solo informa, accertando, costatando, trasmettendo notizie, ma anche agisce, ponendo e modificando la realtà.
“Tale è la parola di Javeh, nello stesso tempo noetica e dinamica: discorso del Dio di verità e atto salvatore del Dio vivente; annuncio e attuazione di salvezza; luce e potenza.
 
Da una parte la parola di Dio crea il mondo, impone la legge, suscita la storia;
dall’altra essa manifesta all’uomo la volontà di Dio, il suo disegno salvifico.
 
La parola di Dio opera infallibilmente ciò che dice. Dio la manda come un messaggero vivente e veglia su di essa per realizzarla. La parola di Dio rimane sempre, fedele ed efficace”.
(cfr. H. Fries, Teologia fondamentale, Brescia 1987, 245 ss.).
Col suo valore noetico, informativo, la parola fa conoscere i decreti del Signore e illumina così la via dell’uomo: “Quanto sono dolci al mio palato le tue parole: più del miele per la mia bocca. Dai tuoi decreti ricevo intelligenza, per questo odio ogni via di menzogna. Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” (Sal. 119, 103 -105).
Con la sua forza performativa, dinamica, la parola realizza i disegni dell’Eterno:
-“Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perchè dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (Is. 55, 10 s).
(*) NOETICO: (dal gr. nòesis = comprensione , intuizione): nella filosofia antica indica l’attività propria dell’intelletto e quindi si riferisce a un tipo di conoscenza intuitiva e immediata, contrapposta alla dianoia, conoscenza mediata dalla ragione.
È per questa ricchezza e densità della parola che l’esperienza della sua essenza ne provocherà il desiderio struggente: “Ecco verranno giorni - dice il Signore Dio - in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma d’ascoltare la parola del Signore. Allora andranno errando da un mare all’altro e vagheranno da settentrione a oriente, per cercare la parola del Signore, ma non la troveranno” (Amos 8, 11 s).
Ed è in forza di questa stessa densità che si comprende quanto sia stretta la connessione fra le parole e gli eventi nell’economia della rivelazione: la parola non solo interpreta l’evento, ma anche semplicemente “si dice” attraverso l’evento.
Così, se da una parte tutte le tappe decisive della storia di Israele sono introdotte dalla parola, dall’altra la fede del popolo eletto può esprimersi semplicemente narrando gli eventi salvifici, i “mirabilia Dei”, quasi densificazioni concrete della parola di rivelazIone (cfr. Dt 26, 5 -109).

L’idea di rivelazione, trasmessa mediante il rilievo dato alla “parola di Dio” nell’Antico Testamento, può essere determinata attraverso il triplice aspetto, proprio dell’esperienza umana dell’autocomunicazione divina nella parola:

·          l’iniziativa del Signore;

·          la risposta umana;

·          l’effetto della parola sulla vita e sulla storia degli uomini.

È l’idea della rivelazione come autocomunicazione di Dio mediante la parola storica, che viene accolta o rifiutata, ma opera comunque ciò che dice e per cui è stata mandata.

[...] L’iniziativa del Dio che parla esige l’attitudine di attenzione e di apertura da parte dell’uomo, il suo esodo da sé senza ritorno, la sua disponibilità a uscire da se stesso e a lasciarsi guidare verso l’ignoto: -solo così la rivelazione realizza il suo carattere di comunicazione interpersonale, di evento dialogico che congiunge la profondità dell’avvento divino al cuore dell’uomo, cui il Signore si rivela. È grazie all’ascolto che diviene possibile la risposta al Dio che parla, e cioè la “ripetizione” della Sua parola, lo stupore del riconoscimento dell’evento di rivelazione, che porta a proferire ad altri la parola umana in cui il dono si è compiuto.
La vera risposta al dabar di Dio è ripetere questo dabar, essere il portavoce di Dio. Prolungare, dunque, il dialogo con un dialogo esterno. Mettere alla prova il senso del dabar introducendolo nel mondo. La profezia per mezzo del dabar vuole, attraverso certi uomini, raggiungerli tutti.
(A.Neher, L’essenza del profetismo, Casale Monferrato 1984, 94)
 
( Brani tratti del cap. 9 di Teologia della storia di Bruno Forte, Edizioni Paoline 1991. L’Autore è ordinario di teologia dogmatica nella Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia meridionale. Molte delle sue opere sono apparse finora in sei lingue ).
 
 
 
Tra gli autori che con più vigore hanno evidenziato ed approfondito il carettere teandrico, divino-umano della Rivelazione, figura il filosofo religioso russo Nicolaj Berdjaev le cui opere, recentemente riscoperte in tutto il loro spessore speculativo, sono percorse dalla sensibilità della tradizione orientale cristiana e dall’idea cardine della divinoumanità e della divinizzazione dell’uomo e del cosmo in Cristo, nello Spirito Santo, attraverso il percorso ed il dramma della sinergia tra libertà umana e divina. L’umanizzazione di Dio in Cristo ha inaugurato l’orizzonte della divinizzazione dell’uomo nello Spirito, ha liberato la libertà umana implosa su se stessa in una sterile anarchia rivelandone ad un tempo la destinazione ultima ed i tragici arrischi
 
Rivelazione
 
“La Rivelazione avviene nell’ambiente dell’uomo, si produce attraverso l’uomo, cioè dipende dalla condizione umana.
In questo processo l’uomo non si mostra mai totalmente passivo.
La sua attività nella sfera della Rivelazione dipende dal livello della sua coscienza, dalla tensione della sua volontà, come dal grado di spiritualità da lui raggiunto.
La rivelazione presuppone la mia libertà, il mio atto di scelta, la mia fede in qualcosa di impercettibile ai miei sensi e che non esercita alcuna costrizione su di me ”.
La trascendenza della Parola divina è per Berdjaev indiscutibile, ma resta il problema della sua recezione e di quanto d’umano, della sua umanità peggiore, in questa recezione l’uomo vi mescoli.
Indiscutibile è la storia della Rivelazione, ma resta il problema del suo irrigidimento in forme storiche che si danno come esaurienti invece di essere assunte nella loro infinita apertura all’Altro che in esse si annuncia, e mai si esaurisce”[...]
“La critica (che si può fare) alla Rivelazione è (dunque) critica alle rappresentazioni antropomorfiche, cosmomorfiche e sociomorfiche della divinità, alle rappresentazioni cioè che vorrebbero portare Dio nel mondo dell’obiettivazione facendone un elemento di esso.[...]
Non possono essere prese come rivelative dell’eterno rappresentazioni che nate nel tempo in nessun modo lo trascendono.
Ancora non possono essere prese come rivelative della divinità rappresentazioni che sono espressive di quanto nell’uomo vi è di inumano, come sadismo, spirito di vendetta, ecc.; assurdo infatti sarebbe attribuire a Dio ciò che neppure si può attribuire all’idealità umana, all’umanità quale si trova congiunta nella divinità del Cristo.
In un suo capitolo sull’ateismo Berdjaev giunge addirittura a riconoscere l’ateismo come reazione a queste rappresentazioni umane troppo umane di Dio” (Brano tratto dalla presentazione di Giuseppe Riconda a: Verità e Rivelazione di Nokolaj Berdjaev, Rosenberg & Sellier, 1996)
 
 
Potremmo dire che la Rivelazione non cancella la densità delle parole e dei linguaggi umani ma si eventua  in essi, tra le fibre delle esperienze profonde di senso dell’uomo, all’interno di tutta la gamma delle sue percezioni, intuizioni, sogni riflessioni, invocazioni, domande, suppliche (s)comparendo in essi “come orizzonte trascendentale e condizione del nostro conoscere, attendere e simboleggiare; un orizzonte che fa sì che tutto possa apparire come metafora e trapasso precario tra res e parola, essere e significato, soffrire e risorgere, come epifenomeno, epilogo e prologo di se stesso nella sua immensità, inesauribilità, dignità, correlatività, come presente e obbligo (di amare ed essere amati), come feudo e dato provvisorio, invitato e spinto a riceversi, darsi, incarnarsi, progettarsi e abbandonarsi..Dio compare come categoria possibile e come istanza istantanea, come garante del carattere simbolico di ogni essere, come spazio che mette tutto tra virgolette e ce lo fa leggere come involucro e riflesso di una parola creativa, di uno spirito comunicativo, di una luce calda e trasparente” (E.Salmann). Una luce calda che diviene trasparenza delle parole umane oltre e dentro se stesse, liberate dalla contrazione egocentrata ed autoreferenziale sino al rinvio simbolico nel Verbo incarnato che di esse è il grembo ed il compimento, la dimora e la patria.
 
 
Libertà
 
“Per Berdjaev la libertà è quanto v’è di più originario, essa è “anteriore all’essere” e si deve parlare di un “primato della libertà sull’essere” obiettivato, mentre resta aperta la via ad una affermazione di identità di libertà e di essere, o di convertibilità di uno nell’altro, quando l’essere sia considerato nella sua inobiettività. [...]
Chiara è tuttavia la direzione del suo pensiero, il quale insistendo sul fatto che Dio esige dall’uomo un amore libero, che l’atto creativo umano come risposta all’appello divino passa attraverso la libertà, mette in luce la tragicità di una situazione che riguarda tanto l’uomo che Dio: l’uomo che è continuamente in bilico fra la realizzazione dell’immagine divina che porta con sé e la sua negazione, il suo offuscamento, e che nei confronti di Dio si trova in un rapporto che in ogni momento deve essere confermato con un atto di libertà; Dio che affida, per così dire, la realizzazione del suo disegno alla libertà umana,
Dio come amore inesauribile, che si espone al rifiuto umano, ponendo all’uomo al di là di ogni sviamento un’esigenza di conversione e rinascita. Penso che questo voglia dire Berdjaev quando afferma che la tragedia cristiana, a differenza di quella antica che è tragedia del destino, è tragedia della libertà”
 
Obiettivazione
 
“[…] Lo stato dell’uomo dopo la caduta si esprime nel fatto che il Sole che l’illumina interiormente si è staccato da lui per muoversi nella sfera esterna, sicchè egli resta interiormente nelle tenebre e non riceve ormai la luce solare che dal di fuori.
L’uomo avrebbe dovuto essere il Sole dell’Universo, splendente di luce, ma sono tenebre quelle che egli diffonde sull’estensione intera di una vita cosmica che ha cessato di sottometterglisi.
Oggi l’Adamo decaduto può ben ricevere luce e calore da un sole che gli è ormai esteriore, nonostante tutto egli si dibatte nelle tenebre e nel freddo.
Tutto ciò significa propriamente l’obiettivazione della vita spirituale.
L’obiettivazione appare quì in tutta la sua portata come qualcosa di denso ed oscuro che nella sua viscosità implica il concetto di peccato.
[...] Si tratta di uno stato reale, che fa sentire i suoi effetti sulla vita spirituale in genere, producendo la tendenza in chi vive in questo stato a consolidarlo e a consolidarsi sempre più in esso, a rendere inoperanti per così dire quelle energie divine e umane, da cui nonostante tutto è avvolto, che rendono possibile una salvazione e una trasformazione creativa: il peccato non arriva a cancellare la capacità che l’uomo ha di ricevere la Rivelazione divina, la sua coscienza religiosa, l’aspirazione al divino (il che la teologia esprime dicendo che non ha cancellato l’immagine di Dio in lui), e Dio non lo lascia solo, come testimonia la venuta di Cristo e quanto l’ha preparata, anche se non è escluso, come prova, debba passare attraverso l’abbandono” (di sé).
 
Alcune considerazioni:
 
“Dio e il divino si rivelano in Spirito e Verità.
Lo Spirito è nell’uomo Verità, Senso e Luce. Ma nell’uomo allo stesso modo lo Spirito può subire una menomazione un deprezzamento nel corso del processo raggelante e deprezzante dell’obiettivazione.
La fede ha dei gradi, fede nella Verità, fede nello Spirito, fede in Dio, fede nella divino-umanità, fede in una Chiesa definitivamente concepita come corpo spirituale e non più solamente come istituzione sociale”.
Non si deve pensare l’epoca dello Spirito come legata ad un tempo, ad un ordine cronologico: gli uomini non procedono in accordo e non recepiscono la rivelazione di Dio nello stesso tempo allo stesso modo.
“Creature dello Spirito sono esistite in tutti i tempi; in tutti i tempi si sono trovati dei precursori e dei pionieri dell’epoca dello Spirito, uomini animati da un soffio profetico. Sin dalle sue origini la storia del cristianesimo ha conosciuto degli esseri che testimoniano una fiamma rimasta ardente.
Sempre ci furono dei saggi per riceverne la luce e anche ne apparvero nel mondo pre - cristiano.
Sempre sono esistiti mistici di portata eccezionale.[...]
Questo non vuol dire affatto che dobbiamo ammettere, seguendo gli gnostici dell’antichità, l’esistenza di due specie, di due razze umane distinte: quella degli pneumatici e quella degli psichici predestinate entrambe a restare nei propri limiti. Questo stato di cose sarebbe in flagrante contraddizione con l’universalità della rivelazione e la libertà dell’uomo.
L’umanità intera è in cammino, liberamente, e ogni essere umano ha un suo procedere, un suo passo.
La rivelazione di Dio, una e indivisa, viene colta dall’ “occhio intellettivo” dell’uomo nella misura in cui questo è capace di “vedere” le cose dello spirito.
Non si può pertanto affermare che la rivelazione si relativizzi onde rendersi recepibile ad ogni livello; si può dire invece che essa viene simultaneamente recepita ad ogni livello, pur rimanendo nella sua unità trascendente” (op.cit)
 
Si può fare lo stesso discorso per la comprensione del senso della Scrittura. Afferma al riguardo Gregorio Magno, grande maestro e Padre della Chiesa latina, commentando Ezechiele (la visione del carro e del tempio): “la ruota (o il carro) è la Scrittura ed il vivente che tira è chi legge la Scrittura. Il testo si muove, come la ruota, insieme al lettore, per cui sono possibili più interpretazioni; anzi, il senso del testo si prolunga fino al presente del lettore, in modo che l’interpretazione diviene infinita: “Divina eloquia cum legente crescunt”.
È sempre l’uomo a dare senso alle cose, e lo fa con i talenti di cui dispone. Così, è ragionevole pensare che l’uomo abbia avuto in ogni tempo la sua idea di Dio e la sua divina rivelazione in base ad una sorta di autoregolazione spontanea dipendente dalla sua capacità di recepirla: la rivelazione, in quanto atto divino, è unica e copre ogni tempo. E’ inoltre fondamentale che l’interpretazione della Scrittura non sia affidata alla soggettività emotiva o agli psicologismi vari ma all’azione ed al discernimento dello Spirito in noi che riconosce ed interpreta se stesso attaverso la lettera e la lettura del dato Scritturistico, in una sinergia in cui la Parola che riposa al fondo e come fondamento stesso del nostro essere è, nello Spirito, evocata dalla Parola della Scrittura che ci interpella e ri-chiama a noi stessi, alla nostra identità più profonda di “avverbi nel Verbo” (Eckhart), di parole viventi e di viventi commenti del Vangelo per le strade del tempo, tra i fratelli.
                  
Scrive al riguardo Nicola Berdjaev:
                        
Laddove il divino si manifesta, c’è rivelazione!
Ora, il divino si manifesta anche nelle religioni pagane; e si rivela attraverso la natura, nelle religioni della natura. Pertanto, l’antica dottrina che tendeva a provare che Dio non si era rivelato nel mondo precristiano se non al popolo israelita, nell’Antica Alleanza, e che il paganesimo era immerso in una totale oscurità, non può più essere sostenuta.
L’intera diversità della vita religiosa dell’umanità non è che un’ascesa continua verso l’unica rivelazione cristiana.
E quando gli specialisti della storia scientifica delle religioni si sforzano di dimostrare che il cristianesimo non è originale, che le religioni pagane conoscevano già il dio sofferente (Osiride, Adone, Dioniso e altri), che il culto totemico conosceva l’eucarestia, la comunione con la carne e col sangue dell’animale, che nella religione persiana, nella religione egiziana e nell’orfismo si può ritrovare la maggior parte degli elementi del cristianesimo, non comprendono affatto il senso di ciò che si scopre ai loro occhi.
La rivelazione cristiana è universale e tutto ciò che è analogo nelle altre religioni è soltanto una parte della sua rivelazione.
Il cristianesimo non è una religione dello stesso ordine delle altre; è, come ha detto Schleiermacher, la religione delle religioni.
Che importa se nel cristianesimo, riguardato in ciò che ha di diverso, non c’è nulla di originale al di fuori della venuta del Cristo e della sua persona? In questa particolarità originale si realizza appunto la speranza di tutte le religioni.
Le rivelazioni anteriori sono solo un’anticipazione, un presenti- mento della rivelazione cristiana. E il cristianesimo è apparso nel mondo appunto come la realizzazione di tutti i presentimenti e di tutte le prefigurazioni.
La distinzione stabilita fra le religioni della natura e dello spirito è profonda e anche giusta. Queste religioni appartengono a differenti capacità ricettive, e la loro differenza corrisponde alla differenza fondamentale che esiste fra il mondo naturale e il mondo spirituale. Dio si rivela nella natura e nello spirito, si rivela all’uomo come essere naturale e spirituale. La rivelazione della divinità nella natura è solo il riflesso, la proiezione e l’oggettivazione d’un avvenimento che si è compiuto nel mondo spirituale, perchè la rivelazione, per sua essenza, è un avvenimento della vita spirituale e la religione è una manifestazione dello spirito. La religione è la rivelazione di Dio e della vita divina nell’uomo e nel mondo. La vita religiosa è l’acquisto, per l’uomo, di una parentela con Dio”.
(Nicola Berdjaev, Spirito e libertà, cap. III, Edizioni di Comunità, 1947).
 
La rivelazione cristiana non annulla ma invera profondamente le intuizioni, i barlumi e la scintille che di essa le tradizioni religiose hanno colto ed accolto. Liberate dalla giustapposizione reciproca tali intuizioni trovano spazio e composizione all’interno dell’abbraccio triunitario esteso in Cristo, nell’amore dello Spirito ad ogni creatura. Nell’abisso della triunità si unificano oltre ogni confusione o separazione tanto le mistiche dell’immanenza quanto quelle della trascendenza, tanto la vertiginosa ricerca dell’Uno senza secondo quanto la straziante tensione e relazione all’ineludibile A/altro, nell’esperienza integrale di una comunione con il Dio che è contemporaneamente al di là di tutto – ed è l’abisso paterno, il pelagus infinitae substantiae – attraverso tutto – ed è il Figlio-Verbo in cui è accolto e raccolto il progetto creativo e divinizzante dell’umanità e del cosmo che Egli struttura e in-forma di Sé – ed in tutto – ed è lo Spirito Santo, il Dio interiore, il respiro di Dio nel mio respiro che tutto conduce a compimento, che fa gravitare ogni intuizione di bellezza di bontà e di senso all’interno del Regno che in Lui emerge e si compie. In Cristo si trovano riconciliate e liberate dalla giustapposizione e dall’inimicizia le più sublimi intuizioni sull’umanità e sulla divinità, non più concorrenti ma reciprocamente inabitantisi nella divinoumanità, nel divinoumanesimo lontano tanto dal dramma e dai drammi dell’umanesimo ateo (De Lubac) dalla deriva ideologizzante e violenta quanto da un teismo superstizioso, entificato, mortificante e non liberante le virtualità spirituali di comunione e di pienezza deposte nell’umanità “ad immagine”.
Da quanto detto finora, “appare chiaro che l’uomo del progetto divino è un uomo spirituale e che il progetto di Dio si può attuare soltanto con l’avvento dell’uomo spirituale, dell’uomo nuovo, dell’uomo divino-umano. Il Creatore ha soffiato il principio spirituale nelle narici dell’uomo e questo principio spirituale non è affatto una realtà simile a quelle che appartengono al mondo naturale. Il Padre Sergej Bulgakov - dice Berdjaev - che era sempre preoccupato di mantenersi nei limiti dell’ortodossia, dichiara che l’uomo è Spirito, anche se non solamente spirito, il che significa che nell’uomo la persona è di origine divina. Vladimir Solov’ev pensava la stessa cosa. L’uomo trascendentale è in perpetua creazione nell’eternità, o, per esprimermi meglio, è in Dio, dimora in Dio da tutta l’eternità. È l’uomo celeste, ma non l’uomo dell’Eden, nel quale la coscienza non si era ancora risvegliata. L’uomo è l’idea, il disegno di Dio [...] La realizzazione della persona è proprio la realizzazione nell’uomo del suo essere spirituale; e questa realizzazione significa lo svolgersi in lui di un processo teandrico (divino-umano)”. [...] (Verità e Rivelazione, già citato)
 
Accenniamo ora al rapporto del Dio di Israele col suo popolo.
La storia della rivelazione e della salvezza ha il suo centro nell’esodo dall’Egitto e nell’alleanza del popolo eletto d’Israele con Dio, sul Sinai, sotto la guida di Mosè, patto che designa il rapporto tutto particolare di Israele, con Jahveh, frutto di benevola elezione da parte di un Dio che s’impegna come partner di tutto Israele, e si ha il vero patto, con la legge, e soprattutto con il decalogo: (Es. 20, 34).
Ma una ricerca attenta sulla storia della salvezza nell’Antico Testamento ci dice che questo patto viene descritto come conseguenza di patti singoli (con singoli), anteriormente a Mosè: con Noè (Gen. 9, 8-17) si ha già un “patto perpetuo”; con Abramo (Gen. 15, 9-12; 17 s), al quale si connette la circoncisione. Con Davide si ha il patto messianico (2 Sam, 7), in quanto gli viene promesso un discendente che sarà figlio di Dio, mentre alla sua casa è garantita una durata senza fine.
Altri resoconti vanno intesi piuttosto come conferme e ammonimenti alla fedeltà.
 
Puntualizzazioni
 
Come già detto (pag. 22), “ La rivelazione avviene nell’ambiente dell’uomo, si produce attraverso l’uomo, cioè dipende dalla condizione umana. In questo processo l’uomo non si mostra mai totalmente passivo. La sua attività nella sfera della rivelazione dipende dal livello della sua coscienza, dalla tensione della sua volontà, come dal grado di spiritualità da lui raggiunto. La rivelazione presuppone la mia libertà, il mio atto di scelta, la mia fede in qualcosa ancora impercettibile ai miei sensi e che non esercita alcuna costrizione su di me [...]
La sua assimilazione richiede riflessione.
Essa, pur non essendo una verità di ordine intellettuale, implica tuttavia l’attività intellettuale dell’uomo.
È impossibile concepire, una volta preso il partito di ragionare, la rivelazione come un fatto che l’uomo accetta automaticamente in virtù di uno speciale atto divino.
La rivelazione presuppone un previo consenso dell’uomo, consenso che si estende del resto alla creazione stessa.
I protestanti ortodossi sostengono che la Parola di Dio contiene una risposta a tutto. Ma resta nondimeno il problema del criterio che consente di separare quel che ha veramente detto Dio e quel che è stato aggiunto dall’uomo.
Il fatto che gli uomini abbiano sempre cercato di esporre e spiegare la rivelazione e che la Chiesa abbia al contempo subìto un processo d’evoluzione parallelo al suo tradizionalismo, significa che la rivelazione fu e resta sempre soggetta al giudizio della ragione e della coscienza, ma di una ragione e di una coscienza illuminate dalla rivelazione dall’interno, al giudizio cioè di una umanità che essa illumina spiritualmente.
E ci sono molte altre cose soggette a questo tribunale:
-il concetto delle pene eterne dell’inferno, l’idea di predestinazione, l’interpretazione legalistica della Cristianità.
Certe accezioni e certe esegesi della rivelazione urtano incessantemente non solo la nostra coscienza filosofica e scientifica, ma anche il nostro senso morale; la nostra umanità nel senso etico e emotivo del termine.
Ora, per noi, non si tratta di correggere la rivelazione e aggiungervi un elemento di saggezza umana, il che ci sembra una questione assolutamente oziosa. Il vero problema è che nella rivelazione storica noi incontriamo qualcosa di molto umano, di troppo umano e pertanto totalmente estraneo al divino. In quel che gli ortodossi di tutte le confessioni definiscono “rivelazione integrale” ciò che ci urta non è il mistero divino, né quel che in essa vi è di sublime; ci sconvolge invece il suo lato umano di qualità inferiore che conosciamo sin troppo bene. La pura umanità è in realtà quel che l’uomo contiene di divino. Questo è il paradosso fondamentale della divino-umanità. Ciò che vi è di divino nell’uomo è proprio la sua indipendenza dal divino, la sua libertà, l’attività creatrice [...].
 
Possiamo parlare di esoterismo ed essoterismo del cristianesimo senza dare a questa relazione delle sfumature specificamente teosofiche ed occultiste.
È impossibile negare che nella comprensione della cristianità vi sono differenti livelli di profondità.
Il Cristianesimo della classe intellettuale dell’umanità è lo stesso di quello degli strati popolari, ma queste due versioni presentano differenti stadi e forme di obiettivazione [...].
Le forme popolari del Cristianesimo, che contengono sempre qualche motivo di paganesimo antico, sono molto spontanee ed emotive.
Ma si sente in esse la religione socializzata, la persistenza dello stadio primitivo della socializzazione che precedette l’apparizione dell’esperienza religiosa individuale e del dramma religioso individuale.
Questa è una forma di obiettivazione molto più arcaica e primitiva di quella che troviamo nei sistemi teologici e nella coscienza ecclesiastica più evoluta. La difficoltà del problema sta in questo: in che modo si può sfuggire a queste due forme di obiettivazione, in che modo si può raggiungere uno stato di purificazione che si situi ad un livello superiore a queste forme, nelle quali la rivelazione religiosa riveste un carattere sociologico e pretende di avere una validità universale per questo stesso fatto ?
L’esperienza ci suggerisce che siamo in presenza di una razionalizzazione e una razionalizzazione del concetto di Dio.
La difficoltà e l’aspetto veramente doloroso della questione di cui ci occupiamo sta nel fatto che Dio, per rivelarsi all’uomo, deve umanizzarsi: ma questa umanizzazione è ambivalente, positiva e negativa allo stesso tempo:
- Dio può essere compreso come persona antropomorfica;
- Dio può essere compreso sotto le specie della verità che si eleva al di sopra di tutto ciò che è umano e di tutte le limitazioni che nascono dal mondo delle creature.
Queste le conseguenze:
a) Una concezione della divinità puramente apofatica, come Assoluto astratto, porta alla negazione di ogni possibile rapporto vivo tra Dio e l’uomo. Si verifica allora una confusione: l’assimilazione di Dio al concetto logico della divinità, da Gott a Gottheit per usare i termini di Eckhart. C’è una Verità della teologia apofatica suprema e purificatrice.
b) Questa Verità possiede un’altra faccia, un’altra fonte della verità teologica, a cui si riaggancia l’esperienza della comunione con Dio e la divino-umanità. Questa è la verità della pura umanità di Dio.
La concezione di un Dio autosufficiente, di un Dio atto puro, potente, autocratico è inferiore a quella di un Dio sofferente, che languisce per un Altro, di un Dio che ama e si sacrifica.
L’idea di un Assoluto in sé è un concetto gelido.
In realtà il processo che abbiamo sopra descritto dovrebbe essere duplice: da una parte dovrebbe esserci un cammino di purificazione che liberi l’idea di Dio da un erroneo antropomorfismo che lo presenta con i tratti di un essere offeso e vendicativo, e dall’altra un processo di umanizzazione di questa stessa idea che ci riveli Dio come essere che ama, prova ansia, si sacrifica.” (op.cit)
 
Ancora una volta la coincidenza in Cristo, nella simultaneità e trasparenza dello Spirito-Amore, dell’umanizzazione di Dio e della divinizzazione dell’uomo che crescono in maniera proporzionale e non contraria. In Lui, nella sua morte e resurrezione, coincidono l’apofatismo più radicale - la trascendenza della stessa trascendenza, di un’ “assolutezza” di Dio inteso come semplice negazione di ogni traccia creaturale, un’unità monistica e immota ancora tutta negata da ciò che pretenderebbe a sua volta di negare – e la vicinanza più intima, la com-passione del dramma della libertà deviata dell’uomo, la condivisione reale degli inferi della libertà vuota dell’arbitrio cieco deicida, omicida e suicida (Dostoevskji ha indagato come nessun altro le conseguenze del peccato sull’immagine ed il rapporto teologico ed antropologico, lo snaturamento profondo e la sfigurazione dei volti divino ed umano) non per lasciarsene consumare – come in certe interpretazioni ambigue e deboliste della sofferenza di Dio simboleggiante una generica e vaga etica della condivisione senza reale potere di trans-figurare e vincere dall’interno il peccato e la morte come sua tragica conseguenza – ma per consumarne la deriva entropica nella forza dell’Agape, nella forza dello Spirito, nella custodia triunitaria di ogni relazione affettiva ferita e lacerata, nel legame rinnovato tra Dio ed uomo ed, in Lui, tra uomo e uomo che neppure la morte ha più il potere di infrangere.
Nella bellezza sfigurata e trans-figurata dell’umanità di Dio e della divinizzazione dell’umano, nel volto di  Cristo si manifesta la dedizione incondizionata, la promessa e la destinazione di Dio all’uomo, il Suo aver a cuore, da sempre, sin dalle viscere di misericordia trinitarie (rehem – rahamim, quell’amore matriciant, “matricale” come traduce A. Choraqui nel suo commento al Cantico dei Cantici) i tratti del volto umano la cui densità e la cui salvezza, contro ogni mortificazione pseudo-umanistica o “mistica”, Egli ha più care di quanto l’uomo stesso non l’abbia, sempre pronto a barattarle, a barattarsi per ogni idolo. E’ Dio e non l’uomo a non essere disposto a cedere, a perdere la partita contro le potenze di questo mondo (e questo mondo è anche una concezione falsamente religiosa o spiritulistica anestetizzante e vuota, sterile ed esangue ) sul campo di battaglia della Bellezza del volto umano e divino, in Uno. In questo senso devono, crediamo, essere interpretate le affermazioni successive di Berdjaev per non incorrere in equivoche ed affrettate interpretazioni. 
 
“L’umanità in questa concezione è in realtà d’essenza divina [...]
 
Io sostengo che la rivelazione di un Dio sofferente e che aspira all’altro è più alta di quella di un Dio che si soddisfa e si basta da solo. In questo modo si scopre l’umanità suprema di Dio, umanità che diviene il suo unico attributo.
Dio è mistero e libertà.
Egli è amore e umanità.
Ma non è né potenza, né potere, né dominio; non è né giudice né castigo, ecc. In altre parole è completamente sprovvisto di questi attributi umanizzati, sociomorfici.
Dio agisce non con la forza e il dominio ma in modo affatto umano. La rivelazione è umana non foss’altro che perchè dipende dalla fede e dalla qualità della fede.
Dio si eleva assolutamente al di sopra dell’obiettivazione, non è in alcun senso un oggetto o un essere oggettivo.
Il carattere contraddittorio e il paradosso delle relazioni tra il divino e l’umano si eliminano solo nel Mistero Divino che parole umane non possono né definire né esprimere.
Ma l’effusione della luce divina è sempre limitata dallo stato dell’uomo e della massa del popolo, dai limiti della coscienza umana, dal momento e dalle condizioni storiche e geografiche” (op.cit), in una sinergia tra libertà divina ed accoglienza umana. “Essendo Dio stesso libertà e libertà in sé, il suo proporsi in quanto verità nella libertà non può che essere accolto come verità nel momento in cui la libertà che lo accoglie si affida alla verità stessa che incontra” (Piero Coda).
 
Ma, ci si potrebbe chiedere, il dramma della libertà è arrischiato anche ad un libero rifiutarsi dell’uomo alla rivelazione? Potremmo rispondere che l’azione libera di Dio può essere rifiutata, ma non liberamente: l’uomo esercita libertà soltanto accettando la Verità di Dio che lo fa libero.
 
“L’uomo è spirito - afferma Berdjaev - ma non solo spirito”.
Ha infatti due nature, una psicofisica ed una spirituale., entrambe portate alla libertà. Sant’Agostino, seppure indirettamente, conferma tutto questo insegnando appunto che vi sono due libertà:
- libertas minor e libertas maior.
-la libertà minore, quella del primo Adamo;
-la libertà maggiore, quella del secondo Adamo, cioè in Cristo, della quale si dice nel Vangelo: “Conoscete la Verità, e la Verità vi farà liberi”.
La libertà minore, detta anche libertà iniziale, si ha nella verità e nel bene, ovvero scaturisce dal conseguimento di ciò che è bene e vero.
Quando questa libertà non è più orientata verso la Verità, degenera in anarchia, nella sottomissione dell’uomo agli elementi inferiori della natura e perciò nella disgregazione del suo essere.
La libertà maggiore, libertà ultima, è la libertà in Dio, la libertà nel bene senza perchè, libertà della ragione.
Quando diciamo che l’uomo deve liberarsi dagli elementi inferiori, dal potere delle passioni e deve cessare di essere lo schiavo di se stesso e del mondo, abbiamo di mira la seconda libertà, la sublime conquista della libertà dello spirito.
Tuttavia, se questa libertà non rimane orientata verso la Verità, conduce alla costrizione nella verità e nel bene, alla virtù imposta, ove la libertà dello spirito è annientata per sempre.
La Verità fa l’uomo libero, ma l’uomo deve accettare liberamente la Verità; deve accettare liberamente Cristo o rassegnarsi a vivere fuori dalla Verità, schiavo di se stesso e del mondo.
 
La storia   (secondo la letteratura classica e secondo la profezia)
 
Oggi si fa un gran parlare dell’acquisizione del senso della storia come una conquista del mondo moderno nei confronti dell’epoca classica.
I classici, per la civiltà che essi posseggono, possono ritenersi modelli perfetti (classici) da imitare, con riferimento al gusto e alle forme.
Non possono invece essere considerati modelli da imitare per ciò che riguarda il senso della storia, perchè la letteratura classica non ha il senso della storia, non conosce la ragione di un tempo irreversibile, di un tempo che è continuo cammino in avanti. Per loro, il tempo è un continuo ritorno. Pur essendo più grandi, i classici religiosamente sono ancora dei bambini: appartengono infatti ad un’economia cosmica che non conosce l’intervento di un Dio nel mondo.
La storia è possibile solo là dove da un’economia cosmica, in cui tutto è concluso nella natura, si passa ad un’economia profetica nella quale, invece, l’esistenza che si considerava compiuta nella natura viene lacerata e messa in discussione dall’intervento di un Dio che la trascende e l’uomo, chiamato da Dio, va verso colui che lo chiama. Ciò vale tanto per la prima Grande Alleanza del Vecchio Testamento che per la seconda Alleanza di cui parla il Vangelo.
Tucidide (Storico ateniese 460-396 a.c.) scriveva perchè gli uomini, domani, in condizioni che si sarebbero ripetute, sapessero come comportarsi: quello che è avvenuto, avverrà. La storia per Tucidide aveva un solo insegnamento da dare, l’insegnamento di un’esperienza che ti deve servire perchè tu passerai ugualmente per gli stessi avvenimenti per i quali altri sono passati.
Non così vede la storia Israele, ma come cammino che va verso Dio, come continuo superamento nel tempo. Per questo, col cristianesimo che si fonda sull’incontro con Dio, la storia intesa classicamente dovrebbe essere consumata, non dovrebbe esistere più.
 
Ci si potrebbe domandare se anche nel Nuovo Testamento la profezia crei la storia e se la risposta è sì, quale sia il carattere proprio della profezia nel Nuovo Testamento.
 Il cristianesimo si fonda sull’incontro con Dio, non sulla preparazione all’incontro con Dio, fatta di un lento svolgimento, di un lungo cammino. Se la Parola ha una sua funzione anche nel Nuovo Testamento, il carattere profetico che si riscontra è essenzialmente apocalisse (rivelazione).
E la rivelazione non crea un lungo svolgimento di storia, ma crea la fine della storia, la fine di un cammino, l’incontro con la morale della favola che conclude ogni storia, come ben sanno i bambini.
In realtà, colui che realizza la sua fede, nel cristianesimo realizza anche la fine di questo mondo, il superamento di questo mondo e vive la pienezza dei tempi.(Dunque, non si può essere veri cristiani rimanendo del mondo mentre si è nel mondo).
Il cristiano più che a compiere un cammino, è chiamato a precipitare nell’abisso divino in ogni istante, perchè in ogni istante l’uomo che ascolta la divina Parola si trova di fronte a Dio. E oltre Dio non vi è cammino per l’uomo : Dio e l’uomo si sono incontrati e non ci dovrebbe essere altro cammino da fare.
E invece noi vediamo che l’economia cristiana importa la coesistenza di questa fine con la coesistenza di un tempo che procede ancora.
 
Siamo ancora in un tempo profetico.
 
(La Parola profetica che ha rivelato e rivela la libera volontà di Dio, viene recepita dall’uomo solo parzialmente, e chiusa in forme astrattive, in rigidi gusci mentali nei quali rimane ben poco della volontà e della libertà di Dio.
Una rivelazione malintesa carica il divino di umano, a volte del peggior umano e ci dà di dio un’idea tanto lontana da Dio quanto la terra lo è dalla luna.
Non siamo ancora capaci della sua purezza, ed essa, senza una esplicita rinuncia all’io e alle sue ristrette capacità intellettive, non può restaurare i nostri cuori.
Si può quindi dire che il mondo perdura perchè l’uomo abbia modo di aprirsi a quella rivelazione che, se accolta nel giusto modo, ne determinerà la fine.
Dice un proverbio cinese: “I buoi sono lenti, ma la terra non ha fretta”).
 
Di per sé la profezia non soltanto giustifica la storia, ma ne dà la ragione, la rende in qualche modo necessaria al piano divino. Più ancora che gli atti degli uomini, più ancora della successione di un tempo, è la parola ispirata che crea la storia degli uomini. La crea precisamente in quanto la storia non è un puro movimento cieco, ma è un cammino che tende a una meta precisa.
Gli uomini non lo sanno, ma sono condotti a questa meta da una sapienza che si serve di loro anche contro di loro, se necessario, per compiere un’opera stabilita fin dall’eternità.
(Divo Barsotti, Meditazione sull’Apocalisse, Queriniana Ed. 1971)
Dice bonariamente Hans Urs von Balthasar:
-“Siamo stati concepiti come esseri a cui è consentito di volere volontariamente ciò che involontariamente dobbiamo volere”.
In breve, la storia della salvezza si potrebbe riassumere così: Dio ci sospinge inarrestabilmente verso il superamento di noi stessi, verso il distacco completo dalle cose del mondo, per riportare a somiglianza la sua immagine, ora distorta, celata in ciascuno di noi.

Accoglienza dell’avvento
 
“L’apertura alla misteriosità dell’essere costituisce la disponibilità radicale della creatura ad accogliere l’avvento della Parola: l’ineli-minabile esperienza della finitudine, che trova nel misterium mortis la sua cifra più drammatica, è il pungolo continuo dato all’uomo per confrontarsi con la limitatezza del suo orizzonte, con la caducità del suo esistere. [...]
L’esperienza del quotidiano morire, dell’inesorabile ac-cadere degli eventi, fa avvertire la differenza ontologica fra l’esserci degli enti e l’essere silenzioso e nascosto come domanda aperta sull’al di là delle cose, come inquietudine e definizione della problematicità della vita. L’uomo si avverte “destinato” al mistero, aperto in direzione di una domanda senza risposta.[...]
È sulla via di questa “destinazione” che è possibile riconoscere un “essere implicito” di Dio nel creato, un originario esser-fatto-per-Lui della creatura razionale, che non dà pace al cuore dell’uomo: “Hai fatto il nostro cuore per Te, ed è inquieto il nostro cuore fino a che non riposi in Te”, scrive sant’Agostino (Le Confessioni, 1,1) .
“Questo “essere implicito” di Dio non è altro che la forma della rivelazione di Dio nella creazione: svelato in un velamento sempre più grande, [...] il mistero dell’essere che si rivela invita lo spirito creato ad affidarsi, a consegnarsi, via da sé e al di là di sé al mistero.
Ora, questa apertura al Mistero è contemporaneamente apertura a un accadimento, in cui la “destinazione” originaria della creatura venga raggiunta e segnata da una indeducibile “donazione”: [...] non prevedibile e non prevista, veramente altra, e proprio per questo nuova e gratuita e capace di trasmettere il Mistero in quanto tale.[...]
La libera “autodeterminazione” di Dio per l’uomo nel dono della (*)rivelazione non forza mai l’accoglienza libera: il segno di credibilità non è mai costrizione alla fede. La Parola di Dio perciò è veramente accolta solo quando l’apertura “implicita” della creatura al Mistero si fa “esplicita” consegna all’Eterno: è quì che i preambula fidei (*) cedono il posto alla decisione della libertà, alla fiducia dell’assenzo, senza il quale non si compie l’incontro fra l’esodo (dall’io) e l’avvento (di Dio).
Se all’iniziativa divina non corrisponde una consapevole e responsabile “auto-destinazione” dell’uomo per il Dio che si rivela, la gratuita “auto-destinazione” di Dio per l’uomo cui si rivela resta luce non accolta dalle tenebre, parola cui risponde il silenzio dell’indifferenza e del rifiuto e si fa pietra di scandalo, duro ceppo di condanna. I preambula fidei conducono alla soglia del Mistero, ma è solo con l’audacia della libertà che ci si affida ad esso, per sperimentarne le meraviglie”. [...]
 
Gradualità
 
La libera azione di Dio si manifesta all’uomo con la stessa gradualità con la quale egli accresce la sua capacità ricettiva. “se Dio si manifestasse totalmente, se la Parola in cui si dice lo dicesse compiutamente, si verificherebbe una di queste due possibilità: o il mondo divino si ridurrebbe alle misure del mondo umano cui si comunica, o il mondo umano verrebbe semplicemente inghiottito nella luce abbagliante dell’Assoluto.
La rivelazione non toglie la differenza fra i due mondi: Dio resta Dio e il mondo resta mondo, anche se Dio entra nella storia ed all’uomo è offerta una possibilità di partecipare alla vita divina.
(*) PREAMBULA FIDEI:  preamboli della fede, l’insieme di quelle verità che l’uomo può conoscere con la sola ragione e che lo predispongono all’accettazione delle verità rivelate (esistenza di Dio, immortalità dell’anima, ecc).
Questo significa allora che, se nella rivelazione Dio si manifesta nella Parola, al di là di questa Parola, autentica autocomunicazione divina, sta e resta un divino Silenzio.
Questo Silenzio divino è anzitutto la Non-Parola, l’ulteriorità misteriosa e sorgiva da cui la Parola proviene e presso cui la Parola è stata ed è nell’eterna storia di Dio: “In principio era la Parola e la Parola era presso Dio e la Parola era Dio” (Gv. 1, 1). Il testo greco di questo versetto distingue mediante l’articolo le due volte in cui ricorre il termine Dio: la Parola era “presso il Dio” (prsz tsn qesn)- la Parola era Dio (qesz). Questa distinzione dice la comune appartenenza della Parola e di Colui che è il Dio al mondo divino, la loro comunione nell’essere della divinità, ed insieme la distinzione fra il Dio presso cui la Parola era e la Parola stessa di condizione divina. La Non-Parola, il Silenzio del principio, è dunque il Dio, quello che nel Nuovo Testamento è identificato col Padre di Gesù Cristo, mentre la Parola, il
Verbo, è quello che - esistendo da sempre presso il Padre come Dio - si è fatto carne, risuonando nella storia (cfr Gv. 1, 14).
La Parola della rivelazione rimanda quindi al Silenzio dell’origine, alla profondità da cui eternamente proviene e presso cui eternamente è: il Dio fattosi visibile al Dio invisibile, di cui è immagine fedele (cfr. Col. 1, 15; 2Cor. 4,4; Eb. 1,3; ecc.).
Come sul piano dei contenuti del messaggio rivelato si dice che il Figlio procede dal Padre ed è da Lui inviato in questo mondo, così dal punto di vista della forma della rivelazione si può dire che la Parola procede eternamente dal Silenzio divino e ne esce per essere inviata agli uomini in vista della loro salvezza: il Padre “si è rivelato attraverso il suo Figlio Gesù Cristo che è il suo Verbo procedente dal Silenzio” (Ignazio di Antiochia, Ad Magn., 8, 2: PG 5, 669 s).
E come il Figlio è uno col Padre, pur essendo distinto da Lui, così il Verbo è uno col Silenzio divino pur essendo distinto dal Silenzio: se non fosse una cosa sola col Silenzio dell’origine, la Parola non sarebbe autocomunicazione- di Dio; ma se non fosse distinta dal Silenzio eterno come Parola detta nell’eternità e incarnata nella storia, l’Origine divina e la destinazione mondana verrebbero a confondersi. Partendo dalla rivelazione del Figlio si perviene al Padre: partendo dal fatto che questa rivelazione è la Parola eterna detta nella storia, si perviene al divino Silenzio, da cui essa procede, con cui essa è uno e da cui essa si distingue.
La Parola esce dal Silenzio e viene a risuonare nel Silenzio: come c’è una provenienza della Parola dalla silenziosa Origine, così c’è una destinazione della Parola, un suo “avvenire”, come luogo del suo avvento. Questo “avvenire” della Parola è chiamato nel Nuovo Testamento lo Spirito Santo, lo Spirito della verità: “È bene per voi che io me ne vada, perchè se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò... Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perchè non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future”.(Gv. 16, 7 -13).
Anche lo Spirito è in certo senso, il Silenzio: egli segue alla Parola, così come la Parola segue al primo Silenzio. Ma lo Spirito non è il Silenzio dell’Origine, il silenzio dell’uscita: Egli è il Silenzio della destinazione, il Silenzio del ritorno.
Egli è il Silenzio in cui nell'eternità di Dio riposa la Parola uscita dal fecondo Silenzio del Padre: è la pace dell'Amante e dell'Amato, il noi in cui Silenzio e Parola si fanno dialogo eterno. Ed è, insieme, il Silenzio nel quale la Parola esce dall'Origine per entrare nel tempo, è il silenzio dell'estasi di Dio, del divino uscir fuori per donarsi all'altro nell'evento creatore e nella Pentecoste.
Silenzio della pace e Silenzio dell'estasi, il Silenzio dello Spirito può essere detto Silenzio dell'Incontro: in Lui si incontrano il Dio creatore e il mondo creato; in Lui si incontra la Parola fatta carne col cuore dell’uomo che crede e con l’intera vicenda umana, perchè è Lui il testimone del Cristo, la vivente e attualizzante memoria di Lui: “Lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv. 14, 26); “Egli mi renderà testimonianza” (Gv. 15, 26).



Beppe Fragomeni (Kormoran7@libero.it )






Fonte  : testo gentilmente segnalato e inviato ad ARTCUREL da Massimo Bolognino.





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