giovedì 1 agosto 2019

La teologia del corpo (2° parte): " L'AMORE UMANO NEL PIANO DIVINO ", di PAPA GIOVANNI PAOLO II




PAPA GIOVANNI PAOLO II


 
LA TEOLOGIA DEL CORPO
Udienze Generali
(Udienze Generali 1979 - 1984)
 
Catechesi di Papa Giovanni Paolo II

" L'AMORE UMANO NEL PIANO DIVINO "

"la redenzione del corpo e la sacramentalità del matrimonio"
 
 

PRIMO CICLO
  L’unità originaria dell’uomo e della donna
"Catechesi sul Libro della Genesi"  

SECONDO CICLO
La redenzione del cuore
(Teologia del corpo dell'uomo decaduto e redento)

TERZO CICLO
La risurrezione della carne
(Teologia del corpo dell'uomo dell'uomo risorto, pienamente redento e ri-creato)

QUARTO CICLO
La verginità cristiana



SECONDA PARTE
ANALISI DEL SACRAMENTO DEL MATRIMONIO

QUINTO CICLO
Il matrimonio cristiano
(il sacramento del matrimonio nella dimensione dell'Alleanza, della Grazia e del Segno)

SESTO CICLO
Amore Sponsale
(riflessioni su Il Cantico dei Cantici e il Libro di Tobia)

SETTIMO CICLO
Amore e fecondità
(Rilettura ed approfondimenti di "humanae vitae" e abbozzi di spiritualità familiare e coniugale alla luce dell'enciclica)











SECONDA PARTE

ANALISI DEL SACRAMENTO DEL MATRIMONIO







QUINTO CICLO

Il matrimonio cristiano

(il sacramento del matrimonio nella dimensione dell'Alleanza, della Grazia e del Segno)



Mercoledì, 28 luglio 1982
1. Iniziamo oggi un nuovo capitolo sul tema del matrimonio, leggendo le parole di san Paolo agli Efesini:
“Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto.
E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se stesso, e la donna sia rispettosa verso il marito” (Ef 5, 22-33).
2. Conviene che sottoponiamo ad analisi approfondita il testo citato, contenuto in questo capitolo quinto della lettera agli Efesini, così come, in precedenza, abbiamo analizzato le singole parole di Cristo, che sembrano avere un significato-chiave per la teologia del corpo. Si trattava delle parole, in cui Cristo si richiama al “principio” (Mt 19, 4; Mc 10, 6), al “cuore” umano, nel Discorso della Montagna (Mt 5, 28) e alla futura risurrezione (cf. Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc 20, 35). Quanto è contenuto nel passo della lettera agli Efesini costituisce quasi il “coronamento” di quelle altre sintetiche parole-chiave. Se da esse è emersa la teologia del corpo nei suoi lineamenti evangelici, semplici ed insieme fondamentali, occorre, in certo senso, presupporre questa teologia nell’interpretare il menzionato passo della lettera agli Efesini. E perciò, se si vuol interpretare quel passo, bisogna farlo alla luce di ciò che Cristo ci disse sul corpo umano. Egli parlò non solo richiamandosi all’uomo “storico” e perciò stesso all’uomo, sempre “contemporaneo”, della concupiscenza (al suo “cuore”), ma anche rilevando, da un lato, le prospettive del “principio” ossia dell’innocenza originaria e della giustizia e, dall’altro, le prospettive escatologiche della risurrezione dei corpi, quando “non prenderanno né moglie né marito” (cf. Lc 20, 35). Tutto ciò fa parte dell’ottica teologica della “redenzione del nostro corpo” (Rm 8, 23).
3. Anche le parole dell’autore della lettera agli Efesini (Il problema della paternità paolina della lettera agli Efesini, riconosciuta da alcuni esegeti e negata da altri, può essere risolto per il tramite di una supposizione mediana, che qui accettiamo quale ipotesi di lavoro: ossia, che san Paolo affidò alcuni concetti al suo segretario, il quale poi li sviluppò e rifinì. È questa soluzione provvisoria del problema che abbiamo in mente, parlando dell’“Autore della lettera agli Efesini”, dell’“Apostolo” e di “san Paolo”.) sono centrate sul corpo; e ciò sia nel suo significato metaforico, cioè sul corpo di Cristo che è la Chiesa, sia nel suo significato concreto, cioè sul corpo umano nella sua perenne mascolinità e femminilità, nel suo perenne destino all’unione nel matrimonio, come dice il libro della Genesi: “L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (Gen 2, 24).
In qual modo questi due significati del corpo compaiono e convergono nel brano della lettera agli Efesini? E perché vi compaiono e convergono? Ecco gli interrogativi che bisogna porsi, attendendo delle risposte non tanto immediate e dirette, quanto possibilmente approfondite e “a lunga scadenza”, alle quali siamo stati preparati dalle analisi precedenti. Infatti, quel brano della lettera agli Efesini non può essere correttamente inteso, se non soltanto nell’ampio contesto biblico, considerandolo come “coronamento” dei temi e delle verità che, attraverso la Parola di Dio rivelata nella Sacra Scrittura, affluiscono e defluiscono come a onde lunghe. Sono temi centrali e verità essenziali. E perciò il testo citato della lettera agli Efesini è anche un testo-chiave e “classico”.
4. È un testo ben noto alla liturgia, in cui compare sempre in rapporto con il sacramento del Matrimonio. La “lex orandi” della Chiesa vede in esso un esplicito riferimento a questo sacramento: e la “lex orandi” permette e nello stesso tempo esprime sempre la “lex credendi”. Ammettendo tale premessa, dobbiamo subito chiederci: in questo “classico” testo della lettera agli Efesini, come emerge la verità sulla sacramentalità del matrimonio? in qual modo viene in esso espressa oppure confermata? Diverrà chiaro che la risposta a questi interrogativi non può essere immediata e diretta, ma graduale e “a lunga scadenza”. Ciò viene comprovato perfino da un primo sguardo a questo testo, che ci riporta al libro della Genesi e dunque “al principio”, e che, nella descrizione del rapporto tra Cristo e la Chiesa, riprende dagli scritti dei profeti dell’Antico Testamento la ben nota analogia dell’amore sponsale tra Dio e il suo popolo eletto. Senza esaminare questi rapporti, sarebbe difficile rispondere alla domanda sul modo, in cui la lettera agli Efesini tratta della sacramentalità del matrimonio. Si vedrà pure come la prevista risposta deve passare attraverso tutto l’ambito dei problemi analizzati in precedenza, cioè attraverso la teologia del corpo.
5. Il sacramento o la sacramentalità - nel senso più generale di questo termine - si incontra con il corpo e presuppone la “teologia del corpo”. Il sacramento, infatti, secondo il significato generalmente conosciuto, è un “segno visibile”. Il “corpo” significa pure ciò che è visibile, significa la “visibilità” del mondo e dell’uomo. Dunque, in qualche modo - anche se il più generale - il corpo entra nella definizione del sacramento, essendo esso “segno visibile di una realtà invisibile”, cioè della realtà spirituale, trascendente, divina. In questo segno - e mediante questo segno - Dio si dona all’uomo nella sua trascendente verità e nel suo amore. Il sacramento è segno della grazia ed è un segno efficace. Non solo la indica ed esprime in modo visibile, a modo di segno, ma la produce, e contribuisce efficacemente a far sì che la grazia diventi parte dell’uomo, e che in lui si realizzi e si compia l’opera della salvezza, l’opera prestabilita da Dio fin dall’eternità e pienamente rivelata in Gesù Cristo.
6. Direi che già questo primo sguardo gettato sul “classico” testo della lettera agli Efesini indica la direzione in cui debbono svilupparsi le nostre ulteriori analisi. È necessario che queste analisi inizino dalla preliminare comprensione del testo in se stesso; tuttavia, debbono in seguito condurci, per così dire, oltre i suoi confini, per capire possibilmente “fino in fondo” quanta ricchezza di verità rivelata da Dio sia contenuta nell’ambito di quella pagina stupenda. Servendoci della nota espressione della costituzione Gaudium et Spes, si può dire che il brano da noi scelto nella lettera agli Efesini “svela - in modo particolare - l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” (Gaudium et Spes, 22): in quanto egli partecipa all’esperienza della persona incarnata. Infatti Dio, creandolo a sua immagine, fin dal principio lo creò “maschio e femmina” (Gen 1, 27).
Durante le successive analisi cercheremo - soprattutto alla luce del citato testo della lettera agli Efesini - di comprendere più profondamente il sacramento (in particolare, il matrimonio come sacramento): prima, nella dimensione dell’alleanza e della grazia, e, in seguito, nella dimensione del segno sacramentale.

Mercoledì, 4 agosto 1982
1. Nella nostra conversazione di mercoledì scorso ho citato il capitolo quinto della lettera agli Efesini (Ef 5, 22-23). Ora, dopo lo sguardo introduttivo su quel testo “classico”, conviene esaminare il modo in cui tale brano - così importante sia per il mistero della Chiesa, sia per la sacramentalità del matrimonio - è inquadrato nell’immediato contesto dall’intera lettera.
Pur sapendo che esiste una serie di problemi discussi tra i Biblisti riguardo ai destinatari, alla paternità e anche alla data della sua composizione, bisogna costatare che la lettera agli Efesini ha una struttura molto significativa. L’Autore inizia questa lettera col presentare l’eterno piano della salvezza dell’uomo in Gesù Cristo.
“. . . Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo / . . . In lui ci ha scelti . . . / per essere santi ed immacolati al suo cospetto nella carità, / predestinandoci ad essere suoi figli adottivi / per opera di Gesù Cristo, / secondo il beneplacito della sua volontà. / E questo a lode e gloria della sua grazia, / che ci ha dato nel suo Figlio diletto; / nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, / la remissione dei peccati / secondo la ricchezza della sua grazia. / . . . per realizzarlo nella pienezza dei tempi: / il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose . . .” (Ef 1, 3.4-7.10).
L’Autore della lettera agli Efesini, dopo aver presentato con parole piene di gratitudine il piano che, fin dall’eternità, è in Dio e ad un tempo si realizza già nella vita dell’umanità, prega il Signore, affinché gli uomini (e direttamente i destinatari della lettera) conoscano pienamente Cristo quale capo: “. . . Lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, / la quale è il suo corpo, / la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose” (Ef 1, 22-23). L’umanità peccatrice è chiamata ad una vita nuova in Cristo, nel quale i pagani e gli Ebrei debbono unirsi come in un tempio (cf. Ef 2, 11-21). L’Apostolo è banditore del ministero di Cristo tra i pagani, ai quali soprattutto si rivolge nella sua lettera, piegando “le ginocchia davanti al Padre” e chiedendo che conceda loro, “secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente rafforzati dal suo Spirito nell’uomo interiore” (Ef 3, 14.16).
2. Dopo questo così profondo e suggestivo svelamento del mistero di Cristo nella Chiesa, l’Autore passa, nella seconda parte della lettera, a direttive più particolareggiate, che mirano a definire la vita cristiana come vocazione che scaturisce dal piano divino, di cui abbiamo parlato in precedenza, cioè dal mistero di Cristo nella Chiesa. Anche qui l’Autore tocca diverse questioni sempre valide per la vita cristiana. Esorta a conservare l’unità, sottolineando in pari tempo che tale unità si costruisce sulla molteplicità e diversità dei doni di Cristo. A ciascuno è dato un dono diverso, ma tutti, come cristiani, debbono “rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio, nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4, 24). Con ciò è legato un richiamo categorico a superare i vizi ed acquisire le virtù corrispondenti alla vocazione che tutti hanno ottenuto in Cristo (cf. Ef 4, 25-32). L’Autore scrive: “Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi . . . in sacrificio” (Ef 5, 1-2).
3. Nel capitolo quinto della lettera agli Efesini questi richiami divengono ancor più particolareggiati. L’Autore condanna severamente gli abusi pagani, scrivendo: “Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce” (Ef 5, 8). E poi: “Non siate . . . inconsiderati, ma sappiate comprendere la volontà di Dio. E non ubriacatevi di vino (riferimento al libro dei Proverbi 23, 31) . . . ma siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni e cantici spirituali, cantando ed inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore” (Ef 5, 17-19). L’Autore della lettera vuole illustrare con queste parole il clima di vita spirituale, che dovrebbe animare ogni comunità cristiana. A questo punto, passa alla comunità domestica, cioè alla famiglia. Scrive infatti: “Siate ricolmi dello Spirito . . . rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo. Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 18.20-21). E così entriamo appunto in quel brano della lettera, che sarà tema della nostra particolare analisi. Potremo costatare facilmente che il contenuto essenziale di questo testo “classico” compare all’incrocio dei due principali fili conduttori dell’intera lettera agli Efesini: il primo, quello del mistero di Cristo che, come espressione del piano divino per la salvezza dell’uomo, si realizza nella Chiesa; il secondo, quello della vocazione cristiana quale modello di vita dei singoli battezzati e delle singole comunità, corrispondente al mistero di Cristo, ossia al piano divino per la salvezza dell’uomo.
4. Nel contesto immediato del brano citato, l’Autore della lettera cerca di spiegare in qual modo la vocazione cristiana così concepita debba realizzarsi e manifestarsi nei rapporti tra tutti i membri di una famiglia; dunque, non solo tra il marito e la moglie (di cui tratta precisamente il brano del capitolo 5, 22-23 da noi scelto), ma anche tra i genitori e i figli. L’Autore scrive: “Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto. Onora tuo padre e tua madre: è questo il primo comandamento associato a una promessa: perché tu sia felice e goda di una vita lunga sopra la terra. E voi, padri, non inasprite i vostri figli, ma allevateli nell’educazione e nella disciplina del Signore” (Ef 6, 1-4). In seguito, si parla dei doveri dei servi nei riguardi dei padroni e, viceversa, dei padroni nei riguardi dei servi, cioè degli schiavi (cf. Ef 6, 5-9), il che va riferito anche alle direttive concernenti la famiglia in senso lato. Essa, infatti, era costituita non soltanto dai genitori e dai figli (secondo il succedersi delle generazioni), ma vi appartenevano in senso lato anche i servi di ambedue i sessi: schiavi e schiave.
5. Così, dunque, il testo della lettera agli Efesini, che ci proponiamo di far oggetto di una approfondita analisi, si trova nell’immediato contesto di insegnamenti sugli obblighi morali della società familiare (le cosiddette “Hausteflen” o codici domestici, secondo la definizione di Lutero). Analoghe istruzioni troviamo anche in altre lettere (cf. ex. gr., Col 3, 18; 1 Pt 2, 13-3, 7). Per di più, tale contesto immediato fa parte del nostro brano, in quanto anche il “classico” testo da noi scelto tratta dei reciproci doveri dei mariti e delle mogli. Tuttavia occorre notare che il brano 5, 22-33 della lettera agli Efesini è centrato di per sé esclusivamente sui coniugi e sul matrimonio, e quanto riguarda la famiglia anche in senso lato si trova già nel contesto. Prima, però, di accingersi ad un’analisi approfondita del testo, conviene aggiungere che l’intera lettera termina con uno stupendo incoraggiamento alla battaglia spirituale (cf. Ef 6, 10-20), con brevi raccomandazioni (cf. Ef 6, 21-22) e un augurio finale (cf. Ef 6, 23-24). Quell’appello alla battaglia spirituale sembra essere logicamente fondato sull’argomentazione di tutta la lettera. Esso è, per così dire, l’esplicito compimento dei suoi principali fili conduttori.
Avendo così davanti agli occhi la struttura complessiva dell’intera lettera agli Efesini, cercheremo nella prima analisi di chiarire il significato delle parole: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21), rivolte ai mariti e alle mogli.

Mercoledì, 11 agosto 1982
1. Iniziamo oggi un’analisi più particolareggiata del brano della lettera agli Efesini 5, 21-33. L’Autore, rivolgendosi ai coniugi, raccomanda loro di esser “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21).
Si tratta qui di un rapporto dalla doppia dimensione o di duplice grado: reciproco e comunitario. Uno precisa e caratterizza l’altro. Le relazioni reciproche del marito e della moglie debbono scaturire dalla loro comune relazione con Cristo. L’Autore della lettera parla del “timore di Cristo” in un senso analogo a quando parla del “timore di Dio”. In questo caso, non si tratta di timore o paura, che è un atteggiamento difensivo davanti alla minaccia di un male, ma si tratta soprattutto di rispetto per la santità, per il “sacrum”; si tratta della “pietas”, che nel linguaggio dell’Antico Testamento fu espressa anche col termine “timore di Dio” (cf.,ex. gr., Sal 102 [103], 11; Pr 1, 7; Pr 23, 17; Sir 1, 11-16). In effetti, una tale “pietas”, sorta dalla profonda coscienza del mistero di Cristo, deve costituire la base delle reciproche relazioni tra i coniugi.
2. Come il contesto immediato, così anche il testo scelto da noi ha un carattere “parenetico”, cioè di istruzione morale. L’Autore della lettera desidera indicare ai coniugi come si devono stabilire le loro relazioni reciproche e tutto il loro comportamento. Egli deduce le proprie indicazioni e direttive dal mistero di Cristo presentato all’inizio della lettera. Questo mistero deve essere spiritualmente presente nel reciproco rapporto dei coniugi. Penetrando i loro cuori, generando in essi quel santo “timore di Cristo” (cioè appunto la “pietas”), il mistero di Cristo deve condurli ad esser “sottomessi gli uni agli altri”: il mistero di Cristo, cioè il mistero della scelta, fin dall’eternità, di ciascuno di loro in Cristo “ad essere figli adottivi” di Dio.
3. L’espressione che apre il nostro brano di Efesini 5, 21-33, al quale ci siamo avvicinati grazie all’analisi del contesto remoto e immediato, ha un’eloquenza tutta particolare. L’Autore parla della mutua sottomissione dei coniugi, marito e moglie, e in tal modo fa anche capire come bisogna intendere le parole che scriverà in seguito sulla sottomissione della moglie al marito. Infatti leggiamo: “Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore” (Ef 5, 22). Esprimendosi così, l’Autore non intende dire che il marito è “padrone” della moglie e che il patto inter-personale proprio del matrimonio è un patto di dominio del marito sulla moglie. Esprime, invece, un altro concetto: cioè che la moglie, nel suo rapporto con Cristo - il quale è per ambedue i coniugi unico Signore - può e deve trovare la motivazione di quel rapporto con il marito, che scaturisce dall’essenza stessa del matrimonio e della famiglia. Tale rapporto, tuttavia, non è sottomissione unilaterale. Il matrimonio, secondo la dottrina della lettera agli Efesini, esclude quella componente del patto che gravava e, a volte, non cessa di gravare su questa istituzione. Il marito e la moglie sono infatti “sottomessi gli uni agli altri”, sono vicendevolmente subordinati. La fonte di questa reciproca sottomissione sta nella “pietas” cristiana, e la sua espressione è l’amore.
4. L’Autore della lettera sottolinea in modo particolare questo amore, rivolgendosi ai mariti. Scrive infatti: “E voi, mariti, amate le vostre mogli . . .”, e con questo modo di esprimersi toglie qualunque timore, che avrebbe potuto suscitare (data la sensibilità contemporanea) la frase precedente: “Le mogli siano sottomesse ai mariti”. L’amore esclude ogni genere di sottomissione, per cui la moglie diverrebbe serva o schiava del marito, oggetto di sottomissione unilaterale. L’amore fa sì che contemporaneamente anche il marito è sottomesso alla moglie, e sottomesso in questo al Signore stesso, così come la moglie al marito. La comunità o unità che essi debbono costituire a motivo del matrimonio, si realizza attraverso una reciproca donazione, che è anche una sottomissione vicendevole. Cristo è fonte ed insieme modello di quella sottomissione che, essendo reciproca “nel timore di Cristo”, conferisce all’unione coniugale un carattere profondo e maturo. Molteplici fattori di natura psicologica o di costume vengono, in questa fonte e dinanzi a questo modello, talmente trasformati da far emergere, direi, una nuova e preziosa “fusione” dei comportamenti e dei rapporti bilaterali.
5. L’Autore della lettera agli Efesini non teme di accogliere quei concetti che erano propri della mentalità e dei costumi di allora; non teme di parlare della sottomissione della moglie al marito; non teme, poi (anche nell’ultimo versetto del testo da noi citato), di raccomandare alla moglie che “sia rispettosa verso il marito” (Ef 5, 33). Infatti è certo che, quando il marito e la moglie saranno sottomessi l’uno all’altro “nel rumore di Cristo”, tutto troverà un giusto equilibrio, cioè tale da corrispondere alla loro vocazione cristiana nel mistero di Cristo.
6. Diversa è certamente la nostra sensibilità contemporanea, diversi sono anche le mentalità e i costumi, e differente è la posizione sociale della donna nei confronti dell’uomo. Nondimeno, il fondamentale principio parenetico, che troviamo nella lettera agli Efesini, rimane lo stesso e porta i medesimi frutti. La sottomissione reciproca “nel timore di Cristo” - sottomissione nata sul fondamento della “pietas” cristiana - forma sempre quella profonda e salda struttura portante della comunità dei coniugi, in cui si realizza la vera “comunione” delle persone.
7. L’Autore del testo agli Efesini, che ha iniziato la sua lettera con una magnifica visione del piano eterno di Dio verso l’umanità, non si limita a porre in rilievo soltanto gli aspetti tradizionali del costume o quelli etici del matrimonio, ma oltrepassa l’ambito dell’insegnamento, e, scrivendo sul rapporto reciproco dei coniugi, scopre in esso la dimensione dello stesso mistero di Cristo, di cui egli è annunziatore e apostolo. “Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti, in tutto. E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei . . .” (Ef 5, 22-25). In tal modo, l’insegnamento proprio di questa parte parenetica della lettera viene, in certo senso, inserito nella realtà stessa del mistero nascosto fin dall’eternità in Dio e rivelato all’umanità in Gesù Cristo. Nella lettera agli Efesini siamo testimoni, direi, di un particolare incontro di quel mistero con l’essenza stessa della vocazione al matrimonio. Come bisogna intendere questo incontro?
8. Nel testo della lettera agli Efesini esso si presenta anzitutto come una grande analogia. Vi leggiamo: “Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore . . .”: ecco la prima componente dell’analogia. “Il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa . . .”: ecco la seconda componente, che costituisce il chiarimento e la motivazione della prima. “E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti . . .”: il rapporto di Cristo con la Chiesa, presentato precedentemente, viene ora espresso quale rapporto della Chiesa con Cristo, e qui è compresa la componente successiva dell’analogia. Infine: “E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei . . .”: ecco l’ultima componente dell’analogia. Il seguito del testo della lettera sviluppa il pensiero fondamentale, contenuto nel passo or ora citato; e l’intero testo della lettera agli Efesini al capitolo 5 (Ef 5, 21-23) è interamente permeato della stessa analogia; cioè: il rapporto reciproco tra i coniugi, marito e moglie, va inteso dai cristiani a immagine del rapporto tra Cristo e la Chiesa.

Mercoledì, 18 agosto 1982
1. Analizzando le rispettive componenti della lettera agli Efesini, abbiamo costatato mercoledì scorso che, il rapporto reciproco tra i coniugi, marito e moglie, va inteso dai cristiani ad immagine del rapporto tra Cristo e la Chiesa.
Questo rapporto è rivelazione e realizzazione nel tempo del mistero della salvezza, dell’elezione di amore, “nascosta” dall’eternità in Dio. In questa rivelazione e realizzazione il mistero della salvezza comprende il tratto particolare dell’amore sponsale nel rapporto di Cristo con la Chiesa, e perciò lo si può esprimere nel modo più adeguato, ricorrendo all’analogia del rapporto che c’è - che deve esserci - tra marito e moglie nel matrimonio. Tale analogia chiarisce il mistero, almeno fino ad un certo grado. Anzi, sembra che, secondo l’Autore della lettera agli Efesini, questa analogia sia complementare di quella di “Corpo Mistico” (cf. Ef 1, 22-23), quando cerchiamo di esprimere il mistero del rapporto di Cristo con la Chiesa e - risalendo ancor più lontano - il mistero dell’amore eterno di Dio verso l’uomo, verso l’umanità: il mistero, che si esprime e si realizza nel tempo attraverso il rapporto di Cristo con la Chiesa.
2. Se - come è stato detto - questa analogia illumina il mistero, essa stessa a sua volta viene illuminata da quel mistero. Il rapporto sponsale che unisce i coniugi, marito e moglie, deve - secondo l’Autore della lettera agli Efesini - aiutarci a comprendere l’amore che unisce il Cristo con la Chiesa, quell’amore reciproco di Cristo e della Chiesa, in cui si realizza l’eterno piano divino della salvezza dell’uomo. Tuttavia, il significato dell’analogia non si esaurisce qui. L’analogia usata nella lettera agli Efesini, chiarendo il mistero del rapporto tra il Cristo e la Chiesa, contemporaneamente svela la verità essenziale sul matrimonio: cioè, che il matrimonio corrisponde alla vocazione dei cristiani solo quando rispecchia l’amore che Cristo-Sposo dona alla Chiesa sua Sposa, e che la Chiesa (a somiglianza della moglie “sottomessa”, dunque pienamente donata) cerca di ricambiare a Cristo. Questo è l’amore redentore, salvatore, l’amore con cui l’uomo dall’eternità è stato amato da Dio in Cristo: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, / per essere santi e immacolati al suo cospetto . . .” (Ef 1, 4).
3. Il matrimonio corrisponde alla vocazione dei cristiani in quanto coniugi soltanto se, appunto, quell’amore vi si rispecchia ed attua. Ciò diverrà chiaro se cercheremo di rileggere l’analogia paolina nella direzione inversa, cioè partendo dal rapporto di Cristo con la Chiesa, e volgendoci poi al rapporto del marito e della moglie nel matrimonio. Nel testo è usato il tono esortativo: “Le mogli siano sottomesse ai mariti . . . come la Chiesa sta sottomessa a Cristo”. E d’altra parte: “Voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa . . .”. Queste espressioni dimostrano che si tratta di un obbligo morale. Tuttavia, per poter raccomandare tale obbligo, bisogna ammettere che nell’essenza stessa del matrimonio si racchiude una particella dello stesso mistero. Altrimenti, tutta questa analogia rimarrebbe sospesa nel vuoto. L’invito dell’Autore della lettera agli Efesini, rivolto ai coniugi, perché modellino il loro rapporto reciproco a somiglianza del rapporto di Cristo con la Chiesa (“come - così”), sarebbe privo di una base reale, come se gli mancasse il terreno sotto i piedi. Tale è la logica dell’analogia usata nel citato testo agli Efesini.
4. Come si vede, questa analogia opera in due direzioni. Se, da una parte, ci consente di comprendere meglio l’essenza del rapporto di Cristo con la Chiesa, dall’altra, al tempo stesso, ci permette di penetrare più profondamente nell’essenza del matrimonio, al quale sono chiamati i cristiani. Essa manifesta, in un certo senso, il modo in cui questo matrimonio, nella sua essenza più profonda, emerge dal mistero dell’amore eterno di Dio verso l’uomo e l’umanità: da quel mistero salvifico, che si compie nel tempo mediante l’amore sponsale di Cristo verso la Chiesa. Partendo dalle parole della lettera agli Efesini (Ef 5, 22-33), possiamo in seguito sviluppare il pensiero contenuto nella grande analogia paolina in due direzioni: sia nella direzione di una più profonda comprensione della Chiesa, sia nella direzione di una più profonda comprensione del matrimonio. Nelle nostre considerazioni seguiremo anzitutto questa seconda, memori che, alla base della comprensione del matrimonio nella sua essenza stessa, sta il rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa. Quel rapporto va analizzato ancor più accuratamente per poter stabilire - supponendo l’analogia con il matrimonio - in qual modo questo diventi segno visibile dell’eterno mistero divino, ad immagine della Chiesa unita con Cristo. In questo modo la lettera agli Efesini ci conduce alle basi stesse della sacramentalità del matrimonio.
5. Intraprendiamo, dunque, un’analisi particolareggiata del testo. Quando leggiamo nella lettera agli Efesini che “il marito . . . è capo della moglie come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo” (Ef 5, 23), possiamo supporre che l’Autore, il quale ha già prima chiarito che la sottomissione della moglie al marito, come capo, va intesa quale sottomissione reciproca “nel timore di Cristo”, risale al concetto radicato nella mentalità del tempo, per esprimere anzitutto la verità circa il rapporto di Cristo con la Chiesa, cioè che Cristo è capo della Chiesa. È capo come “salvatore del suo corpo”. La Chiesa è appunto quel corpo che - essendo sottomesso in tutto a Cristo come suo capo - riceve da lui tutto ciò, per cui diviene ed è suo corpo: cioè la pienezza della salvezza come dono di Cristo, il quale “ha dato se stesso per lei” sino alla fine. Il “donarsi” di Cristo al Padre per mezzo dell’obbedienza fino alla morte di croce acquista qui un senso strettamente ecclesiologico: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25). Attraverso una totale donazione per amore ha formato la Chiesa come suo corpo e continuamente la edifica, divenendo suo capo. Come capo è salvatore del suo corpo e, nello stesso tempo, quale salvatore è capo. Come capo e salvatore della Chiesa è anche sposo della sua sposa.
6. In tanto la Chiesa è se stessa, in quanto, come corpo, accoglie da Cristo, suo capo, l’intero dono della salvezza come frutto dell’amore di Cristo e della sua donazione per la Chiesa: frutto della donazione di Cristo sino alla fine. Quel dono di sé al Padre per mezzo dell’obbedienza fino alla morte (cf. Fil 2, 8) è contemporaneamente, secondo la lettera agli Efesini, un “dare se stesso per la Chiesa”. In questa espressione, l’amore redentore si trasforma, direi, in amore sponsale: Cristo, dando se stesso per la Chiesa, con lo stesso atto redentore si è unito una volta per sempre con essa, come lo sposo con la sposa, come il marito con la moglie, donandosi attraverso tutto ciò che una volta per sempre è racchiuso in quel suo “dare se stesso” per la Chiesa. In tal modo, il mistero della redenzione del corpo nasconde in sé, in certo senso, il mistero “delle nozze dell’Agnello” (cf. Ap 19, 7). Poiché Cristo è capo del corpo, l’intero dono salvifico della redenzione penetra la Chiesa come il corpo di quel capo, e forma continuamente la più profonda, essenziale sostanza della sua vita. E la forma al modo sponsale, dato che nel testo citato l’analogia del corpo-capo passa nell’analogia dello sposo-sposa, o piuttosto del marito-moglie. Lo dimostrano i brani successivi del testo, ai quali converrà passare in seguito.

Mercoledì, 25 agosto 1982
1. Nelle precedenti considerazioni sul quinto capitolo della lettera agli Efesini (Ef 5, 21-33) abbiamo richiamato particolarmente l’attenzione sull’analogia del rapporto che esiste tra Cristo e la Chiesa, e di quello che esiste tra lo sposo e la sposa, cioè tra il marito e la moglie, uniti dal vincolo sponsale. Prima di accingerci all’analisi dei brani ulteriori del testo in questione, dobbiamo prendere coscienza del fatto che nell’ambito della fondamentale analogia paolina: Cristo e Chiesa da una parte, uomo e donna, come coniugi, dall’altra, vi è pure un’analogia supplementare: l’analogia cioè del Capo e del Corpo. Ed è proprio questa analogia a conferire un significato principalmente ecclesiologico all’enunciato da noi analizzato: la Chiesa, come tale, è formata da Cristo; è costituita da lui nella sua parte essenziale, come il corpo dal capo. L’unione del corpo con il capo è soprattutto di natura organica, è, in semplici parole, l’unione somatica dell’organismo umano. Su questa unione organica si fonda, in modo diretto, l’unione biologica, in quanto si può dire che “il corpo vive dal capo” (anche se, in pari tempo, sebbene in un altro modo, il capo vive dal corpo). E inoltre, se si tratta dell’uomo, su questa unione organica si fonda anche l’unione psichica, intesa nella sua integrità e, in definitiva, l’unità integrale della persona umana.
2. Come già è stato detto (per lo meno nel brano analizzato), l’Autore della lettera agli Efesini ha introdotto l’analogia supplementare del capo e del corpo nell’ambito dell’analogia del matrimonio. Sembra perfino che abbia concepito la prima analogia: “capo-corpo”, in maniera più centrale dal punto di vista della verità su Cristo e sulla Chiesa, da lui proclamata. Tuttavia, bisogna ugualmente affermare che non l’ha posta accanto o al di fuori dell’analogia del matrimonio come legame sponsale. Anzi, al contrario. Nell’intero testo della lettera agli Efesini (Ef 5, 22-33), e specialmente nella prima parte, di cui ci stiamo occupando (Ef 5, 22-23), l’Autore parla come se nel matrimonio anche il marito sia “capo della moglie”, e la moglie “corpo del marito” come se anche i coniugi formino una unione organica. Ciò può trovare il suo fondamento nel testo della Genesi, in cui si parla di “una sola carne” (Gen 2, 24), ossia in quello stesso testo, al quale l’Autore della lettera agli Efesini si riferirà tra poco nel quadro della sua grande analogia. Nondimeno, nel testo del libro della Genesi viene chiaramente posto in evidenza che si tratta dell’uomo e della donna, come di due distinti soggetti personali, i quali decidono coscientemente della loro unione coniugale, definita da quell’arcaico testo con i termini: “una sola carne”. E anche nella lettera agli Efesini, questo è ugualmente ben chiaro. L’Autore si serve di una duplice analogia: capo-corpo, marito-moglie, al fine di illustrare con chiarezza la natura dell’unione tra Cristo e la Chiesa. In un certo senso, specialmente in questo primo passo del testo agli Efesini 5, 22-33, la dimensione ecclesiologica sembra decisiva e prevalente.
3. “Le mogli siano sottomesse ai mariti, come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto. E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei...” (Ef 5, 22-25). Questa analogia supplementare “capo-corpo” fa sì che nell’ambito dell’intero brano della lettera agli Efesini 5, 22-23 abbiamo a che fare con due soggetti distinti, i quali, in virtù di un particolare rapporto reciproco, diventano in certo senso un solo soggetto: il capo costituisce insieme al corpo un soggetto (nel senso fisico e metafisico), un organismo, una persona umana, un essere. Non vi è dubbio che Cristo è un soggetto diverso dalla Chiesa, tuttavia, in virtù di un particolare rapporto, si unisce con essa, come in una unione organica del capo e del corpo: la Chiesa è così fortemente, così essenzialmente se stessa in virtù di una unione con Cristo (mistico). È possibile dire lo stesso dei coniugi, dell’uomo e della donna, uniti in un legame matrimoniale? Se l’Autore della lettera agli Efesini vede l’analogia dell’unione del capo con il corpo anche nel matrimonio, questa analogia, in un certo senso, sembra rapportarsi al matrimonio in considerazione dell’unione che Cristo costituisce con la Chiesa e la Chiesa con Cristo. Quindi l’analogia riguarda soprattutto il matrimonio stesso come quell’unione per cui “due formeranno una carne sola” (Ef 5, 31; cf. Gen 2, 24).
4. Questa analogia, tuttavia, non offusca l’individualità dei soggetti: quella del marito e quella della moglie, cioè l’essenziale bi-soggettività che sta alla base dell’immagine di “un solo corpo”, anzi, l’essenziale bi-soggettività del marito e della moglie nel matrimonio, che fa di loro in un certo senso “un solo corpo”, passa, nell’ambito di tutto il testo che stiamo esaminando (Ef 5, 22-33), all’immagine della Chiesa-Corpo, unita con Cristo come Capo. Ciò si vede specialmente nel seguito di questo testo, dove l’Autore descrive il rapporto di Cristo con la Chiesa appunto mediante l’immagine del rapporto del marito con la moglie. In questa descrizione la Chiesa-Corpo di Cristo appare chiaramente come il soggetto secondo dell’unione coniugale, al quale il soggetto primo, Cristo, manifesta l’amore di cui l’ha amata dando “se stesso per lei”. Quell’amore è immagine e soprattutto modello dell’amore che il marito deve manifestare alla moglie nel matrimonio, quando ambedue sono sottomessi l’un l’altro “nel timore di Cristo”.
5. Leggiamo infatti: “E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola” (Ef 5, 25-31).
6. È facile scorgere che in questa parte del testo della lettera agli Efesini 5, 22-33prevale” chiaramente la bi-soggettività: essa viene rilevata sia nel rapporto Cristo-Chiesa, sia anche nel rapporto marito-moglie. Ciò non vuol dire che sparisca l’immagine di un soggetto unico: l’immagine di “un solo corpo”. Essa è conservata anche nel brano del nostro testo, e in un certo senso vi è ancor meglio spiegata. Ciò si vedrà con più chiarezza quando sottoporremo ad un’analisi particolareggiata il brano sopracitato. Così dunque l’Autore della lettera agli Efesini parla dell’amore di Cristo verso la Chiesa, spiegando il modo in cui quell’amore si esprime, e presentando, nello stesso tempo, sia quell’amore sia le sue espressioni come modello che il marito deve seguire nei riguardi della propria moglie. L’amore di Cristo verso la Chiesa ha essenzialmente, come scopo, la sua santificazione: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso... per renderla santa” (Ef 5, 25-26). Al principio di questa santificazione è il battesimo, primo ed essenziale frutto della donazione di sé, che Cristo ha fatto per la Chiesa. In questo testo, il battesimo non viene chiamato col proprio nome, ma definito come purificazione “per mezzo del lavacro dell’acqua, accompagnato dalla parola” (Ef 5, 26). Questo lavacro, con la potenza che deriva dalla donazione redentrice di sé, che Cristo ha fatto per la Chiesa, opera la purificazione fondamentale mediante la quale l’amore di lui verso la Chiesa acquista, agli occhi dell’Autore della lettera, un carattere sponsale.
7. È noto che al sacramento del battesimo partecipa un soggetto individuale nella Chiesa. L’Autore della lettera, tuttavia, attraverso quel soggetto individuale del battesimo vede tutta la Chiesa. L’amore sponsale di Cristo si riferisce ad essa, alla Chiesa ogni qualvolta una persona singola riceve in essa la purificazione fondamentale per mezzo del battesimo. Chi riceve il battesimo, in virtù dell’amore redentore di Cristo, diviene al tempo stesso partecipe del suo amore sponsale verso la Chiesa. “Il lavacro dell’acqua, accompagnato dalla parola” è, nel nostro testo, l’espressione dell’amore sponsale, nel senso che prepara la sposa (Chiesa) allo Sposo, fa la Chiesa sposa di Cristo, direi, “in actu primo”. Alcuni studiosi della Bibbia osservano qui che, nel testo da noi citato, il “lavacro dell’acqua” rievoca l’abluzione rituale che precedeva lo sposalizio, il che costituiva un importante rito religioso anche presso i Greci.
8. Come sacramento del battesimo il “lavacro dell’acqua, accompagnato dalla parola” (Ef 5, 26) rende sposa la Chiesa non solo “in actu primo”, ma anche nella prospettiva più lontana, ossia nella prospettiva escatologica. Questa si apre davanti a noi quando, nella lettera agli Efesini, leggiamo che “il lavacro dell’acqua” serve, da parte dello sposo, “al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5, 27). L’espressione “di farsi comparire davanti” sembra indicare quel momento dello sposalizio, in cui la sposa viene condotta allo sposo, già vestita dell’abito nuziale e adornata per lo sposalizio. Il testo citato rileva che lo stesso Cristo-Sposo ha cura di adornare la sposa-Chiesa, ha cura che essa sia bella della bellezza della grazia, bella in virtù del dono della salvezza nella sua pienezza, già concesso fin dal sacramento del battesimo. Ma il battesimo è soltanto l’inizio, da cui dovrà emergere la figura della Chiesa gloriosa (come leggiamo nel testo), quale frutto definitivo dell’amore redentore e sponsale, solamente con l’ultima venuta di Cristo (parusia).
Vediamo quanto profondamente l’Autore della lettera agli Efesini scruta la realtà sacramentale, proclamandone la grande analogia: sia l’unione di Cristo con la Chiesa, sia l’unione sponsale dell’uomo e della donna nel matrimonio vengono in tal modo illuminate da una particolare luce soprannaturale.

Mercoledì, 1° settembre 1982
1. L’Autore della lettera agli Efesini, proclamando l’analogia tra il vincolo sponsale che unisce Cristo e la Chiesa, e quel che unisce il marito e la moglie nel matrimonio, così scrive: “E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5, 25-27).
2. È significativo che l’immagine della Chiesa gloriosa venga presentata, nel testo citato, come una sposa tutta bella nel suo corpo. Certo, questa è una metafora; ma essa è molto eloquente, e testimonia quanto profondamente incida il momento del corpo nell’analogia dell’amore sponsale. La Chiesa “gloriosa” è quella “senza macchia né ruga”. “Macchia” può essere intesa come segno di bruttezza, “ruga” come segno d’invecchiamento e di senilità. Nel senso metaforico sia l’una che l’altra espressione indicano i difetti morali, il peccato. Si può aggiungere che in san Paolo l’“uomo vecchio” significa l’uomo del peccato (cf. Rm 6, 6). Cristo quindi con il suo amore redentore e sponsale fa sì che la Chiesa non solo diventi senza peccato, ma resti “eternamente giovane”.
3. L’ambito della metafora è, come si vede, ben vasto. Le espressioni che si riferiscono direttamente e immediatamente al corpo umano, caratterizzandolo nei rapporti reciproci tra lo sposo e la sposa, tra il marito e la moglie, indicano al tempo stesso attributi e qualità di ordine morale, spirituale e soprannaturale. Ciò è essenziale per tale analogia. Pertanto l’Autore della lettera può definire lo stato “glorioso” della Chiesa in rapporto allo stato del corpo della sposa, libero da segni di bruttezza o d’invecchiamento (“o alcunché di simile”), semplicemente come santità e assenza del peccato: tale è la Chiesa “santa e immacolata”. È dunque ovvio di quale bellezza della sposa si tratti, in qual senso la Chiesa sia corpo di Cristo e in qual senso quel Corpo-Sposa accolga il dono dello Sposo che “ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei”. Nondimeno è significativo che san Paolo spieghi tutta questa realtà, che per essenza è spirituale e soprannaturale, attraverso la somiglianza del corpo e dell’amore per cui i coniugi, marito e moglie, diventano “una sola carne”.
4. Nell’intero passo del testo citato è ben chiaramente conservato il principio della bi-soggettività: Cristo-Chiesa, Sposo-Sposa (marito-moglie). L’Autore presenta l’amore di Cristo verso la Chiesa - quell’amore che fa della Chiesa il corpo di Cristo, di cui egli è il capo - come modello dell’amore degli sposi e come modello delle nozze dello sposo e della sposa. L’amore obbliga lo sposo-marito ad essere sollecito per il bene della sposa-moglie, lo impegna a desiderarne la bellezza ed insieme a sentire questa bellezza e ad averne cura. Si tratta qui anche della bellezza visibile, della bellezza fisica. Lo sposo scruta con attenzione la sua sposa quasi nella creativa, amorosa inquietudine di trovare tutto ciò che di buono e di bello è in lei e che per lei desidera. Quel bene che colui che ama crea, col suo amore, in chi è amato, è come una verifica dello stesso amore e la sua misura. Donando se stesso nel modo più disinteressato, colui che ama non lo fa fuori di questa misura e di questa verifica.
5. Quando l’Autore della lettera agli Efesini - nei successivi versetti del testo (Ef 5, 28-29) - volge la mente esclusivamente ai coniugi stessi, l’analogia del rapporto di Cristo con la Chiesa risuona ancor più profonda e lo spinge ad esprimersi così: “I mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo” (Ef 5, 28). Qui ritorna dunque il motivo dell’“una sola carne”, che nella suddetta frase e nelle frasi successive viene non soltanto ripreso, ma anche chiarito. Se i mariti debbono amare le loro mogli come il proprio corpo, ciò significa che quella uni-soggettività si fonda sulla base della bi-soggettività e non ha carattere reale, ma intenzionale: il corpo della moglie non è il corpo proprio del marito, ma deve essere amato come il corpo proprio. Si tratta quindi dell’unità, non nel senso ontologico, ma morale: dell’unità per amore.
6. “Chi ama la propria moglie ama se stesso” (Ef 5, 28). Questa frase conferma ancora di più quel carattere di unità. In certo senso, l’amore fa dell’“io” altrui il proprio “io”: l’“io” della moglie, direi, diviene per amore l’“io” del marito. Il corpo è l’espressione di quell’“io” e il fondamento della sua identità. L’unione del marito e della moglie nell’amore si esprime anche attraverso il corpo. Si esprime nel rapporto reciproco, sebbene l’Autore della lettera agli Efesini lo indichi soprattutto da parte del marito. Ciò risulta dalla struttura della totale immagine. Sebbene i coniugi debbano essere “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (ciò è stato messo in evidenza già nel primo versetto del testo citato) (Ef 5, 22-23), tuttavia in seguito il marito è soprattutto colui che ama e la moglie invece colei che è amata. Si potrebbe perfino arrischiare l’idea che la “sottomissione” della moglie al marito, intesa nel contesto dell’intero brano (Ef 5, 22-23) della lettera agli Efesini, significhi soprattutto il “provare l’amore”. Tanto più che questa “sottomissione” si riferisce all’immagine della sottomissione della Chiesa a Cristo, che certamente consiste nel provare il suo amore. La Chiesa, come sposa, essendo oggetto dell’amore redentore di Cristo-sposo, diventa suo corpo. La moglie, essendo oggetto dell’amore sponsale del marito, diventa “una sola carne” con lui: in certo senso, la sua “propria” carne. L’Autore ripeterà questa idea ancora una volta nell’ultima frase del brano qui analizzato: “Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami la propria moglie come se stesso” (Ef 5, 33).
7. Questa è l’unità morale, condizionata e costituita dall’amore. L’amore non solo unisce i due soggetti, ma consente loro di compenetrarsi a vicenda, appartenendo spiritualmente l’uno all’altro, al punto tale che l’Autore della lettera può affermare: “Chi ama la propria moglie, ama se stesso” (Ef 5, 28). L’“io” diventa in certo senso il “tu” e il “tu” l’“io” (s’intende, nel senso morale). E perciò il seguito del testo da noi analizzato suona così: “Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario, la nutre e la cura, come fa Cristo, poiché siamo membra del suo corpo” (Ef 5, 29-30). La frase, che inizialmente si riferisce ancora ai rapporti dei coniugi, in fase successiva ritorna esplicitamente al rapporto Cristo-Chiesa, e così, alla luce di quel rapporto, ci induce a definire il senso dell’intera frase. L’Autore, dopo aver spiegato il carattere del rapporto del marito con la propria moglie formando “una carne sola”, vuole ancora rafforzare la sua precedente affermazione (“chi ama la propria moglie, ama se stesso”) e, in un certo senso, sostenerla con la negazione e l’esclusione della possibilità opposta (“nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne”) (Ef 5, 29). Nell’unione per amore, il corpo “altrui” diviene “proprio” nel senso che si ha premura del bene del corpo altrui come del proprio. Le suddette parole, caratterizzando l’amore “carnale” che deve unire i coniugi, esprimono, si può dire, il contenuto più generale e, ad un tempo, il più essenziale. Esse sembrano parlare di questo amore soprattutto con il linguaggio dell’“agape”.
8. L’espressione secondo cui l’uomo “nutre e cura” la propria carne - cioè che il marito “nutre e cura” la carne della moglie come la propria - sembra indicare piuttosto la premura dei genitori, il rapporto tutelare, anziché la tenerezza coniugale. La motivazione di tale carattere deve essere cercata nel fatto che l’Autore passa qui distintamente dal rapporto che unisce i coniugi al rapporto tra Cristo e la Chiesa. Le espressioni che si riferiscono alla cura del corpo, e prima di tutto al suo nutrimento, alla sua alimentazione, suggeriscono a numerosi studiosi di Sacra Scrittura il riferimento all’Eucaristia, di cui Cristo, nel suo amore sponsale, “nutre” la Chiesa. Se queste espressioni, sia pure in tono minore, indicano il carattere specifico dell’amore coniugale, specialmente di quell’amore per cui i coniugi diventano “una sola carne”, esse in pari tempo, aiutano a comprendere, almeno in modo generale, la dignità del corpo e l’imperativo morale di aver cura del suo bene: di quel bene che corrisponde alla sua dignità. Il paragone con la Chiesa come Corpo di Cristo, Corpo del suo amore redentore ed insieme sponsale, deve lasciare nella coscienza dei destinatari della lettera agli Efesini (Ef 5, 22-23) un senso profondo del “sacrum” del corpo umano in genere, e specialmente nel matrimonio, come “luogo” in cui tale senso del “sacrum” determina in modo particolarmente profondo i rapporti reciproci delle persone, e soprattutto quelle dell’uomo con la donna, in quanto moglie e madre dei loro figli.

Mercoledì, 8 settembre 1982
1. L’autore della lettera agli Efesini scrive: “Nessuno mai . . . ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo” (Ef 5, 29-30). Dopo questo versetto, l’Autore ritiene opportuno citare quello che nell’intera Bibbia può essere considerato il testo fondamentale sul matrimonio, testo contenuto in Genesi, capitolo 2,24: “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola” (Ef 5, 31; Gen 2, 24). È possibile dedurre dall’immediato contesto della lettera agli Efesini che la citazione del Libro della Genesi (Gen 2, 24) è qui necessaria non tanto per ricordare l’unità dei coniugi, definita fin “da principio” nell’opera della creazione, quanto per presentare il mistero di Cristo con la Chiesa, da cui l’Autore deduce la verità sull’unità dei coniugi. Questo è il punto più importante di tutto il testo, in certo senso, la sua chiave di volta. L’Autore della lettera agli Efesini racchiude in queste parole tutto ciò che ha detto in precedenza, tracciando l’analogia e presentando la somiglianza tra l’unità dei coniugi e l’unità di Cristo con la Chiesa. Riportando le parole del Libro della Genesi (Gen 2, 24), l’Autore rileva che le basi di tale analogia vanno cercate nella linea che, nel piano salvifico di Dio, unisce il matrimonio, come la più antica rivelazione (e “manifestazione”) di quel piano nel mondo creato, con la rivelazione e “manifestazione” definitiva, la rivelazione cioè che “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25), conferendo al suo amore redentore indole e senso sponsale.
2. Così dunque questa analogia che permea il testo della lettera agli Efesini (Ef 5, 22-23) ha la base ultima nel piano salvifico di Dio. Questo diverrà ancor più chiaro ed evidente quando collocheremo il brano del testo da noi analizzato nel complessivo contesto della lettera agli Efesini. Allora si comprenderà più facilmente la ragione per cui l’Autore, dopo aver citato le parole del Libro della Genesi (Gen 2, 24), scrive: “Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa” (Ef 5, 32).
Nel contesto globale della lettera agli Efesini e inoltre nel contesto più ampio delle parole della Sacra Scrittura che rivelano il piano salvifico di Dio “da principio”, bisogna ammettere che il termine “mysterion” significa qui il mistero, prima nascosto nel pensiero divino, e in seguito rivelato nella storia dell’uomo. Si tratta infatti di un mistero “grande”, data la sua importanza: quel mistero, come piano salvifico di Dio nei riguardi dell’umanità, è, in certo senso, il tema centrale di tutta la rivelazione, la sua realtà centrale. È ciò che Dio, come Creatore e Padre, desidera soprattutto trasmettere agli uomini nella sua Parola.
3. Si trattava di trasmettere non solo la “buona novella” sulla salvezza, ma di iniziare al tempo stesso l’opera della salvezza, come frutto della grazia che santifica l’uomo per la vita eterna nell’unione con Dio. Appunto sulla via di questa rivelazione-attuazione, san Paolo pone in rilievo la continuità tra la più antica alleanza, che Dio stabilì costituendo il matrimonio già nell’opera della creazione, e l’alleanza definitiva in cui Cristo, dopo aver amato la Chiesa e aver dato se stesso per lei, si unisce con essa in modo sponsale, corrispondente cioè all’immagine dei coniugi. Questa continuità dell’iniziativa salvifica di Dio costituisce la base essenziale della grande analogia contenuta nella lettera agli Efesini. La continuità della iniziativa salvifica di Dio significa la continuità e perfino l’identità del mistero, del “grande mistero”, nelle diverse fasi della sua rivelazione - quindi in certo senso, della sua “manifestazione” - ed insieme dell’attuazione; nella fase “più antica” dal punto di vista della storia dell’uomo e della salvezza e nella fase “della pienezza del tempo” (Gal 4, 4).
4. È possibile intendere quel “grande mistero” come “sacramento”? L’Autore della lettera agli Efesini parla forse, nel testo da noi citato, del sacramento del matrimonio? Se non ne parla direttamente e in senso stretto - qui occorre esser d’accordo con l’opinione abbastanza diffusa dei biblisti e teologi - tuttavia sembra che in questo testo parli delle basi della sacramentalità di tutta la vita cristiana, e in particolare, delle basi della sacramentalità del matrimonio. Parla dunque della sacramentalità di tutta l’esistenza cristiana nella Chiesa e in specie del matrimonio in modo indiretto, tuttavia nel modo più fondamentale possibile.
5. “Sacramento” non è sinonimo di “mistero” (1). Il mistero infatti rimane “occulto” - nascosto in Dio stesso - cosicché anche dopo la sua proclamazione (ossia rivelazione) non cessa di chiamarsi “mistero”, e viene anche predicato come mistero. Il sacramento presuppone la rivelazione del mistero e presuppone anche la sua accettazione mediante la fede, da parte dell’uomo. Tuttavia esso è ad un tempo qualcosa di più che la proclamazione del mistero e l’accettazione di esso mediante la fede. Il sacramento consiste nel “manifestare” quel mistero in un segno che serve non solo a proclamare il mistero, ma anche ad attuarlo nell’uomo. Il sacramento è segno visibile ed efficace della grazia. Per suo mezzo si attua nell’uomo quel mistero nascosto dalla eternità in Dio, di cui parla, subito all’inizio, la lettera agli Efesini (cf. Ef 1, 9) - mistero della chiamata alla santità, da parte di Dio, dell’uomo in Cristo, e mistero della sua predestinazione a divenire figlio adottivo. Esso si attua in modo misterioso, sotto il velo di un segno; nondimeno quel segno è pur sempre un “rendere visibile” quel mistero soprannaturale che agisce nell’uomo sotto il suo velo.
6. Prendendo in considerazione il passo della lettera agli Efesini qui analizzato, e in particolare le parole: “Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa”, bisogna costatare che l’Autore della Lettera scrive non soltanto del grande mistero nascosto in Dio, ma anche - e soprattutto - del mistero che si realizza per il fatto che Cristo, il quale con atto di amore redentore ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, col medesimo atto si è unito con la Chiesa in modo sponsale, così come si uniscono reciprocamente marito e moglie nel matrimonio istituito dal Creatore. Sembra che le parole della lettera agli Efesini motivino sufficientemente ciò che leggiamo all’inizio stesso della costituzione Lumen Gentium: “. . . la Chiesa è in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen Gentium, 1). Questo testo del Vaticano II non dice: “La Chiesa è sacramento”, ma “è come sacramento”, indicando con questo che della sacramentalità della Chiesa bisogna parlare in modo analogico e non identico rispetto a ciò che intendiamo quando ci riferiamo ai sette sacramenti amministrati dalla Chiesa per istituzione di Cristo. Se esistono le basi per parlare della Chiesa come di un sacramento, tali basi sono state per la maggior parte indicate appunto nella lettera agli Efesini.
7. Si può dire che tale sacramentalità della Chiesa è costituita da tutti i sacramenti per mezzo dei quali essa compie la sua missione santificatrice. Si può inoltre dire che la sacramentalità della Chiesa è fonte dei sacramenti, e in particolare del Battesimo e dell’Eucaristia, come risulta dal brano, già analizzato, della lettera agli Efesini (cf. Ef 5, 25-30). Bisogna infine dire che la sacramentalità della Chiesa rimane in un particolare rapporto con il matrimonio: il sacramento più antico.

Mercoledì, 15 settembre 1982
1. Abbiamo davanti a noi il testo della lettera agli Efesini 5, 22-33, che già da qualche tempo stiamo analizzando a motivo della sua importanza per il problema del matrimonio e del sacramento. Nell’insieme del suo contenuto, a cominciare dal primo capitolo, la lettera tratta soprattutto del mistero “da secoli” “nascosto in Dio”, come dono eternamente destinato all’uomo. “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, / che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. / In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, / per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, / predestinandoci a essere suoi figli adottivi / per opera di Gesù Cristo, / secondo il beneplacito della sua volontà. / E questo a lode e gloria della sua grazia, / che ci ha dato nel suo Figlio diletto” (Ef 1, 3-6).
2. Finora si parla del mistero nascosto “da secoli” (Ef 3, 9) in Dio. Le frasi successive, introducono il lettore nella fase di attuazione di quel mistero nella storia dell’uomo: il dono, destinato a lui “da secoli” in Cristo, diviene parte reale dell’uomo nello stesso Cristo: “. . . nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, / la remissione dei peccati / secondo la ricchezza della sua grazia. / Egli l’ha abbondantemente riversata su di noi / con ogni sapienza e intelligenza, / poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, / secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito / per realizzarlo nella pienezza dei tempi: / il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, / quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1, 7-10).
3. Così l’eterno mistero è passato dallo stato del “nascondimento in Dio” alla fase di rivelazione ed attuazione. Cristo, nel quale l’umanità è stata “da secoli” scelta e benedetta “di ogni benedizione spirituale” del Padre - Cristo, destinato, secondo l’eterno “disegno” di Dio, affinché in lui, come nel Capo “fossero ricapitolate tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” nella prospettiva escatologica - rivela l’eterno mistero e lo attua tra gli uomini. Perciò l’Autore della lettera agli Efesini, nel seguito della lettera stessa, esorta coloro ai quali è giunta questa rivelazione, e quanti l’hanno accolta nella fede, a modellare la loro vita nello spirito della verità conosciuta. Alla stessa cosa esorta in modo particolare i coniugi cristiani, mariti e mogli.
4. Per la massima parte del contesto, la lettera diviene istruzione, ossia parenesi. L’Autore sembra parlare soprattutto degli aspetti morali della vocazione dei cristiani, tuttavia facendo continuo riferimento al mistero, che già opera in loro in virtù della redenzione di Cristo, e opera con efficacia soprattutto in virtù del battesimo. Scrive infatti: “In lui anche voi, / dopo aver ascoltato la parola della verità, / il Vangelo della vostra salvezza / e avere in esse creduto, / avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo / che era stato promesso” (Ef 1, 13). Così dunque gli aspetti morali della vocazione cristiana rimangono collegati non soltanto con la rivelazione dell’eterno mistero divino in Cristo e con l’accettazione di esso nella fede, ma anche con l’ordine sacramentale, che, pur non ponendosi al primo piano in tutta la lettera, sembra tuttavia esservi presente in modo discreto. Del resto, non può essere diversamente dato che l’Apostolo scrive ai cristiani i quali, mediante il battesimo, erano divenuti membri della comunità ecclesiale. Da questo punto di vista, il brano della lettera agli Efesini 5, 22-33, finora analizzato, sembra avere una importanza particolare. Getta infatti una luce speciale sull’essenziale rapporto del mistero col sacramento e specialmente sulla sacramentalità del matrimonio.
5. Al centro del mistero è Cristo. In lui - proprio in lui - l’umanità è stata eternamente benedetta “con ogni benedizione spirituale”. In lui - in Cristo - l’umanità è stata scelta “prima della creazione del mondo”, scelta “nella carità” e predestinata all’adozione di figli. Quando in seguito, con la “pienezza dei tempi”, questo eterno mistero viene realizzato nel tempo, ciò si attua anche in lui e per lui; in Cristo e per Cristo. Per mezzo di Cristo viene rivelato il mistero dell’Amore divino. Per lui e in lui, esso viene reso compiuto: in lui “abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, / la remissione dei peccati . . .” (Ef 1, 7). In tal modo gli uomini che accettano mediante la fede il dono offerto loro in Cristo, divengono realmente partecipi dell’eterno mistero, sebbene esso operi in loro sotto i veli della fede. Questo soprannaturale conferimento dei frutti della redenzione compiuta da Cristo acquista, secondo la lettera agli Efesini 5, 22-33, il carattere di un darsi sponsale di Cristo stesso alla Chiesa a somiglianza del rapporto sponsale tra il marito e la moglie. Quindi non solo i frutti della redenzione sono dono, ma soprattutto lo è il Cristo: egli dà se stesso alla Chiesa, come a sua sposa.
6. Dobbiamo porre la domanda, se in questo punto tale analogia non ci consenta di penetrare più profondamente e con maggior precisione nel contenuto essenziale del mistero. Dobbiamo porci tale domanda, tanto più che quel “classico” passo della lettera agli Efesini (cf. Ef 5, 22-33) non appare in astratto e isolato, ma costituisce una continuità, in un certo senso un seguito degli enunciati dell’Antico Testamento, i quali presentavano l’amore di Dio-Jahvè verso il popolo-Israele da lui eletto secondo la stessa analogia. Si tratta in primo luogo dei testi dei Profeti che nei loro discorsi hanno introdotto la somiglianza dell’amore sponsale per caratterizzare in modo particolare l’amore che Jahvè nutre verso Israele, l’amore che da parte del popolo eletto non trova comprensione e contraccambio; anzi, incontra infedeltà e tradimento. L’espressione di infedeltà e tradimento fu anzitutto l’idolatria, culto reso agli dèi stranieri.
7. Per dire il vero, nella maggior parte dei casi si trattava di rilevare in modo drammatico proprio quel tradimento e quella infedeltà denominati “adulterio” di Israele; tuttavia, alla base di tutti questi enunciati dei profeti sta l’esplicita convinzione che l’amore di Jahvè verso il popolo eletto può e deve essere paragonato all’amore che unisce lo sposo con la sposa, l’amore che deve unire i coniugi. Converrebbe qui citare numerosi passi dei testi di Isaia, Osea, Ezechiele (alcuni di essi sono stati già riportati in precedenza quando è stato analizzato il concetto di “adulterio” sullo sfondo delle parole pronunciate da Cristo nel discorso della Montagna). Non si può dimenticare che al patrimonio dell’Antico Testamento appartiene anche il “Cantico dei Cantici” in cui l’immagine dell’amore sponsale è stata delineata - è vero - senza l’analogia tipica dei testi profetici, che presentavano in quell’amore l’immagine dell’amore di Jahvè verso Israele, ma anche senza quell’elemento negativo che negli altri testi costituisce il motivo di “adulterio” ossia di infedeltà. Così dunque l’analogia dello sposo e della sposa, che ha consentito all’Autore della lettera agli Efesini di definire il rapporto di Cristo con la Chiesa, possiede una ricca tradizione nei libri dell’Antica Alleanza. Analizzando questa analogia nel “classico” testo della lettera agli Efesini, non possiamo non riportarci a quella tradizione.
8. Per illustrare tale tradizione ci limiteremo per il momento a citare un brano del testo di Isaia. Il profeta dice: “Non temere, perché non dovrai più arrossire; / non vergognarti, perché non sarai più disonorata; / anzi, dimenticherai la vergogna della tua giovinezza / e non ricorderai più il disonore della tua vedovanza. / Poiché tuo sposo è il tuo creatore, / Signore degli eserciti è il suo nome; / tuo redentore è il Santo di Israele, / è chiamato Dio di tutta la terra. / Come una donna abbandonata / e con l’animo afflitto, il Signore ti ha richiamata. / Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? / Dice il tuo Dio. / Per un breve istante ti ho abbandonata, / ma ti riprenderò con immenso amore. / . . . / non si allontanerebbe da te il mio affetto, / né vacillerebbe la mia alleanza di pace; / dice il Signore che ti usa misericordia” (Is 54, 4-7.10).
Durante il nostro prossimo incontro inizieremo l’analisi del testo citato di Isaia.

Mercoledì, 22 settembre 1982
1. La lettera agli Efesini, attraverso il paragone del rapporto tra Cristo e la Chiesa con il rapporto sponsale dei coniugi, fa riferimento alla tradizione dei profeti dell’Antico Testamento. Per illustrarlo, citiamo il seguente testo di Isaia: “Non temere, perché non dovrai più arrossire; / non vergognarti, perché non sarai più disonorata; / anzi, dimenticherai la vergogna della tua giovinezza / e non ricorderai più il disonore della tua vedovanza. / Poiché tuo sposo è il tuo creatore, / Signore degli eserciti è il suo nome; / tuo redentore è il Santo di Israele, / è chiamato Dio di tutta la terra. / Come una donna abbandonata e con l’animo afflitto, / il Signore ti ha richiamata. / Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? / Dice il tuo Dio. / Per un breve istante ti ho abbandonata / ma ti riprenderò con immenso amore. / In un impeto di collera / ti ho nascosto per un poco il mio volto; / ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, / dice il tuo redentore, il Signore. / Ora è per me come ai giorni di Noè, / quando giurai che non avrei più riversato / le acque di Noè sulla terra; / così ora giuro di non più adirarmi con te / e di non farti più minacce. / Anche se i monti si spostassero / e i colli vacillassero, / non si allontanerebbe da te il mio affetto, / né vacillerebbe la mia alleanza di pace; / dice il Signore che ti usa misericordia” (Is 54, 4-10).
2. Il testo di Isaia non contiene in questo caso i rimproveri fatti ad Israele come a sposa infedele, che echeggiano con tanta forza negli altri testi, in particolare di Osea o di Ezechiele. Grazie a ciò, diventa più trasparente il contenuto essenziale dell’analogia biblica: l’amore di Dio-Jahvè verso Israele-popolo eletto è espresso come l’amore dell’uomo-sposo verso la donna eletta per essergli moglie attraverso il patto coniugale. In tal modo Isaia spiega gli avvenimenti che compongono il corso della storia di Israele, risalendo al mistero nascosto quasi nel cuore stesso di Dio. In certo senso, egli ci conduce nella medesima direzione, in cui ci condurrà, dopo molti secoli, l’Autore della lettera agli Efesini, il quale - basandosi sulla redenzione già compiuta in Cristo - svelerà molto più pienamente la profondità dello stesso mistero.
3. Il testo del profeta ha tutto il colorito della tradizione e della mentalità degli uomini dell’Antico Testamento. Il profeta, parlando a nome di Dio e quasi con le sue parole, si rivolge ad Israele come sposo alla sposa da lui eletta. Queste parole traboccano di un autentico ardore d’amore e nello stesso tempo pongono in rilievo tutta la specificità sia della situazione sia della mentalità proprie di quell’epoca. Esse sottolineano che la scelta da parte dell’uomo toglie alla donna il “disonore”, che, secondo l’opinione della società, sembrava connesso allo stato nubile sia originario (la verginità), sia secondario (la vedovanza), sia infine quello derivato dal ripudio della moglie non amata (cf. Dt 24, 1) o eventualmente della moglie infedele. Tuttavia, il testo citato non fa menzione dell’infedeltà; rileva invece il motivo di “amore misericordioso” (Nel testo ebraico abbiamo le parole hesed-rahamim, che appaiono insieme più di una volta.), indicando con ciò non soltanto l’indole sociale del matrimonio nell’Antica Alleanza, ma anche il carattere stesso del dono, che è l’amore di Dio verso Israele-sposa: dono, che proviene interamente dall’iniziativa di Dio. In altre parole: indicando la dimensione della grazia, che dal principio è contenuta in quell’amore. Questa è forse la più forte “dichiarazione di amore” da parte di Dio, collegata con il solenne giuramento di fedeltà per sempre.
4. L’analogia dell’amore che unisce i coniugi è in questo brano fortemente rilevata. Isaia dice: “. . . tuo sposo è il tuo creatore, / Signore degli eserciti è il suo nome; / tuo redentore è il Santo di Israele, / è chiamato Dio di tutta la terra” (Is 54, 5). Così, dunque, in quel testo lo stesso Dio, in tutta la sua maestà di Creatore e Signore della creazione, viene esplicitamente chiamato “sposo” del popolo eletto. Questo “sposo” parla del suo grande “affetto”, che non si “allontanerà” da Israele-sposa, ma costituirà un fondamento stabile dell’“alleanza di pace” con lui. Così il motivo dell’amore sponsale e del matrimonio viene collegato con il motivo dell’alleanza. Inoltre il “Signore degli eserciti” chiama se stesso non soltanto “creatore”, ma anche “redentore”. Il testo ha un contenuto teologico di ricchezza straordinaria.
5. Confrontando il testo di Isaia con la lettera agli Efesini e costatando la continuità riguardo all’analogia dell’amore sponsale e del matrimonio, dobbiamo rilevare al tempo stesso una certa diversità di ottica teologica. L’Autore della lettera già nel primo capitolo parla del mistero dell’amore e dell’elezione, con cui “Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo” abbraccia gli uomini nel suo Figlio, soprattutto come di un mistero “nascosto nella mente di Dio”. Questo è il mistero dell’amore paterno, mistero dell’elezione alla santità (“per essere santi e immacolati al suo cospetto”) (Ef 1, 4) e dell’adozione a figli in Cristo (“predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo”) (Ef 1, 5). In tale contesto, la deduzione dell’analogia circa il matrimonio, che abbiamo trovato in Isaia (“tuo sposo è il tuo creatore, Signore degli eserciti è il suo nome”) (Is 54, 5), sembra essere uno scorcio facente parte della prospettiva teologica. La prima dimensione dell’amore e dell’elezione, come mistero da secoli nascosto in Dio, è una dimensione paterna e non “coniugale”. Secondo la lettera agli Efesini, la prima nota caratteristica di quel mistero resta connessa con la paternità stessa di Dio, messa particolarmente in rilievo dai profeti (cf. Os 11, 1-4; Is 63, 8-9; 64, 7; Ml 1, 6).
6. L’analogia dell’amore sponsale e del matrimonio appare soltanto quando il “Creatore” e il “Santo di Israele” del testo di Isaia si manifesta come “Redentore”. Isaia dice: “Tuo sposo è il tuo creatore, Signore degli eserciti è il suo nome; / tuo redentore è il Santo di Israele” (Is 54, 5). Già in questo testo è possibile, in certo senso, leggere il parallelismo tra lo “sposo” e il “Redentore”. Passando alla lettera agli Efesini, dobbiamo osservare che questo pensiero vi è appunto pienamente sviluppato. La figura del Redentore (Sebbene nei più antichi libri biblici il “redentore” [ebr. go’el] significasse la persona obbligata per legami di sangue a vendicare il parente ucciso [cfr., ex. gr., Nm. 35, 19], a portare aiuto al parente sfortunato [cfr., ex. gr., Ru. 4, 6] e specialmente a riscattarlo dalla schiavitù [cfr., ex. gr., Lv. 25, 48], con l’andar del tempo questa analogia venne applicata a Jahvè, “il quale ha riscattato Israele dalla condizione servile, dalla mano del faraone, re di Egitto” [Dt. 7, 8]. Particolarmente nel Deutero-Isaia l’accento si sposta dall’azione di riscatto alla persona del Redentore, che personalmente salva Israele, quasi soltanto mediante la sua stessa presenza, “senza denaro e senza regali” [Is. 45, 13]. Perciò il passaggio dal “Redentore” della profezia di Isaia 54 alla lettera agli Efesini ha la stessa motivazione dell’applicazione, nella suddetta lettera, dei testi del Canto sul Servo di Jahvè [cfr. Is. 53, 10-12; Ef. 5, 23. 25-26]) si delinea già nel I capitolo come propria di colui che è il primo “Figlio diletto” del Padre (Ef 1, 6), diletto dall’eternità: di colui, nel quale noi tutti siamo stati “da secoli” amati dal Padre. È il Figlio della stessa sostanza del Padre, “nel quale abbiamo la remissione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia” (Ef 1, 7). Lo stesso Figlio, come Cristo (ossia come Messia), “ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25).
Questa splendida formulazione della lettera agli Efesini riassume in sé e insieme mette in rilievo gli elementi del Canto sul Servo di Jahvè e del Canto di Sion (cf. ex. gr. Is 42, 1; 53, 8-12; 54, 8).
E così la donazione di se stesso per la Chiesa equivale al compimento dell’opera della redenzione. In tal modo, il “creatore, Signore degli eserciti” del testo di Isaia diviene il “Santo di Israele”, del “nuovo Israele”, quale Redentore. Nella lettera agli Efesini la prospettiva teologica del testo profetico è conservata ed insieme approfondita e trasformata. Vi entrano nuovi momenti rivelati: il momento trinitario, cristologico (Al posto della relazione “Dio-Israele”, Paolo introduce il rapporto “Cristo-Chiesa”, applicando a Cristo tutto ciò che nell’Antico Testamento si riferisce a jahvè [Adonai - Kyrios]. Cristo è Dio, ma Paolo gli applica anche tutto ciò che si riferisce al Servo di Jahvè nei quattro Canti [Is. 42; 49; 50; 52-53], interpretati nel periodo intertestamentario in senso messianico. Il motivo del “Capo” e del “Corpo” non è di derivazione biblica, ma probabilmente ellenistica [stoica?]. Nella lettera agli Efesini questo tema è stato utilizzato nel contesto del matrimonio [mentre nella prima lettera ai Corinzi il tema del “Corpo” serve a dimostrare l’ordine che regna nella società]. Dal punto di vista biblico l’introduzione di questo motivo è una novità assoluta.) e infine escatologico.
7. Così dunque san Paolo, scrivendo la lettera al Popolo di Dio della Nuova Alleanza e precisamente alla Chiesa di Efeso, non ripeterà più: “Tuo sposo è il tuo creatore”, ma mostrerà in che modo il “Redentore”, che è il Figlio primogenito e da secoli “diletto del Padre”, rivela contemporaneamente il suo amore salvifico, che consiste nella donazione di se stesso per la Chiesa, come amore sponsale con cui egli sposa la Chiesa e la fa proprio Corpo. Così l’analogia dei testi profetici dell’Antico Testamento (nel caso, soprattutto del libro di Isaia) rimane nella lettera agli Efesini conservata e nello stesso tempo evidentemente trasformata. All’analogia corrisponde il mistero, che attraverso essa viene espresso e in certo senso spiegato. Nel testo di Isaia questo mistero è appena delineato, quasi “socchiuso”; nella lettera agli Efesini, invece, è pienamente svelato (s’intende, senza cessare di esser mistero). Nella lettera agli Efesini è esplicitamente distinta la dimensione eterna del mistero in quanto nascosto in Dio (“Padre del Signore nostro Gesù Cristo”) e la dimensione della sua realizzazione storica, secondo la sua dimensione cristologica e insieme ecclesiologica. L’analogia del matrimonio si riferisce soprattutto alla seconda dimensione. Anche nei profeti (in Isaia) l’analogia del matrimonio si riferiva direttamente ad una dimensione storica: era collegata con la storia del popolo eletto dell’Antica Alleanza, con la storia di Israele; invece, la dimensione cristologica ed ecclesiologica, nell’attuazione veterotestamentaria del mistero, si trovava solo come in embrione: fu soltanto preannunziata.
Nondimeno è chiaro che il testo di Isaia ci aiuta a comprendere meglio la lettera agli Efesini e la grande analogia dell’amore sponsale di Cristo e della Chiesa.

Mercoledì, 29 settembre 1982
1. Nella lettera agli Efesini (Ef 5, 22-33) - come nei profeti dell’Antico Testamento (ad esempio in Isaia) - troviamo la grande analogia del matrimonio o dell’amore sponsale tra Cristo e la Chiesa.
Quale funzione compie questa analogia nei riguardi del mistero rivelato nell’Antica e nella Nuova Alleanza? A questa domanda bisogna rispondere gradualmente. Prima di tutto, l’analogia dell’amore coniugale o sponsale aiuta a penetrare nell’essenza stessa del mistero. Aiuta a comprenderlo fino ad un certo punto, s’intende, in modo analogico. È ovvio che l’analogia dell’amore terrestre, umano, del marito verso la moglie, dell’umano amore sponsale, non può offrire una comprensione adeguata e completa di quella Realtà assolutamente trascendente, che è il mistero divino, sia nel suo celarsi da secoli in Dio, sia nella sua realizzazione “storica” nel tempo, quando “Cristo ha amato la Chiesa ed ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25). Il mistero rimane trascendente riguardo a questa analogia come riguardo a qualunque altra analogia, con cui cerchiamo di esprimerlo in linguaggio umano. Contemporaneamente, tuttavia, tale analogia offre la possibilità di una certa “penetrazione” conoscitiva nell’essenza stessa del mistero.
2. L’analogia dell’amore sponsale ci consente di comprendere in certo modo il mistero che da secoli è nascosto in Dio, e che nel tempo viene realizzato da Cristo, come l’amore proprio di un totale e irrevocabile dono di sé da parte di Dio all’uomo in Cristo. Si tratta dell’“uomo” nella dimensione personale e insieme comunitaria (questa dimensione comunitaria viene espressa nel libro di Isaia e nei profeti come “Israele”, nella lettera agli Efesini come “Chiesa”; si può dire: Popolo di Dio dell’Antica e della Nuova Alleanza). Aggiungiamo che in ambedue le concezioni, la dimensione comunitaria è posta, in certo senso, in primo piano, ma non tanto da velare totalmente la dimensione personale, che d’altronde appartiene semplicemente all’essenza stessa dell’amore sponsale. In ambedue i casi abbiamo piuttosto a che fare con una significativa “riduzione della comunità alla persona” (Non si tratta soltanto della personificazione della società umana, che costituisce un fenomeno abbastanza comune nella letteratura mondiale, ma di una “corporate personality” specifica della Bibbia, contrassegnata da un continuo reciproco rapporto dell’individuo con il gruppo [cf. H. Wheeler Robinson, The Hebrew Conception of Corporate Personality: BZAW 66 [1936] 49-62; cf. anche J. L. McKenzie, Aspects of Old Testament Thought, in “The Jerome Biblical Commentary”, vol. 2, London 1970, p. 748]): Israele e la Chiesa sono considerati come sposa-persona da parte dello sposo-persona (“Jahvè” e “Cristo”). Ogni “io” concreto deve ritrovare se stesso in quel biblico “noi”.
3. Così dunque l’analogia di cui trattiamo consente di comprendere, in un certo grado, il mistero rivelato del Dio vivo, che è Creatore e Redentore (e in quanto tale è, al tempo stesso, Dio dell’alleanza); ci consente di comprendere tale mistero al modo di un amore sponsale, così come consente di comprenderlo anche al modo di un amore “misericordioso” (secondo il testo del libro di Isaia), oppure al modo di un amore “paterno” (secondo la lettera agli Efesini, principalmente nel capitolo 1). I modi suddetti di comprendere il mistero sono anch’essi senz’altro analogici. L’analogia dell’amore sponsale contiene in sé una caratteristica del mistero, che non viene direttamente messa in risalto né dall’analogia dell’amore misericordioso né dall’analogia dell’amore paterno (o da qualunque altra analogia usata nella Bibbia, a cui avremmo potuto riferirci).
4. L’analogia dell’amore degli sposi (o amore sponsale) sembra porre in risalto soprattutto il momento del dono di se stesso da parte di Dio all’uomo, “da secoli” scelto in Cristo (letteralmente: ad “Israele”, alla “Chiesa”); dono totale (o piuttosto “radicale”) e irrevocabile nel suo carattere essenziale, ossia come dono. Questo dono è certamente “radicale” e perciò “totale”. Non si può parlare qui della “totalità” in senso metafisico. L’uomo, infatti, come creatura non è capace di “accogliere” il dono di Dio nella pienezza trascendentale della sua divinità. Un tale “dono totale” (non creato) viene soltanto partecipato da Dio stesso nella “trinitaria comunione delle Persone”. Invece, il dono di se stesso da parte di Dio all’uomo, di cui parla l’analogia dell’amore sponsale, può avere soltanto la forma della partecipazione alla natura divina (cf. 2 Pt 1, 4), come è stato chiarito con grande precisione dalla teologia. Nondimeno, secondo tale misura, il dono fatto all’uomo da parte di Dio in Cristo è un dono “totale” ossia “radicale”, come indica appunto l’analogia dell’amore sponsale: è, in certo senso, “tutto” ciò che Dio “ha potuto” dare di se stesso all’uomo, considerate le facoltà limitate dell’uomo-creatura. In tal modo, l’analogia dell’amore sponsale indica il carattere “radicale” della grazia: di tutto l’ordine della grazia creata.
5. Quanto sopra sembra che si possa dire in riferimento alla prima funzione della nostra grande analogia, che è passata dagli scritti dei profeti dell’Antico Testamento alla lettera agli Efesini, dove, come è stato già notato, ha subìto una significativa trasformazione. L’analogia del matrimonio, come realtà umana, in cui viene incarnato l’amore sponsale, aiuta in certo grado e in certo modo a comprendere il mistero della grazia come realtà eterna in Dio e come frutto “storico” della redenzione dell’umanità in Cristo. Tuttavia, abbiamo detto in precedenza che questa analogia biblica non solo “spiega” il mistero, ma che, d’altra parte, il mistero definisce e determina il modo adeguato di comprendere l’analogia, e precisamente questa sua componente, in cui gli autori biblici vedono “l’immagine e somiglianza” del mistero divino. Così, dunque, la comparazione del matrimonio (a motivo dell’amore sponsale) al rapporto di “Jahvè-Israele” nell’Antica Alleanza e di “Cristo-Chiesa” nella Nuova Alleanza decide in pari tempo circa il modo di comprendere il matrimonio stesso e determina questo modo.
6. Questa è la seconda funzione della nostra grande analogia. E, nella prospettiva di questa funzione, ci avviciniamo di fatto al problema “sacramento e mistero”, ossia, in senso generale e fondamentale, al problema della sacramentalità del matrimonio. Ciò pare particolarmente motivato alla luce dell’analisi della lettera agli Efesini (Ef 5, 22-33). Presentando infatti il rapporto di Cristo con la Chiesa a immagine dell’unione sponsale del marito e della moglie, l’Autore di questa lettera parla nel modo più generale ed insieme fondamentale non solo del realizzarsi dell’eterno mistero divino, ma anche del modo in cui quel mistero si è espresso nell’ordine visibile, del modo in cui è divenuto visibile, e per questo è entrato nella sfera del Segno.
7. Con il termine “segno” intendiamo qui semplicemente la “visibilità dell’Invisibile”. Il mistero da secoli nascosto in Dio - ossia invisibile - è divenuto visibile prima di tutto nello stesso evento storico di Cristo. E il rapporto di Cristo con la Chiesa, che nella lettera agli Efesini viene definito “mysterium magnum”, costituisce l’adempimento e la concretizzazione della visibilità dello stesso mistero. Peraltro, il fatto che l’Autore della lettera agli Efesini paragoni l’indissolubile rapporto di Cristo con la Chiesa al rapporto tra il marito e la moglie, cioè al matrimonio - facendo al tempo stesso riferimento alle parole della Genesi (Gen 2, 24), che con l’atto creatore di Dio istituiscono originariamente il matrimonio -, volge la nostra riflessione verso ciò che è stato presentato già in precedenza - nel contesto del mistero stesso della creazione - come “visibilità dell’Invisibile”, verso l’“origine” stessa della storia teologica dell’uomo.
Si può dire che il segno visibile del matrimonio “in principio”, in quanto collegato al segno visibile di Cristo e della Chiesa al vertice dell’economia salvifica di Dio, traspone l’eterno piano di amore nella dimensione “storica” e ne fa il fondamento di tutto l’ordine sacramentale. Un particolare merito dell’Autore della lettera agli Efesini sta nell’aver accostato questi due segni, facendone l’unico grande segno, cioè un grande sacramento (“sacramentum magnum”).

Mercoledì, 6 ottobre 1982
1. Proseguiamo l’analisi del classico testo del capitolo 5 della lettera agli Efesini, versetti 22-23. A questo proposito occorre citare alcune frasi contenute in una delle precedenti analisi dedicate a questo tema: “L’uomo appare nel mondo visibile come la più alta espressione del dono divino, perché porta in sé l’interiore dimensione del dono. E con essa porta nel mondo la sua particolare somiglianza con Dio, con la quale egli trascende e domina anche la sua «visibilità» nel mondo, la sua corporeità, la sua mascolinità o femminilità, la sua nudità. Un riflesso di questa somiglianza è anche la consapevolezza primordiale del significato sponsale del corpo, pervasa dal mistero dell’innocenza originaria” (L’amore umano nel piano divino, Città del Vaticano 1980, p. 90). Queste frasi riassumono in poche parole il risultato delle analisi centrate sui primi capitoli del libro della Genesi, in rapporto alle parole con cui Cristo, nel suo colloquio con i Farisei sul tema del matrimonio e della sua indissolubilità, fece riferimento al “principio”. Altre frasi della medesima analisi pongono il problema del sacramento primordiale: “Così, in questa dimensione, si costituisce un primordiale sacramento, inteso quale segno che trasmette efficacemente nel mondo visibile il mistero invisibile nascosto in Dio dall’eternità. E questo è il mistero della Verità e dell’Amore, il mistero della vita divina, alla quale l’uomo partecipa realmente . . . È l’innocenza originaria che inizia questa partecipazione . . .” (Ivi.).
2. Bisogna rivedere il contenuto di queste affermazioni alla luce della dottrina paolina espressa nella lettera agli Efesini, avendo presente soprattutto il passo del capitolo 5, 22-33, collocato nel contesto complessivo di tutta la lettera. Del resto, la lettera ci autorizza a far questo, perché l’Autore stesso nel capitolo 5, versetto 31, fa riferimento al “principio”, e precisamente alle parole dell’istituzione del matrimonio nel libro della Genesi (Gen 2, 24).In che senso possiamo intravedere in queste parole un enunciato circa il sacramento, circa il sacramento primordiale? Le precedenti analisi del “principio” biblico ci hanno condotto gradualmente a questo, in considerazione dello stato dell’originaria gratificazione dell’uomo nell’esistenza e nella grazia, che fu lo stato di innocenza e di giustizia originarie. La lettera agli Efesini ci induce ad accostarci a tale situazione - ossia allo stato dell’uomo prima del peccato originale - dal punto di vista del mistero nascosto dall’eternità in Dio. Infatti leggiamo nelle prime frasi della lettera che “Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo / . . . ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. / In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, / per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità . . .” (Ef 1, 3-4).
3. La lettera agli Efesini apre davanti a noi il mondo soprannaturale dell’eterno mistero, degli eterni disegni di Dio Padre nei riguardi dell’uomo. Questi disegni precedono la “creazione del mondo”, quindi anche la creazione dell’uomo. Al tempo stesso quei disegni divini cominciano a realizzarsi già in tutta la realtà della creazione. Se al mistero della creazione appartiene anche lo stato dell’innocenza originaria dell’uomo creato, come maschio e femmina, ad immagine di Dio, ciò significa che il dono primordiale, conferito all’uomo da parte di Dio, racchiudeva già in sé il frutto dell’elezione, di cui leggiamo nella lettera agli Efesini: “Ci ha scelti . . . per essere santi e immacolati al suo cospetto” (Ef 1, 4). Ciò appunto sembrano rilevare le parole del libro della Genesi, quando il Creatore-Elohim trova nell’uomo - maschio e femmina - comparso “al suo cospetto”, un bene degno di compiacimento: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1, 31). Solo dopo il peccato, dopo la rottura dell’originaria alleanza con il Creatore, l’uomo sente il bisogno di nascondersi “dal Signore Dio”: “Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, poiché sono nudo, e mi sono nascosto” (Gen 3, 10).
4. Invece, prima del peccato, l’uomo portava nella sua anima il frutto dell’eterna elezione in Cristo, Figlio eterno del Padre. Mediante la grazia di questa elezione l’uomo, maschio e femmina, era “santo e immacolato” al cospetto di Dio. Quella primordiale (o originaria) santità e purezza si esprimeva anche nel fatto che, sebbene entrambi fossero “nudi . . ., non provavano vergogna” (Gen 2, 25), come già abbiamo cercato di mettere in evidenza nelle precedenti analisi. Confrontando la testimonianza del “principio”, riportata nei primi capitoli del libro della Genesi, con la testimonianza della lettera agli Efesini, occorre dedurre che la realtà della creazione dell’uomo era già permeata dalla perenne elezione dell’uomo in Cristo: chiamata alla santità attraverso la grazia di adozione a figli (“predestinandoci a essere suoi figli adottivi / per opera di Gesù Cristo, / secondo il beneplacito della sua volontà. / E questo a lode e gloria della sua grazia, / che ci ha dato nel suo Figlio diletto”) (Ef 1, 5-6).
5. L’uomo, maschio e femmina, divenne fin dal “principio” partecipe di questo dono soprannaturale. Tale gratificazione è stata data in considerazione di Colui, che dall’eternità era “diletto” quale Figlio, sebbene - secondo le dimensioni del tempo e della storia - essa abbia preceduto l’incarnazione di questo “Figlio diletto” e anche la “redenzione” che abbiamo in lui “mediante il suo sangue” (Ef 1, 7).
La redenzione doveva diventare la fonte della gratificazione soprannaturale dell’uomo dopo il peccato e, in certo senso, malgrado il peccato. Questa gratificazione soprannaturale, che ebbe luogo prima del peccato originale, cioè la grazia della giustizia e dell’innocenza originarie - gratificazione che fu frutto dell’elezione dell’uomo in Cristo prima dei secoli - si è compiuta appunto per riguardo a lui, a quell’unico Diletto, pur anticipando cronologicamente la sua venuta nel corpo. Nelle dimensioni del mistero della creazione, la elezione alla dignità della figliolanza adottiva fu propria soltanto del “primo Adamo”, cioè dell’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio, quale maschio e femmina.
6. In quale modo si verifica in questo contesto la realtà del sacramento, del sacramento primordiale? Nell’analisi del “principio”, di cui è stato citato poco fa un brano, abbiamo detto che “il sacramento, come segno visibile, si costituisce con l’uomo, in quanto «corpo», mediante la sua «visibile» mascolinità e femminilità. Il corpo, infatti, e soltanto esso, è capace di rendere visibile ciò che è invisibile: lo spirituale e il divino. Esso è stato creato per trasferire nella realtà visibile del mondo il mistero nascosto dall’eternità in Dio, e così esserne segno” (L’amore umano nel piano divino, Città del Vaticano 1980, p. 90).
Questo segno ha inoltre una sua efficacia, come ancora dicevo: “L’innocenza originaria collegata all’esperienza del significato sponsale del corpo” fa sì che “l’uomo si sente, nel suo corpo di maschio e di femmina, soggetto di santità” (Ivi., p. 91). “Si sente” e lo è fin dal “principio”. Quella santità conferita originariamente all’uomo da parte del Creatore appartiene alla realtà del “sacramento della creazione”. Le parole della Genesi 2, 24, “l’uomo . . . si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”, pronunciate sullo sfondo di questa realtà originaria in senso teologico, costituiscono il matrimonio quale parte integrante e, in certo senso, centrale del “sacramento della creazione”. Esse costituiscono - o forse piuttosto confermano semplicemente - il carattere della sua origine. Secondo queste parole, il matrimonio è sacramento in quanto parte integrale e, direi, punto centrale del “sacramento della creazione”. In questo senso è sacramento primordiale.
7. L’istituzione del matrimonio, secondo le parole della Genesi 2, 24, esprime non soltanto l’inizio della fondamentale comunità umana che, mediante la forza “procreatrice” che le è propria (“siate fecondi e moltiplicatevi”) (Gen 1, 28), serve a continuare l’opera della creazione, ma essa nello stesso tempo esprime l’iniziativa salvifica del Creatore, corrispondente alla eterna elezione dell’uomo, di cui parla la lettera agli Efesini. Quella iniziativa salvifica proviene da Dio-Creatore e la sua efficacia soprannaturale s’identifica con l’atto stesso della creazione dell’uomo nello stato dell’innocenza originaria. In questo stato, già fin nell’atto della creazione dell’uomo, fruttificò la sua eterna elezione in Cristo. In tal modo occorre riconoscere che l’originario sacramento della creazione trae la sua efficacia dal “Figlio diletto” (cf. Ef 1, 6: dove si parla della “grazia che ci ha dato nel suo Figlio diletto”). Se poi si tratta del matrimonio, si può dedurre che - istituito nel contesto del sacramento della creazione nella sua globalità, ossia nello stato dell’innocenza originaria - esso doveva servire non soltanto a prolungare l’opera della creazione, ossia della procreazione, ma anche ad espandere sulle ulteriori generazioni degli uomini lo stesso sacramento della creazione, cioè i frutti soprannaturali dell’eterna elezione dell’uomo da parte del Padre nell’eterno Figlio: quei frutti, di cui l’uomo è stato gratificato da Dio nell’atto stesso della creazione.
La lettera agli Efesini sembra autorizzarci ad intendere in tal modo il libro della Genesi e la verità sul “principio” dell’uomo e del matrimonio ivi contenuta.

Mercoledì, 13 ottobre 1982
1. Nella nostra precedente considerazione abbiamo cercato di approfondire - alla luce della lettera agli Efesini - il “principio” sacramentale dell’uomo e del matrimonio nello stato della giustizia (o innocenza) originaria.
È noto, tuttavia, che l’eredità della grazia è stata respinta dal cuore umano al momento della rottura della prima alleanza con il Creatore. La prospettiva della procreazione, invece di essere illuminata dall’eredità della grazia originaria, donata da Dio non appena infusa l’anima razionale, è stata offuscata dalla eredità del peccato originale. Si può dire che il matrimonio, come sacramento primordiale, è stato privato di quella efficacia soprannaturale, che, al momento della istituzione, attingeva al sacramento della creazione nella sua globalità. Nondimeno, anche in questo stato, cioè nello stato della peccaminosità ereditaria dell’uomo, il matrimonio non cessò mai di essere la figura di quel sacramento, di cui leggiamo nella lettera agli Efesini (Ef 5, 22-33) e che l’Autore della medesima lettera non esita a definire “grande mistero”. Non possiamo forse desumere che il matrimonio sia rimasto quale piattaforma dell’attuazione degli eterni disegni di Dio, secondo i quali il sacramento della creazione aveva avvicinato gli uomini e li aveva preparati al sacramento della Redenzione, introducendoli nella dimensione dell’opera della salvezza? L’analisi della lettera agli Efesini, e in particolare del “classico” testo del capo 5, versetti 22-33, sembra propendere per una tale conclusione.
2. Quando l’Autore, al versetto 31, fa riferimento alle parole dell’istituzione del matrimonio, contenute nella Genesi (2, 24: “Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”), e subito dopo dichiara: “Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa” (Ef 5, 32), sembra indicare non soltanto l’identità del Mistero nascosto in Dio dall’eternità, ma anche quella continuità della sua attuazione che esiste tra il sacramento primordiale connesso alla gratificazione soprannaturale dell’uomo nella creazione stessa e la nuova gratificazione - avvenuta quando “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa . . .” (Ef 5, 25-26) - gratificazione che può essere definita nel suo insieme quale Sacramento della Redenzione. In questo dono redentore di se stesso “per” la Chiesa, è anche racchiuso - secondo il pensiero paolino - il dono di sé da parte di Cristo alla Chiesa, ad immagine del rapporto sponsale che unisce marito e moglie nel matrimonio. In tal modo il Sacramento della Redenzione riveste, in certo senso, la figura e la forma del sacramento primordiale. Al matrimonio del primo marito e della prima moglie, quale segno della gratificazione soprannaturale dell’uomo nel sacramento della creazione, corrisponde lo sposalizio, o piuttosto l’analogia dello sposalizio, di Cristo con la Chiesa, quale fondamentale “grande” segno della gratificazione soprannaturale dell’uomo nel Sacramento della Redenzione, della gratificazione, in cui si rinnova, in modo definitivo, l’alleanza della grazia di elezione, infranta al “principio” con il peccato.
3. L’immagine contenuta nel passo citato della lettera agli Efesini sembra parlare soprattutto del Sacramento della Redenzione come della definitiva attuazione del Mistero nascosto dall’eternità in Dio. In questo “mysterium magnum” si realizza appunto definitivamente tutto ciò, di cui la medesima lettera agli Efesini aveva trattato nel capitolo 1. Essa infatti dice, come ricordiamo, non soltanto: “In lui (cioè in Cristo) [Dio] ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto . . .” (Ef 1, 4), ma anche: “Nel quale [Cristo] abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati, secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha abbondantemente riversata su di noi . . .” (Ef 1, 7-8). La nuova gratificazione soprannaturale dell’uomo nel “Sacramento della Redenzione” è anche una nuova attuazione del Mistero nascosto dall’eternità in Dio, nuova in rapporto al sacramento della creazione. In questo momento la gratificazione è, in certo senso, una “nuova creazione”. Si differenzia però dal sacramento della creazione in quanto la gratificazione originaria, unita alla creazione dell’uomo, costituiva quell’uomo “dal principio”, mediante la grazia, nello stato della originaria innocenza e giustizia. La nuova gratificazione dell’uomo nel Sacramento della Redenzione gli dona invece soprattutto la “remissione dei peccati”. Tuttavia, anche qui può “sovrabbondare la grazia”, come altrove si esprime san Paolo: “Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia” (Rm 5, 20).
4. Il Sacramento della Redenzione - frutto dell’amore redentore di Cristo - diviene, in base al suo amore sponsale verso la Chiesa, una permanente dimensione della vita della Chiesa stessa, dimensione fondamentale e vivificante. È il “mysterium magnum” di Cristo e della Chiesa: mistero eterno realizzato da Cristo, il quale “ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25); mistero che si attua continuamente nella Chiesa, perché Cristo “ha amato la Chiesa” (Ef 5, 25), unendosi con essa con amore indissolubile, così come si uniscono gli sposi, marito e moglie, nel matrimonio. In questo modo la Chiesa vive del Sacramento della Redenzione, e a sua volta completa questo sacramento come la moglie, in virtù dell’amore sponsale, completa il proprio marito, il che venne in certo modo già posto in rilievo “al principio”, quando il primo uomo trovò nella prima donna “un aiuto che gli era simile” (Gen 2, 20). Sebbene l’analogia della lettera agli Efesini non lo precisi, possiamo tuttavia aggiungere che anche la Chiesa unita con Cristo, come la moglie col proprio marito, attinge dal Sacramento della Redenzione tutta la sua fecondità e maternità spirituale. Ne testimoniano, in qualche modo, le parole della lettera di san Pietro, quando scrive che siamo stati “rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna” (1 Pt 1, 23). Così il Mistero nascosto dall’eternità in Dio - Mistero che al “principio”, nel sacramento della creazione, divenne una realtà visibile attraverso l’unione del primo uomo e della prima donna nella prospettiva del matrimonio - diventa nel Sacramento della Redenzione una realtà visibile nell’unione indissolubile di Cristo con la Chiesa, che l’Autore della lettera agli Efesini presenta come l’unione sponsale dei coniugi, marito e moglie.
5. Il “sacramentum magnum” (il testo greco dice: tò mysterion toûto méga estín) della lettera agli Efesini parla della nuova realizzazione del Mistero nascosto dall’eternità in Dio; realizzazione definitiva dal punto di vista della storia terrena della salvezza. Parla inoltre del “renderlo [il mistero] visibile”: della visibilità dell’Invisibile. Questa visibilità non fa sì che il mistero cessi d’esser mistero. Ciò si riferiva al matrimonio costituito al “principio”, nello stato dell’innocenza originaria, nel contesto del sacramento della creazione. Ciò si riferisce anche all’unione di Cristo con la Chiesa, quale “mistero grande” del Sacramento della Redenzione. La visibilità dell’Invisibile non significa - se così si può dire - una totale chiarezza del mistero. Esso, come oggetto della fede, rimane velato anche attraverso ciò in cui appunto si esprime e si attua. La visibilità dell’Invisibile appartiene quindi all’ordine dei segni, e il “segno” indica soltanto la realtà del mistero, ma non la “svela”. Come il “primo Adamo” - l’uomo, maschio e femmina - creato nello stato dell’innocenza originaria e chiamato in questo stato all’unione coniugale (in questo senso parliamo del sacramento della creazione), fu segno dell’eterno Mistero, così il “secondo Adamo”, Cristo, unito con la Chiesa attraverso il Sacramento della Redenzione con un vincolo indissolubile, analogo all’indissolubile alleanza dei coniugi, è segno definitivo dello stesso Mistero eterno. Parlando dunque del realizzarsi dell’eterno mistero, parliamo anche del fatto che esso diventa visibile con la visibilità del segno. E perciò parliamo pure della “sacramentalità” di tutta l’eredità del Sacramento della Redenzione, in riferimento all’intera opera della Creazione e della Redenzione, e tanto più in riferimento al matrimonio istituito nel contesto del sacramento della creazione, come anche in riferimento alla Chiesa come sposa di Cristo, dotata di un’alleanza quasi coniugale con lui.

Mercoledì, 20 ottobre 1982
1. Mercoledì scorso abbiamo parlato dell’integrale eredità dell’alleanza con Dio, e della grazia unita originariamente alla divina opera della creazione. Di questa integrale eredità - come conviene dedurre dal testo della lettera agli Efesini 5, 22-33 - faceva parte anche il matrimonio, come sacramento primordiale, istituito dal “principio” e collegato con il sacramento della creazione nella sua globalità. La sacramentalità del matrimonio non è soltanto modello e figura del sacramento della Chiesa (di Cristo e della Chiesa), ma costituisce anche parte essenziale della nuova eredità: quella del sacramento della Redenzione, di cui la Chiesa viene gratificata in Cristo. Occorre qui ancora una volta riportarsi alle parole di Cristo in Matteo 19, 3-9 (cf. etiam Mc 10, 5-9), in cui Cristo, nel rispondere alla domanda dei Farisei circa il matrimonio e il suo carattere specifico, si riferisce soltanto ed esclusivamente alla istituzione originaria di esso da parte del Creatore al “principio”. Riflettendo sul significato di questa risposta alla luce della lettera agli Efesini, e in particolare di Efesini 5, 22-33, concludiamo ad un rapporto in certo senso duplice del matrimonio con tutto l’ordine sacramentale che, nella Nuova Alleanza, emerge dallo stesso sacramento della Redenzione.
2. Il matrimonio come sacramento primordiale costituisce, da una parte, la figura (e dunque: la somiglianza, l’analogia), secondo cui viene costruita la fondamentale struttura portante della nuova economia della salvezza e dell’ordine sacramentale, che trae origine dalla gratificazione sponsale che la Chiesa riceve da Cristo, insieme con tutti i beni della Redenzione (si potrebbe dire, servendosi delle parole iniziali della lettera agli Efesini: “Di ogni benedizione spirituale”) (Ef 1, 3). In tal modo il matrimonio, come sacramento primordiale, viene assunto ed inserito nella struttura integrale della nuova economia sacramentale, sorta dalla Redenzione in forma, direi, di “prototipo”: viene assunto ed inserito quasi dalle sue stesse basi. Cristo stesso, nel colloquio con i Farisei (Mt 19, 3-9), riconferma prima di tutto la sua esistenza. A ben riflettere su questa dimensione, bisognerebbe concludere che tutti i sacramenti della Nuova Alleanza trovano in un certo senso nel matrimonio quale sacramento primordiale il loro prototipo. Ciò sembra prospettarsi nel classico brano citato della lettera agli Efesini, come diremo ancora fra poco.
3. Tuttavia, il rapporto del matrimonio con tutto l’ordine sacramentale, sorto dalla gratificazione della Chiesa con i beni della Redenzione, non si limita soltanto alla dimensione di modello. Cristo, nel suo colloquio con i Farisei (cf. Mt 19), non solo conferma l’esistenza del matrimonio istituito dal “principio” dal Creatore, ma lo dichiara anche parte integrale dalla nuova economia sacramentale, del nuovo ordine dei “segni” salvifici, che trae origine dal sacramento della Redenzione, così come l’economia originaria è emersa dal sacramento della creazione; e in realtà Cristo si limita all’unico Sacramento, che era stato il matrimonio istituito nello stato dell’innocenza e della giustizia originarie dell’uomo, creato come maschio e femmina “ad immagine e somiglianza di Dio”.
4. La nuova economia sacramentale, che viene costituita sulla base del sacramento della Redenzione, emergendo dalla sponsale gratificazione della Chiesa da parte di Cristo, differisce dalla economia originaria. Essa, infatti, è diretta non all’uomo della giustizia e innocenza originarie, ma all’uomo gravato dall’eredità del peccato originale e dallo stato di peccaminosità (“status naturae lapsae”). È diretta all’uomo della triplice concupiscenza, secondo le classiche parole della prima lettera di Giovanni (cf. 1 Gv 2, 16), all’uomo, in cui “la carne . . . ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne” (Gal 5, 17), secondo la teologia (e antropologia) paolina, alla quale abbiamo dedicato molto spazio nelle nostre precedenti riflessioni.
5. Queste considerazioni, sulla scorta di un’approfondita analisi del significato dell’enunciato di Cristo nel discorso della Montagna circa lo “sguardo concupiscente” quale “adulterio del cuore”, preparano a comprendere il matrimonio come parte integrante del nuovo ordine sacramentale, che trae origine dal sacramento della Redenzione, ossia da quel “grande mistero” che, come mistero di Cristo e della Chiesa, determina la sacramentalità della Chiesa stessa. Queste considerazioni, inoltre, preparano a comprendere il matrimonio come sacramento della Nuova Alleanza, la cui opera salvifica va organicamente unita con l’insieme di quell’ethos, che nelle analisi precedenti è stato definito “ethos della redenzione”. La lettera agli Efesini esprime, a suo modo, la stessa verità: parla infatti del matrimonio come sacramento “grande” in un ampio contesto parenetico, cioè nel contesto delle esortazioni di carattere morale, concernenti appunto l’ethos che deve qualificare la vita dei cristiani, cioè degli uomini consapevoli della elezione che si realizza in Cristo e nella Chiesa.
6. Su questo vasto sfondo delle riflessioni che emergono dalla lettura della lettera agli Efesini (cf. speciatim Ef 5, 22-33), si può e si deve infine toccare ancora il problema dei Sacramenti della Chiesa. Il testo citato agli Efesini ne parla in modo indiretto e, direi, secondario, sebbene sufficiente affinché anche questo problema trovi posto nelle nostre considerazioni. Tuttavia conviene qui precisare, almeno brevemente, il senso che adottiamo nell’uso del termine “sacramento”, che è significativo per le nostre considerazioni.
7. Finora, infatti, ci siamo serviti del termine “sacramento” (conformemente d’altronde a tutta la tradizione biblico-patristica) (cf. Leone XIII, Acta, vol. II, 1881, p. 22) in un senso più lato di quello che è proprio della terminologia teologica tradizionale e contemporanea, che con la parola “sacramento” indica i segni istituiti da Cristo e amministrati dalla Chiesa, i quali esprimono e conferiscono la grazia divina alla persona che riceve il relativo sacramento. In questo senso, ciascuno dei sette Sacramenti della Chiesa è caratterizzato da una determinata azione liturgica, costituita attraverso la parola (forma) e la specifica “materia” sacramentale - secondo la diffusa teoria ilemorfica proveniente da Tommaso d’Aquino e da tutta la tradizione scolastica.
8. In rapporto a questo significato così circoscritto, ci siamo serviti nelle nostre considerazioni di un significato più largo e forse anche più antico e più fondamentale del termine “sacramento” (cf. Giovanni Paolo II, Allocutio in Audientia Generali, die 8 sept. 1982, adnot. 1: vide supra, p. 389). La lettera agli Efesini, e specialmente 5, 22-23, sembra in modo particolare autorizzarci a questo. Sacramento significa qui il mistero stesso di Dio, che è nascosto fin dall’eternità, tuttavia non in nascondimento eterno, ma anzitutto nella sua stessa rivelazione e attuazione (anche: nella rivelazione mediante l’attuazione). In tal senso, si è parlato anche del sacramento della creazione e del sacramento della Redenzione. In base al sacramento della creazione, occorre intendere l’originaria sacramentalità del matrimonio (sacramento primordiale). In seguito, in base al sacramento della Redenzione si può comprendere la sacramentalità della Chiesa, o piuttosto la sacramentalità dell’unione di Cristo con la Chiesa che l’Autore della lettera agli Efesini presenta nella similitudine del matrimonio, dell’unione sponsale del marito e della moglie. Un’attenta analisi del testo dimostra che in questo caso non si tratta solo di un paragone in senso metaforico, ma di un reale rinnovamento (ovvero di una “ri-creazione”, cioè di una nuova creazione) di ciò che costituiva il contenuto salvifico (in certo senso la “sostanza salvifica”) del sacramento primordiale. Questa constatazione ha un significato essenziale, sia per chiarire la sacramentalità della Chiesa (e a ciò si riferiscono le parole molto significative del primo capitolo della costituzione Lumen Gentium), sia anche per comprendere la sacramentalità del matrimonio, inteso proprio come uno dei Sacramenti della Chiesa.

Mercoledì, 27 ottobre 1982
1. Il testo della lettera agli Efesini (Ef 5, 22-33) parla dei sacramenti della Chiesa - e in particolare del Battesimo e dell’Eucaristia - ma soltanto in modo indiretto e in certo senso allusivo, sviluppando l’analogia del matrimonio in riferimento a Cristo e alla Chiesa. E così leggiamo dapprima che Cristo, il quale “ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25), ha fatto questo “per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola” (Ef 5, 26). Si tratta qui indubbiamente del sacramento del Battesimo, che per istituzione di Cristo viene sin dall’inizio conferito a coloro che si convertono. Le parole citate mostrano con grande plasticità in che modo il Battesimo attinge il suo significato essenziale e la sua forza sacramentale da quell’amore sponsale del Redentore, attraverso cui si costituisce soprattutto la sacramentalità della Chiesa stessa, “sacramentum magnum”. Lo stesso si può forse dire anche dell’Eucaristia, che sembrerebbe essere indicata dalle parole seguenti sul nutrimento del proprio corpo, che ogni uomo appunto nutre e cura “come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo” (Ef 5, 29-30). Infatti, Cristo nutre la Chiesa con il suo Corpo appunto nell’Eucaristia.
2. Si vede, tuttavia, che né nel primo né nel secondo caso possiamo parlare di una sacramentaria ampiamente sviluppata. Non se ne può parlare nemmeno quando si tratta del sacramento del matrimonio come uno dei sacramenti della Chiesa. La lettera agli Efesini, esprimendo il rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa, consente di comprendere che, in base a questo rapporto, la Chiesa stessa è il “grande sacramento”, il nuovo segno dell’alleanza e della grazia, che trae le sue radici dalle profondità del sacramento della Redenzione, così come dalle profondità del sacramento della creazione è emerso il matrimonio, segno primordiale dell’alleanza e della grazia. L’Autore della lettera agli Efesini proclama che quel sacramento primordiale si realizza in un modo nuovo nel “sacramento” di Cristo e della Chiesa. Anche per questa ragione l’Apostolo, nello stesso “classico” testo di Efesini 5, 21-33, si rivolge ai coniugi, affinché siano “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21) e modellino la loro vita coniugale fondandola sul sacramento istituito al “principio” dal Creatore: sacramento, che trovò la sua definitiva grandezza e santità nell’alleanza sponsale di grazia tra Cristo e la Chiesa.
3. Sebbene la lettera agli Efesini non parli direttamente e immediatamente del matrimonio come di uno dei sacramenti della Chiesa, tuttavia la sacramentalità del matrimonio viene in essa particolarmente confermata e approfondita. Nel “grande sacramento” di Cristo e della Chiesa i coniugi cristiani sono chiamati a modellare la loro vita e la loro vocazione sul fondamento sacramentale.
4. Dopo l’analisi del classico testo di Efesini 5, 21-33, indirizzato ai coniugi cristiani, in cui Paolo annunzia loro il “grande mistero” (“sacramentum magnum”) dell’amore sponsale di Cristo e della Chiesa, è opportuno ritornare a quelle significative parole del Vangelo, che già in precedenza abbiamo sottoposto ad analisi, vedendo in esse gli enunciati-chiave per la teologia del corpo. Cristo pronuncia queste parole, per così dire, dalla profondità divina della “redenzione del corpo” (Rm 8, 23). Tutte queste parole hanno un significato fondamentale per l’uomo in quanto appunto egli è corpo - in quanto è maschio o femmina. Esse hanno un significato per il matrimonio, in cui l’uomo e la donna si uniscono così che i due diventano “una sola carne”, secondo l’espressione del libro della Genesi (Gen 2, 24), sebbene, nello stesso tempo, le parole di Cristo indichino anche la vocazione alla continenza “per il regno dei cieli” (Mt 19, 12).
5. In ciascuna di queste vie “la redenzione del corpo” non è soltanto una grande attesa di coloro che posseggono “le primizie dello Spirito” (Rm 8, 23), ma anche una permanente fonte di speranza che la creazione sarà “liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8, 21). Le parole di Cristo, pronunciate dalla profondità divina del mistero della Redenzione, e della “redenzione del corpo”, portano in sé il lievito di questa speranza: le aprono la prospettiva sia nella dimensione escatologica sia nella dimensione della vita quotidiana. Infatti, le parole indirizzate agli ascoltatori immediati sono rivolte contemporaneamente all’uomo “storico” dei vari tempi e luoghi. Quell’uomo, appunto, che possiede “le primizie dello Spirito . . . geme . . . aspettando la redenzione del . . . corpo” (Rm 8, 23). In lui si concentra anche la speranza “cosmica” di tutta la creazione, che in lui, nell’uomo, “attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio” (Rm 8, 19).
6. Cristo colloquia con i Farisei, che gli chiedono: “È lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?” (Mt 19, 3); essi lo interrogano in tale modo, appunto perché la legge attribuita a Mosè ammetteva la cosiddetta “lettera di ripudio” (Dt 24, 1). La risposta di Cristo è questa: “Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” (Mt 19, 4-6). Se poi si tratta della “lettera di ripudio”, Cristo risponde così: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così. Perciò io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra, commette adulterio” (Mt 19, 8-9). “Chi sposa una donna ripudiata dal marito, commette adulterio” (Lc 16, 28).
7. L’orizzonte della “redenzione del corpo” si apre con queste parole, che costituiscono la risposta a una concreta domanda di carattere giuridico-morale; si apre, anzitutto, per il fatto che Cristo si colloca sul piano di quel sacramento primordiale, che i suoi interlocutori ereditano in modo singolare, dato che ereditano anche la rivelazione del mistero della creazione, racchiusa nei primi capitoli del libro della Genesi.
Queste parole contengono ad un tempo una risposta universale, indirizzata all’uomo “storico” di tutti i tempi e luoghi, poiché sono decisive per il matrimonio e per la sua indissolubilità; infatti si richiamano a ciò che è l’uomo, maschio e femmina, quale è divenuto in modo irreversibile per il fatto di esser creato “ad immagine e somiglianza di Dio”: l’uomo, che non cessa di essere tale anche dopo il peccato originale, benché questo l’abbia privato dell’innocenza originaria e della giustizia. Cristo, che nel rispondere alla domanda dei Farisei fa riferimento al “principio”, sembra in tal modo sottolineare particolarmente il fatto che egli parla dalla profondità del mistero della Redenzione, e della redenzione del corpo. La Redenzione significa, infatti, quasi una “nuova creazione” - significa l’assunzione di tutto ciò che è creato: per esprimere nella creazione la pienezza di giustizia, di equità e di santità, designata da Dio, e per esprimere quella pienezza soprattutto nell’uomo, creato come maschio e femmina “ad immagine di Dio”.
Nell’ottica delle parole di Cristo rivolte ai Farisei su ciò che era il matrimonio “dal principio”, rileggiamo anche il classico testo della lettera agli Efesini (Ef 5, 22-23) come testimonianza della sacramentalità del matrimonio, basata sul “grande mistero” di Cristo e della Chiesa.

Mercoledì, 24 novembre 1982
1. Abbiamo analizzato la lettera agli Efesini, e soprattutto il passo del capitolo 5, 22-33, dal punto di vista della sacramentalità del matrimonio. Ora esaminiamo ancora lo stesso testo nell’ottica delle parole del Vangelo.
Le parole di Cristo rivolte ai Farisei (cf. Mt 19) si riferiscono al matrimonio quale sacramento, ossia alla rivelazione primordiale del volere e dell’operare salvifico di Dio “al principio”, nel mistero stesso della creazione. In virtù di quel volere ed operare salvifico di Dio, l’uomo e la donna, unendosi tra loro così da divenire “una sola carne” (Gen 2, 24), erano ad un tempo destinati ad essere uniti “nella verità e nella carità” come figli di Dio (cf. Gaudium et Spes, 24), figli adottivi nel Figlio Primogenito, diletto dall’eternità. A tale unità e verso tale comunione di persone, a somiglianza dell’unione delle persone divine (cf. Ivi.), sono dedicate le parole di Cristo, che si riferiscono al matrimonio come sacramento primordiale e nello stesso tempo confermano quel sacramento sulla base del mistero della Redenzione. Infatti, l’originaria “unità nel corpo” dell’uomo e della donna non cessa di plasmare la storia dell’uomo sulla terra, sebbene abbia perduto la limpidezza del sacramento, del segno della salvezza, che possedeva “al principio”.
2. Se Cristo di fronte ai suoi interlocutori, nel Vangelo di Matteo e di Marco (cf. Mt 19; Mc 10), conferma il matrimonio quale sacramento istituito dal Creatore “al principio” - se in conformità con questo ne esige l’indissolubilità - con ciò stesso apre il matrimonio all’azione salvifica di Dio, alle forze che scaturiscono “dalla redenzione del corpo” e che aiutano a superare le conseguenze del peccato e a costruire l’unità dell’uomo e della donna secondo l’eterno disegno del Creatore. L’azione salvifica che deriva dal mistero della Redenzione assume in sé l’originaria azione santificante di Dio nel mistero stesso della Creazione.
3. Le parole del Vangelo di Matteo (cf. Mt 19, 3-9; Mc 10, 2-12) hanno, al tempo stesso, una eloquenza etica molto espressiva. Queste parole confermano - in base al mistero della Redenzione - il sacramento primordiale e nello stesso tempo stabiliscono un ethos adeguato, che già nelle nostre precedenti riflessioni abbiamo chiamato “ethos della redenzione”. L’ethos evangelico e cristiano, nella sua essenza teologica, è l’ethos della redenzione. Possiamo certo trovare per quell’ethos una interpretazione razionale, una interpretazione filosofica di carattere personalistico; tuttavia, nella sua essenza teologica, esso è un ethos della redenzione, anzi: “un ethos della redenzione del corpo”. La redenzione diviene ad un tempo la base per comprendere la particolare dignità del corpo umano, radicata nella dignità personale dell’uomo e della donna. La ragione di questa dignità sta appunto alla radice dell’indissolubilità dell’alleanza coniugale.
4. Cristo fa riferimento al carattere indissolubile del matrimonio come sacramento primordiale e, confermando questo sacramento sulla base del mistero della redenzione, ne trae ad un tempo le conclusioni di natura etica: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio” (Mc 10, 11 s; cf. Mt 19, 9). Si può affermare che in tal modo la redenzione è data all’uomo come grazia della nuova alleanza con Dio in Cristo - ed insieme gli è assegnata come ethos: come forma della morale corrispondente all’azione di Dio nel mistero della Redenzione. Se il matrimonio come sacramento è un segno efficace dell’azione salvifica di Dio “dal principio”, al tempo stesso - nella luce delle parole di Cristo qui meditate - questo sacramento costituisce anche una esortazione rivolta all’uomo, maschio e femmina, affinché partecipino coscienziosamente alla redenzione del corpo.
5. La dimensione etica della redenzione del corpo si delinea in modo particolarmente profondo, quando meditiamo sulle parole pronunciate da Cristo nel Discorso della Montagna in rapporto al comandamento “Non commettere adulterio”. “Avete inteso che fu detto: non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt 5, 27-28). A questo lapidario enunciato di Cristo abbiamo precedentemente dedicato un ampio commento, nella convinzione che esso ha un significato fondamentale per tutta la teologia del corpo, soprattutto nella dimensione dell’uomo “storico”. E sebbene queste parole non si riferiscano direttamente ed immediatamente al matrimonio come sacramento, tuttavia è impossibile separarle dall’intero sostrato sacramentale, in cui, per quanto riguarda il patto coniugale, è stata collocata l’esistenza dell’uomo quale maschio e femmina: sia nel contesto originario del mistero della Creazione, sia pure, in seguito, nel contesto del mistero della Redenzione. Questo sostrato sacramentale riguarda sempre le persone concrete, penetra in ciò che è l’uomo e la donna (o piuttosto in chi è l’uomo e la donna) nella propria originaria dignità di immagine e somiglianza con Dio a motivo della creazione, ed insieme nella stessa dignità ereditata malgrado il peccato e di nuovo continuamente “assegnata” come compito all’uomo mediante la realtà della Redenzione.
6. Cristo, che nel Discorso della Montagna dà la propria interpretazione del comandamento “Non commettere adulterio” - interpretazione costitutiva del nuovo ethos - con le medesime lapidarie parole assegna come compito ad ogni uomo la dignità di ogni donna; e contemporaneamente (sebbene dal testo ciò risulti solo in modo indiretto) assegna anche ad ogni donna la dignità di ogni uomo (Il testo di San Marco che parla dell’indissolubilità del matrimonio afferma chiaramente che anche la donna diventa soggetto dell’adulterio,quando ripudia il marito e sposa un altro [cf. Mc 10, 12]). Assegna infine a ciascuno - sia all’uomo che alla donna - la propria dignità: in certo senso, il “sacrum” della persona, e ciò in considerazione della sua femminilità o mascolinità, in considerazione del “corpo”. Non è difficile rilevare che le parole pronunciate da Cristo nel Discorso della Montagna riguardano l’ethos. Al tempo stesso, non è difficile affermare, dopo una riflessione approfondita, che tali parole scaturiscono dalla profondità stessa della redenzione del corpo. Benché esse non si riferiscano direttamente al matrimonio come sacramento, non è difficile costatare che raggiungono il loro proprio e pieno significato in rapporto con il sacramento: sia quello primordiale, che è unito con il mistero della Creazione, sia quello in cui l’uomo “storico”, dopo il peccato e a motivo della sua peccaminosità ereditaria, deve ritrovare la dignità e santità dell’unione coniugale “nel corpo”, in base al mistero della Redenzione.
7. Nel Discorso della Montagna - come anche nel colloquio con i Farisei sull’indissolubilità del matrimonio - Cristo parla dal profondo di quel mistero divino. E in pari tempo si addentra nella profondità stessa del mistero umano. Perciò fa richiamo al “cuore”, a quel “luogo intimo”, in cui combattono nell’uomo il bene e il male, il peccato e la giustizia, la concupiscenza e la santità. Parlando della concupiscenza (dello sguardo concupiscente) (cf. Mt 5, 28), Cristo rende consapevoli i suoi ascoltatori che ognuno porta in sé, insieme al mistero del peccato, la dimensione interiore “dell’uomo della concupiscenza” (che è triplice: “concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita”) (1 Gv 2, 16). Proprio a quest’uomo della concupiscenza è dato nel matrimonio il sacramento della Redenzione come grazia e segno dell’alleanza con Dio - e gli è assegnato “come ethos”. E contemporaneamente, in rapporto con il matrimonio come sacramento, esso è assegnato come ethos a ciascun uomo, maschio e femmina: è assegnato al suo “cuore”, alla sua coscienza, ai suoi sguardi e al suo comportamento. Il matrimonio - secondo le parole di Cristo (cf. Mt 19, 4) - è sacramento dal “principio” stesso e ad un tempo, in base alla peccaminosità “storica” dell’uomo, è sacramento sorto dal mistero della “redenzione del corpo”.

Mercoledì, 1° dicembre 1982
1. Abbiamo fatto l’analisi della lettera agli Efesini, e soprattutto del passo del capitolo 5, 22-33, nella prospettiva della sacramentalità del matrimonio. Ora cercheremo ancora una volta di considerare il medesimo testo alla luce delle parole del Vangelo e delle lettere paoline ai Corinzi e ai Romani.
Il matrimonio - come sacramento nato dal mistero della Redenzione e rinato, in certo senso, nell’amore sponsale di Cristo e della Chiesa - è una efficace espressione della potenza salvifica di Dio, che realizza il suo eterno disegno anche dopo il peccato e malgrado la triplice concupiscenza, nascosta nel cuore di ogni uomo, maschio e femmina. Come espressione sacramentale di quella potenza salvifica, il matrimonio è anche un’esortazione a dominare la concupiscenza (come ne parla Cristo nel Discorso della Montagna). Frutto di tale dominio è l’unità e indissolubilità del matrimonio, e inoltre, l’approfondito senso della dignità della donna nel cuore dell’uomo (come anche della dignità dell’uomo nel cuore della donna), sia nella convivenza coniugale, sia in ogni altro àmbito dei rapporti reciproci.
2. La verità, secondo cui il matrimonio, quale sacramento della redenzione, è dato “all’uomo della concupiscenza”, come grazia e in pari tempo come ethos, ha trovato particolare espressione anche nell’insegnamento di san Paolo, specialmente nel 7° capitolo della prima lettera ai Corinzi. L’Apostolo, confrontando il matrimonio con la verginità (ossia con la “continenza per il regno dei cieli”) e dichiarandosi per la “superiorità” della verginità, costata ugualmente che “ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro” (1 Cor 7, 7). In base al mistero della Redenzione, al matrimonio corrisponde dunque un “dono” particolare, ossia la grazia. Nello stesso contesto l’Apostolo dando consigli ai suoi destinatari, raccomanda il matrimonio “per il pericolo dell’incontinenza” (1 Cor 7, 2), e in seguito raccomanda ai coniugi che “il marito compia il suo dovere verso la moglie; ugualmente anche la moglie verso il marito” (1Cor 7,3). E continua così: “È meglio sposarsi che ardere” (1 Cor 7, 9).
3. Su questi enunciati paolini si è formata l’opinione che il matrimonio costituisca uno specifico “remedium concupiscentiae”. Tuttavia san Paolo, il quale, come abbiamo potuto costatare, insegna esplicitamente che al matrimonio corrisponde un “dono” particolare e che nel mistero della Redenzione il matrimonio è dato all’uomo e alla donna come grazia, esprime nelle sue parole, suggestive ed insieme paradossali, semplicemente il pensiero che il matrimonio è assegnato ai coniugi come ethos. Nelle parole paoline “È meglio sposarsi che ardere”, il verbo “ardere” significa il disordine delle passioni, proveniente dalla stessa concupiscenza della carne (analogamente viene presentata la concupiscenza nell’Antico Testamento dal Siracide) (cf. Sir 23, 17). Il “matrimonio”, invece, significa l’ordine etico, introdotto consapevolmente in questo àmbito. Si può dire che il matrimonio è luogo d’incontro dell’ eros con l’ ethos e del reciproco compenetrarsi di essi nel “cuore” dell’uomo e della donna, come pure in tutti i loro rapporti reciproci.
4. Questa verità - che cioè il matrimonio, quale sacramento scaturito dal mistero della Redenzione, è dato all’uomo “storico” come grazia ed insieme come ethos - determina inoltre il carattere del matrimonio quale uno dei sacramenti della Chiesa. Come sacramento della Chiesa, il matrimonio ha indole di indissolubilità. Come sacramento della Chiesa, esso è anche parola dello Spirito, che esorta l’uomo e la donna a modellare tutta la loro convivenza attingendo forza dal mistero della “redenzione del corpo”. In tal modo, essi sono chiamati alla castità come allo stato di vita “secondo lo Spirito” che è loro proprio (cf. Rm 8, 4-5; Gal 5, 25). La redenzione del corpo significa, in questo caso, anche quella “speranza” che, nella dimensione del matrimonio, può essere definita speranza del giorno quotidiano, speranza della temporalità. Sulla base di una tale speranza viene dominata la concupiscenza della carne come fonte della tendenza ad un egoistico appagamento, e la stessa “carne”, nell’alleanza sacramentale della mascolinità e femminilità, diventa lo specifico “sostrato” di una comunione duratura ed indissolubile delle persone (“communio personarum”) al modo degno delle persone.
5. Coloro che, come coniugi, secondo l’eterno disegno divino si uniscono così da divenire, in certo senso, “una sola carne”, sono anche a loro volta chiamati, mediante il sacramento, ad una vita “secondo lo Spirito”, tale che corrisponda al “dono” ricevuto nel sacramento. In virtù di quel “dono”, conducendo come coniugi una vita “secondo lo Spirito”, sono capaci di riscoprire la particolare gratificazione, di cui sono divenuti partecipi. Quanto la “concupiscenza” offusca l’orizzonte della visuale interiore, toglie ai cuori la limpidezza dei desideri e delle aspirazioni, altrettanto la vita “secondo lo Spirito” (ossia la grazia del sacramento del matrimonio) consente all’uomo e alla donna di ritrovare la vera libertà del dono, unita alla consapevolezza del senso sponsale del corpo nella sua mascolinità e femminilità.
6. La vita “secondo lo Spirito” si esprime dunque anche nel reciproco “unirsi” (cf. Gen 4, 1), con cui i coniugi, divenendo “una sola carne”, sottopongono la loro femminilità e mascolinità alla benedizione della procreazione: “Adamo si unì a Eva, sua moglie, la quale concepì e partorì . . . e disse: Ho acquistato un uomo dal Signore” (Gen 4, 1).
La vita “secondo lo Spirito” si esprime anche qui nella consapevolezza della gratificazione, a cui corrisponde la dignità degli stessi coniugi in qualità di genitori, cioè si esprime nella profonda consapevolezza della santità della vita (“sacrum”), a cui ambedue danno origine, partecipando - come i progenitori - alle forze del mistero della creazione. Alla luce di quella speranza, che è connessa col mistero della redenzione del corpo (cf. Rm 8, 19-23), questa nuova vita umana, l’uomo nuovo concepito e nato dall’unione coniugale di suo padre e di sua madre, si apre alle “primizie dello Spirito” (Rm 8, 23) “per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8, 21). E se “tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm 8, 22), una particolare speranza accompagna le doglie della madre partoriente, cioè la speranza della “rivelazione dei figli di Dio” (Rm 8, 19), speranza di cui ogni neonato che viene al mondo porta con sé una scintilla.
7. Questa speranza che è “nel mondo”, compenetrando - come insegna san Paolo - tutta la creazione, non è, al tempo stesso, “dal mondo”. Ancor più: essa deve combattere nel cuore umano con ciò che è “dal mondo”, con ciò che è “nel mondo”. “Perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo” (1 Gv 2, 16). Il matrimonio, come sacramento primordiale ed insieme come sacramento nato nel mistero della redenzione del corpo dall’amore sponsale di Cristo e della Chiesa, “viene dal Padre”. Non è “dal mondo”, ma “dal Padre”. Di conseguenza, anche il matrimonio, come sacramento, costituisce la base della speranza per la persona, cioè per l’uomo e per la donna, per i genitori e per i figli, per le generazioni umane. Da una parte, infatti, “passa il mondo con la sua concupiscenza”, dall’altra “chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (1 Gv 2, 17). Con il matrimonio, quale sacramento, è unita l’origine dell’uomo nel mondo, e in esso è anche iscritto il suo avvenire, e ciò non soltanto nelle dimensioni storiche, ma anche in quelle escatologiche.
8. A ciò si riferiscono le parole, in cui Cristo si richiama alla risurrezione dei corpi - parole riportate dai tre sinottici (cf. Mt 22, 23-32; Mc 12, 18-27; Lc 20, 34-39). “Alla risurrezione infatti non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo”: così Matteo e in modo simile Marco; ed ecco Luca: “I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della risurrezione dei morti, non prendono moglie né marito; e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio” (Lc 20, 34-36). Questi testi sono stati sottoposti in precedenza ad una analisi particolareggiata.
9. Cristo afferma che il matrimonio - sacramento dell’origine dell’uomo nel mondo visibile temporaneo - non appartiene alla realtà escatologica del “mondo futuro”. Tuttavia l’uomo, chiamato a partecipare a questo avvenire escatologico mediante la risurrezione del corpo, è il medesimo uomo, maschio e femmina, la cui origine nel mondo visibile temporaneo è collegata col matrimonio quale sacramento primordiale del mistero stesso della creazione. Anzi, ogni uomo, chiamato a partecipare alla realtà della futura risurrezione, porta nel mondo questa vocazione, per il fatto che nel mondo visibile temporaneo ha la sua origine per opera del matrimonio dei suoi genitori. Così, dunque, le parole di Cristo, che escludono il matrimonio dalla realtà del “mondo futuro”, al tempo stesso svelano indirettamente il significato di questo sacramento per la partecipazione degli uomini, figli e figlie, alla futura risurrezione.
10. Il matrimonio, che è sacramento primordiale - rinato, in un certo senso, nell’amore sponsale di Cristo e della Chiesa - non appartiene alla “redenzione del corpo” nella dimensione della speranza escatologica (cf. Rm 8, 23). Lo stesso matrimonio dato all’uomo come grazia, come “dono” destinato da Dio appunto ai coniugi, e al tempo stesso assegnato loro, con le parole di Cristo, come ethos - quel matrimonio sacramentale si compie e si realizza nella prospettiva della speranza escatologica. Esso ha un significato essenziale per la “redenzione del corpo” nella dimensione di questa speranza. Proviene, difatti, dal Padre ed a lui deve la sua origine nel mondo. E se questo “mondo passa”, e se con esso passano anche la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, che vengono “dal mondo”, il matrimonio come sacramento serve immutabilmente affinché l’uomo, maschio e femmina, dominando la concupiscenza, faccia la volontà del Padre. E chi “fa la volontà di Dio rimane in eterno” (1 Gv 2, 17).
11. In tale senso il matrimonio, come sacramento, porta in sé anche il germe dell’avvenire escatologico dell’uomo, cioè la prospettiva della “redenzione del corpo” nella dimensione della speranza escatologica, a cui corrispondono le parole di Cristo circa la risurrezione: “Alla risurrezione . . . non si prende né moglie né marito” (Mt 22, 30); tuttavia, anche coloro che, “essendo figli della risurrezione . . . sono uguali agli angeli e . . . sono figli di Dio” (Lc 20, 36), debbono la propria origine nel mondo visibile temporaneo al matrimonio e alla procreazione dell’uomo e della donna. Il matrimonio, come sacramento del “principio” umano, come sacramento della temporalità dell’uomo storico, compie in tal modo un insostituibile servizio riguardo al suo avvenire extra-temporale, riguardo al mistero della “redenzione del corpo” nella dimensione della speranza escatologica.

Mercoledì, 15 dicembre 1982
1. L’Autore della lettera agli Efesini, come abbiamo già visto, parla di un “grande mistero”, unito al sacramento primordiale mediante la continuità del piano salvifico di Dio. Anche egli si riporta al “principio”, come aveva fatto Cristo nel colloquio con i Farisei (cf. Mt 19, 8), citando le stesse parole: “Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (Gen 2, 24). Quel “grande mistero” è soprattutto il mistero della unione di Cristo con la Chiesa, che l’Apostolo presenta nella similitudine dell’unità dei coniugi: “Lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa” (Ef 5, 32). Ci troviamo nell’àmbito della grande analogia, in cui il matrimonio come sacramento da un lato viene presupposto e, dall’altro, riscoperto. Viene presupposto come sacramento del “principio” umano, unito al mistero della creazione. E viene invece riscoperto come frutto dell’amore sponsale di Cristo e della Chiesa, collegato col mistero della Redenzione.
2. L’Autore della lettera agli Efesini, rivolgendosi direttamente ai coniugi, li esorta a plasmare il loro rapporto reciproco sul modello dell’unione sponsale di Cristo e della Chiesa. Si può dire che - presupponendo la sacramentalità del matrimonio nel suo significato primordiale - ordina loro di apprendere nuovamente questo sacramento dall’unione sponsale di Cristo e della Chiesa: “E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa . . .” (Ef 5, 25-26). Questo invito, indirizzato dall’Apostolo ai coniugi cristiani, ha la sua piena motivazione in quanto essi, mediante il matrimonio come sacramento, partecipano all’amore salvifico di Cristo, che si esprime al tempo stesso come amore sponsale di lui verso la Chiesa. Alla luce della lettera agli Efesini - appunto mediante la partecipazione a questo amore salvifico di Cristo - viene confermato ed insieme rinnovato il matrimonio come sacramento del “principio” umano, cioè sacramento in cui l’uomo e la donna, chiamati a diventare “una sola carne”, partecipano all’amore creatore di Dio stesso. E vi partecipano, sia per il fatto che, creati ad immagine di Dio, sono stati chiamati in virtù di questa immagine ad una particolare unione (“communio personarum”), sia perché questa stessa unione è stata fin dal principio benedetta con la benedizione della fecondità (cf. Gen 1, 28).
3. Tutta questa originaria e stabile struttura del matrimonio come sacramento del mistero della creazione - secondo il “classico” testo della lettera agli Efesini (Ef 5, 21-33) - si rinnova nel mistero della Redenzione, quando quel mistero assume l’aspetto della gratificazione sponsale della Chiesa da parte di Cristo. Quell’originaria e stabile forma del matrimonio, si rinnova quando gli sposi lo ricevono come sacramento della Chiesa, attingendo alla nuova profondità della gratificazione dell’uomo da parte di Dio, che si è svelata e aperta col mistero della Redenzione, quando “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa . . .” (Ef 5, 25-26). Si rinnova quella originaria e stabile immagine del matrimonio come sacramento, quando i coniugi cristiani - consapevoli dell’autentica profondità della “redenzione del corpo” - si uniscono “nel timore di Cristo” (Ef 5, 21).
4. L’immagine paolina del matrimonio, iscritta nel “grande mistero” di Cristo e della Chiesa, accosta la dimensione redentrice dell’amore alla dimensione sponsale. In certo senso unisce queste due dimensioni in una sola. Cristo è divenuto sposo della Chiesa, ha sposato la Chiesa come sua sposa, perché “ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25). Mediante il matrimonio come sacramento (come uno dei sacramenti della Chiesa) ambedue queste dimensioni dell’amore, quella sponsale e quella redentrice, insieme con la grazia del sacramento, penetrano nella vita dei coniugi. Il significato sponsale del corpo nella sua mascolinità e femminilità, che si è manifestato per la prima volta nel mistero della creazione sullo sfondo dell’innocenza originaria dell’uomo, viene collegato nell’immagine della lettera agli Efesini col significato redentore, e in tal modo confermato e in certo senso “nuovamente creato”.
5. Questo è importante riguardo al matrimonio, alla vocazione cristiana dei mariti e delle mogli. Il testo della lettera agli Efesini (Ef 5, 21-33) si rivolge direttamente a loro e parla soprattutto a loro. Tuttavia, quel collegamento del significato sponsale del corpo con il suo significato “redentore” è ugualmente essenziale e valido per l’ermeneutica dell’uomo in generale: per il fondamentale problema della comprensione di lui e dell’auto-comprensione del suo essere nel mondo. È ovvio che non possiamo escludere da questo problema l’interrogativo sul senso di essere corpo, sul senso di essere, in quanto corpo, uomo e donna. Questi interrogativi sono stati posti per la prima volta in rapporto con l’analisi del “principio” umano, nel contesto del libro della Genesi. Fu quel contesto stesso, in certo senso, ad esigere che fossero posti. Ugualmente lo richiede il “classico” testo della lettera agli Efesini. E se il “grande mistero” dell’unione di Cristo con la Chiesa ci obbliga a collegare il significato sponsale del corpo con il suo significato redentore, in tale collegamento i coniugi trovano la risposta all’interrogativo sul senso di “essere corpo”, e non solo essi, benché soprattutto a loro sia indirizzato questo testo della lettera dell’Apostolo.
6. L’immagine paolina del “grande mistero” di Cristo e della Chiesa parla indirettamente anche della “continenza per il regno dei cieli”, in cui ambedue le dimensioni dell’amore, sponsale e redentore, si uniscono reciprocamente in un modo diverso da quello matrimoniale, secondo diverse proporzioni. Non è forse quell’amore sponsale, con cui Cristo “ha amato la Chiesa”, sua sposa, “e ha dato se stesso per lei”, ugualmente la più piena incarnazione dell’ideale della “continenza per il regno dei cieli” (cf. Mt 19, 12)? Non trovano sostegno proprio in essa tutti coloro - uomini e donne - che, scegliendo lo stesso ideale, desiderano collegare la dimensione sponsale dell’amore con la dimensione redentrice, secondo il modello di Cristo stesso? Essi desiderano confermare con la loro vita che il significato sponsale del corpo - della sua mascolinità o femminilità -, profondamente inscritto nella struttura essenziale della persona umana, è stato aperto in un modo nuovo, da parte di Cristo e con l’esempio della sua vita, alla speranza unita alla redenzione del corpo. Così, dunque, la grazia del mistero della Redenzione fruttifica anche - anzi fruttifica in modo particolare - con la vocazione alla continenza “per il regno dei cieli”.
7. Il testo della lettera agli Efesini (Ef 5, 22-23) non ne parla esplicitamente. Esso è indirizzato ai coniugi e costruito secondo l’immagine del matrimonio, che attraverso l’analogia spiega l’unione di Cristo con la Chiesa: unione nell’amore redentore e sponsale insieme. Non è forse appunto questo amore che, quale viva e vivificante espressione del mistero della Redenzione, oltrepassa il cerchio dei destinatari della lettera circoscritti dall’analogia del matrimonio? Non abbraccia ogni uomo e, in certo senso, tutto il creato, come denota il testo paolino sulla “redenzione del corpo” nella lettera ai Romani (cf. Rm 8, 23)? Il “sacramentum magnum” in tal senso è addirittura un nuovo sacramento dell’uomo in Cristo e nella Chiesa: sacramento “dell’uomo e del mondo”, così come la creazione dell’uomo, maschio e femmina, ad immagine di Dio fu l’originario sacramento dell’uomo e del mondo. In questo nuovo sacramento della redenzione è inscritto organicamente il matrimonio, così come fu inscritto nell’originario sacramento della creazione.
8. L’uomo, che “dal principio” è maschio e femmina, deve cercare il senso della sua esistenza e il senso della sua umanità giungendo fino al mistero della creazione attraverso la realtà della Redenzione. Ivi si trova anche la risposta essenziale all’interrogativo sul significato del corpo umano, sul significato della mascolinità e femminilità della persona umana. L’unione di Cristo con la Chiesa ci consente di intendere in quale modo il significato sponsale del corpo si completa con il significato redentore, e ciò nelle diverse strade della vita e nelle diverse situazioni: non soltanto nel matrimonio o nella “continenza” (ossia verginità o celibato), ma anche, per esempio, nella multiforme sofferenza umana, anzi: nella stessa nascita e morte dell’uomo. Attraverso il “grande mistero”, di cui tratta la lettera agli Efesini, attraverso la nuova alleanza di Cristo con la Chiesa, il matrimonio viene nuovamente inscritto in quel “sacramento dell’uomo” che abbraccia l’universo, nel sacramento dell’uomo e del mondo, che grazie alle forze della “redenzione del corpo” si modella secondo l’amore sponsale di Cristo e della Chiesa fino alla misura del compimento definitivo nel regno del Padre.
Il matrimonio come sacramento rimane una parte viva e vivificante di questo processo salvifico.

Mercoledì, 5 gennaio 1983
1. “Io . . . prendo te . . . come mia sposa”; “Io . . . prendo te . . . come mio sposo”: queste parole sono al centro della liturgia del matrimonio quale sacramento della Chiesa. Queste parole pronunciano i fidanzati inserendole nella seguente formula del consenso: “. . . prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita”. Con tali parole i fidanzati contraggono il matrimonio e nello stesso tempo lo ricevono come sacramento, di cui entrambi sono ministri. Entrambi, uomo e donna, amministrano il sacramento. Lo fanno davanti al testimoni. Testimone qualificato è il sacerdote, che in pari tempo benedice il matrimonio e presiede a tutta la liturgia del sacramento. Inoltre testimoni sono, in certo senso, tutti i partecipanti al rito delle nozze, e in modo “ufficiale” alcuni di essi (di solito due), appositamente chiamati. Essi debbono testimoniare che il matrimonio è contratto davanti a Dio e confermato dalla Chiesa. Nell’ordine normale delle cose, il matrimonio sacramentale è un atto pubblico, per mezzo del quale due persone, un uomo e una donna, diventano di fronte alla società e alla Chiesa marito e moglie, cioè soggetto attuale della vocazione e della vita matrimoniale.
2. Il matrimonio come sacramento viene contratto mediante la parola, che è segno sacramentale in ragione del suo contenuto: “Prendo te come mia sposa - come mio sposo - e prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita”. Tuttavia, questa parola sacramentale è, di per sé, soltanto il segno dell’attuazione del matrimonio. E l’attuazione del matrimonio si distingue dalla sua consumazione fino al punto che, senza questa consumazione, il matrimonio non è ancora costituito nella sua piena realtà. La constatazione che un matrimonio è stato giuridicamente contratto ma non consumato (“ratum - non consummatum”), corrisponde alla constatazione che esso non è stato costituito pienamente come matrimonio. Infatti le parole stesse: “Prendo te come mia sposa - mio sposo” si riferiscono non soltanto ad una realtà determinata, ma possono essere adempiute soltanto attraverso la copula coniugale. Tale realtà (la copula coniugale) è peraltro definita fin dal principio per istituzione del Creatore: “L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (Gen 2, 24).
3. Così, dunque, dalle parole, con le quali l’uomo e la donna esprimono la loro disponibilità a divenire “una sola carne”, secondo l’eterna verità stabilita nel mistero della creazione, passiamo alla realtà che corrisponde a queste parole. L’uno e l’altro elemento è importante rispetto alla struttura del segno sacramentale, a cui conviene dedicare il seguito delle presenti considerazioni. Dato che il sacramento è il segno per mezzo del quale si esprime ed insieme si attua la realtà salvifica della grazia e dell’alleanza, bisogna considerarlo ora sotto l’aspetto del segno, mentre le precedenti riflessioni sono state dedicate alla realtà della grazia e dell’alleanza.
Il matrimonio, come sacramento della Chiesa, viene contratto mediante le parole dei ministri, cioè degli sposi novelli: parole che significano e indicano, nell’ordine intenzionale, ciò che (o piuttosto: chi) entrambi hanno deciso di essere, d’ora in poi, l’uno per l’altro e l’uno con l’altro. Le parole degli sposi novelli fanno parte della struttura integrale del segno sacramentale, non soltanto per ciò che significano, ma, in certo senso, anche con ciò che esse significano e determinano. Il segno sacramentale si costituisce nell’ordine intenzionale, in quanto viene contemporaneamente costituito nell’ordine reale.
4. Di conseguenza, il segno del sacramento del matrimonio è costituito mediante le parole degli sposi novelli, in quanto ad esse corrisponde la “realtà” che loro stessi costituiscono. Tutti e due, come uomo e donna, essendo ministri del sacramento nel momento di contrarre il matrimonio, costituiscono in pari tempo il pieno e reale segno visibile del sacramento stesso. Le parole da essi pronunciate non costituirebbero di per sé il segno sacramentale del matrimonio, se non vi corrispondesse la soggettività umana del fidanzato e della fidanzata e contemporaneamente la coscienza del corpo, legata alla mascolinità e alla femminilità dello sposo e della sposa. Qui bisogna rievocare alla mente tutta la serie delle analisi relative al Libro della Genesi (cf. Gen 1-2), compiute in precedenza. La struttura del segno sacramentale resta infatti nella sua essenza la stessa che “in principio”. La determina, in certo senso, “il linguaggio del corpo”, in quanto l’uomo e la donna, che mediante il matrimonio debbono diventare una sola carne, esprimono in questo segno il reciproco dono della mascolinità e della femminilità, quale fondamento dell’unione coniugale delle persone.
5. Il segno del sacramento del matrimonio viene costituito per il fatto che le parole pronunciate dagli sposi novelli riprendono il medesimo “linguaggio del corpo” come al “principio”, e in ogni caso gli danno una espressione concreta e irripetibile. Gli danno una espressione intenzionale sul piano dell’intelletto e della volontà, della coscienza e del cuore. Le parole: “Io prendo te come mia sposa - come mio sposo”, portano in sé appunto quel perenne, e ogni volta unico e irripetibile, “linguaggio del corpo” e nello stesso tempo lo collocano nel contesto della comunione delle persone: “Prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita”. In tal modo il perenne e ogni volta nuovo “linguaggio del corpo”, è non soltanto il “substrato” ma, in certo senso, il contenuto costitutivo della comunione delle persone. Le persone - uomo e donna - diventano per sé un dono reciproco. Diventano quel dono nella loro mascolinità e femminilità scoprendo il significato sponsale del corpo e riferendolo reciprocamente a se stessi in modo irreversibile: nella dimensione di tutta la vita.
6. Così il sacramento del matrimonio come segno permette di comprendere le parole degli sposi novelli, parole che conferiscono un nuovo aspetto alla loro vita nella dimensione strettamente personale (e interpersonale: “communio personarum”), sulla base del “linguaggio del corpo”. L’amministrazione del sacramento consiste in questo: che nel momento di contrarre il matrimonio l’uomo e la donna, con le parole adeguate e nella rilettura del perenne “linguaggio del corpo”, formano un segno, un segno irripetibile, che ha anche un significato prospettico: “tutti i giorni della mia vita”, cioè fino alla morte. Questo è segno visibile ed efficace dell’alleanza con Dio in Cristo, cioè della grazia, che in tale segno deve divenire parte loro, come “proprio dono” (secondo l’espressione della prima Lettera ai Corinzi 7, 7) (1 Cor 7, 7).
7. Formulando la questione in categorie socio-giuridiche, si può dire che fra gli sposi novelli è stipulato un patto coniugale di contenuto ben determinato. Si può inoltre dire che, in seguito a questo patto, essi sono diventati sposi in modo socialmente riconosciuto, e che in questo modo è anche costituita nel suo germe la famiglia come fondamentale cellula sociale. Tale modo di intendere è ovviamente concorde con la realtà umana del matrimonio, anzi, è fondamentale anche nel senso religioso e religioso-morale. Tuttavia, dal punto di vista della teologia del sacramento, la chiave per comprendere il matrimonio rimane la realtà del segno, con cui il matrimonio viene costituito sulla base dell’alleanza dell’uomo con Dio in Cristo e nella Chiesa: viene costituito nell’ordine soprannaturale del vincolo sacro esigente la grazia. In questo ordine, il matrimonio è un segno visibile ed efficace. Originato dal mistero della creazione, esso trae la sua nuova origine dal mistero della Redenzione, servendo all’“unione dei figli di Dio nella verità e nella carità” (Gaudium et Spes, 24). La liturgia del sacramento del matrimonio dà forma a quel segno: direttamente, durante il rito sacramentale, in base all’insieme delle sue eloquenti espressioni; indirettamente, nello spazio di tutta la vita. L’uomo e la donna, come coniugi, portano questo segno in tutta la loro vita e rimangono quel segno fino alla morte.

Mercoledì, 12 gennaio 1983
1. Analizziamo ora la sacramentalità del matrimonio sotto l’aspetto del segno.
Quando affermiamo che nella struttura del matrimonio quale segno sacramentale, entra essenzialmente anche il “linguaggio del corpo”, facciamo riferimento alla lunga tradizione biblica. Questa ha la sua origine nel Libro della Genesi (Gen 2, 23-25) e trova il suo definitivo coronamento nella Lettera agli Efesini (cf. Ef 5, 21-33). I Profeti dell’Antico Testamento hanno avuto un ruolo essenziale nel formare questa tradizione. Analizzando i testi di Osea, Ezechiele, Deutero-Isaia, e di altri profeti, ci siamo trovati sulla via di quella grande analogia, la cui espressione ultima è la proclamazione della nuova alleanza sotto forma di uno sposalizio tra Cristo e la Chiesa (cf. Ef 5, 21-33). In base a questa lunga tradizione, è possibile parlare di uno specifico “profetismo del corpo”, sia per il fatto che incontriamo questa analogia anzitutto nei Profeti, sia riguardo al contenuto stesso di essa. Qui, il “profetismo del corpo” significa appunto il “linguaggio del corpo”,
2. L’analogia sembra avere due strati. Nello strato primo e fondamentale, i Profeti prospettano il paragone dell’alleanza, stabilita tra Dio e Israele, come un matrimonio (il che ci consentirà ancora di comprendere il matrimonio stesso come un’alleanza tra marito e moglie) (cf. Pro 2, 17; Ml 2, 14). In questo caso, l’alleanza deriva dall’iniziativa di Dio, Signore di Israele. Il fatto che, come Creatore e Signore, egli stringe alleanza prima con Abramo e poi con Mosè, attesta già una elezione particolare. E perciò i Profeti, presupponendo tutto il contenuto giuridico-morale dell’alleanza vanno più in profondità, rivelandone una dimensione incomparabilmente più profonda di quella del solo “patto”. Dio, scegliendo Israele, si è unito col suo popolo mediante l’amore e la grazia. Si è legato con vincolo particolare, profondamente personale, e perciò Israele, sebbene sia un popolo, viene presentato in questa visione profetica dell’alleanza come “sposa” o “moglie”, quindi, in certo senso, come persona: “. . . Tuo sposo è il tuo Creatore, / Signore degli eserciti è il suo nome; / tuo redentore è il Santo di Israele / è chiamato Dio di tutta la terra . . . / Dice il tuo Dio . . . / Non si allontanerebbe da te il mio affetto, / né vacillerebbe la mia alleanza di pace (Is 54, 5. 6,10),
3. Jahvè è il Signore di Israele, ma divenne anche il suo Sposo. I libri del Vecchio Testamento attestano la completa originalità del “dominio” di Jahvè sul suo popolo. Agli altri aspetti del dominio di Jahvè, Signore dell’alleanza e Padre di Israele, se ne aggiunge uno nuovo svelato dai Profeti, cioè la dimensione stupenda di questo “dominio”, che è la dimensione sponsale. In tal modo, l’assoluto del dominio risulta l’assoluto dell’amore. In rapporto a tale assoluto, la rottura dell’alleanza significa non soltanto l’infrazione del “patto” collegata con l’autorità del supremo Legislatore, ma l’infedeltà e il tradimento: un colpo che addirittura trafigge il suo cuore di Padre, di Sposo e di Signore.
4. Se, nell’analogia usata dai Profeti, si può parlare di strati, questo è in un certo senso lo strato primo e fondamentale. Dato che l’alleanza di Jahvè con Israele ha il carattere di vincolo sponsale a somiglianza del patto coniugale, quel primo strato dell’analogia ne svela il secondo, che è appunto il “linguaggio del corpo”. Abbiamo qui in mente, in primo luogo, il linguaggio in senso oggettivo, i Profeti paragonano l’alleanza al matrimonio, si riportano a quel sacramento primordiale di cui parla Genesi 2, 24, nel quale l’uomo e la donna diventano, per libera scelta, “una sola carne”. Tuttavia è caratteristico del modo di esprimersi dei Profeti il fatto che, supponendo il “linguaggio del corpo” in senso oggettivo, essi passano, ad un tempo, al suo significato soggettivo: cioè consentono, per così dire, al corpo stesso di parlare. Nei testi profetici dell’alleanza, in base all’analogia dell’unione sponsale dei coniugi, è il corpo stesso che “parla”; parla con la sua mascolinità o femminilità, parla con il misterioso linguaggio del dono personale, parla infine - e ciò avviene più spesso - sia col linguaggio della fedeltà cioè dell’amore, sia con quello dell’infedeltà coniugale, cioè dell’“adulterio”.
5. E noto che sono stati i diversi peccati del popolo eletto - e soprattutto le frequenti infedeltà relative al culto del Dio uno, cioè varie forme di idolatria - a offrire ai Profeti l’occasione per le enunciazioni suddette. Il profeta dell’“adulterio” di Israele è diventato in modo particolare Osea, che lo stigmatizza non solo con le parole, ma, in certo senso, anche con atti dal significato simbolico: “Va’, prenditi in moglie una prostituta e abbi figli di prostituzione, poiché il paese non fa che prostituirsi allontanandosi dal Signore (Os 1, 2). Osea pone in rilievo tutto lo splendore dell’alleanza, di quello sposalizio in cui Jahvè si dimostra sposo-coniuge sensibile, affettuoso, disposto a perdonare, e insieme esigente e severo, L’“adulterio” e la “prostituzione” di Israele costituiscono un evidente contrasto col vincolo sponsale, su cui è basata l’alleanza, così come, analogamente, il matrimonio dell’uomo con la donna.
6. Ezechiele stigmatizza in modo analogo l’idolatria, servendosi del simbolo dell’adulterio di Gerusalemme (cf. Ez 16) e, in un altro passo, di Gerusalemme e di Samaria (cf. Ez 23): “Passai vicino a te e ti vidi; ecco la tua età era l’età dell’amore . . . Giurai alleanza con te, dice il Signore Dio, e diventasti mia” (Ez 16, 8). “Tu però, infatuata per la tua bellezza e approfittando della tua fama, ti sei prostituita concedendo i tuoi favori ad ogni passante” (Ez 16, 15).
7. Nei testi profetici, il corpo umano parla un “linguaggio”, di cui esso non è l’autore. Suo autore è l’uomo in quanto maschio o femmina, in quanto sposo o sposa: l’uomo con la sua perenne vocazione alla comunione delle persone. L’uomo, tuttavia, non è capace, in certo senso, di esprimere senza corpo questo linguaggio singolare della sua esistenza personale e della sua vocazione. Egli è stato costituito in tal modo già dal “principio”, così che le più profonde parole dello spirito - parole di amore, di donazione, di fedeltà - esigono un adeguato “linguaggio del corpo”. E senza di esso non possono essere pienamente espresse. Sappiamo dal Vangelo che ciò si riferisce sia al matrimonio sia alla continenza “per il Regno dei cieli”.
8. I Profeti, come ispirati portavoce dell’alleanza di Jahvè con Israele, cercano appunto, mediante questo “linguaggio del corpo”, di esprimere sia la profondità sponsale della suddetta alleanza, sia tutto ciò che la contraddice. Elogiano la fedeltà, stigmatizzano invece l’infedeltà come “adulterio”: parlano dunque secondo categorie etiche, contrapponendo reciprocamente il bene e il male morale. La contrapposizione del bene e del male è essenziale per l’ethos. I testi profetici hanno in questo campo un significato essenziale, come abbiamo già rivelato nelle nostre precedenti riflessioni. Sembra, però, che il “linguaggio del corpo” secondo i Profeti non sia unicamente un linguaggio dell’ethos, un elogio della fedeltà e della purezza, nonché una condanna dell’“adulterio” e della “prostituzione”. Infatti, per ogni linguaggio, quale espressione della conoscenza, le categorie della verità e della non-verità (ossia del falso) sono essenziali. Nei testi dei Profeti, che scorgono l’analogia dell’alleanza di Jahvè con Israele nel matrimonio, il corpo dice la verità mediante la fedeltà e l’amore coniugale, e, quando commette “adulterio”, dice la menzogna, commette la falsità.
9. Non si tratta qui di sostituire le differenziazioni etiche con quelle logiche. Se i testi profetici indicano la fedeltà coniugale e la castità come “verità”, e l’adulterio, invece, o la prostituzione, come non-verità, come “falsità” del linguaggio del corpo, ciò avviene perché nel primo caso il soggetto (Israele come sposa) è concorde col significato sponsale che corrisponde al corpo umano (a motivo della sua mascolinità o femminilità) nella struttura integrale della persona; nel secondo caso, invece, lo stesso oggetto è in contraddizione e collisione con questo significato.
Possiamo dunque dire che l’essenziale per il matrimonio come sacramento è il “linguaggio del corpo”, riletto nella verità. Proprio mediante esso si costituisce infatti il segno sacramentale.

Mercoledì, 19 gennaio 1983
1. I testi dei Profeti hanno grande importanza per comprendere il matrimonio come alleanza di persone (ad immagine dell’alleanza di Jahvè con Israele) e, in particolare, per comprendere l’alleanza sacramentale dell’uomo e della donna nella dimensione del segno. Il “linguaggio del corpo” entra - come già in precedenza è stato considerato - nella struttura integrale del segno sacramentale, il cui precipuo soggetto è l’uomo, maschio e femmina. Le parole del consenso coniugale costituiscono questo segno, perché in esse trova espressione il significato sponsale del corpo nella sua mascolinità e femminilità. Un tale significato viene espresso soprattutto dalle parole: “Io . . . prendo te . . . come mia sposa . . . mio sposo”. Per di più con queste parole è confermata l’essenziale “verità” del linguaggio del corpo e viene anche (almeno indirettamente) esclusa l’essenziale “non verità”, la falsità del linguaggio del corpo. Il corpo, infatti, dice la verità attraverso l’amore, la fedeltà, l’onestà coniugali, così come la non verità, ossia la falsità, viene espressa attraverso tutto ciò che è negazione dell’amore, della fedeltà, dell’onestà coniugali. Si può quindi dire che, nel momento di proferire le parole del consenso coniugale, gli sposi novelli si pongono sulla linea dello stesso “profetismo del corpo”, i cui portavoce furono gli antichi Profeti. Il “linguaggio del corpo”, espresso per bocca dei ministri del matrimonio come sacramento della Chiesa, istituisce lo stesso segno visibile dell’alleanza e della grazia, che - risalendo con la sua origine al mistero della creazione - si alimenta continuamente con la forza della “redenzione del corpo”, offerta da Cristo alla Chiesa.
2. Secondo i testi profetici il corpo umano parla un “linguaggio . . . di cui esso non è l’autore. L’autore ne è l’uomo che, come maschio e femmina, sposo e sposa, rilegge correttamente il significato di questo “linguaggio”. Rilegge dunque quel significato sponsale del corpo come integralmente inscritto nella struttura della mascolinità o femminilità del soggetto personale. Una corretta rilettura “nella verità” è condizione indispensabile per proclamare tale verità, ossia per istituire il segno visibile del matrimonio come sacramento. Gli sposi proclamano appunto questo “linguaggio del corpo”, riletto nella verità, quale contenuto e principio della loro nuova vita in Cristo e nella Chiesa. Sulla base del “profetismo del corpo”, i ministri del sacramento del matrimonio compiono un atto di carattere profetico. Confermano in tal modo la loro partecipazione alla missione profetica della Chiesa, ricevuta da Cristo. “Profeta” è colui che esprime con parole umane la verità proveniente da Dio, colui che proferisce tale verità in sostituzione di Dio, nel suo nome e, in certo senso, con la sua autorità.
3. Tutto ciò si riferisce agli sposi novelli, i quali, come ministri del sacramento del matrimonio, istituiscono con le parole del consenso coniugale il segno visibile, proclamando il “linguaggio del corpo”, riletto nella verità, come contenuto e principio della loro nuova vita in Cristo e nella Chiesa. Questa proclamazione “profetica” ha un carattere complesso. Il consenso coniugale è insieme annunzio e causa del fatto che, d’ora in poi, entrambi saranno dinanzi alla Chiesa e alla società marito e moglie (un tale annunzio intendiamo come “indicazione” nel senso ordinario del termine). Tuttavia, il consenso coniugale ha soprattutto il carattere di una reciproca professione degli sposi novelli, fatta dinanzi a Dio. Basta soffermarsi con attenzione sul testo, per convincersi che quella proclamazione profetica del linguaggio del corpo, riletto nella verità, è immediatamente e direttamente rivolta dall’“io” al “tu”: dall’uomo alla donna e da lei a lui. Posto centrale nel consenso coniugale hanno proprio le parole che indicano il soggetto personale, i pronomi “io” e “te”. Il “linguaggio del corpo”, riletto nella verità del suo significato sponsale, costituisce mediante le parole degli sposi novelli l’unione-comunione delle persone. Se il consenso coniugale ha carattere profetico, se è la proclamazione della verità proveniente da Dio, e in certo senso l’enunciazione di questa verità nel nome di Dio, ciò si attua soprattutto nella dimensione della comunione interpersonale, e soltanto indirettamente “dinanzi” agli altri e “per” gli altri.
4. Sullo sfondo delle parole pronunciale dai ministri del sacramento del matrimonio, sta il perenne “linguaggio del corpo”, a cui Dio “diede inizio” creando l’uomo quale maschio e femmina: linguaggio, che è stato rinnovato da Cristo. Questo perenne “linguaggio del corpo” porta in sé tutta la ricchezza e la profondità del Mistero: prima della creazione, poi della redenzione. Gli sposi, attuando il segno visibile del sacramento mediante le parole del loro consenso coniugale, esprimono in esso “il linguaggio del corpo”, con tutta la profondità del mistero della creazione e della redenzione (la liturgia del sacramento del matrimonio ne offre un ricco contesto). Rileggendo in tal modo “il linguaggio del corpo”, gli sposi non solo racchiudono nelle parole del consenso coniugale la soggettiva pienezza della professione, indispensabile ad attuare il segno proprio di questo sacramento, ma giungono anche, in un certo senso, alle sorgenti stesse, da cui quel segno attinge ogni volta la sua eloquenza profetica e la sua forza sacramentale. Non è lecito dimenticare che “il linguaggio del corpo”, prima di essere pronunciato dalle labbra degli sposi, ministri del matrimonio quale sacramento della Chiesa, è stato pronunciato dalla parola del Dio vivo, iniziando dal Libro della Genesi, attraverso i Profeti dell’antica alleanza, fino all’Autore della Lettera agli Efesini.
5. Adoperiamo qui a più riprese l’espressione “linguaggio del corpo”, riportandoci ai testi profetici. In questi testi, come abbiamo già detto, il corpo umano parla un “linguaggio”, di cui esso non è l’autore nel senso proprio del termine. L’autore è l’uomo - maschio e femmina - che rilegge il vero senso di quel “linguaggio”, riportando alla luce il significato sponsale del corpo come integralmente iscritto nella struttura stessa della mascolinità e femminilità del soggetto personale. Tale rilettura “nella verità” del linguaggio del corpo già di per sé conferisce un carattere profetico alle parole del consenso coniugale, per mezzo delle quali l’uomo e la donna attuano il segno visibile del matrimonio come sacramento della Chiesa. Queste parole contengono tuttavia qualcosa di più che una semplice rilettura nella verità di quel linguaggio, di cui parla la femminilità e la mascolinità degli sposi novelli nel loro rapporto reciproco: “Io prendo te come mia sposa - come mio sposo”. Nelle parole del consenso coniugale sono racchiusi: il proposito, la decisione e la scelta. Entrambi gli sposi decidono di agire in conformità col linguaggio del corpo, riletto nella verità. Se l’uomo, maschio e femmina, è l’autore di quel linguaggio, lo è soprattutto in quanto vuole conferire, ed effettivamente conferisce al suo comportamento e alle sue azioni il significato conforme all’eloquenza riletta della verità della mascolinità e della femminilità nel reciproco rapporto coniugale.
6. In questo ambito l’uomo è artefice delle azioni che hanno di per sé significati definiti. È dunque artefice delle azioni e insieme autore dei loro significato. La somma di quei significati costituisce, in certo senso, l’insieme del “linguaggio del corpo”, con cui gli sposi decidono di parlare tra loro come ministri del sacramento del matrimonio. Il segno che essi attuano con le parole del consenso coniugale non è puro segno immediato e passeggero, ma un segno prospettico che riproduce un effetto duraturo, cioè il vincolo coniugale, unico e indissolubile (“tutti i giorni della mia vita”, cioè fino alla morte). In questa prospettiva essi debbono riempire quel segno del molteplice contenuto offerto dalla comunione coniugale e familiare delle persone, e anche di quel contenuto che, originato “dal linguaggio del corpo”, viene continuamente riletto nella verità. In tal modo la “verità” essenziale del segno rimarrà organicamente legata all’ethos della condotta coniugale. In questa verità del segno e, in seguito, nell’ethos della condotta coniugale, s’inserisce prospetticamente il significato procreativo del corpo, cioè la paternità e la maternità, di cui abbiamo trattato in precedenza. Alla domanda: “Siete disposti ad accogliere responsabilmente con amore i figli che Dio vorrà donarvi ed educarli secondo la legge di Cristo e della sua Chiesa?”, l’uomo e la donna rispondono: “Sì”.
E per ora rimandiamo ad altri incontri approfondimenti ulteriori del tema.

Mercoledì, 26 gennaio 1983
1. Il segno del matrimonio come sacramento della Chiesa viene costituito ogni volta secondo quella dimensione, che gli è propria dal “principio”, e allo stesso tempo viene costituito sul fondamento dell’amore sponsale di Cristo e della Chiesa, come l’unica e irripetibile espressione dell’alleanza fra “questo” uomo e “questa” donna, che sono ministri del matrimonio come sacramento della loro vocazione e della loro vita. Nel dire che il segno del matrimonio come sacramento della Chiesa si costituisce sulla base del “linguaggio del corpo”, ci serviamo dell’analogia (“analogia attributionis”), che abbiamo cercato di chiarire già in precedenza. È ovvio che il corpo come tale non “parla”, ma parla l’uomo, rileggendo ciò che esige di essere espresso appunto in base al “corpo”, alla mascolinità o femminilità del soggetto personale, anzi, in base a ciò che può essere espresso dall’uomo unicamente per mezzo del corpo.
In questo senso, l’uomo - maschio o femmina - non soltanto parla col linguaggio del corpo, ma in un certo senso consente al corpo di parlare “per lui” e “da parte di lui”: direi, a suo nome e con la sua autorità personale. In tal modo, anche il concetto di “profetismo del corpo” sembra essere fondato: il “profeta”, infatti, è colui che parla “per” e “da parte di”: a nome e con l’autorità di una persona.
2. Gli sposi novelli ne sono consapevoli quando, contraendo il matrimonio, ne istituiscono il segno visibile. Nella prospettiva della vita in comune e della vocazione coniugale, quel segno iniziale, segno originario del matrimonio come sacramento della Chiesa, verrà continuamente colmato dal “profetismo del corpo”. I corpi degli sposi parleranno “per” e “da parte di” ciascuno di loro, parleranno nel nome e con l’autorità della persona, di ciascuna delle persone, svolgendo il dialogo coniugale, proprio della loro vocazione e basato sul linguaggio del corpo, riletto a suo tempo opportunamente e continuamente: ed è necessario che esso sia riletto nella verità! I coniugi sono chiamati a formare la loro vita e la loro convivenza come “comunione delle persone” sulla base di quel linguaggio. Dato che al linguaggio corrisponde un complesso di significati, i coniugi - attraverso la loro condotta e comportamento, attraverso le loro azioni e gesti (“gesti di tenerezza”) (cf. Gaudium et Spes, 49) - sono chiamati a diventare gli autori di tali significati del “linguaggio del corpo”, di cui conseguentemente si costruiscono e di continuo si approfondiscono l’amore, la fedeltà, l’onestà coniugale e quell’unione che rimane indissolubile fino alla morte.
3. Il segno del matrimonio come sacramento della Chiesa si forma per l’appunto di quei significati, di cui i coniugi sono autori. Tutti questi significati sono iniziati e in certo senso “programmati” in modo sintetico nel consenso coniugale, al fine di costruire in seguito - nel modo più analitico, giorno per giorno - lo stesso segno, immedesimandosi con esso nella dimensione dell’intera vita. C’è un legame organico fra il rileggere nella verità l’integrale significato del “linguaggio del corpo” e il conseguente usare di quel linguaggio nella vita coniugale. In quest’ultimo ambito l’essere umano - maschio e femmina - è l’autore dei significati del “linguaggio del corpo”. Ciò implica che questo linguaggio, di cui egli è autore, corrisponda alla verità che è stata riletta. In base alla tradizione biblica, parliamo qui del “profetismo del corpo”. Se l’essere umano - maschio e femmina - nel matrimonio (e indirettamente anche in tutti gli ambiti della mutua convivenza) conferisce al suo comportamento un significato conforme alla verità fondamentale del linguaggio del corpo, allora anche lui stesso “è nella verità”. Nel caso contrario, egli commette menzogne e falsifica il linguaggio del corpo.
4. Se ci poniamo sulla linea prospettica del consenso coniugale, che - come abbiamo ormai detto - offre agli sposi una particolare partecipazione alla missione profetica della Chiesa, tramandata da Cristo stesso, ci si può a questo proposito servire anche della distinzione biblica tra profeti “veri” e profeti “falsi”.
Attraverso il matrimonio come sacramento della Chiesa, l’uomo e la donna sono in modo esplicito chiamati a dare - servendosi correttamente del “linguaggio del corpo” - la testimonianza dell’amore sponsale e procreativo, testimonianza degna di “veri profeti”. In questo consiste il significato giusto e la grandezza del consenso coniugale nel sacramento della Chiesa.
5. La problematica del segno sacramentale del matrimonio ha carattere altamente antropologico. La costruiamo sulla base dell’antropologia teologica e in particolare su ciò che, sin dall’inizio delle presenti considerazioni, abbiamo definito come “teologia del corpo”. Perciò, nel continuare queste analisi, dobbiamo sempre avere davanti agli occhi le considerazioni precedenti, che si riferiscono all’analisi delle parole-chiave di Cristo (diciamo “parole-chiave, perché ci aprono - come la chiave - le singole dimensioni dell’antropologia teologica, specialmente della teologia del corpo). Costruendo su questa base l’analisi del segno sacramentale del matrimonio di cui - anche dopo il peccato originale - sono sempre partecipi l’uomo e la donna, quale “uomo storico”, dobbiamo ricordare costantemente il fatto che quell’uomo “storico”, maschio e femmina, è ad un tempo l’“uomo della concupiscenza” come tale, ogni uomo e ogni donna entrano nella storia della salvezza e ne vengono coinvolti mediante il sacramento, che è segno visibile dell’alleanza e della grazia.
6. Perciò, nel contesto delle presenti riflessioni sulla struttura sacramentale del segno del matrimonio, dobbiamo tener conto non soltanto di ciò che Cristo disse sull’unità e indissolubilità del matrimonio facendo riferimento al “principio”, ma anche (e ancor più) di ciò che egli espresse nel Discorso della Montagna, quando si richiamò al “cuore umano”.

Mercoledì, 9 febbraio 1983
1. Abbiamo detto in precedenza che nel contesto delle presenti riflessioni sulla struttura del matrimonio come segno sacramentale, dobbiamo tener conto non soltanto di ciò che Cristo dichiarò sulla sua unità e indissolubilità facendo riferimento al “principio”, ma anche (e ancor più) di ciò che egli disse nel Discorso della Montagna, quando si richiamò al “cuore umano”. Riportandosi al comandamento: “Non commettere adulterio”, Cristo parlò dell’“adulterio nel cuore”: “Chiunque guarda una donna per desiderarla ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt 5, 28).
Così, dunque, nell’affermare che il segno sacramentale del matrimonio - segno dell’alleanza coniugale dell’uomo e della donna - si forma in base al “linguaggio del corpo” una volta riletto nella verità (e di continuo riletto), ci rendiamo conto che colui il quale rilegge questo “linguaggio” e poi lo esprime, non secondo le esigenze proprie del matrimonio come patto e sacramento, è naturalmente e moralmente l’uomo della concupiscenza: maschio e femmina, intesi ambedue come l’“uomo della concupiscenza”. I profeti dell’Antico Testamento hanno certamente davanti agli occhi questo uomo quando, servendosi di una analogia, stigmatizzano l’“adulterio di Israele e di Giuda”. L’analisi delle parole pronunciate da Cristo nel Discorso della Montagna c’induce a comprendere più profondamente l’“adulterio” stesso. E in pari tempo ci porta a convincerci che il “cuore” umano non è tanto “accusato e condannato” da Cristo a motivo della concupiscenza (“concupiscentia carnis”), quanto prima di tutto “chiamato”. Qui passa una decisa divergenza fra l’antropologia (o l’ermeneutica antropologica) del Vangelo e alcuni influenti rappresentanti dell’ermeneutica contemporanea dell’uomo (i cosiddetti maestri del sospetto).
2. Passando sul terreno della nostra presente analisi, possiamo constatare che sebbene l’uomo, nonostante il segno sacramentale del matrimonio, nonostante il consenso coniugale e la sua attuazione, rimanga naturalmente l’“uomo della concupiscenza”, tuttavia egli è contemporaneamente l’uomo della “chiamata”. È “chiamato” attraverso il mistero della redenzione del corpo, mistero divino, che ad un tempo è - in Cristo e per Cristo in ogni uomo - realtà umana. Quel mistero, inoltre, comporta un determinato ethos che per essenza è “umano”, e che abbiamo già in precedenza chiamato ethos della redenzione.
3. Alla luce delle parole pronunciate da Cristo nel Discorso della Montagna, alla luce di tutto il Vangelo e della nuova alleanza, la triplice concupiscenza (e in particolare la concupiscenza della carne) non distrugge la capacità di rileggere nella verità il “linguaggio del corpo” - e di rileggerlo continuamente in modo più maturo e più pieno -, per cui il segno sacramentale viene costituito sia nel suo primo momento liturgico sia, in seguito, nella dimensione di tutta la vita. A questa luce occorre constatare che, se la concupiscenza di per sé genera molteplici “errori” nel rileggere il “linguaggio del corpo” e insieme a ciò genera anche il “peccato”, il male morale, contrario alla virtù della castità (sia coniugale che extra-coniugale), tuttavia nell’ambito dell’ethos della redenzione rimane sempre la possibilità di passare dall’“errore” alla “verità”, come pure la possibilità di ritorno, ossia di conversione, dal peccato alla castità, quale espressione di una vita secondo lo Spirito (cf. Gal 5, 16).
4. In questo modo, nell’ottica evangelica e cristiana del problema, l’uomo “storico” (dopo il peccato originale), in base al “linguaggio del corpo” riletto nella verità, è capace - come maschio e femmina - di costituire il segno sacramentale dell’amore, della fedeltà e dell’onestà coniugale, e questo come segno duraturo: “Esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita”. Ciò significa che l’uomo, in modo reale, è autore dei significati per mezzo dei quali, dopo aver riletto nella verità il “linguaggio del corpo”, è anche capace di formare nella verità quel linguaggio nella comunione coniugale e familiare delle persone. Ne è capace anche come “uomo della concupiscenza”, essendo nello stesso tempo “chiamato” dalla realtà della Redenzione di Cristo (“simul lapsus et redemptus”).
5. Mediante la dimensione del segno, propria del matrimonio come sacramento, viene confermata la specifica antropologia teologica, la specifica ermeneutica dell’uomo, che in questo caso potrebbe anche chiamarsi “ermeneutica del sacramento”, perché consente di comprendere l’uomo in base all’analisi del segno sacramentale. L’uomo - maschio e femmina - come ministro del sacramento, autore (co-autore) del segno sacramentale, è soggetto cosciente e capace di autodeterminazione. Soltanto su questa base egli può essere l’autore del “linguaggio del corpo”, può essere anche autore (co-autore) del matrimonio come segno: segno della divina creazione e “redenzione del corpo”. Il fatto che l’uomo (il maschio e la femmina) è l’uomo della concupiscenza, non pregiudica che egli sia capace di rileggere il linguaggio del corpo nella verità. È l’“uomo della concupiscenza”, ma nello stesso tempo è capace di discernere la verità dalla falsità nel linguaggio del corpo e può essere autore dei significati veri (o falsi) di quel linguaggio.
6. È l’uomo della concupiscenza, ma non è completamente determinato dalla “libido” (nel senso in cui viene spesso usato questo termine). Una tale determinazione significherebbe che l’insieme dei comportamenti dell’uomo, perfino anche, per esempio, la scelta della continenza per motivi religiosi, si spiegherebbe soltanto attraverso le specifiche trasformazioni di questa “libido”. In tal caso - nell’ambito del linguaggio del corpo - l’uomo sarebbe in certo senso condannato a falsificazioni essenziali: sarebbe soltanto colui che esprime una specifica determinazione da parte della “libido”, ma non esprimerebbe la verità (o la falsità) dell’amore sponsale e della comunione delle persone, anche se pensasse di manifestarla. Di conseguenza, egli sarebbe dunque condannato a sospettare se stesso e gli altri, riguardo alla verità del linguaggio del corpo. A causa della concupiscenza della carne potrebbe essere soltanto “accusato”, ma non potrebbe essere veramente “chiamato”.

L’“ermeneutica del sacramento” ci consente di tirare la conclusione che l’uomo è sempre essenzialmente “chiamato” e non soltanto “accusato”, e ciò proprio in quanto “uomo della concupiscenza”.







SESTO CICLO

Amore Sponsale

Riflessioni su il Cantico dei Cantici e il Libro di Tobia



Mercoledì, 23 maggio 1984
1. Durante l’Anno Santo sospesi la trattazione del tema dell’amore umano nel piano divino. Vorrei ora concludere quell’argomento con alcune considerazioni soprattutto circa l’insegnamento dell’Humanae Vitae, premettendo qualche riflessione circa il Cantico dei Cantici e il Libro di Tobia. Mi sembra, infatti, che quanto intendo esporre nelle prossime settimane costituisca come il coronamento di quanto ho illustrato.
Il tema dell’amore sponsale, che unisce l’uomo e la donna, connette in certo senso questa parte della Bibbia con tutta la tradizione della “grande analogia” che, attraverso gli scritti dei profeti, è confluita nel Nuovo Testamento e in particolare nella lettera agli Efesini (cf. Ef 5, 21-23), la cui spiegazione ho interrotto all’inizio dell’Anno Santo.
Esso è divenuto oggetto di numerosi studi esegetici, commenti e ipotesi. In merito al suo contenuto, in apparenza “profano”, le posizioni sono state diverse: mentre da un lato se ne sconsigliava spesso la lettura, dall’altro esso è stato la fonte a cui hanno attinto i più grandi scrittori mistici e i versetti del Cantico dei cantici sono stati inseriti nella liturgia della Chiesa.
Infatti sebbene l’analisi del testo di questo libro ci obblighi a collocare il suo contenuto al di fuori dell’ambito della grande analogia profetica, tuttavia non è possibile staccarlo dalla realtà del sacramento primordiale. Non è possibile rileggerlo se non nella linea di ciò che è scritto nei primi capitoli della Genesi, come testimonianza del “principio” - di quel “principio” al quale Cristo si riferì nel decisivo colloquio con i farisei (cf. Mt 19, 4). Il Cantico dei cantici si trova certamente sulla scia di quel sacramento, in cui, attraverso il “linguaggio del corpo” è costituito il segno visibile della partecipazione dell’uomo e della donna all’alleanza della grazia e dell’amore, offerta da Dio all’uomo. Il Cantico dei cantici dimostra la ricchezza di questo “linguaggio”, la cui prima espressione è già in Genesi 2, 23-25.
2. Già i primi versetti del “Cantico” ci introducono immediatamente nell’atmosfera di tutto il “poema”, in cui lo sposo e la sposa sembrano muoversi nel cerchio tracciato dall’irradiazione dell’amore. Le parole degli sposi, i loro movimenti, i loro gesti, corrispondono all’interiore mozione dei cuori. Soltanto attraverso il prisma di tale mozione è possibile comprendere il “linguaggio del corpo”, nel quale si attua quella scoperta a cui diede espressione il primo uomo di fronte a colei che era stata creata come “un aiuto che gli fosse simile” (cf. Gen 2, 20.23), e che era stata tratta, come riporta il testo biblico, da una delle sue “costole” (la “costola” sembra anche indicare il cuore).
Questa scoperta - già analizzata in base a Genesi 2 - nel Cantico dei cantici si riveste di tutta la ricchezza del linguaggio dell’amore umano. Ciò che nel capitolo 2 della Genesi (cf. Gen 2, 23-25) è stato espresso appena in poche parole, semplici ed essenziali, qui si sviluppa come in un ampio dialogo o piuttosto un duetto, in cui le parole dello sposo si intrecciano con quelle della sposa e si completano a vicenda. Le prime parole dell’uomo nella Genesi, capitolo 2,23, alla vista della donna creata da Dio esprimono lo stupore e l’ammirazione, anzi il senso di fascino. E un simile fascino - che è stupore e ammirazione - scorre in una forma più ampia attraverso i versetti del Cantico dei cantici. Scorre in onda placida e omogenea dall’inizio sino alla fine del poema.
3. Perfino un’analisi sommaria del testo del Cantico dei cantici permette di sentire esprimersi in quel fascino reciproco il “linguaggio del corpo”. Tanto il punto di partenza quanto il punto d’arrivo di questo fascino - reciproco stupore e ammirazione - sono infatti la femminilità della sposa e la mascolinità dello sposo nell’esperienza diretta della loro visibilità. Le parole d’amore, pronunciate da entrambi, si concentrano dunque sul “corpo”, non solo perché esso costituisce per se stesso sorgente di reciproco fascino, ma anche e soprattutto perché su di esso si sofferma direttamente e immediatamente quell’attrazione verso l’altra persona, verso l’altro “io” - femminile o maschile - che nell’interiore impulso del cuore genera l’amore.
L’amore inoltre sprigiona una particolare esperienza del bello, che si accentra su ciò che è visibile, ma coinvolge contemporaneamente la persona intera. L’esperienza del bello genera il compiacimento, che è reciproco.
“O bellissima tra le donne . . .” (Ct 1, 8), dice lo sposo, e gli echeggiano le parole della sposa: “Bruna sono ma bella, o figlie di Gerusalemme” (Ct 1, 5). Le parole dell’incanto maschile si ripetono continuamente, ritornano in tutti e cinque i canti del poema. Ad esse fanno eco espressioni simili della sposa.
4. Si tratta di metafore che possono oggi sorprenderci. Molte di esse sono state prese dalla vita dei pastori; e altre sembrano indicare lo stato regale dello sposo. L’analisi di quel linguaggio poetico va lasciata agli esperti. Il fatto stesso di adoperare la metafora dimostra quanto, nel nostro caso, il “linguaggio del corpo” cerchi appoggio e conferma in tutto il mondo visibile. Questo è senza dubbio un “linguaggio” che viene riletto contemporaneamente col cuore e con gli occhi dello sposo, nell’atto di speciale concentrazione su tutto l’“io” femminile della sposa. Questo “io” parla a lui attraverso ogni tratto femmineo, suscitando quello stato d’animo, che può essere definito fascino, incanto. Questo “io” femminile si esprime quasi senza parole; tuttavia il “linguaggio del corpo” espresso senza parole trova ricca eco nelle parole dello sposo, nel suo parlare pieno di trasporto poetico e di metafore, che testimoniano l’esperienza del bello, un amore di compiacimento. Se le metafore del “Cantico” cercano per questo bello un’analogia nelle diverse cose del mondo visibile (in questo mondo, che è il “mondo proprio” dello sposo), nello stesso tempo sembrano indicare l’insufficienza di ognuna di esse in particolare. “Tutta bella tu sei, amica mia, in te nessuna macchia” (Ct 4, 7): con questa locuzione lo sposo termina il suo canto, lasciando tutte le metafore, per volgersi a quell’unica, attraverso cui il “linguaggio del corpo” sembra esprimere ciò che è più proprio della femminilità e il tutto della persona.
Continueremo l’analisi del Cantico dei cantici nella prossima udienza generale.

Mercoledì, 30 maggio 1984
Nel brano degli Atti degli Apostoli, testé letto, abbiamo ascoltato la narrazione dell’Ascensione di Gesù al cielo. Come è noto, domani si celebra, secondo il calendario della Chiesa universale, la solennità dell’Ascensione.
È una festa che ci invita a guardare in alto, a pensare al nostro destino ultraterreno e a pregare con insistenza e costanza affinché venga il regno di Dio.
Domani pomeriggio ordinerò settantasette nuovi sacerdoti. Vi invito a pregare perché diventino, mediante il sacramento dell’Ordine, guide al cielo, pastori di uomini che si prodigano generosamente per la gloria di Dio e il servizio dei fratelli.
1. Riprendiamo la nostra analisi del Cantico dei cantici, al fine di comprendere in modo più adeguato ed esauriente il segno sacramentale del matrimonio, quale lo manifesta il linguaggio del corpo, che è un singolare linguaggio d’amore generato dal cuore.
Lo sposo a un certo punto, esprimendo una particolare esperienza di valori, che irradia su tutto ciò che è in rapporto con la persona amata, dice: “Tu mi hai rapito il cuore, / sorella mia, sposa, / tu mi hai rapito il cuore / con un solo tuo sguardo, / con una perla sola della tua collana! / Quanto sono soavi le tue carezze, / sorella mia, sposa . . .” (Ct 4, 9-10).
Da queste parole emerge che è di importanza essenziale per la teologia del corpo - e in questo caso per la teologia del segno sacramentale del matrimonio - sapere chi è il femminile “tu” per il maschile “io” e viceversa.
Lo sposo del Cantico dei cantici esclama: “Tutta bella tu sei, amica mia” (Ct 4, 7) e la chiama: “Sorella mia, sposa” (Ct 4, 9). Non la chiama col nome proprio, ma usa espressioni che dicono di più.
Sotto un certo aspetto, rispetto all’appellativo di “amica”, quello di “sorella”, usato per la sposa, sembra essere più eloquente e radicato nell’insieme del Cantico, che manifesta come l’amore riveli l’altro.
2. Il termine “amica” indica ciò che è sempre essenziale per l’amore, che pone il secondo “io” accanto al proprio “io”. L’amicizia - l’amore di amicizia (“amor amicitiae”) - significa nel Cantico un particolare avvicinamento sentito e sperimentato come forza interiormente unificante. Il fatto che in questo avvicinamento quell’“io” femminile si riveli per lo sposo come “sorella” - e che proprio come sorella sia sposa - ha una particolare eloquenza. L’espressione “sorella” parla dell’unione nell’umanità e insieme della diversità e originalità femminile della medesima nei riguardi non solo del sesso, ma del modo stesso di “essere persona”, che vuol dire sia “essere soggetto” sia “essere in rapporto”. Il termine “sorella” sembra esprimere, in modo più semplice, la soggettività dell’“io” femminile nel rapporto personale con l’uomo, cioè nell’apertura di lui verso gli altri, che vengono intesi e percepiti come fratelli. La “sorella” in un certo senso aiuta l’uomo a definirsi e concepirsi in tal modo, costituendo per lui una sorta di sfida in questa direzione.
3. Lo sposo del Cantico accoglie la sfida e cerca il passato comune, come se lui e la sua donna discendessero dalla cerchia della stessa famiglia, come se fin dall’infanzia fossero uniti dai ricordi del comune focolare. Così si sentono reciprocamente vicini come fratello e sorella, che debbono la loro esistenza alla stessa madre. Ne consegue uno specifico senso di comune appartenenza. Il fatto che si sentano fratello e sorella permette loro di vivere in sicurezza la reciproca vicinanza e di manifestarla, trovando in ciò appoggio e non temendo il giudizio iniquo degli altri uomini.
Le parole dello sposo, mediante l’appellativo “sorella”, tendono a riprodurre, direi, la storia della femminilità della persona amata, la vedono ancora nel tempo della fanciullezza e abbracciano il suo intero “io”, anima e corpo, con una tenerezza disinteressata. Da qui nasce quella pace di cui parla la sposa. Questa è la “pace del corpo”, che in apparenza somiglia al sonno (“non destate, non scuotete dal sonno l’amata, finché non lo voglia”). Questa è soprattutto la pace dell’incontro nell’umanità quale immagine di Dio e l’incontro per mezzo di un dono reciproco e disinteressato (“Così sono ai tuoi occhi, come colei che ha trovato pace”) (Ct 8, 10).
4. In relazione al precedente trama, che potrebbe essere chiamata trama “fraterna”, emerge nell’amoroso duetto del Cantico dei cantici un’altra trama, diciamo: un altro sostrato del contenuto. Possiamo esaminarla partendo da certe locuzioni che nel poemetto sembrano avere un significato chiave. Questa trama non emerge mai esplicitamente, ma attraverso tutto il componimento e si manifesta espressamente solo in alcuni passi. Ecco, parla lo sposo: “Giardino chiuso tu sei, / sorella mia, sposa / giardino chiuso, fontana sigillata” (Ct 4, 12).
Le metafore appena lette: “giardino chiuso, fonte sigillata” rivelano la presenza di un’altra visione dello stesso “io” femminile, padrone del proprio mistero. Si può dire che ambedue le metafore esprimono la dignità personale della donna che, in quanto soggetto spirituale si possiede e può decidere non solo della profondità metafisica, ma anche della verità essenziale e dell’autenticità del dono di sé, teso a quell’unione di cui parla il libro della Genesi.
Il linguaggio delle metafore - linguaggio poetico - sembra essere in questo ambito particolarmente appropriato e preciso. La “sorella-sposa” è per l’uomo padrona del suo mistero come “giardino chiuso” e “fonte sigillata”. Il “linguaggio del corpo” riletto nella verità va di pari passo con la scoperta dell’interiore inviolabilità della persona. Al tempo stesso proprio questa scoperta esprime l’autentica profondità della reciproca appartenenza degli sposi coscienti di appartenersi vicendevolmente, di essere destinati l’uno all’altra: “Il mio diletto è per me e io per lui” (Ct 2, 16; cf. Ct 6, 3).
5. Questa coscienza del reciproco appartenersi risuona soprattutto sulla bocca della sposa. In un certo senso ella risponde con tali parole a quelle dello sposo con cui egli l’ha riconosciuta padrona del proprio mistero. Quando la sposa dice: “Il mio diletto è per me”, vuol dire al tempo stesso: è colui al quale affido me stessa, e perciò dice: “E io per lui” (Ct 2, 16). Gli aggettivi: “mio” e “mia” affermano qui tutta la profondità di quell’affidamento, che corrisponde alla verità interiore della persona.
Corrisponde inoltre al significato sponsale della femminilità in relazione all’“io” maschile, cioè al “linguaggio del corpo” riletto nella verità della dignità personale.
Questa verità è stata pronunciata dallo sposo con le metafore del “giardino chiuso” e della “fonte sigillata”. La sposa gli risponde con le parole del dono, cioè dell’affidamento di se stessa. Come padrona della propria scelta dice: “Io sono per il mio diletto”. Il Cantico dei cantici rileva sottilmente la verità interiore di questa risposta. La libertà del dono e risposta alla profonda coscienza del dono espressa dalle parole dello sposo. Mediante tale verità e libertà si costruisce l’amore, di cui occorre affermare che è amore autentico.

Mercoledì, 6 giugno 1984
Abbiamo ascoltato nel brano degli Atti degli apostoli, ora proclamato, il racconto di quell’avvenimento fondamentale nella vita della Chiesa, che fu la Pentecoste. La discesa dello Spirito Santo su Maria e gli apostoli, raccolti nel cenacolo, segnò la nascita ufficiale della Chiesa e la sua presentazione al mondo.
Nel prepararci a rivivere domenica prossima quel momento decisivo, preghiamo il divino Spirito perché disponga il cuore dei fedeli ad accogliere con gioia una nuova effusione dei suoi doni. Corroborati dal fuoco del suo amore, essi sapranno farsi testimoni coraggiosi del Vangelo, portando anche a questa nostra generazione l’annuncio di Cristo redentore.
Riprendiamo ora l’argomento delle udienze dei mercoledì scorsi.
1. Anche oggi riflettiamo sul Cantico dei cantici al fine di comprendere maggiormente il segno sacramentale del matrimonio.
La verità dell’amore, proclamata dal Cantico dei cantici, non può essere separata dal “linguaggio del corpo”. La verità dell’amore fa sì che lo stesso “linguaggio del corpo” venga riletto nella verità. Questa è anche la verità del progressivo avvicinarsi degli sposi che cresce attraverso l’amore: e la vicinanza significa pure l’iniziazione al mistero della persona, senza però implicarne la violazione (cf. Ct 1, 13-14.16).
La verità della crescente vicinanza degli sposi attraverso l’amore si sviluppa nella dimensione soggettiva “del cuore”, dell’affetto e del sentimento, la quale permette di scoprire in sé l’altro come dono e, in un certo senso, di “gustarlo” in sé (cf. Ct 2, 3-6).
Attraverso questa vicinanza lo sposo vive più pienamente l’esperienza di quel dono che da parte dell’“io” femminile si unisce con l’espressione e il significato sponsali del corpo. Le parole dell’uomo (cf. Ct 7, 1-8) non contengono solo una descrizione poetica dell’amata, della sua bellezza femminea, su cui si soffermano i sensi, ma parlano del dono e del donarsi della persona.
La sposa sa che verso di lei è la “brama” dello sposo e gli va incontro con la prontezza del dono di sé (cf. Ct 7, 9-13) perché l’amore che li unisce è di natura spirituale e sensuale insieme. Ed è anche in base a quest’amore che si attua la rilettura nella verità del significato del corpo, poiché l’uomo e la donna debbono in comune costituire quel segno del reciproco dono di sé, che pone il sigillo su tutta la loro vita.
2. Nel Cantico dei cantici il “linguaggio del corpo” è inserito nel singolare processo della reciproca attrattiva dell’uomo e della donna, che viene espresso nei frequenti ritornelli che parlano della ricerca piena di nostalgia, di sollecitudine affettuosa (cf. Ct 2, 7) e del vicendevole ritrovarsi degli sposi (cf. Ct 5, 2). Ciò porta loro gioia e quiete e sembra indurli a una ricerca continua. Si ha l’impressione che, incontrandosi, raggiungendosi, sperimentando la propria vicinanza, continuino incessantemente a tendere a qualcosa: cedano alla chiamata di qualcosa che sovrasta il contenuto del momento e oltrepassa i limiti dell’eros, riletti nelle parole del mutuo “linguaggio del corpo” (cf. Ct 1, 7-8; 2, 17). Questa ricerca ha la sua dimensione interiore: “il cuore veglia” perfino nel sonno. Questa aspirazione nata dall’amore sulla base del “linguaggio del corpo” è una ricerca del bello integrale, della purezza libera da ogni macchia: è una ricerca di perfezione che contiene, direi, la sintesi della bellezza umana, bellezza dell’anima e del corpo.
Nel Cantico dei Cantici l’eros umano svela il volto dell’amore sempre alla ricerca e quasi mai appagato. L’eco di questa inquietudine percorre le strofe del poemetto: “Ho aperto allora al mio diletto, / il mio diletto già se n’era andato, era scomparso. / Io venni meno, ma non l’ho trovato, / l’ho chiamato ma non m’ha risposto” (Ct 5, 6). “Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, / se trovate il mio diletto / che cosa gli racconterete? / Che sono malata d’amore” (Ct 5, 9).
3. Dunque alcune strofe del Cantico dei cantici presentano l’eros come la forma dell’amore umano, in cui operano le energie del desiderio. Ed è in esse che si radica la coscienza ossia la certezza soggettiva del reciproco, fedele ed esclusivo appartenersi. Al tempo stesso, però, molte altre strofe del poema ci impongono di riflettere sulla causa della ricerca e dell’inquietudine che accompagnano la coscienza dell’essere l’uno dell’altra. Questa inquietudine fa parte anch’essa della natura dell’eros? Se così fosse, tale inquietudine indicherebbe pure la necessità dell’autosuperamento. La verità dell’amore si esprime nella coscienza del reciproco appartenersi, frutto dell’aspirazione e della ricerca vicendevole e della necessità dell’aspirazione e della ricerca, esito del reciproco appartenersi.
In tale necessità interiore, in tale dinamica di amore, si svela indirettamente la quasi impossibilità di appropriarsi e impossessarsi della persona da parte dell’altra. La persona è qualcuno che sovrasta tutte le misure di appropriazione e padroneggiamento, di possesso e di appagamento, che emergono dallo stesso “linguaggio del corpo”. Se lo sposo e la sposa rileggono questo “linguaggio” nella piena verità della persona e dell’amore, giungono alla sempre più profonda convinzione che l’ampiezza della loro appartenenza costituisce quel dono reciproco in cui l’amore si rivela “forte come la morte”, cioè risale fino agli ultimi limiti del “linguaggio del corpo” per superarli. La verità dell’amore interiore e la verità del dono reciproco chiamano, in un certo senso, continuamente lo sposo e la sposa – attraverso i mezzi di espressione del reciproco appartenersi e perfino staccandosi da quei mezzi – a pervenire a ciò che costituisce il nucleo del dono da persona a persona.
4. Seguendo i sentieri delle parole tracciate dalle strofe del Cantico dei cantici sembra che ci avviciniamo dunque alla dimensione in cui l’“eros” cerca di integrarsi, mediante ancora un’altra verità dell’amore. Secoli dopo – alla luce della morte e risurrezione di Cristo – questa verità la proclamerà Paolo di Tarso, con le parole della lettera ai Corinzi: “La carità è paziente, è benigna la carità, non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine” (1 Cor 13, 4-8).
La verità sull’amore, espressa nelle strofe del Cantico dei cantici viene confermata alla luce di queste parole paoline? Nel Cantico leggiamo, ad esempio sull’amore, che la sua “gelosia” è “tenace come gli inferi” (Ct 8, 6), e nella lettera paolina leggiamo che “non è invidiosa la carità”. In quale rapporto sono entrambe le espressioni sull’amore? In quale rapporto sta l’amore che “è forte come la morte”, secondo il Cantico dei cantici, con l’amore “che non avrà mai fine”, secondo la lettera paolina? Non moltiplichiamo queste domande, non apriamo l’analisi comparativa. Sembra tuttavia che l’amore si apra, davanti a noi, in due prospettive: come se ciò, in cui l’“eros” umano chiude il proprio orizzonte, si aprisse ancora, attraverso le parole paoline, a un altro orizzonte di amore che parla un altro linguaggio; l’amore che sembra emergere da un’altra dimensione della persona e chiama, invita a un’altra comunione. Questo amore è stato chiamato col nome di “agape” e l’agape porta a compimento, purificandolo, l’eros.
Abbiamo così concluso queste brevi meditazioni sul Cantico dei cantici, intese ad approfondire ulteriormente il tema del “linguaggio del corpo”. In questo ambito, il Cantico dei cantici ha un significato del tutto singolare.

Mercoledì, 27 giugno 1984
1. Commentando nelle scorse settimane il Cantico dei cantici, ho sottolineato come il segno sacramentale del matrimonio si costituisce sulla base del “linguaggio del corpo”, che l’uomo e la donna esprimono nella verità che gli è propria. Sotto tale aspetto intendo analizzare oggi alcuni brani del Libro di Tobia.
Nel racconto dello sposalizio di Tobia con Sara si trova, oltre l’espressione “sorella” - per cui sembra essere radicata nell’amore sponsale un’indole fraterna - anche un’altra espressione analoga a quelle del suddetto Cantico.
Come ricorderete, nel duetto degli sposi l’amore, che si dichiarano vicendevolmente, è “forte come la morte” (Ct 8, 6). Nel Libro di Tobia troviamo la frase che, dicendo che egli amò Sara “al punto di non saper più distogliere il cuore da lei” (Tb 6, 19), presenta una situazione confermante la verità delle parole sull’amore “forte come la morte”.
2. Per capire meglio occorre rifarsi ad alcuni particolari che trovano spiegazione sullo sfondo dello specifico carattere del Libro di Tobia. Vi leggiamo che Sara, figlia di Raguele, in precedenza era “stata data in moglie a sette uomini” (Tb 6, 14), ma tutti erano morti prima di unirsi a lei. Ciò era accaduto per opera dello spirito maligno e anche il giovane Tobia aveva ragioni per temere una morte analoga.
Così l’amore di Tobia doveva fin dal primo momento affrontare la prova della vita e della morte. Le parole sull’amore “forte come la morte”, pronunciate dagli sposi del Cantico dei cantici nel trasporto del cuore, assumono qui il carattere di una prova reale. Se l’amore si dimostra forte come la morte, ciò avviene soprattutto nel senso che Tobia e, insieme con lui, Sara, vanno senza esitare verso questa prova. Ma in questa prova della vita e della morte vince la vita, perché, durante la prova della prima notte di nozze, l’amore, sorretto dalla preghiera, si rivela più forte della morte.
3. Questa prova della vita e della morte ha pure un altro significato che ci fa comprendere l’amore e il matrimonio degli sposi novelli. Infatti essi, unendosi come marito e moglie, si trovano nella situazione in cui le forze del bene e del male si combattono e si misurano reciprocamente. Il duetto degli sposi del Cantico dei cantici sembra non percepire affatto questa dimensione della realtà. Gli sposi del Cantico vivono e si esprimono in un mondo ideale o “astratto”, in cui è come se non esistesse la lotta delle forze oggettive tra il bene e il male. È forse proprio la forza e la verità interiore dell’amore ad attenuare la lotta che si svolge nell’uomo e intorno a lui?
La pienezza di questa verità e di questa forza propria dell’amore sembra tuttavia essere diversa e sembra tendere piuttosto là dove ci conduce l’esperienza del Libro di Tobia. La verità e la forza dell’amore si manifestano nella capacità di porsi tra le forze del bene e del male, che combattono nell’uomo e intorno a lui, perché l’amore è fiducioso nella vittoria del bene ed è pronto a fare di tutto affinché il bene vinca. Di conseguenza la verità dell’amore degli sposi del Libro di Tobia non viene confermata dalle parole espresse dal linguaggio del trasporto amoroso come nel Cantico dei cantici, ma dalle scelte e dagli atti che assumono tutto il peso dell’esistenza umana nell’unione di entrambi. Il “linguaggio del corpo”, qui, sembra usare le parole delle scelte e degli atti scaturiti dall’amore, che vince perché prega.
 4. La preghiera di Tobia (Tb 8, 5-8), che è innanzitutto preghiera di lode e di ringraziamento, poi di supplica, colloca il “linguaggio del corpo” sul terreno dei termini essenziali della teologia del corpo. È un linguaggio “oggettivizzato”, pervaso non tanto dalla forza emotiva dell’esperienza, quanto dalla profondità e gravità della verità dell’esistenza stessa.
Gli sposi professano questa verità insieme, all’unisono davanti al Dio dell’alleanza: “Dio dei nostri padri”. Si può dire che sotto questo aspetto il “linguaggio del corpo” diventa il linguaggio dei ministri del sacramento consapevoli che nel patto coniugale si esprime e si attua il mistero che ha la sua sorgente in Dio stesso. Il loro patto coniugale è infatti l’immagine - e il primordiale sacramento dell’alleanza di Dio con l’uomo, con il genere umano - di quell’alleanza che trae la sua origine dall’amore eterno.
Tobia e Sara terminano la loro preghiera con le parole seguenti: “Degnati di aver misericordia di me e di lei e di farci giungere insieme alla vecchiaia” (Tb 8, 7).
Si può ammettere (in base al contesto) che essi hanno davanti agli occhi la prospettiva di perseverare nella comunione sino alla fine dei loro giorni: prospettiva che si apre dinanzi a loro con la prova della vita e della morte, già durante la prima notte nuziale. Al tempo stesso essi vedono con lo sguardo della fede la santità di questa vocazione, in cui - attraverso l’unità dei due, costruita sulla verità reciproca del “linguaggio del corpo” - debbono rispondere alla chiamata di Dio stesso, contenuta nel mistero del principio. E per questo chiedono: “Degnati di aver misericordia di me e di lei”.
5. Gli sposi del Cantico dei cantici dichiarano vicendevolmente, con parole ardenti, il loro amore umano. Gli sposi novelli del Libro di Tobia chiedono a Dio di saper rispondere all’amore. L’uno e l’altro trovano il loro posto in ciò che costituisce il segno sacramentale del matrimonio. L’uno e l’altro partecipano alla formazione di questo segno.
Si può dire che attraverso l’uno e l’altro il “linguaggio del corpo”, riletto sia nella dimensione soggettiva della verità dei cuori umani, sia nella dimensione “oggettiva” della verità del vivere nella comunione, diviene la lingua della liturgia.
La preghiera degli sposi novelli del Libro di Tobia sembra certamente confermarlo in un modo diverso dal Cantico dei cantici, e anche in modo che senza dubbio commuove più profondamente.








SETTIMO CICLO

Amore e fecondità

(Rilettura ed approfondimenti di "Humanae Vitae"
e abbozzi di spiritualità familiare e coniugale alla luce dell'enciclica)



Mercoledì, 4 luglio 1984
1. Riportiamoci oggi al classico testo del capitolo 5° della lettera agli Efesini, la quale rivela le sorgenti eterne dell’alleanza nell’amore del Padre e insieme la sua nuova e definitiva istituzione in Gesù Cristo.
Questo testo ci conduce a una dimensione tale del “linguaggio del corpo” che potrebbe essere chiamata “mistica”. Parla infatti del matrimonio come di un “grande mistero”. “Questo mistero è grande”(Ef 5, 32). E sebbene questo mistero si compia nell’unione sponsale di Cristo redentore con la Chiesa e nella Chiesa-sposa con Cristo (“Lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa” (Ef 5, 32)), sebbene si effettui definitivamente nelle dimensioni escatologiche, tuttavia l’autore della lettera agli Efesini non esita ad estendere l’analogia dell’unione di Cristo con la Chiesa nell’amore sponsale, delineata in modo così “assoluto” ed “escatologico”, al segno sacramentale del patto sponsale dell’uomo e della donna, i quali sono “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21). Non esita a estendere quella mistica analogia al “linguaggio del corpo”, riletto nella verità dell’amore sponsale e dell’unione coniugale dei due.
2. Bisogna riconoscere la logica di questo stupendo testo, che libera radicalmente il nostro modo di pensare dagli elementi di manicheismo o da una considerazione non personalista del corpo e al tempo stesso avvicina il “linguaggio del corpo”, racchiuso nel segno sacramentale del matrimonio, alla dimensione della reale santità.
I sacramenti innestano la santità sul terreno dell’umanità dell’uomo: penetrano l’anima e il corpo, la femminilità e la mascolinità del soggetto personale, con la forza della santità. Tutto ciò viene espresso nella lingua della liturgia: vi si esprime e vi si attua.
La liturgia, la lingua liturgica, eleva il patto coniugale dell’uomo e della donna, basato sul “linguaggio del corpo” riletto nella verità, alle dimensioni del “mistero” e, nel medesimo tempo, consente che quel patto si realizzi nelle suddette dimensioni attraverso il “linguaggio del corpo”.
Di ciò parla appunto il segno del sacramento del matrimonio, il quale nella lingua liturgica esprime un evento interpersonale, carico di intenso contenuto personale, assegnato ai due “fino alla morte”. Il segno sacramentale significa non solo il “fieri”, il nascere del matrimonio, ma costruisce il suo “esse”, la sua durata: l’uno e l’altro come realtà sacra e sacramentale, radicata nella dimensione dell’alleanza e della grazia, nella dimensione della creazione e della redenzione. In tal modo la lingua liturgica assegna a entrambi, all’uomo e alla donna, l’amore, la fedeltà e l’onestà coniugale mediante il “linguaggio del corpo”. Assegna loro l’unità e l’indissolubilità del matrimonio nel “linguaggio del corpo”. Assegna loro come compito tutto il “sacrum” della persona e della comunione delle persone, e parimenti la loro femminilità e mascolinità, proprio in questo linguaggio.
3. In tale senso affermiamo, che la lingua liturgica diventa “linguaggio del corpo”. Ciò significa una serie di fatti e di compiti, che formano la “spiritualità” del matrimonio, il suo “ethos”. Nella vita quotidiana dei coniugi questi fatti diventano compiti, e i compiti, fatti. Questi fatti - come anche gli impegni - sono di natura spirituale, tuttavia si esprimono a un tempo col “linguaggio del corpo”.
L’Autore della lettera agli Efesini scrive in proposito: “. . . i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo . . .” (Ef 5, 28) (“come se stesso”:Ef 5, 33), “e la donna sia rispettosa verso il marito” (Ef 5, 33). Ambedue, del resto, siano “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21).
Il “linguaggio del corpo”, quale ininterrotta continuità della lingua liturgica si esprime non solo come il fascino e il compiacimento reciproco del Cantico dei Cantici, ma anche come una profonda esperienza del “sacrum”, che sembra essere infuso nella stessa mascolinità e femminilità attraverso la dimensione del “mysterium”: “mysterium magnum” della lettera agli Efesini, che affonda le radici appunto nel “principio”, cioè nel mistero della creazione dell’uomo: maschio e femmina a immagine di Dio, chiamati fin “dal principio” ad essere segno visibile dell’amore creativo di Dio.
4. Così dunque “quel timore di Cristo” e “rispetto”, di cui parla l’autore della lettera agli Efesini, è nient’altro che una forma spiritualmente matura di quel fascino reciproco: vale a dire dell’uomo per la femminilità e della donna per la mascolinità, che si rivela per la prima volta nel libro della Genesi (Gen 2, 23-25). In seguito, lo stesso fascino sembra scorrere come un largo torrente attraverso i versetti del Cantico dei cantici per trovare, in circostanze del tutto diverse, la sua concisa e concentrata espressione nel libro di Tobia.
La maturità spirituale di questo fascino altro non è che il fruttificare del dono del timore, uno dei sette doni dello Spirito Santo, di cui ha parlato san Paolo nella prima lettera ai Tessalonicesi (1 Ts 4, 4-7).
D’altronde, la dottrina di Paolo sulla castità, come “vita secondo lo Spirito” (cf. Rm 8, 5), ci consente (particolarmente in base alla prima lettera ai Corinzi 6) di interpretare quel “rispetto” in senso carismatico, cioè quale dono dello Spirito Santo.
5. La lettera agli Efesini - nell’esortare i coniugi, perché siano sottomessi gli uni agli altri “nel timore di Cristo” (Ef 5, 21) e nell’invogliarli, in seguito, al “rispetto” nel rapporto coniugale, sembra rivelare - conformemente alla tradizione paolina - la castità quale virtù e quale dono.
In tal modo, attraverso la virtù e ancor più attraverso il dono (“vita secondo lo Spirito”) matura spiritualmente il reciproco fascino della mascolinità e della femminilità. Entrambi, l’uomo e la donna, allontanandosi dalla concupiscenza, trovano la giusta dimensione della libertà del dono, unita alla femminilità e mascolinità nel vero significato sponsale del corpo.
Così la lingua liturgica, cioè la lingua del sacramento e del “mysterium”, diviene nella loro vita e convivenza “linguaggio del corpo” in tutta una profondità, semplicità e bellezza fino a quel momento sconosciute.
6. Tale sembra essere il significato integrale del segno sacramentale del matrimonio. In quel segno, attraverso il “linguaggio del corpo”, l’uomo e la donna vanno incontro al “grande mysterium”, per trasferire la luce di quel mistero, luce di verità e di bellezza, espresso nella lingua liturgica, in “linguaggio del corpo”, nel linguaggio cioè della prassi dell’amore, della fedeltà e dell’onestà coniugale, ossia nell’ethos radicato nella “redenzione del corpo” (cf. Rm 8, 23). Su questa via, la vita coniugale diviene in certo senso liturgia.

Mercoledì, 11 luglio 1984
1. Le riflessioni finora svolte sull’amore umano nel piano divino resterebbero in qualche modo incomplete, se non cercassimo di vederne l’applicazione concreta nell’ambito della morale coniugale e familiare. Vogliamo compiere questo ulteriore passo, che ci porterà alla conclusione del nostro ormai lungo cammino, sulla scorta di un importante pronunciamento del magistero recente: l’enciclica Humanae vitae, che il papa Paolo VI ha pubblicato nel luglio del 1968. Rileggeremo questo significativo documento alla luce dei risultati a cui siamo giunti esaminando l’iniziale disegno divino e le parole di Cristo, che ad esso rimandano.
2. “La Chiesa insegna che qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere per sé aperto alla trasmissione della vita . . . Tale dottrina, più volte esposta dal magistero, è fondata sulla connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo” (Humanae Vitae, 11-12).
3. Le considerazioni che mi accingo a fare riguarderanno particolarmente il passo dell’enciclica che tratta dei “due significati dell’atto coniugale” e della loro “connessione inscindibile”. Non intendo presentare un commento all’intera enciclica, ma piuttosto illustrarne e approfondirne un passo. Dal punto di vista della dottrina morale racchiusa nel documento citato, quel passo ha un significato centrale. Al tempo stesso è un brano che si collega strettamente con le nostre precedenti riflessioni sul matrimonio nella dimensione del segno (sacramentale).
Poiché - come detto - è un passo centrale dell’enciclica, è ovvio che esso sia inserito molto profondamente in tutta la sua struttura: la sua analisi pertanto deve orientarci verso le varie componenti di quella struttura, anche se l’intenzione è di non commentare l’intero testo.
4. Nelle riflessioni sul segno sacramentale, è stato già detto a più riprese che esso è basato sul “linguaggio del corpo” riletto nella verità. Si tratta di una verità affermata una prima volta all’inizio del matrimonio, quando gli sposi novelli, promettendosi a vicenda di “essere fedeli sempre . . . e di amarsi e onorarsi tutti i giorni della loro vita”, divengono ministri del matrimonio come sacramento della Chiesa.
Si tratta poi di una verità che viene, per così dire, sempre nuovamente affermata. Infatti l’uomo e la donna, vivendo nel matrimonio “sino alla morte”, ripropongono di continuo, in un certo senso, quel segno ch’essi hanno posto - attraverso la liturgia del sacramento - il giorno del loro sposalizio.
Le parole sopra citate dell’enciclica di papa Paolo VI riguardano quel momento nella vita comune dei coniugi, in cui entrambi, unendosi nell’atto coniugale, diventano, secondo l’espressione biblica, “una sola carne” (Gen 2, 24). Proprio in un tale momento, così ricco di significato, è pure particolarmente importante che si rilegga il “linguaggio del corpo” nella verità. Tale lettura diviene condizione indispensabile per agire nella verità, ossia per comportarsi conformemente al valore e alla norma morale.
5. L’enciclica non solo ricorda questa norma, ma cerca anche di darne l’adeguato fondamento. Per chiarire più a fondo quella “connessione inscindibile che Dio ha voluto . . . tra i due significati dell’atto coniugale”, Paolo VI così scrive nella frase successiva: “. . . per la sua intima struttura, l’atto coniugale, mentre unisce profondamente gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite, secondo leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna” (Humanae Vitae, 12).
Osserviamo che nella frase precedente il testo appena citato tratta soprattutto del “significato” e nella frase successiva, della “intima struttura” (cioè della natura) del rapporto coniugale. Definendo questa “struttura intima”, il testo fa riferimento “alle leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna”.
Il passaggio dalla frase, che esprime la norma morale, alla frase che la esplica e motiva, è particolarmente significativo. L’enciclica induce a cercare il fondamento della norma, che determina la moralità delle azioni dell’uomo e della donna nell’atto coniugale, nella natura di questo stesso atto e, ancor più profondamente, nella natura degli stessi soggetti che agiscono.
6. In tal modo, l’“intima struttura” (ossia natura) dell’atto coniugale costituisce la base necessaria per un’adeguata lettura e scoperta dei significati, che devono trasferirsi nella coscienza e nelle decisioni delle persone agenti, e anche la base necessaria per stabilire l’adeguato rapporto di questi significati, cioè la loro inscindibilità. Poiché ad un tempo “l’atto coniugale unisce profondamente gli sposi . . . e li rende atti alla generazione di nuove vite”, e l’una cosa e l’altra avvengono “per la sua intima struttura”, ne consegue che la persona umana (con la necessità propria della ragione, la necessità logica) “deve” leggere contemporaneamente i “due significati dell’atto coniugale” e anche la “connessione inscindibile tra i due significati dell’atto coniugale”.
Di null’altro qui si tratta che di leggere nella verità il “linguaggio del corpo” come è stato detto più volte nelle precedenti analisi bibliche. La norma morale, insegnata costantemente dalla Chiesa in questo ambito, ricordata e riconfermata da Paolo VI nella sua enciclica, scaturisce dalla lettura del “linguaggio del corpo” nella verità.
Si tratta qui della verità, prima nella dimensione ontologica (“struttura intima”) e poi - di conseguenza - nella dimensione soggettiva e psicologica (“significato”). Il testo dell’enciclica sottolinea che nel caso in questione si tratta di una norma della legge naturale.

Mercoledì, 18 luglio 1984
1. Nell’enciclica Humanae Vitae (Pauli VI, Humane Vitae, n. 11) si legge: “Richiamando gli uomini all’osservanza delle norme della legge naturale interpretata dalla sua costante dottrina, la Chiesa insegna che qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere per sé aperto alla trasmissione della vita”.
In pari tempo lo stesso testo considera e perfino pone in rilievo la dimensione soggettiva e psicologica, quando parla del “significato”, ed esattamente dei “due significati dell’atto coniugale”.
Il “significato” nasce nella coscienza con la rilettura della verità (ontologica) dell’oggetto. Mediante questa rilettura, la verità (ontologica) entra per così dire nella dimensione conoscitiva: soggettiva e psicologica.
L’Humanae Vitae sembra volgere particolarmente la nostra attenzione verso quest’ultima dimensione. Ciò è confermato tra l’altro, indirettamente, anche dalla frase seguente: “Noi pensiamo che gli uomini del nostro tempo sono particolarmente in grado di afferrare il carattere profondamente ragionevole e umano di questo fondamentale principio” (Ibid., 12).
2. Quel “carattere ragionevole” riguarda non soltanto la verità nella dimensione ontologica, ossia ciò che corrisponde alla struttura reale dell’atto coniugale. Esso riguarda anche la stessa verità nella dimensione soggettiva e psicologica, vale a dire la retta comprensione dell’intima struttura dell’atto coniugale, cioè l’adeguata rilettura dei significati corrispondenti a tale struttura e della loro connessione inscindibile, in vista di un comportamento moralmente retto. In questo consiste appunto la norma morale e la corrispondente regolazione degli atti umani nella sfera della sessualità. In tal senso diciamo che la norma s’identifica con la rilettura, nella verità, del “linguaggio del corpo”.
3. L’enciclica Humanae Vitae contiene dunque la norma morale e la sua motivazione, o almeno un approfondimento di ciò che costituisce la motivazione della norma. Poiché, per altro, nella norma si esprime in modo vincolante il valore morale, ne segue che gli atti conformi alla norma sono moralmente retti, gli atti contrari sono invece intrinsecamente illeciti. L’autore dell’enciclica sottolinea che tale norma appartiene alla “legge naturale”, vale a dire, che essa è conforme alla ragione come tale. La Chiesa insegna questa norma, sebbene essa non sia espressa formalmente (cioè letteralmente) nella Sacra Scrittura; e ciò fa nella convinzione che l’interpretazione dei precetti della legge naturale appartenga alla competenza del magistero.
Possiamo tuttavia dire di più. Anche se la norma morale, in tal modo formulata nell’enciclica Humanae vitae, non si trova letteralmente nella Sacra Scrittura, nondimeno dal fatto che essa è contenuta nella tradizione e - come scrive il papa Paolo VI - è stata “più volte esposta dal magistero” (Ivi) ai fedeli, risulta che questa norma corrisponde all’insieme della dottrina rivelata contenuta nelle fonti bibliche (Ivi, 4).
4. Si tratta qui non solo dell’insieme della dottrina morale racchiusa nella Sacra Scrittura, delle sue premesse essenziali e del carattere generale del suo contenuto, ma di quel complesso più ampio, al quale abbiamo dedicato in precedenza numerose analisi trattando della “teologia del corpo”.
Proprio sullo sfondo di tale ampio complesso si rende evidente che la menzionata norma morale appartiene non soltanto alla legge morale naturale, ma anche all’ordine morale rivelato da Dio: anche da questo punto di vista essa non potrebbe essere diversa, ma unicamente quale la tramandano la tradizione e il magistero e, ai giorni nostri, l’enciclica Humanae Vitae, come documento contemporaneo di tale magistero.
Paolo VI scrive: “Noi pensiamo che gli uomini del nostro tempo sono particolarmente in grado di afferrare il carattere profondamente ragionevole e umano di questo fondamentale principio” (Humanae Vitae, 12). Si può aggiungere: essi sono in grado di afferrare anche la sua profonda conformità con tutto ciò che viene trasmesso dalla tradizione scaturita dalle fonti bibliche. Le basi di questa conformità sono da ricercarsi particolarmente nell’antropologia biblica. D’altronde, è noto il significato che l’antropologia ha per l’etica, cioè per la dottrina morale. Sembra essere del tutto ragionevole cercare proprio nella “teologia del corpo” il fondamento della verità delle norme che riguardano la problematica così fondamentale dell’uomo in quanto “corpo”: “i due saranno una sola carne” (Gen 2, 24).
5. La norma dell’enciclica Humanae Vitae riguarda tutti gli uomini, in quanto è norma della legge naturale e si basa sulla conformità con la ragione umana (quando, s’intende, questa cerca la verità). A maggior ragione essa concerne tutti i credenti membri della Chiesa, dato che il carattere ragionevole di questa norma trova indirettamente conferma e solido sostegno nell’insieme della “teologia del corpo”. Da questo punto di vista abbiamo parlato, nelle precedenti analisi, dell’“ethos” della redenzione del corpo.
La norma della legge naturale, basata su questo “ethos”, trova non soltanto una nuova espressione, ma anche un pieno fondamento antropologico ed etico sia nella parola del Vangelo, sia nell’azione purificante e corroborante dello Spirito Santo.
Vi sono tutte le ragioni affinché ogni credente e in particolare ogni teologo rilegga e comprenda sempre più profondamente la dottrina morale dell’enciclica in questo contesto integrale.
Le riflessioni, che da lungo tempo facciamo qui, costituiscono appunto un tentativo di tale rilettura.

Mercoledì, 25 luglio 1984
1. Riprendiamo le riflessioni che tendono a collegare l’enciclica Humanae Vitae con l’insieme della teologia del corpo.
Tale enciclica non si limita a ricordare la norma morale che concerne la convivenza coniugale, riconfermandola davanti alle nuove circostanze. Paolo VI, nel pronunciarsi con magistero autentico mediante l’enciclica (1968), ha avuto dinanzi agli occhi l’autorevole enunciato del Concilio Vaticano II, contenuto nella costituzione Gaudium et Spes (1965).
L’enciclica non si trova soltanto sulla linea dell’insegnamento conciliare, ma costituisce anche lo svolgimento e il completamento dei problemi ivi racchiusi, in modo particolare riguardo al problema dell’“accordo dell’amore umano col rispetto della vita”. Su questo punto, leggiamo nella Gaudium et Spes le seguenti parole (Gaudium et Spes, n. 51): “La Chiesa ricorda che non può esserci vera contraddizione tra le leggi divine del trasmettere la vita e del dovere di favorire l’autentico amore coniugale”.
2. La costituzione pastorale del Vaticano II esclude qualsiasi “vera contraddizione” nell’ordine normativo, il che, da parte sua, conferma Paolo VI, cercando contemporaneamente di far luce su quella “non-contraddizione” e in tal modo di motivare la rispettiva norma morale, dimostrandone la conformità alla ragione.
Tuttavia, l’Humanae Vitae parla non tanto della “non contraddizione” nell’ordine normativo, quanto della “connessione inscindibile” tra la trasmissione della vita e l’autentico amore coniugale dal punto di vista dei “due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo” (Pauli VI, Humanae Vitae, 12), di cui abbiamo già trattato.
3. Ci si potrebbe soffermare a lungo sull’analisi della norma stessa; ma il carattere dell’uno e dell’altro documento induce piuttosto a riflessioni, almeno indirettamente, pastorali. Infatti, la Gaudium et Spes è una costituzione pastorale e l’enciclica di Paolo VI - con il suo valore dottrinale - tende ad avere lo stesso orientamento. Essa vuol essere, infatti, risposta agli interrogativi dell’uomo contemporaneo. Sono, questi, interrogativi di carattere demografico, conseguentemente di carattere socio-economico e politico, in rapporto alla crescita della popolazione sul globo terrestre. Sono interrogativi che partono dal campo delle scienze particolari, e di pari passo sono gli interrogativi dei moralisti contemporanei (teologi-moralisti). Sono innanzitutto gli interrogativi dei coniugi, che si trovano già al centro dell’attenzione della costituzione conciliare e che l’enciclica riprende con tutta la precisione desiderabile. Vi leggiamo infatti: “Date le condizioni della vita odierna e dato il significato che le relazioni coniugali hanno per l’armonia tra gli sposi e per la loro mutua fedeltà, non sarebbe forse indicata una revisione delle norme etiche finora vigenti, soprattutto se si considera che esse non possono essere osservate senza sacrifici, talvolta eroici?” (Ibid., 3).
4. Nella suddetta formulazione è evidente con quanta sollecitudine l’autore dell’enciclica cerchi di affrontare gli interrogativi dell’uomo contemporaneo in tutta la loro portata. La rilevanza di questi interrogativi suppone una risposta proporzionalmente ponderata e profonda. Se dunque da una parte è giusto attendersi un’acuta trattazione della norma, dall’altra, ci si può pure aspettare che un peso non minore sia dato agli argomenti pastorali, concernenti più direttamente la vita degli uomini concreti, di coloro appunto che pongono le domande menzionate all’inizio.
Paolo VI ha avuto sempre davanti agli occhi questi uomini. Di ciò è espressione, tra l’altro, il seguente passo della Humanae Vitae (Pauli VI, Humanae Vitae, n. 20): “La dottrina della Chiesa sulla regolazione della natalità, che promulga la legge divina, apparirà facilmente a molti di difficile o addirittura impossibile attuazione. E certamente, come tutte le realtà grandi e benefiche, essa richiede serio impegno e molti sforzi, individuali, familiari e sociali. Anzi, non sarebbe attuabile senza l’aiuto di Dio, che sorregge e corrobora la buona volontà, degli uomini. Ma a chi ben riflette non potrà non apparire che tali sforzi sono nobilitanti per l’uomo e benefici per la comunità umana”.
5. A questo punto non si parla più della “non-contraddizione” normativa, ma piuttosto della “possibilità dell’osservanza della legge divina”, cioè di un argomento, almeno indirettamente, pastorale. Il fatto che la legge debba essere di “possibile” attuazione, appartiene direttamente alla natura stessa della legge, ed è dunque contenuto nel quadro della “non-contraddittorietà normativa”. Tuttavia la “possibilità”, intesa come “attuabilità” della norma, appartiene anche alla sfera pratica e pastorale. Nel testo citato il mio predecessore parla, precisamente, da questo punto di vista.
6. Si può qui aggiungere una considerazione: il fatto che tutto il retroterra biblico, denominato “teologia del corpo”, ci offra, anche se indirettamente, la conferma della verità della norma morale, contenuta nella Humanae Vitae, ci prepara a considerare più a fondo gli aspetti pratici e pastorali del problema nel suo insieme. I principi e i presupposti generali della “teologia del corpo” non erano forse estratti tutti quanti dalle risposte che Cristo diede alle domande dei suoi concreti interlocutori? E i testi di Paolo - come ad esempio quelli della lettera ai Corinzi - non sono forse un piccolo manuale riguardante i problemi della vita morale dei primi seguaci di Cristo? E in questi testi troviamo certamente quella “regola di comprensione”, che sembra tanto indispensabile di fronte ai problemi di cui tratta l’Humanae vitae, e che in questa enciclica è presente.
Chi crede che il Concilio e l’enciclica non tengano abbastanza conto delle difficoltà presenti nella vita concreta, non comprende la preoccupazione pastorale che fu all’origine di quei documenti. Preoccupazione pastorale significa ricerca del vero bene dell’uomo, promozione dei valori impressi da Dio nella sua persona; significa cioè attuazione di quella “regola di comprensione”, che mira alla scoperta sempre più chiara del disegno di Dio sull’amore umano, nella certezza che l’unico e vero bene della persona umana consiste nell’attuazione di questo disegno divino.
Si potrebbe dire che, proprio nel nome della citata “regola di comprensione” il Concilio ha posto la questione dell’“accordo dell’amore umano col rispetto della vita” (Gaudium et Spes, 51), e l’enciclica Humanae Vitae ha in seguito ricordato non soltanto le norme morali che obbligano in questo ambito, ma si occupa inoltre ampiamente del problema della “possibilità dell’osservanza della legge divina”.
Le presenti riflessioni sul carattere del documento Humanae Vitae ci preparano a trattare in seguito il tema della “paternità responsabile”.

Mercoledì, 1° agosto 1984
1. Per oggi abbiamo scelto il tema della “paternità e maternità responsabili” alla luce della costituzione Gaudium et Spes e dell’enciclica Humanae Vitae.
La Costituzione conciliare, nell’affrontare l’argomento, si limita a ricordare le premesse fondamentali; il documento pontificio invece va oltre, dando a queste premesse contenuti più concreti.
Il testo conciliare suona così: “. . . Quando si tratta di comporre l’amore coniugale con la trasmissione responsabile della vita, il carattere morale del comportamento non dipende solo dalla sincera intenzione e dalla valutazione dei motivi, ma va determinato da criteri oggettivi, che hanno il loro fondamento nella natura stessa della persona umana e dei suoi atti e sono destinati a mantenere in un contesto di vero amore l’integro senso della mutua donazione e della procreazione umana; e tutto ciò non sarà possibile se non venga coltivata con sincero animo la virtù della castità coniugale”.
E il Concilio aggiunge: “I figli della Chiesa, fondati su questi principi, nel regolare la procreazione non potranno seguire strade che sono condannate dal magistero” (Gaudium et Spes, 51. 50).
2. Prima del passo citato, il Concilio insegna che i coniugi “adempiranno il loro dovere con umana e cristiana responsabilità e con docile riverenza verso Dio”. Il che vuol dire che: “con riflessione e impegno comune si formeranno un retto giudizio, tenendo conto sia del proprio bene personale che di quello dei figli, tanto di quelli nati che di quelli che si prevede nasceranno, valutando le condizioni di vita del proprio tempo e del proprio stato di vita, nel loro aspetto tanto materiale, che spirituale; e, infine, salvaguardando la scala dei valori del bene della comunità familiare, della società temporale e della stessa Chiesa”.
A questo punto seguono parole particolarmente importanti per determinare con maggiore precisione il carattere morale della “paternità e maternità responsabili”. Leggiamo: “Questo giudizio, in ultima analisi, lo devono formulare, davanti a Dio, gli sposi stessi”.
E proseguendo: “Però nella loro linea di condotta i coniugi cristiani siano consapevoli che non possono procedere a loro arbitrio, ma devono sempre essere retti da una coscienza che sia conforme alla legge divina stessa, docili al magistero della Chiesa, che in modo autentico quella legge interpreta alla luce del Vangelo. Tale legge divina manifesta il significato pieno dell’amore coniugale, lo salvaguarda e lo sospinge verso la sua perfezione veramente umana” (Gaudium et Spes, 50).
3. La costituzione conciliare, limitandosi a ricordare le premesse necessarie per una “paternità e maternità responsabili”, le ha rilevate in maniera del tutto univoca, precisando gli elementi costitutivi di tale paternità e maternità, cioè il giudizio maturo della coscienza personale nel suo rapporto con la legge divina, autenticamente interpretata dal magistero della Chiesa.
4. L’enciclica Humanae  Vitae, basandosi sulle medesime premesse, prosegue oltre, offrendo indicazioni concrete. Lo si vede prima nel modo di definire la “paternità responsabile” (Pauli VI, Humanae Vitae, 10). Paolo VI cerca di precisare questo concetto, risalendo ai suoi vari aspetti ed escludendo in anticipo la sua riduzione a uno degli aspetti “parziali”, come fanno coloro che parlano esclusivamente di controllo delle nascite. Fin dall’inizio, infatti, Paolo VI è guidato nella sua argomentazione da una concezione integrale dell’uomo (cf. Ibid., 7) e dell’amore coniugale (cf. Ibid., 8. 9).
5. Si può parlare di responsabilità nell’esercizio della funzione paterna e materna sotto diversi aspetti. Così, egli scrive, “in rapporto ai processi biologici, paternità responsabile significa conoscenza e rispetto delle loro funzioni: l’intelligenza scopre, nel potere di dare la vita, leggi biologiche che fanno parte della persona umana” (Pauli VI, Humanae Vitae, 10). Quando poi si tratta della dimensione psicologica delle “tendenze dell’istinto e delle passioni, la paternità responsabile significa il necessario dominio che la ragione e la volontà devono esercitare su di esse” (Ibid., 10).
Supposti i suddetti aspetti intra-personali e aggiungendo ad essi “le condizioni economiche e sociali”, occorre riconoscere che “la paternità responsabile si esercita, sia con la deliberazione ponderata e generosa di far crescere una famiglia numerosa, sia con la decisione, presa per gravi motivi e nel rispetto della legge morale, di evitare temporaneamente e anche a tempo indeterminato, una nuova nascita” (Pauli VI, Humanae Vitae, 10).
Ne consegue che nella concezione della “paternità responsabile” è contenuta la disposizione non soltanto ad evitare “una nuova nascita” ma anche a far crescere la famiglia secondo i criteri della prudenza. In questa luce, in cui bisogna esaminare e decidere la questione della “paternità responsabile”, resta sempre centrale “l’ordine morale oggettivo, stabilito da Dio, e di cui la retta coscienza è fedele interprete” (Ibid., 10).
6. I coniugi adempiono in questo ambito “i propri doveri verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso la società, in una giusta gerarchia dei valori” (Pauli VI, Humanae Vitae, 10). Non si può dunque parlare qui di “procedere a proprio arbitrio”. Al contrario, i coniugi devono “conformare il loro agire all intenzione creatrice di Dio” (Ibid., 10).
A partire da questo principio l’enciclica fonda la sua argomentazione sull’“intima struttura dell’atto coniugale” e sulla “connessione inscindibile dei due significati dell’atto coniugale” (cf. Ibid., 12); il che è stato già in precedenza riferito. Il relativo principio della morale coniugale risulta essere, pertanto, la fedeltà al piano divino, manifestato nell’“intima struttura dell’atto coniugale” e nella “connessione inscindibile dei due significati dell’atto coniugale”.

Mercoledì, 8 agosto 1984
1. Abbiamo detto precedentemente che il principio della morale coniugale, insegnato dalla Chiesa (Concilio Vaticano II, Paolo VI), è il criterio della fedeltà al piano divino.
In conformità con questo principio l’enciclica Humanae Vitae distingue rigorosamente tra quello che costituisce il modo moralmente illecito della regolazione delle nascite o, con più precisione, della regolazione della fertilità e quello moralmente retto.
In primo luogo, è moralmente illecita “l’interruzione diretta del processo generativo già iniziato” (“aborto”) (Ibid., 14), la “sterilizzazione diretta” e “ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle conseguenze naturali si proponga, come scopo o come mezzo, di rendere impossibile la procreazione” (Ibid., 14), quindi, tutti i mezzi contraccettivi. È invece moralmente lecito “il ricorso ai periodi infecondi” (Ibid., 16): “Se dunque per distanziare le nascite esistono seri motivi, derivanti o dalle condizioni fisiche o psicologiche dei coniugi, o da circostanze esteriori, la Chiesa insegna essere allora lecito tener conto dei ritmi naturali immanenti alle funzioni generative per l’uso del matrimonio nei soli periodi infecondi e così regolare la natalità senza offendere i principi morali . . .” (Ibid., 16).
2. L’enciclica sottolinea in modo particolare che “tra i due casi esiste una differenza essenziale” e cioè una differenza di natura etica: “Nel primo caso, i coniugi usufruiscono legittimamente di una disposizione naturale; nell’altro caso, essi impediscono lo svolgimento dei processi naturali” (Pauli VI, Humanae Vitae, 16).
Ne derivano due azioni con qualificazione etica diversa, anzi, addirittura opposta: la regolazione naturale della fertilità è moralmente retta, la contraccezione non è moralmente retta. Questa differenza essenziale tra le due azioni (modi di agire) concerne la loro intrinseca qualificazione etica, sebbene il mio predecessore Paolo VI affermi che “nell’uno e nell’altro caso, i coniugi concordano nella volontà positiva di evitare la prole per ragioni plausibili”, e persino scriva: “cercando la sicurezza che non verrà” (Ibid., 16). In queste parole il documento ammette che, sebbene anche coloro che fanno uso delle pratiche anticoncezionali possano essere ispirati da “ragioni plausibili”, tuttavia ciò non cambia la qualificazione morale che si fonda sulla struttura stessa dell’atto coniugale come tale.
3. Si potrebbe osservare, a questo punto, che i coniugi, i quali ricorrono alla regolazione naturale della fertilità, potrebbero essere privi delle ragioni valide, di cui si è parlato in precedenza: ciò costituisce, però, un problema etico a parte, quando si tratti del senso morale della “paternità e maternità responsabili”.
Supponendo che le ragioni per decidere di non procreare siano moralmente rette, resta il problema morale del modo di agire in tale caso, e questo si esprime in un atto che - secondo la dottrina della Chiesa trasmessa nell’enciclica - possiede una sua intrinseca qualificazione morale positiva o negativa. La prima, positiva, corrisponde alla “naturale” regolazione della fertilità; la seconda, negativa, corrisponde alla “contraccezione artificiale”.
4. Tutta la precedente argomentazione si riassume nell’esposizione della dottrina contenuta nella Humanae Vitae, rilevandone il carattere normativo e insieme pastorale. Nella dimensione normativa si tratta di precisare e chiarire i principi morali dell’agire; nella dimensione pastorale si tratta soprattutto di illustrare la possibilità di agire secondo questi principi (“possibilità dell’osservanza della legge divina”: Humanae Vitae, 20).
Dobbiamo soffermarci sull’interpretazione del contenuto dell’enciclica. A tal fine occorre vedere quel contenuto, quell’insieme normativa-pastorale alla luce della teologia del corpo, quale emerge dall’analisi dei testi biblici.
5. La teologia del corpo non è tanto una teoria, quanto piuttosto una specifica, evangelica, cristiana pedagogia del corpo. Ciò deriva dal carattere della Bibbia, e soprattutto dal Vangelo che, come messaggio salvifico, rivela ciò che è il vero bene dell’uomo, al fine di modellare - a misura di questo bene - la vita sulla terra nella prospettiva della speranza del mondo futuro.
L’enciclica Humanae Vitae, seguendo questa linea, risponde al quesito sul vero bene dell’uomo come persona, in quanto maschio e femmina; su ciò che corrisponde alla dignità dell’uomo e della donna, quando si tratta dell’importante problema della trasmissione della vita nella convivenza coniugale.
A questo problema dedicheremo ulteriori riflessioni.

Mercoledì, 22 agosto 1984
1. Qual è l’essenza della dottrina della Chiesa circa la trasmissione della vita nella comunità coniugale, di quella dottrina che ci è stata ricordata dalla costituzione pastorale del Concilio Gaudium et Spes e dall’enciclica Humanae Vitae di papa Paolo VI?
Il problema sta nel mantenere l’adeguato rapporto tra ciò che viene definito “dominio . . . delle forze della natura” (Pauli VI, Humanae Vitae, 2) e la “padronanza di sé” (Ibid., 21) indispensabile alla persona umana. L’uomo contemporaneo manifesta la tendenza a trasferire i metodi propri del primo ambito a quelli del secondo. “L’uomo ha compiuto progressi stupendi nel dominio e nell’organizzazione razionale delle forze della natura - leggiamo nell’enciclica - talché tende ad estendere questo dominio al suo stesso essere globale: al corpo, alla vita psichica, alla vita sociale, e perfino alle leggi che regolano la trasmissione della vita” (Ibid., 2).
Tale estensione della sfera dei mezzi di “dominio . . . delle forze della natura”, minaccia la persona umana, per la quale il metodo della “padronanza di sé” è e rimane specifico. Essa - la padronanza di sé - infatti corrisponde alla costituzione fondamentale della persona: è appunto un metodo “naturale”. Invece la trasposizione dei “mezzi artificiali” infrange la dimensione costitutiva della persona, priva l’uomo della soggettività che gli è propria e fa di lui un oggetto di manipolazione.
2. Il corpo umano non è soltanto il campo di reazioni di carattere sessuale, ma è, al tempo stesso, il mezzo di espressione dell’uomo integrale, della persona, che rivela se stessa attraverso il “linguaggio del corpo”. Questo “linguaggio” ha un importante significato interpersonale, specialmente quando si tratta dei rapporti reciproci tra l’uomo e la donna. Per di più, le nostre analisi precedenti mostrano che in questo caso il “linguaggio del corpo” deve esprimere, a un determinato livello, la verità del sacramento. Partecipando all’eterno piano d’amore “Sacramentum absconditum in Deo” il “linguaggio del corpo” diventa infatti quasi un “profetismo del corpo”.
Si può dire che l’enciclica Humanae Vitae porta alle estreme conseguenze, non soltanto logiche e morali, ma anche pratiche e pastorali, questa verità sul corpo umano nella sua mascolinità e femminilità.
3. L’unità dei due aspetti del problema - della dimensione sacramentale (ossia teologica) e di quella personalistica - corrisponde alla globale “rivelazione del corpo”. Da qui deriva anche la connessione della visione strettamente teologica con quella etica, che si richiama alla “legge naturale”.
Il soggetto della legge naturale è infatti l’uomo non soltanto nell’aspetto “naturale” della sua esistenza, ma anche nella verità integrale della sua soggettività personale. Egli ci si manifesta, nella rivelazione, come maschio e femmina, nella sua piena vocazione temporale ed escatologica. Egli è chiamato da Dio ad essere testimone e interprete dell’eterno disegno dell’amore, divenendo ministro del sacramento, che “da principio” è costituito nel segno dell’“unione della carne”.
4. Come ministri di un sacramento che si costituisce attraverso il consenso e si perfeziona attraverso l’unione coniugale, l’uomo e la donna sono chiamati ad esprimere quel misterioso “linguaggio” dei loro corpi in tutta la verità che gli è propria. Per mezzo dei gesti e delle reazioni, per mezzo di tutto il dinamismo, reciprocamente condizionato, della tensione e del godimento - la cui diretta sorgente è il corpo nella sua mascolinità e femminilità, il corpo nella sua azione e interazione - attraverso tutto questo “parla” l’uomo, la persona.
L’uomo e la donna svolgono nel “linguaggio del corpo” quel dialogo che - secondo la Genesi (Gen 2, 24-25) - ebbe inizio nel giorno della creazione. È appunto a livello di questo “linguaggio del corpo” - che è qualcosa di più della sola reattività sessuale e che, come autentico linguaggio delle persone, è sottoposto alle esigenze della verità, cioè a norme morali obiettive - l’uomo e la donna esprimono reciprocamente se stessi nel modo più pieno e più profondo, in quanto è loro consentito dalla stessa dimensione somatica . . . mascolinità e femminilità: l’uomo e la donna esprimono se stessi nella misura di tutta la verità della loro persona.
5. L’uomo è appunto persona perché è padrone di sé e domina se stesso. In quanto infatti è padrone di se stesso può “donarsi” all’altro. Ed è questa dimensione della libertà del dono - che diventa essenziale e decisiva per quel “linguaggio del corpo”, in cui l’uomo e la donna si esprimono reciprocamente nell’unione coniugale. Dato che questa è comunione di persone, il “linguaggio del corpo” deve essere giudicato secondo il criterio della verità. Proprio tale criterio richiama l’enciclica Humanae Vitae, come è confermato dai passi citati in precedenza.
6. Secondo il criterio di questa verità, che deve esprimersi nel “linguaggio del corpo”, l’atto coniugale “significa” non soltanto l’amore, ma anche la potenziale fecondità, e perciò non può essere privato del suo pieno e adeguato significato mediante interventi artificiali. Nell’atto coniugale non è lecito separare artificialmente il significato unitivo dal significato procreativo, perché l’uno e l’altro appartengono alla verità intima dell’atto coniugale: l’uno si attua insieme all’altro e in certo senso l’uno attraverso l’altro. Così insegna l’enciclica (cf. Humanae Vitae, 12). Quindi in tal caso l’atto coniugale privo della sua verità interiore, perché privato artificialmente della sua capacità procreativa, cessa anche di essere atto di amore.
7. Si può dire che nel caso di un’artificiale separazione di questi due significati, nell’atto coniugale si compie una reale unione corporea, ma essa non corrisponde alla verità interiore e alla dignità della comunione personale: “communio personarum”. Tale comunione esige infatti che il “linguaggio del corpo” sia espresso reciprocamente nell’integrale verità del suo significato. Se manca questa verità, non si può parlare ne della verità del reciproco dono e della reciproca accettazione di sé da parte della persona. Tale violazione dell’ordine interiore della comunione coniugale, che affonda le sue radici nell’ordine stesso della persona, costituisce il male essenziale dell’atto contraccettivo.
8. La suddetta interpretazione della dottrina morale, esposta nell’enciclica Humanae Vitae, si situa sul vasto sfondo delle riflessioni connesse con la teologia del corpo. Specialmente valide per questa interpretazione sono le riflessioni sul “segno” in connessione col matrimonio, inteso come sacramento. E l’assenza della violazione che turba l’ordine interiore dell’atto coniugale non può essere intesa in modo teologicamente adeguato, senza le riflessioni sul tema della “concupiscenza della carne”.

Mercoledì, 29 agosto 1984
1. L’enciclica Humanae Vitae, dimostrando, il male morale della contraccezione, al tempo stesso approva pienamente la regolazione naturale della fertilità e, in questo senso, approva la paternità e maternità responsabili. Bisogna qui escludere che possa qualificarsi “responsabile” dal punto di vista etico quella procreazione nella quale si ricorre alla contraccezione per attuare la regolazione della fertilità. Il vero concetto di “paternità e maternità responsabili” è invece connesso con la regolazione della fertilità onesta dal punto di vista etico.
2. Leggiamo a proposito: “Un’onesta pratica di regolazione della natalità richiede anzitutto dagli sposi che acquistino e posseggano solide convinzioni circa i veri valori della vita e della famiglia, e che tendano ad acquistare una perfetta padronanza di sé. Il dominio dell’istinto, mediante la ragione e la libera volontà, impone indubbiamente un’ascesi, affinché le manifestazioni affettive della vita coniugale siano secondo il retto ordine e in particolare per l’osservanza della continenza periodica. Ma questa disciplina, propria della purezza degli sposi, ben lungi dal nuocere all’amore coniugale, gli conferisce invece un più alto valore umano. Esige un continuo sforzo, ma grazie al suo benefico influsso i coniugi sviluppano integralmente la loro personalità arricchendosi di valori spirituali . . . (Pauli VI, Humanae Vitae, 21).
3. L’enciclica illustra poi le conseguenze di tale comportamento non soltanto per gli stessi coniugi, ma anche per tutta la famiglia, intesa come comunità di persone. Occorrerà riprendere in considerazione questo argomento. Essa sottolinea che la regolazione eticamente onesta della fertilità esige dai coniugi anzitutto un determinato comportamento familiare e procreativo: esige cioè “che acquistino e posseggano solide convinzioni circa i valori della vita e della famiglia” (Humanae Vitae, 21). Partendo da questa premessa, è stato necessario procedere a una considerazione globale della questione, come fece il Sinodo dei Vescovi del 1980 (De muneribus familiae christianae). In seguito, la dottrina relativa a questo particolare problema della morale coniugale e familiare, di cui tratta l’enciclica Humanae Vitae, ha trovato il giusto posto e l’ottica opportuna nel complessivo contesto dell’esortazione apostolica Familiaris Consortio. La teologia del corpo, particolarmente come pedagogia del corpo, affonda le radici, in certo senso, nella teologia della famiglia e, ad un tempo, ad essa conduce. Tale pedagogia del corpo, la cui chiave oggi è l’enciclica Humanae Vitae, si spiega soltanto nel pieno contesto di una corretta visione dei valori della vita e della famiglia.
4. Nel testo sopra citato papa Paolo VI si richiama alla castità coniugale, scrivendo che l’osservanza della continenza periodica è la forma di padronanza di sé, in cui si manifesta “la purezza degli sposi” (Pauli VI, Humanae Vitae, 21).
Nell’intraprendere ora un’analisi più approfondita di questo problema, occorre tener presente tutta la dottrina sulla purezza intesa come vita dello Spirito (cf. Gal 5, 25), considerata da noi già in precedenza, per comprendere così le rispettive indicazioni dell’enciclica sul tema della “continenza periodica”. Quella dottrina resta infatti la vera ragione, a partire dalla quale l’insegnamento di Paolo VI definisce la regolazione della natalità e la paternità e maternità responsabili come eticamente oneste.
Sebbene la “periodicità” della continenza venga in questo caso applicata ai cosiddetti “ritmi naturali” (Humanae Vitae, 16), tuttavia la continenza stessa è un determinato e permanente atteggiamento morale, è virtù, e perciò tutto il modo di comportarsi, da essa guidato, acquista carattere virtuoso. L’enciclica sottolinea abbastanza chiaramente che qui non si tratta solo di una determinata “tecnica”, ma dell’etica nel senso stretto del termine come moralità di un comportamento.
Pertanto, opportunamente l’enciclica pone in rilievo, da un lato, la necessità di rispettare nel suddetto comportamento l’ordine stabilito dal Creatore, e, dall’altro, la necessità dell’immediata motivazione di carattere etico.
5. Riguardo al primo aspetto leggiamo: “Usufruire . . . del dono dell’amore coniugale rispettando le leggi del processo generativo significa riconoscersi non arbitri delle sorgenti della vita umana, ma piuttosto ministri del disegno stabilito dal Creatore” (Humanae Vitae, 13). “La vita umana è sacra” - come ha ricordato il nostro predecessore Giovanni XXIII - fin dal suo affiorare impegna direttamente l’azione creatrice di Dio” (Mater et magistra; cf. Humanae Vitae, 13). Quanto all’immediata motivazione, l’enciclica Humanae Vitae richiede che “per distanziare le nascite esistano seri motivi, derivanti o dalle condizioni fisiche o psicologiche dei coniugi, o da circostanze esteriori . . .” (Humanae Vitae, 16).
6. Nel caso di una regolazione moralmente retta della fertilità che si attua mediante la continenza periodica, si tratta chiaramente di praticare la castità coniugale, cioè di un determinato atteggiamento etico. Nel linguaggio biblico, diremo che si tratta di vivere dello Spirito (cf. Gal 5, 25).
La regolazione moralmente retta viene anche denominata “regolazione naturale della fertilità”, il che può essere spiegato quale conformità alla “legge naturale”. Per “legge naturale” intendiamo qui l’“ordine della natura” nel campo della procreazione, in quanto esso è compreso dalla retta ragione: tale ordine è l’espressione del piano del Creatore sull’uomo. Ed è proprio questo che l’enciclica, insieme con tutta la tradizione della dottrina e della pratica cristiana, sottolinea in modo particolare: il carattere virtuoso dell’atteggiamento, che si esprime nella “naturale” regolazione della fertilità, è determinato non tanto dalla fedeltà a un’impersonale “legge naturale” quanto al Creatore-persona, sorgente e Signore dell’ordine che si manifesta in tale legge.
Da questo punto di vista, la riduzione alla sola regolarità biologica, staccata dall’“ordine della natura” cioè dal “piano del Creatore” deforma l’autentico pensiero dell’enciclica Humanae Vitae (cf. Humanae Vitae, 14).
Il documento prosegue certamente quella regolarità biologica, anzi, esorta le persone competenti a studiarla e ad applicarla in modo ancor più approfondito, ma intende sempre tale regolarità come l’espressione dell’“ordine della natura” cioè del provvidenziale piano del Creatore, nella cui fedele esecuzione consiste il vero bene della persona umana.

Mercoledì, 5 settembre 1984
1. Abbiamo precedentemente parlato dell’onesta regolazione della fertilità, secondo la dottrina contenuta nell’enciclica Humanae Vitae (Pauli VI, Humane Vitae, n. 19), e nell’esortazione Familiaris Consortio. La qualifica di “naturale”, che si attribuisce alla regolazione moralmente retta della fertilità (seguendo i ritmi naturali, cf. Humanae Vitae, 16), si spiega con il fatto che il relativo modo di comportarsi corrisponde alla verità della persona e quindi alla sua dignità: una dignità che “per natura” spetta all’uomo quale essere ragionevole e libero. L’uomo, come essere ragionevole e libero, può e deve rileggere con perspicacia quel ritmo biologico che appartiene all’ordine naturale. Può e deve conformarsi ad esso, al fine di esercitare quella “paternità-maternità responsabile”, che, secondo il disegno del Creatore, è iscritta nell’ordine naturale della fecondità umana. Il concetto di regolazione moralmente retta della fertilità non è altro che la rilettura del “linguaggio del corpo” nella verità. Gli stessi “ritmi naturali immanenti alle funzioni generative” appartengono alla verità oggettiva di quel linguaggio, che le persone interessate dovrebbero rileggere nel suo pieno contenuto oggettivo. Bisogna aver presente che il “corpo parla” non soltanto con tutta l’eterna espressione della mascolinità e della femminilità, ma anche con le strutture interne dell’organismo, della reattività somatica e psicosomatica. Tutto ciò che deve trovare il posto che gli spetta in quel linguaggio, con cui dialogano i coniugi, come persone chiamate alla comunione nell’“unione del corpo”.
2. Tutti gli sforzi che tendono alla conoscenza sempre più precisa di quei “ritmi naturali”, che si manifestano in rapporto alla procreazione umana, tutti gli sforzi poi dei consultori familiari e infine degli stessi coniugi interessati, non mirano a “biologizzare” il linguaggio del corpo (a “biologizzare l’etica”, come erroneamente ritengono alcuni), ma esclusivamente ad assicurare l’integrale verità a quel “linguaggio del corpo”, con cui i coniugi debbono esprimersi in modo maturo di fronte alle esigenze della paternità e maternità responsabili.
L’enciclica Humanae Vitae sottolinea a più riprese che la “paternità responsabile” è connessa a un continuo sforzo e impegno, e che essa viene attuata a prezzo di una precisa ascesi (cf. Pauli VI, Humanae Vitae, 21). Tutte queste e altre simili espressioni mostrano che nel caso della “paternità responsabile” ossia della regolazione della fertilità moralmente retta, si tratta di ciò che è il vero bene delle persone umane e di ciò che corrisponde alla vera dignità della persona.
3. L’usufruire dei “periodi infecondi” nella convivenza coniugale può diventare sorgente di abusi, se i coniugi cercano in tal modo di eludere senza giuste ragioni la procreazione, abbassandola sotto il livello moralmente giusto delle nascite nella loro famiglia. Occorre che questo giusto livello sia stabilito tenendo conto non soltanto del bene della propria famiglia, come pure dello stato di salute e delle possibilità degli stessi coniugi, ma anche del bene della società a cui appartengono, della Chiesa, e perfino dell’umanità intera.
L’enciclica Humanae Vitae presenta la “paternità responsabile” come espressione di un alto valore etico. In nessun modo essa è unilateralmente diretta alla limitazione e ancor meno all’esclusione della prole; essa significa anche la disponibilità ad accogliere una prole più numerosa. Soprattutto, secondo l’enciclica Humanae Vitae, la “paternità responsabile” attua “un più profondo rapporto all’ordine morale chiamato oggettivo, stabilito da Dio e di cui la retta coscienza è fedele interprete” (Pauli VI, Humanae Vitae, 10).
4. La verità della paternità e maternità responsabile, e la sua messa in atto, è unita alla maturità morale della persona, ed è qui che molto spesso si rivela la divergenza tra ciò a cui l’enciclica attribuisce esplicitamente il primato e ciò a cui questo viene attribuito nella mentalità comune.
Nell’enciclica viene messa in primo piano la dimensione etica del problema, sottolineando il ruolo della virtù della temperanza, rettamente intesa. Nell’ambito di questa dimensione c’è anche un adeguato “metodo” secondo cui agire. Nel comune modo di pensare capita spesso che il “metodo”, staccato dalla dimensione etica che gli è proprio, viene messo in atto in modo meramente funzionale, e perfino utilitario. Separando il “metodo naturale” dalla dimensione etica, si cessa di percepire la differenza che intercorre tra esso e gli altri “metodi” (mezzi artificiali) e si arriva a parlarne come se si trattasse soltanto di una diversa forma di contraccezione.
5. Dal punto di vista dell’autentica dottrina, espressa dall’enciclica Humanae Vitae è dunque importante una corretta presentazione del metodo stesso, di cui fa cenno il medesimo documento (cf. Pauli VI, Humanae Vitae, 16); soprattutto è importante l’approfondimento della dimensione etica, nel cui ambito il metodo, come “naturale”, acquista il significato di metodo onesto, “moralmente retto”. E perciò, nel quadro della presente analisi, ci converrà volgere principalmente l’attenzione a ciò che l’enciclica asserisce sul tema della padronanza di sé e sulla continenza. Senza un’interpretazione penetrante di quel tema non giungeremo né al nucleo della verità morale, né al nucleo della verità antropologica del problema. Già prima è stato rilevato che le radici di questo problema affondano nella teologia del corpo: è questa (quando diviene, come deve, pedagogia del corpo) che costituisce in realtà il “metodo” moralmente onesto della regolazione della natalità, inteso nel suo senso più profondo e più pieno.
6. Caratterizzando in seguito i valori specificamente morali della regolazione della natalità “naturale” (cioè onesta, ossia moralmente retta), l’autore della Humanae Vitae così si esprime: “Questa disciplina . . . apporta alla vita familiare frutti di serenità e di pace e agevola la soluzione di altri problemi; favorisce l’attenzione verso l’altro coniuge, aiuta gli sposi a bandire l’egoismo, nemico del vero amore, e approfondisce il loro senso di responsabilità. I genitori acquistano con essa la capacità di un influsso più profondo ed efficace per l’educazione dei figli; la fanciullezza e la gioventù crescono nella giusta stima dei valori umani e nello sviluppo sereno e armonioso delle loro facoltà spirituali e sensibili” (Pauli VI, Humanae Vitae, 21).
7. Le frasi citate completano il quadro di ciò che l’enciclica Humanae Vitae (Pauli VI, Humane Vitae, n. 21) intende per “onesta pratica di regolazione della natalità”. Questa è, come si vede, non soltanto un “modo di comportarsi” in un determinato campo, ma un atteggiamento che si fonda sull’integrale maturità morale delle persone e insieme la completa.

Mercoledì, 3 ottobre 1984
1. Riferendoci alla dottrina contenuta nell’enciclica Humanae Vitae, cercheremo di delineare ulteriormente la vita spirituale dei coniugi.
Eccone le grandi parole: “La Chiesa, mentre insegna le esigenze inviolabili della legge divina, annunzia la salvezza e apre con i sacramenti le vie della grazia, la quale fa dell’uomo una nuova creatura, capace di corrispondere nell’amore e nella vera libertà al disegno supremo del suo Creatore e Salvatore e di trovare dolce il giogo di Cristo.
Gli sposi cristiani, dunque, docili alla sua voce, ricordino che la loro vocazione cristiana iniziata col Battesimo si è ulteriormente specificata e rafforzata col sacramento del matrimonio. Per esso i coniugi sono corroborati e quasi consacrati per l’adempimento fedele dei propri doveri, per l’attuazione della propria vocazione fino alla perfezione e per una testimonianza cristiana loro propria di fronte al mondo. Ad essi il Signore affida il compito di rendere visibile agli uomini la santità e la soavità della legge che unisce l’amore vicendevole degli sposi con la loro cooperazione all’amore di Dio autore della vita umana” (Pauli VI, Humanae Vitae, 25).
2. Mostrando il male morale dell’atto contraccettivo, e delineando al tempo stesso un quadro possibilmente integrale della pratica “onesta” della regolazione della fertilità, ossia della paternità e maternità responsabili, l’enciclica Humanae Vitae crea le premesse che consentono di tracciare le grandi linee della spiritualità cristiana della vocazione e della vita coniugale, e, parimente, di quella dei genitori e della famiglia.
Si può anzi dire che l’enciclica presuppone l’intera tradizione di questa spiritualità, la quale affonda le radici nelle sorgenti bibliche, già in precedenza analizzate, offrendo l’occasione di riflettere nuovamente su di esse e di costruire un’adeguata sintesi.
Conviene ricordare qui ciò ch’è stato detto sul rapporto organico tra la teologia del corpo e la pedagogia del corpo. Tale “teologia-pedagogia”, infatti, costituisce già di per se stessa il nucleo essenziale della spiritualità coniugale. E ciò è indicato anche dalle frasi sopraccitate dell’enciclica.
3. Certamente rileggerebbe ed interpreterebbe in modo erroneo l’enciclica Humanae vitae colui che vedesse in essa soltanto la riduzione della “paternità e maternità responsabile” ai soli “ritmi biologici di fecondità”. L’autore dell’enciclica energicamente disapprova e contraddice ogni forma di interpretazione riduttiva (e in tal senso “parziale”), e ripropone con insistenza l’intendimento integrale. La paternità-maternità responsabile, intesa integralmente, non è altro che un’importante componente di tutta la spiritualità coniugale e familiare, di quella vocazione cioè di cui parla il testo citato della Humanae Vitae, quando afferma che i coniugi debbono attuare la “propria vocazione fino alla perfezione” (Pauli VI, Humanae Vitae, 25). È il sacramento del matrimonio che li corrobora e quasi consacra a raggiungerla (cf. Humanae Vitae, 25).
Alla luce della dottrina, espressa nell’enciclica, conviene renderci maggiormente conto di quella “forza corroborante” che è unita alla “consacrazione sui generis” del sacramento del matrimonio.
Poiché l’analisi della problematica etica del documento di Paolo VI era centrata soprattutto sulla giustezza della rispettiva norma, l’abbozzo della spiritualità coniugale, che vi si trova, intende porre in rilievo proprio queste “forze” che rendono possibile l’autentica testimonianza cristiana della vita coniugale.
4. “Non intendiamo affatto nascondere le difficoltà talvolta gravi inerenti alla vita dei coniugi cristiani: per essi, come per ognuno, "è stretta la porta e angusta la via che conduce alla vita" (cf. Mt 7, 14). Ma la speranza di questa vita deve illuminare il loro cammino, mentre coraggiosamente si sforzano di vivere con saggezza, giustizia e pietà nel tempo presente, sapendo che la figura di questo mondo passa” (Humanae Vitae, 25).
Nell’enciclica, la visione della vita coniugale è, ad ogni passo, contrassegnata da realismo cristiano, ed è proprio questo che giova maggiormente a raggiungere quelle “forze” che consentono di formare la spiritualità dei coniugi e dei genitori nello spirito di un’autentica pedagogia del cuore e del corpo.
La stessa coscienza “della vita futura” apre, per così dire, un ampio orizzonte ai quelle forze che debbono guidarli per la via angusta (cf. Humanae Vitae, 25) e condurli per la porta stretta della vocazione evangelica.
L’enciclica dice: “Affrontino quindi gli sposi i necessari sforzi, sorretti dalla fede e dalla speranza che "non delude, perché l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori con lo Spirito Santo, che ci è stato dato"” (Pauli VI, Humanae Vitae, 25).
5. Ecco la “forza” essenziale e fondamentale: l’amore innestato nel cuore (“effuso nei cuori”) dallo Spirito Santo. In seguito l’enciclica indica come i coniugi debbano implorare tale “forza” essenziale e ogni altro “aiuto divino” con la preghiera; come debbano attingere la grazia e l’amore alla sorgente sempre viva dell’Eucaristia; come debbano superare “con umile perseveranza” le proprie mancanze e i propri peccati nel sacramento della Penitenza.
Questi sono i mezzi - infallibili e indispensabili - per formare la spiritualità cristiana della vita coniugale e familiare. Con essi quella essenziale e spiritualmente creativa “forza” d’amore giunge ai cuori umani e, nello stesso tempo, ai corpi umani nella loro soggettiva mascolinità e femminilità. Questo amore, infatti, consente di costruire tutta la convivenza dei coniugi secondo quella “verità del segno”, per mezzo della quale viene costruito il matrimonio nella sua dignità sacramentale, come rivela il punto centrale dell’enciclica (cf. Humanae Vitae, 12).

Mercoledì, 10 ottobre 1984
1. Continuiamo a delineare la spiritualità coniugale nella luce dell’enciclica Humanae Vitae.
Secondo la dottrina in essa contenuta, conformemente alle fonti bibliche e a tutta la tradizione, l’amore è - dal punto di vista soggettivo - “forza”, cioè capacità dello spirito umano, di carattere “teologico” (o piuttosto “teologale”). Questa è dunque la forza data all’uomo per partecipare a quell’amore con cui Dio stesso ama nel mistero della creazione e della redenzione. È quell’amore che “si compiace della verità” (1 Cor 13, 6), nel quale cioè si esprime la gioia spirituale (il “frui” agostiniano) di ogni autentico valore: gaudio simile al gaudio dello stesso Creatore, il quale al principio vide che “era cosa molto buona” (Gen 1, 31).
Se le forze della concupiscenza tentano di staccare il “linguaggio del corpo” dalla verità, tentano cioè di falsificarlo, la forza dell’amore invece lo corrobora sempre di nuovo in quella verità, affinché il mistero della redenzione del corpo possa fruttificare in essa.
2. Lo stesso amore, che rende possibile e fa sì che il dialogo coniugale si attui secondo la verità piena della vita degli sposi, è a un tempo forza ossia capacità di carattere morale, orientata attivamente verso la pienezza del bene e per ciò stesso verso ogni vero bene. E perciò il suo compito consiste nel salvaguardare l’unità inscindibile dei “due significati dell’atto coniugale”, di cui tratta l’enciclica (Pauli VI, Humanae Vitae, 12), vale a dire nel proteggere sia il valore della vera unione dei coniugi (cioè della comunione personale) sia quello della paternità e maternità responsabili (nella loro forma matura e degna dell’uomo).
3. Secondo il linguaggio tradizionale, l’amore, quale “forza” superiore, coordina le azioni delle persone, del marito e della moglie, nell’ambito dei fini del matrimonio. Sebbene né la costituzione conciliare né l’enciclica, nell’affrontare l’argomento, usino il linguaggio un tempo consueto, essi trattano, tuttavia, di ciò a cui si riferiscono le espressioni tradizionali.
L’amore, come forza superiore che l’uomo e la donna ricevono da Dio insieme alla particolare “consacrazione” del sacramento del matrimonio, comporta una coordinazione corretta dei fini, secondo i quali - nell’insegnamento tradizionale della Chiesa - si costituisce l’ordine morale (o piuttosto “teologale e morale”) della vita dei coniugi.
La dottrina della costituzione Gaudium et Spes, come pure quella dell’enciclica Humanae Vitae, chiariscono lo stesso ordine morale nel riferimento all’amore, inteso come forza superiore che conferisce adeguato contenuto e valore agli atti coniugali secondo la verità dei due significati, quello unitivo e quello procreativo, nel rispetto della loro inscindibilità.
In questa rinnovata impostazione, il tradizionale insegnamento sui fini del matrimonio (e sulla loro gerarchia) viene confermato e insieme approfondito dal punto di vista della vita interiore dei coniugi, ossia della spiritualità coniugale e familiare.
4. Il compito dell’amore, che è “effuso nei cuori” (Rm 5, 5) degli sposi come la fondamentale forza spirituale del loro patto coniugale, consiste - come si è detto - nel proteggere sia il valore della vera comunione dei coniugi, sia quello della paternità-maternità veramente responsabile. La forza dell’amore - autentica nel senso teologico ed etico - si esprime in questo che l’amore unisce correttamente “i due significati dell’atto coniugale”, escludendo non solo nella teoria, ma soprattutto nella pratica, la “contraddizione” che potrebbe verificarsi in questo campo. Tale “contraddizione” è il più frequente motivo di obiezione all’enciclica Humanae Vitae e all’insegnamento della Chiesa. Occorre un’analisi ben approfondita, e non soltanto teologica ma anche antropologica (abbiamo cercato di farla in tutta la presente riflessione), per dimostrare che non bisogna qui parlare di contraddizione”, ma soltanto di “difficoltà”. Orbene, l’enciclica stessa sottolinea tale “difficoltà” in vari passi.
E questa deriva dal fatto che la forza dell’amore è innestata nell’uomo insidiato dalla concupiscenza: nei soggetti umani l’amore s’imbatte con la triplice concupiscenza (cf. 1 Gv 2, 16), in particolare con la concupiscenza della carne che deforma la verità del “linguaggio del corpo”. E perciò anche l’amore non è in grado di realizzarsi nella verità del “linguaggio del corpo”, se non mediante il dominio sulla concupiscenza.
5. Se l’elemento chiave della spiritualità dei coniugi e dei genitori - quella essenziale “forza” che i coniugi debbono di continuo attingere dalla “consacrazione” sacramentale - è l’amore, questo amore, come risulta dal testo dell’enciclica (cf. Pauli VI, Humanae Vitae, 20), è per sua natura congiunto con la castità che si manifesta come padronanza di sé, ossia come continenza: in particolare, come continenza periodica. Nel linguaggio biblico, sembra alludere a ciò l’autore della Lettera agli Efesini, quando nel suo “classico” testo esorta gli sposi a essere “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21).
Si può dire che l’enciclica Humanae Vitae costituisca appunto lo sviluppo di questa verità biblica sulla spiritualità cristiana coniugale e familiare. Tuttavia per renderlo ancor più manifesto occorre un’analisi più profonda della virtù della continenza e del suo particolare significato per la verità del mutuo “linguaggio del corpo” nella convivenza coniugale e (indirettamente) nell’ampia sfera dei reciproci rapporti tra l’uomo e la donna.
Intraprenderemo questa analisi durante le successive riflessioni del mercoledì.

Mercoledì, 24 ottobre 1984
1. In conformità a quanto preannunciato, intraprendiamo oggi l’analisi della virtù della continenza.
La “continenza”, che fa parte della virtù più generale della temperanza, consiste nella capacità di dominare, controllare e orientare le pulsioni di carattere sessuale (concupiscenza della carne) e le loro conseguenze, nella soggettività psico-somatica dell’uomo. Tale capacità, in quanto disposizione costante della volontà, merita di essere chiamata virtù.
Sappiamo dalle precedenti analisi che la concupiscenza della carne, e il relativo “desiderio” di carattere sessuale da essa suscitato, si esprime con una specifica pulsione nella sfera della reattività somatica e inoltre con un’eccitazione psico-emotiva dell’impulso sessuale.
Il soggetto personale per giungere a padroneggiare tale pulsione ed eccitazione deve impegnarsi in una progressiva educazione all’autocontrollo della volontà, dei sentimenti, delle emozioni, che deve svilupparsi a partire dai gesti più semplici, nei quali è relativamente facile tradurre in atto la decisione interiore. Ciò suppone, com’è ovvio, la chiara percezione dei valori espressi nella norma e la conseguente maturazione di salde convinzioni che, se accompagnate dalla rispettiva disposizione della volontà, danno origine alla corrispondente virtù. Tale è appunto la virtù della continenza (padronanza di sé), che si rivela fondamentale condizione sia perché il reciproco linguaggio del corpo rimanga nella verità, e sia perché i coniugi “siano sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo”, secondo le parole bibliche (Ef 5, 21). Questa “sottomissione reciproca” significa la comune sollecitudine per la verità del “linguaggio del corpo”, la sottomissione invece “nel timore di Cristo” indica il dono del timore di Dio (dono dello Spirito Santo) che accompagna la virtù della continenza.
2. Questo è molto importante per un’adeguata comprensione della virtù della continenza e, in particolare, della cosiddetta “continenza periodica”, di cui tratta l’enciclica Humanae Vitae. La convinzione che la virtù della continenza “si oppone” alla concupiscenza della carne è giusta, ma non è del tutto completa. Non è completa, specialmente quando teniamo conto del fatto che questa virtù non appare e non agisce astrattamente e quindi isolatamente, ma sempre in connessione con le altre (“nexus virtutum”), dunque in connessione con la prudenza, giustizia, fortezza e soprattutto con la carità.
Alla luce di queste considerazioni, è facile intendere che la continenza non si limita a opporre resistenza alla concupiscenza della carne, ma mediante questa resistenza si apre ugualmente a quei valori, più profondi e più maturi, che ineriscono al significato sponsale del corpo nella sua femminilità e mascolinità, come anche all’autentica libertà del dono nel reciproco rapporto delle persone. La concupiscenza stessa della carne, in quanto cerca anzitutto il godimento carnale e sensuale, rende l’uomo, in certo senso, cieco e insensibile ai valori più profondi che scaturiscono dall’amore e che nello stesso tempo costituiscono l’amore nella verità interiore che gli è propria.
3. In tal modo si manifesta anche il carattere essenziale della castità coniugale nel suo legame organico con la “forza” dell’amore, che è effuso nei cuori degli sposi insieme alla “consacrazione” del sacramento del matrimonio. Diviene inoltre evidente che l’invito diretto ai coniugi, affinché siano “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21), sembra aprire quello spazio interiore in cui entrambi divengono sempre più sensibili ai valori più profondi e più maturi, che sono connessi con il significato sponsale del corpo e con la vera libertà del dono.
Se la castità coniugale (e la castità in generale) si manifesta dapprima come capacità di resistere alla concupiscenza della carne, in seguito essa gradualmente si rivela quale singolare capacità di percepire, amare e attuare quei significati del “linguaggio del corpo”, che rimangono del tutto sconosciuti alla concupiscenza stessa e che progressivamente arricchiscono il dialogo sponsale dei coniugi, purificandolo, approfondendolo e insieme semplificandolo.
Perciò quell’ascesi della continenza, di cui parla l’enciclica (Pauli VI, Humanae Vitae, 21) non comporta l’impoverimento delle “manifestazioni affettive”, anzi le rende più intense spiritualmente, e quindi ne comporta l’arricchimento.
4. Analizzando in tal modo la continenza, nella dinamica propria di questa virtù (antropologica, etica e teologica), ci accorgiamo che sparisce quell’apparente “contraddizione” che viene spesso obiettata all’enciclica Humanae Vitae e alla dottrina della Chiesa sulla morale coniugale. Esisterebbe cioè “contraddizione” (secondo coloro che muovono questa obiezione) tra i due significati dell’atto coniugale, il significato unitivo e quello procreativo (cf. Humanae Vitae, 12), così che se non fosse lecito dissociarli i coniugi verrebbero privati del diritto all’unione coniugale, quando non potessero responsabilmente permettersi di procreare.
A questa apparente “contraddizione” dà risposta l’enciclica Humanae Vitae se studiata profondamente. Papa Paolo VI conferma, infatti, che non esiste tale “contraddizione”, ma soltanto una “difficoltà” collegata con tutta la situazione interiore dell’“uomo della concupiscenza”. Invece, precisamente in ragione di questa “difficoltà”, viene assegnato all’impegno interiore e ascetico dei coniugi il vero ordine della convivenza coniugale, in vista del quale essi vengono “corroborati e quasi consacrati” (Humanae Vitae, 25) dal sacramento del matrimonio.
5. Quell’ordine della convivenza coniugale significa inoltre l’armonia soggettiva tra la paternità (responsabile) e la comunione personale, armonia creata dalla castità coniugale. In essa, di fatto, maturano i frutti interiori della continenza. Attraverso questa maturazione interiore lo stesso atto coniugale acquista l’importanza e dignità che gli è propria nel suo significato potenzialmente procreativo; contemporaneamente acquistano un adeguato significato tutte le “manifestazioni affettive” (Humanae Vitae, 21), che servono a esprimere la comunione personale dei coniugi proporzionalmente alla ricchezza soggettiva della femminilità e mascolinità.
6. Conformemente all’esperienza e alla tradizione, l’enciclica rivela che l’atto coniugale è anche una “manifestazione di affetto” (Humanae Vitae, 16), ma una “manifestazione di affetto” particolare, perché, al tempo stesso ha un significato potenzialmente procreativo, Di conseguenza, esso è orientato ad esprimere l’unione personale, ma non soltanto quella. Contemporaneamente l’enciclica, sia pure in modo indiretto, indica molteplici “manifestazioni di affetto”, efficaci esclusivamente ad esprimere l’unione personale dei coniugi.
Il compito della castità coniugale, e ancor più precisamente quello della continenza, non sta solo nel proteggere l’importanza e la dignità dell’atto coniugale in rapporto al suo significato potenzialmente procreativo, ma anche nel tutelare l’importanza e la dignità proprie dell’atto coniugale in quanto espressivo dell’unione interpersonale, svelando alla coscienza e all’esperienza dei coniugi tutte le altre possibili “manifestazioni di affetto”, che esprimano tale loro comunione profonda.
Si tratta infatti di non recare danno alla comunione dei coniugi nel caso in cui per giuste ragioni essi debbano astenersi dall’atto coniugale. E, ancor più, che tale comunione, costruita di continuo, giorno per giorno, mediante conformi “manifestazioni affettive”, costituisca, per così dire, un vasto terreno su cui, nelle condizioni opportune, matura la decisione di un atto coniugale moralmente retto.

Mercoledì, 31 ottobre 1984
1. Procediamo nell’analisi della continenza, alla luce dell’insegnamento contenuto nell’enciclica Humanae Vitae. Si pensa spesso che la continenza provochi tensioni interiori, dalle quali l’uomo deve liberarsi. Alla luce delle analisi compiute, la continenza, integralmente intesa, è piuttosto l’unica via per liberare l’uomo da tali tensioni. Essa significa nient’altro che lo sforzo spirituale che mira ad esprimere il “linguaggio del corpo” non solo nella verità, ma anche nell’autentica ricchezza delle “manifestazioni di affetto”.
2. È possibile questo sforzo? Con altre parole (e sotto altro aspetto) ritorna qui l’interrogativo circa l’“attuabilità della norma morale”, ricordata e confermata dall’Humanae Vitae. Esso costituisce uno degli interrogativi più essenziali (ed attualmente anche uno dei più urgenti) nell’ambito della spiritualità coniugale.
La Chiesa è pienamente convinta della giustezza del principio che afferma la paternità e maternità responsabili - nel senso spiegato in precedenti catechesi - e questo non soltanto per motivi “demografici”, ma per ragioni più essenziali. Responsabile chiamiamo la paternità e maternità che corrispondono alla dignità personale dei coniugi come genitori, alla verità della loro persona e dell’atto coniugale. Di qui deriva lo stretto e diretto rapporto che collega questa dimensione con tutta la spiritualità coniugale.
Il papa Paolo VI, nella Humanae Vitae, ha espresso ciò che d’altronde avevano affermato molti autorevoli moralisti e scienziati anche non cattolici, e cioè precisamente che in questo campo, tanto profondamente ed essenzialmente umano e personale, occorre anzitutto far riferimento all’uomo come persona, al soggetto che decide di se stesso e non ai “mezzi” che lo fanno “oggetto” (di manipolazioni) e lo “depersonalizzano”. Si tratta dunque qui di un significato autenticamente “umanistico” dello sviluppo e del progresso della civiltà umana.
3. È possibile questo sforzo? Tutta la problematica dell’enciclica Humanae Vitae non si riduce semplicemente alla dimensione biologica della fertilità umana (alla questione dei “ritmi naturali di fecondità”), ma risale alla soggettività stessa dell’uomo, a quell’“io” personale, per cui egli è uomo o è donna.
Già durante la discussione nel Concilio Vaticano II, in relazione al capitolo della Gaudium et Spes sulla “Dignità del matrimonio e della famiglia e la sua valorizzazione” si parlava della necessità di un’analisi approfondita delle relazioni (e anche delle emozioni) collegate con la reciproca influenza della mascolinità e femminilità sul soggetto umano. Questo problema appartiene non tanto alla biologia quanto alla psicologia: dalla biologia e psicologia passa in seguito nella sfera della spiritualità coniugale e familiare. Qui, infatti, questo problema è in stretto rapporto con il metodo di intendere la virtù della continenza, ossia della padronanza di sé e, in particolare, della continenza periodica.
4. Un’attenta analisi della psicologia umana (che è ad un tempo una soggettiva autoanalisi e in seguito diviene analisi di un “oggetto” accessibile alla scienza umana), consente di giungere ad alcune affermazioni essenziali. Di fatto, nelle relazioni interpersonali in cui si esprime l’influsso reciproco della mascolinità e femminilità, si libera nel soggetto psico-emotivo nell’“io” umano, accanto a una reazione qualificabile come “eccitazione”, un’altra reazione che può e deve essere chiamata “emozione”. Benché questi due generi di reazioni appaiano congiunti, è possibile distinguerli sperimentalmente e “differenziarli” riguardo al contenuto ovvero al loro “oggetto”.
La differenza oggettiva tra l’uno e l’altro genere di reazioni consiste nel fatto che l’eccitazione è anzitutto “corporea” e in questo senso, “sessuale”; l’emozione invece - sebbene suscitata dalla reciproca reazione della mascolinità e femminilità - si riferisce soprattutto all’altra persona intesa nella sua “integralità”. Si può dire che questa è una “emozione causata dalla persona”, in rapporto alla sua mascolinità o femminilità.
5. Ciò che qui affermiamo relativamente alla psicologia delle reciproche reazioni della mascolinità e femminilità aiuta a comprendere la funzione della virtù della continenza, di cui si è parlato in precedenza. Questa non è soltanto - e neppure principalmente - la capacità di “astenersi”, cioè la padronanza delle molteplici reazioni che s’intrecciano nel reciproco influsso della mascolinità e femminilità: una tale funzione potrebbe essere definita come “negativa”. Ma esiste anche un’altra funzione (che possiamo chiamare “positiva”) della padronanza di sé: ed è la capacità di dirigere le rispettive reazioni, sia quanto al loro contenuto sia quanto al loro carattere.
È stato già detto che, nel campo delle reciproche reazioni della mascolinità e femminilità, l’“eccitazione” e l’“emozione” appaiono non soltanto come due distinte e differenti esperienze dell’“io” umano, ma molto spesso appaiono congiunte nell’ambito della stessa esperienza quali due diverse componenti di essa. Da varie circostanze di natura interiore ed esteriore dipende la reciproca proporzione in cui queste due componenti appaiono in una determinata esperienza. Alle volte prevale nettamente una delle componenti, altre volte piuttosto c’è equilibrio tra loro.
6. La continenza, quale capacità di dirigere l’“eccitazione” e l’“emozione” nella sfera dell’influsso reciproco della mascolinità e femminilità, ha il compito essenziale di mantenere l’equilibrio tra la comunione in cui i coniugi desiderano esprimere reciprocamente soltanto la loro unione intima e quella in cui (almeno implicitamente) accolgono la paternità responsabile. Difatti, l’“eccitazione” e l’“emozione” possono pregiudicare, da parte del soggetto, l’orientamento e il carattere del reciproco “linguaggio del corpo”.
L’eccitazione cerca anzitutto di esprimersi nella forma del piacere sensuale e corporeo, ossia tende all’atto coniugale che (dipendente dai “ritmi naturali di fecondità”) comporta la possibilità di procreazione. Invece l’emozione provocata da un altro essere umano come persona, anche se nel suo contenuto emotivo è condizionata dalla femminilità o mascolinità dell’“altro”, non tende di per sé all’atto coniugale, ma si limita ad altre “manifestazioni di affetto”, nelle quali si esprime il significato sponsale del corpo, e che tuttavia non racchiudono il suo significato (potenzialmente) procreativo.
È facile comprendere quali conseguenze derivano da ciò rispetto al problema della paternità e maternità responsabili. Queste conseguenze sono di natura morale.

Mercoledì, 7  novembre 1984
1. Proseguiamo l’analisi della virtù della continenza alla luce della dottrina contenuta nell’enciclica Humanae Vitae. Conviene ricordare che i grandi classici del pensiero etico (e antropologico), sia precristiani sia cristiani (Tommaso d’Aquino), vedono nella virtù della continenza non soltanto la capacità di “contenere” le reazioni corporali e sensuali, ma ancor più la capacità di controllare e guidare tutta la sfera sensuale ed emotiva dell’uomo. Nel caso in questione si tratta della capacità di dirigere sia la linea dell’eccitazione verso il suo corretto sviluppo, sia anche la linea dell’emozione stessa, orientandola verso l’approfondimento e l’intensificazione interiore del suo carattere “puro” e, in un certo senso, “disinteressato”.
2. Questa differenziazione tra la linea dell’eccitazione e la linea dell’emozione non è una contrapposizione. Essa non significa che l’atto coniugale, come effetto dell’eccitazione, non comporti nello stesso tempo la commozione dell’altra persona. Certamente è così, o comunque, non dovrebbe essere altrimenti.
Nell’atto coniugale, l’unione intima dovrebbe comportare una particolare intensificazione dell’emozione, anzi, la commozione dell’altra persona. Ciò è anche contenuto nella Lettera agli Efesini, sotto forma di esortazione, diretta ai coniugi: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21).
La distinzione tra “eccitazione” ed “emozione”, rilevata in questa analisi, comprova soltanto la soggettiva ricchezza reattivo-emotiva dell’“io” umano; questa ricchezza esclude qualunque riduzione unilaterale e fa sì che la virtù della continenza possa essere attuata come capacità di dirigere il manifestarsi sia dell’eccitazione sia dell’emozione, suscitate dalla reciproca reattività della mascolinità e della femminilità.
3. La virtù della continenza, così intesa, ha un ruolo essenziale per mantenere l’equilibrio interiore tra i due significati, l’unitivo e il procreativo, dell’atto coniugale (cf. Pauli VI, Humanae Vitae, 12), in vista di una paternità e maternità veramente responsabili.
L’enciclica Humanae Vitae dedica la dovuta attenzione all’aspetto biologico del problema, vale a dire, al carattere ritmico della fecondità umana. Sebbene tale periodicità possa essere chiamata, alla luce dell’enciclica, indice provvidenziale per una paternità e maternità responsabili, tuttavia non solo a questo livello si risolve un problema come questo, che ha un significato così profondamente personalistico e sacramentale (teologico).
L’enciclica insegna la paternità e maternità responsabili “come verifica di un maturo amore coniugale” e perciò contiene non soltanto la risposta al concreto interrogativo che si pone nell’ambito dell’etica della vita coniugale, ma, come è già stato detto, indica altresì un tracciato della spiritualità coniugale, che desideriamo almeno delineare.
4. Il corretto modo di intendere e praticare la continenza periodica quale virtù (ossia, secondo la Humanae Vitae, 21, la “padronanza di sé”) decide anche essenzialmente della “naturalità” del metodo, denominato anch’esso “metodo naturale”: questa è “naturalità” a livello della persona. Non si può quindi pensare a un’applicazione meccanica delle leggi biologiche. La conoscenza stessa dei “ritmi di fecondità” – anche se indispensabile – non crea ancora quella libertà interiore del dono, che è di natura esplicitamente spirituale e dipende dalla maturità dell’uomo interiore. Questa libertà suppone una capacità tale di dirigere le reazioni sensuali ed emotive, da rendere possibile la donazione di sé all’altro “io” in base al possesso maturo del proprio “io” nella sua soggettività corporea ed emotiva.
5. Come è noto dalle analisi bibliche e teologiche fatte in precedenza, il corpo umano nella sua mascolinità e femminilità è interiormente ordinato alla comunione delle persone (“communio personarum”). In questo consiste il suo significato sponsale.
Proprio il significato sponsale del corpo è stato deformato, quasi alle sue stesse basi, dalla concupiscenza (in particolare dalla concupiscenza della carne, nell’ambito della “triplice concupiscenza”). La virtù della continenza nella sua forma matura svela gradatamente l’aspetto “puro” del significato sponsale del corpo. In tal modo la continenza sviluppa la comunione personale dell’uomo e della donna, comunione che non è in grado di formarsi e di svilupparsi nella piena verità delle sue possibilità unicamente sul terreno della concupiscenza. Appunto ciò afferma l’enciclica Humanae Vitae. Tale verità ha due aspetti: quello personalistico e quello teologico.

Mercoledì, 14  novembre 1984
1. Alla luce dell’enciclica Humanae Vitae l’elemento fondamentale della spiritualità coniugale è l’amore effuso nei cuori degli sposi come dono dello Spirito Santo (cf. Rm 5, 5). Gli sposi ricevono nel sacramento questo dono insieme a una particolare “consacrazione”. L’amore è unito alla castità coniugale che, manifestandosi come continenza, realizza l’ordine interiore della convivenza coniugale.
La castità è vivere nell’ordine del cuore. Questo ordine consente lo sviluppo delle “manifestazioni affettive” nella proporzione e nel significato loro propri. In tal modo viene confermata anche la castità coniugale come “vita dello Spirito” (cf. Gal 5, 25), secondo l’espressione di san Paolo. L’apostolo aveva in mente non soltanto le energie immanenti dello spirito umano, ma soprattutto l’influsso santificante dello Spirito Santo e i suoi doni particolari.
2. Al centro della spiritualità coniugale sta dunque la castità, non solo come virtù morale (formata dall’amore), ma parimente come virtù connessa con i doni dello Spirito Santo - anzitutto con il dono del rispetto di ciò che viene da Dio (“donum pietatis”). Questo dono è nella mente dell’autore della Lettera agli Efesini, quando esorta i coniugi ad essere “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21). Così dunque l’ordine interiore della convivenza coniugale, che consente alle “manifestazioni affettive” di svilupparsi secondo la loro giusta proporzione e significato, è frutto non solo della virtù in cui i coniugi si esercitano, ma anche dei doni dello Spirito Santo con cui collaborano.
L’enciclica Humanae Vitae in alcuni passi del testo (particolarmente 21; 26), trattando della specifica ascesi coniugale, ossia dell’impegno per acquistare la virtù dell’amore, della castità e della continenza, parla indirettamente dei doni dello Spirito Santo, ai quali i coniugi divengono sensibili nella misura della maturazione nella virtù.
3. Ciò corrisponde alla vocazione dell’uomo al matrimonio. Quei “due”, i quali - secondo l’espressione più antica della Bibbia - “saranno una sola carne” (Gen 2, 24), non possono attuare tale unione al livello delle persone (“communio personarum”), se non mediante le forze provenienti dallo spirito, e precisamente, dallo Spirito Santo che purifica, vivifica, corrobora e perfeziona le forze dello spirito umano. “È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla” (Gv 6, 63).
Ne risulta che le linee essenziali della spiritualità coniugale sono “dal principio” iscritte nella verità biblica sul matrimonio. Tale spiritualità è anche “da principio” aperta ai doni dello Spirito Santo. Se l’enciclica Humanae Vitae esorta i coniugi ad una “perseverante preghiera” e alla vita sacramentale (dicendo: “attingano soprattutto nell’Eucaristia la sorgente della grazia e della carità”; “ricorrano con umile perseveranza alla misericordia di Dio, che viene elargita nel sacramento della Penitenza”, Pauli VI, Humanae Vitae, 25), essa lo fa in quanto è memore dello Spirito che “dà vita” (2 Cor 3, 6).
4. I doni dello Spirito Santo, e in particolare il dono del rispetto di ciò che è sacro, sembrano avere qui un significato fondamentale. Tale dono sostiene infatti e sviluppa nei coniugi una singolare sensibilità a tutto ciò che nella loro vocazione e convivenza porta il segno del mistero della creazione e redenzione: a tutto ciò che è un riflesso creato della sapienza e dell’amore di Dio. Pertanto quel dono sembra iniziare l’uomo e la donna in modo particolarmente profondo al rispetto dei due significati inscindibili dell’atto coniugale, di cui parla l’enciclica (Humanae Vitae, 12) in rapporto al sacramento del matrimonio. Il rispetto dei due significati dell’atto coniugale può svilupparsi pienamente solo in base ad un profondo riferimento alla dignità personale di ciò che nella persona umana è intrinseco alla mascolinità e femminilità, e inscindibilmente in riferimento alla dignità personale della nuova vita, che può sorgere dall’unione coniugale dell’uomo e della donna. Il dono del rispetto di quanto è creato da Dio si esprime appunto in tale riferimento.
5. Il rispetto del duplice significato dell’atto coniugale nel matrimonio, che nasce dal dono del rispetto per la creazione di Dio, si manifesta anche come timore salvifico: timore di infrangere o di degradare ciò che porta in sé il segno del mistero divino della creazione e redenzione. Di tale timore parla appunto l’autore della Lettera agli efesini: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21).
Se tale timore salvifico si associa immediatamente alla funzione “negativa” della continenza (ossia alla resistenza nei riguardi della concupiscenza della carne), esso si manifesta pure - e in misura crescente, via via che tale virtù matura - come sensibilità piena di venerazione per i valori essenziali dell’unione coniugale: per i “due significati dell’atto coniugale (ovvero, parlando nel linguaggio delle analisi precedenti, per la verità interiore del mutuo “linguaggio del corpo”).
In base a un profondo riferimento a questi due valori essenziali, ciò che significa unione dei coniugi viene armonizzato nel soggetto con ciò che significa paternità e maternità responsabili. Il dono del rispetto di ciò che è creato da Dio fa sì che l’apparente “contraddizione” in questa sfera sparisca e la difficoltà derivante dalla concupiscenza venga gradatamente superata, grazie alla maturità della virtù e alla forza del dono dello Spirito Santo.
6. Se si tratta della problematica della cosiddetta continenza periodica (ossia del ricorso ai “metodi naturali”), il dono del rispetto per l’opera di Dio aiuta, in linea di massima, a conciliare la dignità umana con i “ritmi naturali di fecondità”, cioè con la dimensione biologica della femminilità e mascolinità dei coniugi; dimensione che ha anche un proprio significato per la verità del mutuo “linguaggio del corpo” nella convivenza coniugale.
In tal modo, anche ciò che - non tanto nel senso biblico, quanto addirittura in quello “biologico” - si riferisce all’“unione coniugale del corpo”, trova la sua forma umanamente matura grazie alla vita “secondo lo spirito”.
Tutta la pratica dell’onesta regolazione della fertilità, così strettamente unita alla paternità e maternità responsabili, fa parte della cristiana spiritualità coniugale e familiare; e soltanto vivendo “secondo lo Spirito” diventa interiormente vera e autentica.

Mercoledì, 21  novembre 1984
1. Sullo sfondo della dottrina contenuta nell’enciclica Humanae Vitae intendiamo tracciare un abbozzo della spiritualità coniugale. Nella vita spirituale dei coniugi operano anche i doni dello Spirito Santo e, in particolare, il “donum pietatis”, cioè il dono del rispetto per ciò che è opera di Dio.
2. Questo dono, unito all’amore e alla castità, aiuta a identificare, nell’insieme della convivenza coniugale, quell’atto in cui, almeno potenzialmente, il significato sponsale del corpo si collega col significato procreativo. Esso orienta a capire, tra le possibili “manifestazioni di affetto”, il significato singolare, anzi, eccezionale di quell’atto: la sua dignità e la conseguente grave responsabilità ad esso connessa. Pertanto, l’antitesi della spiritualità coniugale è costituita, in certo senso, dalla soggettiva mancanza di tale comprensione, legata alla pratica e alla mentalità anticoncezionali. Oltre a tutto, ciò è un enorme danno dal punto di vista dell’interiore cultura dell’uomo. La virtù della castità coniugale, e ancor più il dono del rispetto per ciò che viene da Dio, modellano la spiritualità dei coniugi al fine di proteggere la particolare dignità di questo atto, di questa “manifestazione di affetto”, in cui la verità del “linguaggio del corpo” può essere espressa solo salvaguardando la potenzialità procreativa.
La paternità e maternità responsabili significano la spirituale valutazione - conforme alla verità - dell’atto coniugale nella coscienza e nella volontà di entrambi i coniugi, che in questa “manifestazione di affetto”, dopo aver considerato le circostanze interiori ed esterne, in particolare quelle biologiche, esprimono la loro matura disponibilità alla paternità e maternità.
3. Il rispetto per l’opera di Dio contribuisce a far sì che l’atto coniugale non venga sminuito e privato d’interiorità nell’insieme della convivenza coniugale - che non divenga “abitudine” - e che in esso si esprima un’adeguata pienezza di contenuti personali ed etici, e anche di contenuti religiosi, cioè la venerazione alla maestà del Creatore, unico e ultimo depositario della sorgente della vita, e all’amore sponsale del Redentore. Tutto ciò crea e allarga, per così dire, lo spazio interiore della mutua libertà del dono, in cui si manifesta pienamente il significato sponsale della mascolinità e femminilità.
L’ostacolo a questa libertà è dato dall’interiore costrizione della concupiscenza, diretta verso l’altro “io” quale oggetto di godimento. Il rispetto di ciò che è creato da Dio libera da questa costrizione, libera da tutto ciò che riduce l’altro “io” a semplice oggetto: corrobora la libertà interiore del dono.
4. Ciò può realizzarsi soltanto attraverso una profonda comprensione della dignità personale, sia dell’“io” femminile che di quello maschile, nella reciproca convivenza. Tale comprensione spirituale è il frutto fondamentale del dono dello Spirito che spinge la persona a rispettare l’opera di Dio. Da tale comprensione, e dunque indirettamente da quel dono, attingono il vero significato sponsale tutte le “manifestazioni affettive”, che costituiscono la trama del perdurare dell’unione coniugale. Questa unione si esprime attraverso l’atto coniugale solo in circostanze determinate, ma può e deve manifestarsi continuamente, ogni giorno, attraverso varie “manifestazioni affettive”, le quali sono determinate dalla capacità di una “disinteressata” emozione dell’“io” in rapporto alla femminilità e - reciprocamente - in rapporto alla mascolinità.
L’atteggiamento di rispetto per l’opera di Dio, che lo Spirito suscita nei coniugi, ha un enorme significato per quelle “manifestazioni affettive”, poiché di pari passo con esso va la capacità del profondo compiacimento, dell’ammirazione, della disinteressata attenzione alla “visibile” bellezza della femminilità e mascolinità, e infine un profondo apprezzamento del dono disinteressato dell’“altro”.
5. Tutto ciò decide della identificazione spirituale di ciò che è maschile o femminile, di ciò che è “corporeo” e insieme spirituale. Da questa spirituale identificazione emerge la consapevolezza dell’unione “attraverso il corpo”, nella tutela della libertà interiore del dono. Mediante le “manifestazioni affettive” i coniugi si aiutano vicendevolmente a perdurare nell’unione, e al tempo stesso queste “manifestazioni” proteggono in ciascuno quella “pace del profondo” che è, in certo senso, la risonanza interiore della castità guidata dal dono del rispetto per ciò che è creato da Dio.
Questo dono comporta una profonda e universale attenzione alla persona nella sua mascolinità e femminilità, creando così il clima interiore idoneo alla comunione personale. Solo in tale clima di comunione personale dei coniugi matura correttamente quella procreazione, che qualifichiamo come “responsabile”.
6. L’enciclica Humanae Vitae ci consente di tracciare un abbozzo della spiritualità coniugale. Questo è il clima umano e soprannaturale in cui - tenendo conto dell’ordine “biologico” e, ad un tempo, in base alla castità sostenuta dal “donum pietatis” - si plasma l’interiore armonia del matrimonio, nel rispetto di ciò che l’enciclica chiama “duplice significato dell’atto coniugale” (Pauli VI, Humanae Vitae, 12). Questa armonia significa che i coniugi convivono insieme nell’interiore verità del “linguaggio del corpo”. L’enciclica Humanae Vitae proclama inscindibile la connessione tra questa “verità” e l’amore.

Mercoledì, 28  novembre 1984
1. L’insieme delle catechesi che ho iniziato da oltre quattro anni e che oggi concludo, può essere compreso sotto il titolo: “L’amore umano nel piano divino”, o con maggior precisione: “La redenzione del corpo e la sacramentalità del matrimonio”. Esse si dividono in due parti.
La prima parte è dedicata all’analisi delle parole di Cristo, che risultano adatte ad aprire il tema presente. Queste parole sono state analizzate a lungo nella globalità del testo evangelico: e in seguito alla pluriennale riflessione si è convenuto di porre in rilievo i tre testi, che sono sottoposti all’analisi appunto nella prima parte delle catechesi. C’è anzitutto il testo in cui Cristo si riferisce “al principio” nel colloquio con i farisei sull’unità e indissolubilità del matrimonio (cf. Mt 19, 8; Mc 10, 6-9). Proseguendo, ci sono le parole pronunziate da Cristo nel discorso della montagna sulla “concupiscenza” come “adulterio commesso nel cuore” (cf. Mt 5, 28). Infine, ci sono le parole trasmesse da tutti i sinottici, in cui Cristo si richiama alla risurrezione dei corpi nell’“altro mondo” (cf. Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc 20, 35).
La parte seconda della catechesi è stata dedicata all’analisi del sacramento in base alla Lettera agli Efesini (Ef 5, 22-33) che si riporta al biblico “principio” del matrimonio espresso nelle parole del libro della Genesi: “. . . l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (Gen 2, 24).
Le catechesi della prima e della seconda parte si servono ripetutamente del termine teologia del corpo. Questo, in certo senso, è un termine “di lavoro”. L’introduzione del termine e del concetto di “teologia del corpo” era necessaria per fondare il tema: “La redenzione del corpo e la sacramentalità del matrimonio” su una base più ampia. Bisogna infatti osservare subito che il termine “teologia del corpo” oltrepassa ampiamente il contenuto delle riflessioni fatte. Queste riflessioni non comprendono molteplici problemi che, riguardo al loro oggetto, appartengono alla teologia del corpo (come per esempio il problema della sofferenza e della morte, così rilevante nel messaggio biblico). Occorre dirlo chiaramente. Nondimeno, bisogna anche riconoscere in modo esplicito che le riflessioni sul tema: “La redenzione del corpo e la sacramentalità del matrimonio” possono essere svolte correttamente, partendo dal momento in cui la luce della rivelazione tocca la realtà del corpo umano (ossia sulla base della “teologia del corpo”). Ciò è confermato, tra l’altro, dalle parole del libro della Genesi: “I due saranno una sola carne”, parole che originariamente e tematicamente stanno alla base del nostro argomento.
2. Le riflessioni sul sacramento del matrimonio sono state condotte nella considerazione delle due dimensioni essenziali a questo sacramento (come ad ogni altro), cioè la dimensione dell’alleanza e della grazia e la dimensione del segno.
Attraverso queste due dimensioni siamo risaliti continuamente alle riflessioni sulla teologia del corpo, unite alle parole-chiave di Cristo. A queste riflessioni siamo risaliti anche intraprendendo, alla fine di tutto questo ciclo di catechesi, l’analisi dell’enciclica Humanae Vitae.
La dottrina contenuta in questo documento dell’insegnamento contemporaneo della Chiesa resta in rapporto organico sia con la sacramentalità del matrimonio sia con tutta la problematica biblica della teologia del corpo, centrata sulle “parole-chiave” di Cristo. In un certo senso si può perfino dire che tutte le riflessioni che trattano della “redenzione del corpo e della sacramentalità del matrimonio”, sembrano costituire un ampio commento alla dottrina contenuta appunto nell’enciclica Humanae Vitae.
Tale commento sembra assai necessario. L’enciclica infatti, nel dare risposta ad alcuni interrogativi di oggi nell’ambito della morale coniugale e familiare, al tempo stesso ha suscitato anche altri interrogativi, come sappiamo, di natura bio-medica. Ma anche (e anzitutto) essi sono di natura teologica; appartengono a quell’ambito dell’antropologia e teologia, che abbiamo denominato “teologia del corpo”.
Le riflessioni fatte consistono nell’affrontare gli interrogativi sorti in rapporto all’enciclica Humanae Vitae. La reazione, che ha suscitato l’enciclica, conferma l’importanza e la difficoltà di questi interrogativi. Essi sono riaffermati anche dagli ulteriori enunciati di Paolo VI, ove egli rilevava la possibilità di approfondire l’esposizione della verità cristiana in questo settore.
Lo ha ribadito inoltre l’esortazione Familiaris Consortio, frutto del Sinodo dei vescovi del 1980: “De muneribus familiae christianae”. Il documento contiene un appello, diretto particolarmente ai teologi, a elaborare in modo più completo gli aspetti biblici e personalistici della dottrina contenuta nella Humanae Vitae.
Cogliere gli interrogativi suscitati dall’enciclica vuol dire formularli e al tempo stesso ricercarne la risposta. La dottrina contenuta nella Familiaris Consortio chiede che sia la formulazione degli interrogativi, sia la ricerca di un’adeguata risposta si concentrino sugli aspetti biblici e personalistici. Tale dottrina indica anche l’indirizzo di sviluppo della teologia del corpo, la direzione dello sviluppo e pertanto anche la direzione del suo progressivo completarsi e approfondirsi.
3. L’analisi degli aspetti biblici parla del modo di radicare la dottrina proclamata dalla Chiesa contemporanea nella rivelazione. Ciò è importante per lo sviluppo della teologia. Lo sviluppo, ossia il progresso nella teologia, si attua infatti attraverso un continuo riprendere lo studio del deposito rivelato.
Il radicamento della dottrina proclamata dalla Chiesa in tutta la tradizione e nella stessa rivelazione divina è sempre aperto agli interrogativi posti dall’uomo e si serve anche degli strumenti più conformi alla scienza moderna e alla cultura di oggi. Sembra che in questo settore l’intenso sviluppo dell’antropologia filosofica (in particolare dell’antropologia che sta alla base dell’etica) s’incontri molto da vicino con gli interrogativi suscitati dall’enciclica Humanae Vitae nei riguardi della teologia e specialmente dell’etica teologica.
L’analisi degli aspetti personalistici della dottrina contenuta in questo documento ha un significato esistenziale per stabilire in che cosa consista il vero progresso, cioè lo sviluppo dell’uomo. Esiste infatti in tutta la civiltà contemporanea - specie nella civiltà occidentale - un’occulta e insieme abbastanza esplicita tendenza a misurare questo progresso con la misura delle “cose”, cioè dei beni materiali.
L’analisi degli aspetti personalistici della dottrina della Chiesa, contenuta nell’enciclica di Paolo VI, mette in evidenza un appello risoluto a misurare il progresso dell’uomo con la misura della “persona”, ossia di ciò che è un bene dell’uomo come uomo, che corrisponde alla sua essenziale dignità. L’analisi degli aspetti personalistici porta alla convinzione che l’enciclica presenta come problema fondamentale il punto di vista dell’autentico sviluppo dell’uomo; tale sviluppo si misura infatti, in linea di massima, con la misura dell’etica e non soltanto della “tecnica”.
4. Le catechesi dedicate all’enciclica Humanae Vitae costituiscono solo una parte, la parte finale, di quelle che hanno trattato della redenzione del corpo e la sacramentalità del matrimonio.
Se richiamo particolarmente l’attenzione proprio a queste ultime catechesi, lo faccio non solo perché il tema da esse trattato è più strettamente unito alla nostra contemporaneità, ma anzitutto per il fatto che da esso provengono gli interrogativi, che permeano, in certo senso, l’insieme delle nostre riflessioni. Ne consegue che questa parte finale non è artificiosamente aggiunta all’insieme, ma è unita con esso in modo organico e omogeneo. In certo senso, quella parte che nella disposizione complessiva è collocata alla fine, si trova in pari tempo all’inizio di quest’insieme. Ciò è importante dal punto di vista della struttura e del metodo.
Anche il momento storico sembra avere il suo significato: difatti, le presenti catechesi sono state iniziate nel periodo dei preparativi al Sinodo dei vescovi 1980 sul tema del matrimonio e della famiglia (“De muneribus familiae christianae”), e terminano dopo la pubblicazione dell’esortazione Familiaris Consortio, che è frutto di lavori di questo Sinodo. È a tutti noto che il Sinodo del 1980 ha fatto riferimento anche all’enciclica Humanae Vitae e ne ha riconfermato pienamente la dottrina.
Tuttavia il momento più importante sembra quello essenziale, che, nell’insieme delle riflessioni compiute, si può precisare nel modo seguente: per affrontare gli interrogativi che suscita l’enciclica Humanae Vitae, soprattutto in teologia, per formulare tali interrogativi e cercarne la risposta, occorre trovare quell’ambito biblico teologico, a cui si allude quando parliamo di “redenzione del corpo e di sacramentalità del matrimonio”. In questo ambito si trovano le risposte ai perenni interrogativi della coscienza di uomini e donne, e anche ai difficili interrogativi del nostro mondo contemporaneo a riguardo del matrimonio e della procreazione.




F I N E




 


Catechesi di Papa Giovanni Paolo II

" L'AMORE UMANO NEL PIANO DIVINO "

"la redenzione del corpo e la sacramentalità del matrimonio"
( la Teologia del Corpo )







Fonte : www.vatican.va








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