PAPA GIOVANNI PAOLO II
LA TEOLOGIA DEL CORPO
Udienze Generali
(Udienze Generali 1979 - 1984)
Catechesi di Papa Giovanni
Paolo II
" L'AMORE UMANO NEL PIANO
DIVINO "
"la redenzione del corpo e la
sacramentalità del matrimonio"
PRIMO CICLO
L’unità
originaria dell’uomo e della donna
"Catechesi sul Libro della Genesi"
SECONDO CICLO
La redenzione
del cuore
(Teologia del
corpo dell'uomo decaduto e redento)
TERZO CICLO
La risurrezione della carne
(Teologia del
corpo dell'uomo dell'uomo risorto, pienamente redento e ri-creato)
QUARTO CICLO
La verginità cristiana
SECONDA PARTE
ANALISI DEL SACRAMENTO DEL
MATRIMONIO
QUINTO CICLO
Il matrimonio cristiano
(il sacramento
del matrimonio nella dimensione dell'Alleanza,
della Grazia e del Segno)
SESTO CICLO
Amore Sponsale
(riflessioni su Il Cantico dei Cantici e il
Libro di Tobia)
SETTIMO CICLO
Amore e fecondità
(Rilettura ed
approfondimenti di "humanae vitae" e abbozzi di spiritualità familiare e
coniugale alla luce dell'enciclica)
SECONDA PARTE
ANALISI DEL SACRAMENTO DEL
MATRIMONIO
QUINTO CICLO
Il matrimonio cristiano
(il sacramento del matrimonio nella dimensione dell'Alleanza,
della Grazia e del Segno)
Mercoledì, 28 luglio 1982
1. Iniziamo oggi un nuovo capitolo sul tema del
matrimonio, leggendo le parole di san Paolo agli Efesini:
“Le mogli siano sottomesse ai mariti come al
Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della
Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta
sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto.
E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha
amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola
per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola, al fine di farsi
comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o
alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere
di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie
ama se stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al
contrario la nutre e la cura, come Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del
suo corpo. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua
donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in
riferimento a Cristo e alla Chiesa! Quindi anche voi, ciascuno da parte sua, ami
la propria moglie come se stesso, e la donna sia rispettosa verso il marito” (Ef
5, 22-33).
2. Conviene che sottoponiamo ad analisi approfondita
il testo citato, contenuto in questo capitolo quinto della lettera agli Efesini,
così come, in precedenza, abbiamo analizzato le singole parole di Cristo, che
sembrano avere un significato-chiave per la teologia del corpo. Si trattava
delle parole, in cui Cristo si richiama al “principio” (Mt 19, 4; Mc
10, 6), al “cuore” umano, nel Discorso della Montagna (Mt 5, 28) e alla
futura risurrezione (cf. Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc 20, 35).
Quanto è contenuto nel passo della lettera agli Efesini costituisce quasi il
“coronamento” di quelle altre sintetiche parole-chiave. Se da esse è emersa la
teologia del corpo nei suoi lineamenti evangelici, semplici ed insieme
fondamentali, occorre, in certo senso, presupporre questa teologia
nell’interpretare il menzionato passo della lettera agli Efesini. E perciò, se
si vuol interpretare quel passo, bisogna farlo alla luce di ciò
che Cristo ci disse sul corpo umano. Egli parlò non solo richiamandosi
all’uomo “storico” e perciò stesso all’uomo, sempre “contemporaneo”, della
concupiscenza (al suo “cuore”), ma anche rilevando, da un lato, le prospettive
del “principio” ossia dell’innocenza originaria e della giustizia e, dall’altro,
le prospettive escatologiche della risurrezione dei corpi, quando “non
prenderanno né moglie né marito” (cf. Lc 20, 35). Tutto ciò fa parte
dell’ottica teologica della “redenzione del nostro corpo” (Rm 8, 23).
3. Anche le parole dell’autore della lettera agli
Efesini (Il problema della paternità paolina della lettera agli Efesini,
riconosciuta da alcuni esegeti e negata da altri, può essere risolto per il
tramite di una supposizione mediana, che qui accettiamo quale ipotesi di lavoro:
ossia, che san Paolo affidò alcuni concetti al suo segretario, il quale poi li
sviluppò e rifinì. È questa soluzione provvisoria del problema che abbiamo in
mente, parlando dell’“Autore della lettera agli Efesini”, dell’“Apostolo” e di
“san Paolo”.) sono centrate sul corpo; e ciò sia nel suo significato
metaforico, cioè sul corpo di Cristo che è la Chiesa, sia nel suo
significato concreto, cioè sul corpo umano nella sua perenne mascolinità e
femminilità, nel suo perenne destino all’unione nel matrimonio, come dice il
libro della Genesi: “L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua
moglie e i due saranno una sola carne” (Gen 2, 24).
In qual modo questi due significati del corpo
compaiono e convergono nel brano della lettera agli Efesini? E perché vi
compaiono e convergono? Ecco gli interrogativi che bisogna porsi, attendendo
delle risposte non tanto immediate e dirette, quanto possibilmente approfondite
e “a lunga scadenza”, alle quali siamo stati preparati dalle analisi precedenti.
Infatti, quel brano della lettera agli Efesini non può essere correttamente
inteso, se non soltanto nell’ampio contesto biblico, considerandolo come
“coronamento” dei temi e delle verità che, attraverso la Parola di Dio rivelata
nella Sacra Scrittura, affluiscono e defluiscono come a onde lunghe. Sono temi
centrali e verità essenziali. E perciò il testo citato della lettera agli
Efesini è anche un testo-chiave e “classico”.
4. È un testo ben noto alla liturgia, in cui compare
sempre in rapporto con il sacramento del Matrimonio. La “lex orandi”
della Chiesa vede in esso un esplicito riferimento a questo sacramento: e la “lex
orandi” permette e nello stesso tempo esprime sempre la “lex credendi”.
Ammettendo tale premessa, dobbiamo subito chiederci: in questo “classico” testo
della lettera agli Efesini, come emerge la verità sulla sacramentalità del
matrimonio? in qual modo viene in esso espressa oppure confermata? Diverrà
chiaro che la risposta a questi interrogativi non può essere immediata e
diretta, ma graduale e “a lunga scadenza”. Ciò viene comprovato perfino da un
primo sguardo a questo testo, che ci riporta al libro della Genesi e dunque “al
principio”, e che, nella descrizione del rapporto tra Cristo e la Chiesa,
riprende dagli scritti dei profeti dell’Antico Testamento la ben nota
analogia dell’amore sponsale tra Dio e il suo popolo eletto. Senza esaminare
questi rapporti, sarebbe difficile rispondere alla domanda sul modo, in cui la
lettera agli Efesini tratta della sacramentalità del matrimonio. Si vedrà
pure come la prevista risposta deve passare attraverso tutto l’ambito dei
problemi analizzati in precedenza, cioè attraverso la teologia del corpo.
5. Il sacramento o la sacramentalità - nel senso più
generale di questo termine - si incontra con il corpo e presuppone la “teologia
del corpo”. Il sacramento, infatti, secondo il significato generalmente
conosciuto, è un “segno visibile”. Il “corpo” significa pure ciò che è
visibile, significa la “visibilità” del mondo e dell’uomo. Dunque, in qualche
modo - anche se il più generale - il corpo entra nella definizione del
sacramento, essendo esso “segno visibile di una realtà invisibile”, cioè della
realtà spirituale, trascendente, divina. In questo segno - e mediante questo
segno - Dio si dona all’uomo nella sua trascendente verità e nel suo amore. Il
sacramento è segno della grazia ed è un segno efficace. Non solo la
indica ed esprime in modo visibile, a modo di segno, ma la produce, e
contribuisce efficacemente a far sì che la grazia diventi parte dell’uomo, e che
in lui si realizzi e si compia l’opera della salvezza, l’opera
prestabilita da Dio fin dall’eternità e pienamente rivelata in Gesù Cristo.
6. Direi che già questo primo sguardo gettato sul
“classico” testo della lettera agli Efesini indica la direzione in cui debbono
svilupparsi le nostre ulteriori analisi. È necessario che queste analisi inizino
dalla preliminare comprensione del testo in se stesso; tuttavia, debbono
in seguito condurci, per così dire, oltre i suoi confini, per capire
possibilmente “fino in fondo” quanta ricchezza di verità rivelata da Dio sia
contenuta nell’ambito di quella pagina stupenda. Servendoci della nota
espressione della costituzione
Gaudium et Spes, si può dire che il brano da noi scelto nella lettera
agli Efesini “svela - in modo particolare - l’uomo all’uomo e gli fa nota
la sua altissima vocazione” (Gaudium et Spes, 22): in quanto egli
partecipa all’esperienza della persona incarnata. Infatti Dio, creandolo a sua
immagine, fin dal principio lo creò “maschio e femmina” (Gen 1, 27).
Durante le successive analisi cercheremo -
soprattutto alla luce del citato testo della lettera agli Efesini - di
comprendere più profondamente il sacramento (in particolare, il matrimonio come
sacramento): prima, nella dimensione dell’alleanza e della grazia, e, in
seguito, nella dimensione del segno sacramentale.
Mercoledì, 4 agosto 1982
1. Nella nostra conversazione di mercoledì scorso ho
citato il capitolo quinto della lettera agli Efesini (Ef 5, 22-23). Ora,
dopo lo sguardo introduttivo su quel testo “classico”, conviene esaminare il
modo in cui tale brano - così importante sia per il mistero della Chiesa, sia
per la sacramentalità del matrimonio - è inquadrato nell’immediato contesto
dall’intera lettera.
Pur sapendo che esiste una serie di problemi
discussi tra i Biblisti riguardo ai destinatari, alla paternità e anche alla
data della sua composizione, bisogna costatare che la lettera agli Efesini ha
una struttura molto significativa. L’Autore inizia questa lettera col presentare
l’eterno piano della salvezza dell’uomo in Gesù Cristo.
“. . . Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo / .
. . In lui ci ha scelti . . . / per essere santi ed immacolati al suo cospetto
nella carità, / predestinandoci ad essere suoi figli adottivi / per opera di
Gesù Cristo, / secondo il beneplacito della sua volontà. / E questo a lode e
gloria della sua grazia, / che ci ha dato nel suo Figlio diletto; / nel quale
abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, / la remissione dei peccati /
secondo la ricchezza della sua grazia. / . . . per realizzarlo nella pienezza
dei tempi: / il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose . . .” (Ef
1, 3.4-7.10).
L’Autore della lettera agli Efesini, dopo aver
presentato con parole piene di gratitudine il piano che, fin dall’eternità, è in
Dio e ad un tempo si realizza già nella vita dell’umanità, prega il Signore,
affinché gli uomini (e direttamente i destinatari della lettera) conoscano
pienamente Cristo quale capo: “. . . Lo ha costituito su tutte le cose a capo
della Chiesa, / la quale è il suo corpo, / la pienezza di colui che
si realizza interamente in tutte le cose” (Ef 1, 22-23). L’umanità
peccatrice è chiamata ad una vita nuova in Cristo, nel quale i pagani e gli
Ebrei debbono unirsi come in un tempio (cf. Ef 2, 11-21). L’Apostolo è
banditore del ministero di Cristo tra i pagani, ai quali soprattutto si rivolge
nella sua lettera, piegando “le ginocchia davanti al Padre” e chiedendo che
conceda loro, “secondo la ricchezza della sua gloria, di essere potentemente
rafforzati dal suo Spirito nell’uomo interiore” (Ef 3, 14.16).
2. Dopo questo così profondo e suggestivo svelamento
del mistero di Cristo nella Chiesa, l’Autore passa, nella seconda parte della
lettera, a direttive più particolareggiate, che mirano a definire la vita
cristiana come vocazione che scaturisce dal piano divino, di cui abbiamo parlato
in precedenza, cioè dal mistero di Cristo nella Chiesa. Anche qui l’Autore tocca
diverse questioni sempre valide per la vita cristiana. Esorta a conservare
l’unità, sottolineando in pari tempo che tale unità si costruisce sulla
molteplicità e diversità dei doni di Cristo. A ciascuno è dato un dono diverso,
ma tutti, come cristiani, debbono “rivestire l’uomo nuovo, creato secondo
Dio, nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4, 24). Con ciò è legato
un richiamo categorico a superare i vizi ed acquisire le virtù corrispondenti
alla vocazione che tutti hanno ottenuto in Cristo (cf. Ef 4, 25-32).
L’Autore scrive: “Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi,
e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se
stesso per noi . . . in sacrificio” (Ef 5, 1-2).
3. Nel capitolo quinto della lettera agli Efesini
questi richiami divengono ancor più particolareggiati. L’Autore condanna
severamente gli abusi pagani, scrivendo: “Se un tempo eravate tenebra, ora siete
luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce” (Ef 5, 8). E
poi: “Non siate . . . inconsiderati, ma sappiate comprendere la volontà di Dio.
E non ubriacatevi di vino (riferimento al libro dei Proverbi 23, 31) . . . ma
siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni e
cantici spirituali, cantando ed inneggiando al Signore con tutto il vostro
cuore” (Ef 5, 17-19). L’Autore della lettera vuole illustrare con queste
parole il clima di vita spirituale, che dovrebbe animare ogni comunità
cristiana. A questo punto, passa alla comunità domestica, cioè alla famiglia.
Scrive infatti: “Siate ricolmi dello Spirito . . . rendendo continuamente grazie
per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo. Siate
sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 18.20-21). E
così entriamo appunto in quel brano della lettera, che sarà tema della nostra
particolare analisi. Potremo costatare facilmente che il contenuto essenziale di
questo testo “classico” compare all’incrocio dei due principali fili
conduttori dell’intera lettera agli Efesini: il primo, quello del mistero di
Cristo che, come espressione del piano divino per la salvezza dell’uomo, si
realizza nella Chiesa; il secondo, quello della vocazione cristiana quale
modello di vita dei singoli battezzati e delle singole comunità, corrispondente
al mistero di Cristo, ossia al piano divino per la salvezza dell’uomo.
4. Nel contesto immediato del brano citato, l’Autore
della lettera cerca di spiegare in qual modo la vocazione cristiana così
concepita debba realizzarsi e manifestarsi nei rapporti tra tutti i membri di
una famiglia; dunque, non solo tra il marito e la moglie (di cui tratta
precisamente il brano del capitolo 5, 22-23 da noi scelto), ma anche tra i
genitori e i figli. L’Autore scrive: “Figli, obbedite ai vostri genitori nel
Signore, perché questo è giusto. Onora tuo padre e tua madre: è questo il primo
comandamento associato a una promessa: perché tu sia felice e goda di una vita
lunga sopra la terra. E voi, padri, non inasprite i vostri figli, ma allevateli
nell’educazione e nella disciplina del Signore” (Ef 6, 1-4). In seguito,
si parla dei doveri dei servi nei riguardi dei padroni e, viceversa, dei padroni
nei riguardi dei servi, cioè degli schiavi (cf. Ef 6, 5-9), il che va
riferito anche alle direttive concernenti la famiglia in senso lato. Essa,
infatti, era costituita non soltanto dai genitori e dai figli (secondo il
succedersi delle generazioni), ma vi appartenevano in senso lato anche i servi
di ambedue i sessi: schiavi e schiave.
5. Così, dunque, il testo della lettera agli
Efesini, che ci proponiamo di far oggetto di una approfondita analisi, si trova
nell’immediato contesto di insegnamenti sugli obblighi morali della
società familiare (le cosiddette “Hausteflen” o codici domestici, secondo la
definizione di Lutero). Analoghe istruzioni troviamo anche in altre lettere (cf.
ex. gr., Col 3, 18; 1 Pt 2, 13-3, 7). Per di più, tale contesto
immediato fa parte del nostro brano, in quanto anche il “classico” testo da noi
scelto tratta dei reciproci doveri dei mariti e delle mogli. Tuttavia occorre
notare che il brano 5, 22-33 della lettera agli Efesini è centrato di per
sé esclusivamente sui coniugi e sul matrimonio, e quanto riguarda la
famiglia anche in senso lato si trova già nel contesto. Prima, però, di
accingersi ad un’analisi approfondita del testo, conviene aggiungere che
l’intera lettera termina con uno stupendo incoraggiamento alla battaglia
spirituale (cf. Ef 6, 10-20), con brevi raccomandazioni (cf. Ef 6,
21-22) e un augurio finale (cf. Ef 6, 23-24). Quell’appello alla
battaglia spirituale sembra essere logicamente fondato sull’argomentazione di
tutta la lettera. Esso è, per così dire, l’esplicito compimento dei suoi
principali fili conduttori.
Avendo così davanti agli occhi la struttura
complessiva dell’intera lettera agli Efesini, cercheremo nella prima analisi di
chiarire il significato delle parole: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel
timore di Cristo” (Ef 5, 21), rivolte ai mariti e alle mogli.
Mercoledì, 11 agosto 1982
1. Iniziamo oggi un’analisi più particolareggiata
del brano della lettera agli Efesini 5, 21-33. L’Autore, rivolgendosi ai
coniugi, raccomanda loro di esser “sottomessi gli uni agli altri nel timore
di Cristo” (Ef 5, 21).
Si tratta qui di un rapporto dalla doppia
dimensione o di duplice grado: reciproco e comunitario. Uno
precisa e caratterizza l’altro. Le relazioni reciproche del marito e della
moglie debbono scaturire dalla loro comune relazione con Cristo. L’Autore della
lettera parla del “timore di Cristo” in un senso analogo a quando parla del
“timore di Dio”. In questo caso, non si tratta di timore o paura, che è un
atteggiamento difensivo davanti alla minaccia di un male, ma si tratta
soprattutto di rispetto per la santità, per il “sacrum”; si tratta della
“pietas”, che nel linguaggio dell’Antico Testamento fu espressa anche col
termine “timore di Dio” (cf.,ex. gr., Sal 102 [103], 11; Pr 1, 7;
Pr 23, 17; Sir 1, 11-16). In effetti, una tale “pietas”, sorta
dalla profonda coscienza del mistero di Cristo, deve costituire la
base delle reciproche relazioni tra i coniugi.
2. Come il contesto immediato, così anche il testo
scelto da noi ha un carattere “parenetico”, cioè di istruzione morale. L’Autore
della lettera desidera indicare ai coniugi come si devono stabilire le loro
relazioni reciproche e tutto il loro comportamento. Egli deduce le proprie
indicazioni e direttive dal mistero di Cristo presentato all’inizio della
lettera. Questo mistero deve essere spiritualmente presente nel reciproco
rapporto dei coniugi. Penetrando i loro cuori, generando in essi quel santo
“timore di Cristo” (cioè appunto la “pietas”), il mistero di Cristo deve
condurli ad esser “sottomessi gli uni agli altri”: il mistero di Cristo, cioè il
mistero della scelta, fin dall’eternità, di ciascuno di loro in Cristo “ad
essere figli adottivi” di Dio.
3. L’espressione che apre il nostro brano di
Efesini 5, 21-33, al quale ci siamo avvicinati grazie all’analisi del
contesto remoto e immediato, ha un’eloquenza tutta particolare. L’Autore parla
della mutua sottomissione dei coniugi, marito e moglie, e in tal modo fa anche
capire come bisogna intendere le parole che scriverà in seguito sulla
sottomissione della moglie al marito. Infatti leggiamo: “Le mogli siano
sottomesse ai mariti come al Signore” (Ef 5, 22). Esprimendosi così,
l’Autore non intende dire che il marito è “padrone” della moglie e che il patto
inter-personale proprio del matrimonio è un patto di dominio del marito sulla
moglie. Esprime, invece, un altro concetto: cioè che la moglie, nel suo rapporto
con Cristo - il quale è per ambedue i coniugi unico Signore - può e deve trovare
la motivazione di quel rapporto con il marito, che scaturisce dall’essenza
stessa del matrimonio e della famiglia. Tale rapporto, tuttavia, non è
sottomissione unilaterale. Il matrimonio, secondo la dottrina della lettera agli
Efesini, esclude quella componente del patto che gravava e, a volte, non cessa
di gravare su questa istituzione. Il marito e la moglie sono infatti “sottomessi
gli uni agli altri”, sono vicendevolmente subordinati. La fonte di questa
reciproca sottomissione sta nella “pietas” cristiana, e la sua espressione è
l’amore.
4. L’Autore della lettera sottolinea in modo
particolare questo amore, rivolgendosi ai mariti. Scrive infatti: “E voi,
mariti, amate le vostre mogli . . .”, e con questo modo di esprimersi toglie
qualunque timore, che avrebbe potuto suscitare (data la sensibilità
contemporanea) la frase precedente: “Le mogli siano sottomesse ai mariti”.
L’amore esclude ogni genere di sottomissione, per cui la moglie diverrebbe serva
o schiava del marito, oggetto di sottomissione unilaterale. L’amore fa sì che
contemporaneamente anche il marito è sottomesso alla moglie, e
sottomesso in questo al Signore stesso, così come la moglie al marito. La
comunità o unità che essi debbono costituire a motivo del matrimonio, si
realizza attraverso una reciproca donazione, che è anche una sottomissione
vicendevole. Cristo è fonte ed insieme modello di quella sottomissione che,
essendo reciproca “nel timore di Cristo”, conferisce all’unione coniugale un
carattere profondo e maturo. Molteplici fattori di natura psicologica o di
costume vengono, in questa fonte e dinanzi a questo modello, talmente
trasformati da far emergere, direi, una nuova e preziosa “fusione” dei
comportamenti e dei rapporti bilaterali.
5. L’Autore della lettera agli Efesini non teme di
accogliere quei concetti che erano propri della mentalità e dei costumi di
allora; non teme di parlare della sottomissione della moglie al marito; non
teme, poi (anche nell’ultimo versetto del testo da noi citato), di raccomandare
alla moglie che “sia rispettosa verso il marito” (Ef 5, 33). Infatti è
certo che, quando il marito e la moglie saranno sottomessi l’uno all’altro “nel
rumore di Cristo”, tutto troverà un giusto equilibrio, cioè tale da
corrispondere alla loro vocazione cristiana nel mistero di Cristo.
6. Diversa è certamente la nostra sensibilità
contemporanea, diversi sono anche le mentalità e i costumi, e differente è la
posizione sociale della donna nei confronti dell’uomo. Nondimeno, il
fondamentale principio parenetico, che troviamo nella lettera agli Efesini,
rimane lo stesso e porta i medesimi frutti. La sottomissione reciproca “nel
timore di Cristo” - sottomissione nata sul fondamento della “pietas”
cristiana - forma sempre quella profonda e salda struttura portante della
comunità dei coniugi, in cui si realizza la vera “comunione” delle
persone.
7. L’Autore del testo agli Efesini, che ha iniziato
la sua lettera con una magnifica visione del piano eterno di Dio verso
l’umanità, non si limita a porre in rilievo soltanto gli aspetti tradizionali
del costume o quelli etici del matrimonio, ma oltrepassa l’ambito
dell’insegnamento, e, scrivendo sul rapporto reciproco dei coniugi, scopre in
esso la dimensione dello stesso mistero di Cristo, di cui egli è annunziatore e
apostolo. “Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito
infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il
salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le
mogli siano soggette ai loro mariti, in tutto. E voi, mariti, amate le vostre
mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei . . .” (Ef
5, 22-25). In tal modo, l’insegnamento proprio di questa parte parenetica
della lettera viene, in certo senso, inserito nella realtà stessa del mistero
nascosto fin dall’eternità in Dio e rivelato all’umanità in Gesù Cristo. Nella
lettera agli Efesini siamo testimoni, direi, di un particolare incontro di quel
mistero con l’essenza stessa della vocazione al matrimonio. Come bisogna
intendere questo incontro?
8. Nel testo della lettera agli Efesini esso si
presenta anzitutto come una grande analogia. Vi leggiamo: “Le mogli siano
sottomesse ai mariti come al Signore . . .”: ecco la prima componente
dell’analogia. “Il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo
è capo della Chiesa . . .”: ecco la seconda componente, che costituisce il
chiarimento e la motivazione della prima. “E come la Chiesa sta sottomessa a
Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti . . .”: il
rapporto di Cristo con la Chiesa, presentato precedentemente, viene ora espresso
quale rapporto della Chiesa con Cristo, e qui è compresa la componente
successiva dell’analogia. Infine: “E voi, mariti, amate le vostre mogli, come
Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei . . .”: ecco l’ultima
componente dell’analogia. Il seguito del testo della lettera sviluppa il
pensiero fondamentale, contenuto nel passo or ora citato; e l’intero testo della
lettera agli Efesini al capitolo 5 (Ef 5, 21-23) è interamente permeato
della stessa analogia; cioè: il rapporto reciproco tra i coniugi, marito e
moglie, va inteso dai cristiani a immagine del rapporto tra Cristo e la
Chiesa.
Mercoledì, 18 agosto 1982
1. Analizzando le rispettive componenti della
lettera agli Efesini, abbiamo costatato mercoledì scorso che, il rapporto
reciproco tra i coniugi, marito e moglie, va inteso dai cristiani ad immagine
del rapporto tra Cristo e la Chiesa.
Questo rapporto è rivelazione e realizzazione nel
tempo del mistero della salvezza, dell’elezione di amore, “nascosta”
dall’eternità in Dio. In questa rivelazione e realizzazione il mistero della
salvezza comprende il tratto particolare dell’amore sponsale nel rapporto di
Cristo con la Chiesa, e perciò lo si può esprimere nel modo più adeguato,
ricorrendo all’analogia del rapporto che c’è - che deve esserci - tra marito e
moglie nel matrimonio. Tale analogia chiarisce il mistero, almeno fino ad
un certo grado. Anzi, sembra che, secondo l’Autore della lettera agli Efesini,
questa analogia sia complementare di quella di “Corpo Mistico” (cf. Ef 1,
22-23), quando cerchiamo di esprimere il mistero del rapporto di Cristo con la
Chiesa e - risalendo ancor più lontano - il mistero dell’amore eterno di Dio
verso l’uomo, verso l’umanità: il mistero, che si esprime e si realizza nel
tempo attraverso il rapporto di Cristo con la Chiesa.
2. Se - come è stato detto - questa analogia
illumina il mistero, essa stessa a sua volta viene illuminata da quel mistero.
Il rapporto sponsale che unisce i coniugi, marito e moglie, deve - secondo
l’Autore della lettera agli Efesini - aiutarci a comprendere l’amore che unisce
il Cristo con la Chiesa, quell’amore reciproco di Cristo e della Chiesa, in cui
si realizza l’eterno piano divino della salvezza dell’uomo. Tuttavia, il
significato dell’analogia non si esaurisce qui. L’analogia usata nella lettera
agli Efesini, chiarendo il mistero del rapporto tra il Cristo e la Chiesa,
contemporaneamente svela la verità essenziale sul matrimonio: cioè, che
il matrimonio corrisponde alla vocazione dei cristiani solo quando rispecchia
l’amore che Cristo-Sposo dona alla Chiesa sua Sposa, e che la Chiesa (a
somiglianza della moglie “sottomessa”, dunque pienamente donata) cerca di
ricambiare a Cristo. Questo è l’amore redentore, salvatore, l’amore con cui
l’uomo dall’eternità è stato amato da Dio in Cristo: “In lui ci ha scelti prima
della creazione del mondo, / per essere santi e immacolati al suo cospetto . .
.” (Ef 1, 4).
3. Il matrimonio corrisponde alla vocazione dei
cristiani in quanto coniugi soltanto se, appunto, quell’amore vi si rispecchia
ed attua. Ciò diverrà chiaro se cercheremo di rileggere l’analogia
paolina nella direzione inversa, cioè partendo dal rapporto di Cristo con
la Chiesa, e volgendoci poi al rapporto del marito e della moglie nel
matrimonio. Nel testo è usato il tono esortativo: “Le mogli siano sottomesse ai
mariti . . . come la Chiesa sta sottomessa a Cristo”. E d’altra parte: “Voi,
mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa . . .”. Queste
espressioni dimostrano che si tratta di un obbligo morale. Tuttavia, per poter
raccomandare tale obbligo, bisogna ammettere che nell’essenza stessa del
matrimonio si racchiude una particella dello stesso mistero. Altrimenti,
tutta questa analogia rimarrebbe sospesa nel vuoto. L’invito dell’Autore della
lettera agli Efesini, rivolto ai coniugi, perché modellino il loro rapporto
reciproco a somiglianza del rapporto di Cristo con la Chiesa (“come -
così”), sarebbe privo di una base reale, come se gli mancasse il terreno
sotto i piedi. Tale è la logica dell’analogia usata nel citato testo agli
Efesini.
4. Come si vede, questa analogia opera in due
direzioni. Se, da una parte, ci consente di comprendere meglio l’essenza del
rapporto di Cristo con la Chiesa, dall’altra, al tempo stesso, ci permette di
penetrare più profondamente nell’essenza del matrimonio, al quale sono chiamati
i cristiani. Essa manifesta, in un certo senso, il modo in cui questo
matrimonio, nella sua essenza più profonda, emerge dal mistero dell’amore
eterno di Dio verso l’uomo e l’umanità: da quel mistero salvifico, che si compie
nel tempo mediante l’amore sponsale di Cristo verso la Chiesa. Partendo dalle
parole della lettera agli Efesini (Ef 5, 22-33), possiamo in seguito
sviluppare il pensiero contenuto nella grande analogia paolina in due direzioni:
sia nella direzione di una più profonda comprensione della Chiesa, sia nella
direzione di una più profonda comprensione del matrimonio. Nelle nostre
considerazioni seguiremo anzitutto questa seconda, memori che, alla base della
comprensione del matrimonio nella sua essenza stessa, sta il rapporto sponsale
di Cristo con la Chiesa. Quel rapporto va analizzato ancor più accuratamente per
poter stabilire - supponendo l’analogia con il matrimonio - in qual modo questo
diventi segno visibile dell’eterno mistero divino, ad immagine della
Chiesa unita con Cristo. In questo modo la lettera agli Efesini ci conduce alle
basi stesse della sacramentalità del matrimonio.
5. Intraprendiamo, dunque, un’analisi
particolareggiata del testo. Quando leggiamo nella lettera agli Efesini che “il
marito . . . è capo della moglie come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che
è il salvatore del suo corpo” (Ef 5, 23), possiamo supporre che l’Autore,
il quale ha già prima chiarito che la sottomissione della moglie al marito, come
capo, va intesa quale sottomissione reciproca “nel timore di Cristo”, risale al
concetto radicato nella mentalità del tempo, per esprimere anzitutto la verità
circa il rapporto di Cristo con la Chiesa, cioè che Cristo è capo della Chiesa.
È capo come “salvatore del suo corpo”. La Chiesa è appunto quel corpo che -
essendo sottomesso in tutto a Cristo come suo capo - riceve da lui tutto ciò,
per cui diviene ed è suo corpo: cioè la pienezza della salvezza come dono di
Cristo, il quale “ha dato se stesso per lei” sino alla fine. Il “donarsi” di
Cristo al Padre per mezzo dell’obbedienza fino alla morte di croce acquista qui
un senso strettamente ecclesiologico: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se
stesso per lei” (Ef 5, 25). Attraverso una totale donazione per amore
ha formato la Chiesa come suo corpo e continuamente la edifica,
divenendo suo capo. Come capo è salvatore del suo corpo e, nello stesso tempo,
quale salvatore è capo. Come capo e salvatore della Chiesa è anche sposo della
sua sposa.
6. In tanto la Chiesa è se stessa, in quanto, come
corpo, accoglie da Cristo, suo capo, l’intero dono della salvezza come frutto
dell’amore di Cristo e della sua donazione per la Chiesa: frutto della donazione
di Cristo sino alla fine. Quel dono di sé al Padre per mezzo dell’obbedienza
fino alla morte (cf. Fil 2, 8) è contemporaneamente, secondo la lettera
agli Efesini, un “dare se stesso per la Chiesa”. In questa espressione,
l’amore redentore si trasforma, direi, in amore sponsale: Cristo,
dando se stesso per la Chiesa, con lo stesso atto redentore si è unito una volta
per sempre con essa, come lo sposo con la sposa, come il marito con la moglie,
donandosi attraverso tutto ciò che una volta per sempre è racchiuso in quel suo
“dare se stesso” per la Chiesa. In tal modo, il mistero della redenzione del
corpo nasconde in sé, in certo senso, il mistero “delle nozze dell’Agnello” (cf.
Ap 19, 7). Poiché Cristo è capo del corpo, l’intero dono salvifico della
redenzione penetra la Chiesa come il corpo di quel capo, e forma continuamente
la più profonda, essenziale sostanza della sua vita. E la forma al modo
sponsale, dato che nel testo citato l’analogia del corpo-capo passa
nell’analogia dello sposo-sposa, o piuttosto del marito-moglie. Lo dimostrano i
brani successivi del testo, ai quali converrà passare in seguito.
Mercoledì, 25 agosto 1982
1. Nelle precedenti considerazioni sul quinto
capitolo della lettera agli Efesini (Ef 5, 21-33) abbiamo richiamato
particolarmente l’attenzione sull’analogia del rapporto che esiste tra Cristo e
la Chiesa, e di quello che esiste tra lo sposo e la sposa, cioè tra il marito e
la moglie, uniti dal vincolo sponsale. Prima di accingerci all’analisi dei brani
ulteriori del testo in questione, dobbiamo prendere coscienza del fatto che
nell’ambito della fondamentale analogia paolina: Cristo e Chiesa da una parte,
uomo e donna, come coniugi, dall’altra, vi è pure un’analogia supplementare:
l’analogia cioè del Capo e del Corpo. Ed è proprio questa analogia a
conferire un significato principalmente ecclesiologico all’enunciato da noi
analizzato: la Chiesa, come tale, è formata da Cristo; è costituita da lui nella
sua parte essenziale, come il corpo dal capo. L’unione del corpo con il capo è
soprattutto di natura organica, è, in semplici parole, l’unione somatica
dell’organismo umano. Su questa unione organica si fonda, in modo diretto,
l’unione biologica, in quanto si può dire che “il corpo vive dal capo” (anche
se, in pari tempo, sebbene in un altro modo, il capo vive dal corpo). E inoltre,
se si tratta dell’uomo, su questa unione organica si fonda anche l’unione
psichica, intesa nella sua integrità e, in definitiva, l’unità integrale della
persona umana.
2. Come già è stato detto (per lo meno nel brano
analizzato), l’Autore della lettera agli Efesini ha introdotto l’analogia
supplementare del capo e del corpo nell’ambito dell’analogia del matrimonio.
Sembra perfino che abbia concepito la prima analogia: “capo-corpo”, in maniera
più centrale dal punto di vista della verità su Cristo e sulla Chiesa, da lui
proclamata. Tuttavia, bisogna ugualmente affermare che non l’ha posta accanto
o al di fuori dell’analogia del matrimonio come legame sponsale. Anzi, al
contrario. Nell’intero testo della lettera agli Efesini (Ef 5, 22-33), e
specialmente nella prima parte, di cui ci stiamo occupando (Ef 5, 22-23),
l’Autore parla come se nel matrimonio anche il marito sia “capo della moglie”, e
la moglie “corpo del marito” come se anche i coniugi formino una unione
organica. Ciò può trovare il suo fondamento nel testo della Genesi, in cui si
parla di “una sola carne” (Gen 2, 24), ossia in quello stesso testo, al
quale l’Autore della lettera agli Efesini si riferirà tra poco nel quadro della
sua grande analogia. Nondimeno, nel testo del libro della Genesi viene
chiaramente posto in evidenza che si tratta dell’uomo e della donna, come di due
distinti soggetti personali, i quali decidono coscientemente della loro unione
coniugale, definita da quell’arcaico testo con i termini: “una sola carne”. E
anche nella lettera agli Efesini, questo è ugualmente ben chiaro. L’Autore si
serve di una duplice analogia: capo-corpo, marito-moglie, al fine di illustrare
con chiarezza la natura dell’unione tra Cristo e la Chiesa. In un certo
senso, specialmente in questo primo passo del testo agli Efesini 5, 22-33,
la dimensione ecclesiologica sembra decisiva e prevalente.
3. “Le mogli siano sottomesse ai mariti, come al
Signore; il marito infatti è capo della moglie, come Cristo è capo della Chiesa,
lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo,
così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto. E voi, mariti, amate
le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei...”
(Ef 5, 22-25). Questa analogia supplementare “capo-corpo” fa sì che
nell’ambito dell’intero brano della lettera agli Efesini 5, 22-23 abbiamo
a che fare con due soggetti distinti, i quali, in virtù di un particolare
rapporto reciproco, diventano in certo senso un solo soggetto: il capo
costituisce insieme al corpo un soggetto (nel senso fisico e metafisico), un
organismo, una persona umana, un essere. Non vi è dubbio che Cristo è un
soggetto diverso dalla Chiesa, tuttavia, in virtù di un particolare rapporto, si
unisce con essa, come in una unione organica del capo e del corpo: la Chiesa è
così fortemente, così essenzialmente se stessa in virtù di una unione con Cristo
(mistico). È possibile dire lo stesso dei coniugi, dell’uomo e della donna,
uniti in un legame matrimoniale? Se l’Autore della lettera agli Efesini vede
l’analogia dell’unione del capo con il corpo anche nel matrimonio, questa
analogia, in un certo senso, sembra rapportarsi al matrimonio in considerazione
dell’unione che Cristo costituisce con la Chiesa e la Chiesa con Cristo. Quindi
l’analogia riguarda soprattutto il matrimonio stesso come quell’unione per cui
“due formeranno una carne sola” (Ef 5, 31; cf. Gen 2, 24).
4. Questa analogia, tuttavia, non offusca
l’individualità dei soggetti: quella del marito e quella della moglie, cioè
l’essenziale bi-soggettività che sta alla base dell’immagine di “un solo corpo”,
anzi, l’essenziale bi-soggettività del marito e della moglie nel matrimonio, che
fa di loro in un certo senso “un solo corpo”, passa, nell’ambito di tutto il
testo che stiamo esaminando (Ef 5, 22-33), all’immagine della
Chiesa-Corpo, unita con Cristo come Capo. Ciò si vede specialmente nel seguito
di questo testo, dove l’Autore descrive il rapporto di Cristo con la Chiesa
appunto mediante l’immagine del rapporto del marito con la moglie. In questa
descrizione la Chiesa-Corpo di Cristo appare chiaramente come il soggetto
secondo dell’unione coniugale, al quale il soggetto primo, Cristo, manifesta
l’amore di cui l’ha amata dando “se stesso per lei”. Quell’amore è immagine e
soprattutto modello dell’amore che il marito deve manifestare alla moglie nel
matrimonio, quando ambedue sono sottomessi l’un l’altro “nel timore di Cristo”.
5. Leggiamo infatti: “E voi, mariti, amate le vostre
mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla
santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola,
al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia
né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno
il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria
moglie ama se stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al
contrario siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua
madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola” (Ef 5,
25-31).
6. È facile scorgere che in questa parte del testo
della lettera agli Efesini 5, 22-33 “prevale” chiaramente la
bi-soggettività: essa viene rilevata sia nel rapporto Cristo-Chiesa, sia
anche nel rapporto marito-moglie. Ciò non vuol dire che sparisca l’immagine di
un soggetto unico: l’immagine di “un solo corpo”. Essa è conservata anche nel
brano del nostro testo, e in un certo senso vi è ancor meglio spiegata. Ciò si
vedrà con più chiarezza quando sottoporremo ad un’analisi particolareggiata il
brano sopracitato. Così dunque l’Autore della lettera agli Efesini parla
dell’amore di Cristo verso la Chiesa, spiegando il modo in cui quell’amore si
esprime, e presentando, nello stesso tempo, sia quell’amore sia le sue
espressioni come modello che il marito deve seguire nei riguardi della propria
moglie. L’amore di Cristo verso la Chiesa ha essenzialmente, come scopo, la sua
santificazione: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso... per
renderla santa” (Ef 5, 25-26). Al principio di questa
santificazione è il battesimo, primo ed essenziale frutto della donazione
di sé, che Cristo ha fatto per la Chiesa. In questo testo, il battesimo non
viene chiamato col proprio nome, ma definito come purificazione “per mezzo del
lavacro dell’acqua, accompagnato dalla parola” (Ef 5, 26). Questo
lavacro, con la potenza che deriva dalla donazione redentrice di sé, che Cristo
ha fatto per la Chiesa, opera la purificazione fondamentale mediante la quale
l’amore di lui verso la Chiesa acquista, agli occhi dell’Autore della lettera,
un carattere sponsale.
7. È noto che al sacramento del battesimo partecipa
un soggetto individuale nella Chiesa. L’Autore della lettera, tuttavia,
attraverso quel soggetto individuale del battesimo vede tutta la Chiesa. L’amore
sponsale di Cristo si riferisce ad essa, alla Chiesa ogni qualvolta una persona
singola riceve in essa la purificazione fondamentale per mezzo del battesimo.
Chi riceve il battesimo, in virtù dell’amore redentore di Cristo, diviene al
tempo stesso partecipe del suo amore sponsale verso la Chiesa. “Il lavacro
dell’acqua, accompagnato dalla parola” è, nel nostro testo, l’espressione
dell’amore sponsale, nel senso che prepara la sposa (Chiesa) allo Sposo, fa
la Chiesa sposa di Cristo, direi, “in actu primo”. Alcuni studiosi della Bibbia
osservano qui che, nel testo da noi citato, il “lavacro dell’acqua” rievoca
l’abluzione rituale che precedeva lo sposalizio, il che costituiva un importante
rito religioso anche presso i Greci.
8. Come sacramento del battesimo il “lavacro
dell’acqua, accompagnato dalla parola” (Ef 5, 26) rende sposa la Chiesa
non solo “in actu primo”, ma anche nella prospettiva più lontana, ossia
nella prospettiva escatologica. Questa si apre davanti a noi quando,
nella lettera agli Efesini, leggiamo che “il lavacro dell’acqua” serve, da parte
dello sposo, “al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa,
senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5,
27). L’espressione “di farsi comparire davanti” sembra indicare quel momento
dello sposalizio, in cui la sposa viene condotta allo sposo, già vestita
dell’abito nuziale e adornata per lo sposalizio. Il testo citato rileva che lo
stesso Cristo-Sposo ha cura di adornare la sposa-Chiesa, ha cura che essa sia
bella della bellezza della grazia, bella in virtù del dono della salvezza nella
sua pienezza, già concesso fin dal sacramento del battesimo. Ma il battesimo è
soltanto l’inizio, da cui dovrà emergere la figura della Chiesa gloriosa (come
leggiamo nel testo), quale frutto definitivo dell’amore redentore e sponsale,
solamente con l’ultima venuta di Cristo (parusia).
Vediamo quanto profondamente l’Autore della lettera
agli Efesini scruta la realtà sacramentale, proclamandone la grande analogia:
sia l’unione di Cristo con la Chiesa, sia l’unione sponsale dell’uomo e della
donna nel matrimonio vengono in tal modo illuminate da una particolare luce
soprannaturale.
Mercoledì, 1° settembre 1982
1. L’Autore della lettera agli Efesini, proclamando
l’analogia tra il vincolo sponsale che unisce Cristo e la Chiesa, e quel che
unisce il marito e la moglie nel matrimonio, così scrive: “E voi, mariti, amate
le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per
renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato
dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa,
senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5,
25-27).
2. È significativo che l’immagine della Chiesa
gloriosa venga presentata, nel testo citato, come una sposa tutta bella
nel suo corpo. Certo, questa è una metafora; ma essa è molto eloquente, e
testimonia quanto profondamente incida il momento del corpo nell’analogia
dell’amore sponsale. La Chiesa “gloriosa” è quella “senza macchia né ruga”.
“Macchia” può essere intesa come segno di bruttezza, “ruga” come segno
d’invecchiamento e di senilità. Nel senso metaforico sia l’una che l’altra
espressione indicano i difetti morali, il peccato. Si può aggiungere che in san
Paolo l’“uomo vecchio” significa l’uomo del peccato (cf. Rm 6, 6). Cristo
quindi con il suo amore redentore e sponsale fa sì che la Chiesa non solo
diventi senza peccato, ma resti “eternamente giovane”.
3. L’ambito della metafora è, come si vede, ben
vasto. Le espressioni che si riferiscono direttamente e immediatamente al corpo
umano, caratterizzandolo nei rapporti reciproci tra lo sposo e la sposa, tra il
marito e la moglie, indicano al tempo stesso attributi e qualità di ordine
morale, spirituale e soprannaturale. Ciò è essenziale per tale analogia.
Pertanto l’Autore della lettera può definire lo stato “glorioso” della Chiesa in
rapporto allo stato del corpo della sposa, libero da segni di bruttezza o
d’invecchiamento (“o alcunché di simile”), semplicemente come santità e assenza
del peccato: tale è la Chiesa “santa e immacolata”. È dunque ovvio di
quale bellezza della sposa si tratti, in qual senso la Chiesa sia corpo di
Cristo e in qual senso quel Corpo-Sposa accolga il dono dello Sposo che “ha
amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei”. Nondimeno è significativo che san
Paolo spieghi tutta questa realtà, che per essenza è spirituale e
soprannaturale, attraverso la somiglianza del corpo e dell’amore per cui i
coniugi, marito e moglie, diventano “una sola carne”.
4. Nell’intero passo del testo citato è ben
chiaramente conservato il principio della bi-soggettività: Cristo-Chiesa,
Sposo-Sposa (marito-moglie). L’Autore presenta l’amore di Cristo verso la Chiesa
- quell’amore che fa della Chiesa il corpo di Cristo, di cui egli è il capo -
come modello dell’amore degli sposi e come modello delle nozze dello sposo e
della sposa. L’amore obbliga lo sposo-marito ad essere sollecito per il bene
della sposa-moglie, lo impegna a desiderarne la bellezza ed insieme a sentire
questa bellezza e ad averne cura. Si tratta qui anche della bellezza visibile,
della bellezza fisica. Lo sposo scruta con attenzione la sua sposa quasi nella
creativa, amorosa inquietudine di trovare tutto ciò che di buono e di bello è in
lei e che per lei desidera. Quel bene che colui che ama crea, col suo amore, in
chi è amato, è come una verifica dello stesso amore e la sua misura. Donando se
stesso nel modo più disinteressato, colui che ama non lo fa fuori di questa
misura e di questa verifica.
5. Quando l’Autore della lettera agli Efesini - nei
successivi versetti del testo (Ef 5, 28-29) - volge la mente
esclusivamente ai coniugi stessi, l’analogia del rapporto di Cristo con la
Chiesa risuona ancor più profonda e lo spinge ad esprimersi così: “I mariti
hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo” (Ef 5,
28). Qui ritorna dunque il motivo dell’“una sola carne”, che nella suddetta
frase e nelle frasi successive viene non soltanto ripreso, ma anche chiarito. Se
i mariti debbono amare le loro mogli come il proprio corpo, ciò significa che
quella uni-soggettività si fonda sulla base della bi-soggettività e non ha
carattere reale, ma intenzionale: il corpo della moglie non è il corpo proprio
del marito, ma deve essere amato come il corpo proprio. Si tratta quindi
dell’unità, non nel senso ontologico, ma morale: dell’unità per amore.
6. “Chi ama la propria moglie ama se stesso” (Ef
5, 28). Questa frase conferma ancora di più quel carattere di unità. In certo
senso, l’amore fa dell’“io” altrui il proprio “io”: l’“io” della moglie, direi,
diviene per amore l’“io” del marito. Il corpo è l’espressione di quell’“io” e il
fondamento della sua identità. L’unione del marito e della moglie nell’amore si
esprime anche attraverso il corpo. Si esprime nel rapporto reciproco, sebbene
l’Autore della lettera agli Efesini lo indichi soprattutto da parte del marito.
Ciò risulta dalla struttura della totale immagine. Sebbene i coniugi debbano
essere “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (ciò è stato messo
in evidenza già nel primo versetto del testo citato) (Ef 5, 22-23),
tuttavia in seguito il marito è soprattutto colui che ama e la
moglie invece colei che è amata. Si potrebbe perfino arrischiare l’idea
che la “sottomissione” della moglie al marito, intesa nel contesto dell’intero
brano (Ef 5, 22-23) della lettera agli Efesini, significhi soprattutto il
“provare l’amore”. Tanto più che questa “sottomissione” si riferisce
all’immagine della sottomissione della Chiesa a Cristo, che certamente consiste
nel provare il suo amore. La Chiesa, come sposa, essendo oggetto dell’amore
redentore di Cristo-sposo, diventa suo corpo. La moglie, essendo oggetto
dell’amore sponsale del marito, diventa “una sola carne” con lui: in certo
senso, la sua “propria” carne. L’Autore ripeterà questa idea ancora una volta
nell’ultima frase del brano qui analizzato: “Quindi anche voi, ciascuno da parte
sua, ami la propria moglie come se stesso” (Ef 5, 33).
7. Questa è l’unità morale, condizionata e
costituita dall’amore. L’amore non solo unisce i due soggetti, ma consente loro
di compenetrarsi a vicenda, appartenendo spiritualmente l’uno all’altro, al
punto tale che l’Autore della lettera può affermare: “Chi ama la propria moglie,
ama se stesso” (Ef 5, 28). L’“io” diventa in certo senso il “tu” e il
“tu” l’“io” (s’intende, nel senso morale). E perciò il seguito del testo da noi
analizzato suona così: “Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne;
al contrario, la nutre e la cura, come fa Cristo, poiché siamo membra del suo
corpo” (Ef 5, 29-30). La frase, che inizialmente si riferisce ancora ai
rapporti dei coniugi, in fase successiva ritorna esplicitamente al rapporto
Cristo-Chiesa, e così, alla luce di quel rapporto, ci induce a definire il senso
dell’intera frase. L’Autore, dopo aver spiegato il carattere del rapporto del
marito con la propria moglie formando “una carne sola”, vuole ancora rafforzare
la sua precedente affermazione (“chi ama la propria moglie, ama se stesso”) e,
in un certo senso, sostenerla con la negazione e l’esclusione della
possibilità opposta (“nessuno mai infatti ha preso in odio la propria
carne”) (Ef 5, 29). Nell’unione per amore, il corpo “altrui” diviene
“proprio” nel senso che si ha premura del bene del corpo altrui come del
proprio. Le suddette parole, caratterizzando l’amore “carnale” che deve unire i
coniugi, esprimono, si può dire, il contenuto più generale e, ad un tempo, il
più essenziale. Esse sembrano parlare di questo amore soprattutto con il
linguaggio dell’“agape”.
8. L’espressione secondo cui l’uomo “nutre e cura”
la propria carne - cioè che il marito “nutre e cura” la carne della moglie come
la propria - sembra indicare piuttosto la premura dei genitori, il rapporto
tutelare, anziché la tenerezza coniugale. La motivazione di tale carattere deve
essere cercata nel fatto che l’Autore passa qui distintamente dal rapporto che
unisce i coniugi al rapporto tra Cristo e la Chiesa. Le espressioni che si
riferiscono alla cura del corpo, e prima di tutto al suo nutrimento, alla sua
alimentazione, suggeriscono a numerosi studiosi di Sacra Scrittura il
riferimento all’Eucaristia, di cui Cristo, nel suo amore sponsale,
“nutre” la Chiesa. Se queste espressioni, sia pure in tono minore,
indicano il carattere specifico dell’amore coniugale, specialmente di
quell’amore per cui i coniugi diventano “una sola carne”, esse in pari tempo,
aiutano a comprendere, almeno in modo generale, la dignità del corpo e
l’imperativo morale di aver cura del suo bene: di quel bene che corrisponde alla
sua dignità. Il paragone con la Chiesa come Corpo di Cristo, Corpo del suo amore
redentore ed insieme sponsale, deve lasciare nella coscienza dei destinatari
della lettera agli Efesini (Ef 5, 22-23) un senso profondo del
“sacrum” del corpo umano in genere, e specialmente nel matrimonio, come
“luogo” in cui tale senso del “sacrum” determina in modo particolarmente
profondo i rapporti reciproci delle persone, e soprattutto quelle dell’uomo con
la donna, in quanto moglie e madre dei loro figli.
Mercoledì, 8 settembre 1982
1. L’autore della lettera agli Efesini scrive:
“Nessuno mai . . . ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la
cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo” (Ef
5, 29-30). Dopo questo versetto, l’Autore ritiene opportuno citare quello che
nell’intera Bibbia può essere considerato il testo fondamentale sul matrimonio,
testo contenuto in Genesi, capitolo 2,24: “Per questo l’uomo lascerà suo
padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola” (Ef
5, 31; Gen 2, 24). È possibile dedurre dall’immediato contesto della
lettera agli Efesini che la citazione del Libro della Genesi (Gen 2, 24)
è qui necessaria non tanto per ricordare l’unità dei coniugi, definita fin “da
principio” nell’opera della creazione, quanto per presentare il mistero di
Cristo con la Chiesa, da cui l’Autore deduce la verità sull’unità dei coniugi.
Questo è il punto più importante di tutto il testo, in certo senso, la sua
chiave di volta. L’Autore della lettera agli Efesini racchiude in queste
parole tutto ciò che ha detto in precedenza, tracciando l’analogia e presentando
la somiglianza tra l’unità dei coniugi e l’unità di Cristo con la Chiesa.
Riportando le parole del Libro della Genesi (Gen 2, 24), l’Autore rileva
che le basi di tale analogia vanno cercate nella linea che, nel piano
salvifico di Dio, unisce il matrimonio, come la più antica rivelazione (e
“manifestazione”) di quel piano nel mondo creato, con la rivelazione e
“manifestazione” definitiva, la rivelazione cioè che “Cristo ha amato la
Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25), conferendo al suo amore
redentore indole e senso sponsale.
2. Così dunque questa analogia che permea il testo
della lettera agli Efesini (Ef 5, 22-23) ha la base ultima nel piano
salvifico di Dio. Questo diverrà ancor più chiaro ed evidente quando
collocheremo il brano del testo da noi analizzato nel complessivo contesto della
lettera agli Efesini. Allora si comprenderà più facilmente la ragione per cui
l’Autore, dopo aver citato le parole del Libro della Genesi (Gen 2, 24),
scrive: “Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa”
(Ef 5, 32).
Nel contesto globale della lettera agli Efesini e
inoltre nel contesto più ampio delle parole della Sacra Scrittura che rivelano
il piano salvifico di Dio “da principio”, bisogna ammettere che il termine
“mysterion” significa qui il mistero, prima nascosto nel pensiero divino, e
in seguito rivelato nella storia dell’uomo. Si tratta infatti di un mistero “grande”,
data la sua importanza: quel mistero, come piano salvifico di Dio nei riguardi
dell’umanità, è, in certo senso, il tema centrale di tutta la rivelazione, la
sua realtà centrale. È ciò che Dio, come Creatore e Padre, desidera soprattutto
trasmettere agli uomini nella sua Parola.
3. Si trattava di trasmettere non solo la “buona
novella” sulla salvezza, ma di iniziare al tempo stesso l’opera della
salvezza, come frutto della grazia che santifica l’uomo per la vita eterna
nell’unione con Dio. Appunto sulla via di questa rivelazione-attuazione, san
Paolo pone in rilievo la continuità tra la più antica alleanza, che Dio stabilì
costituendo il matrimonio già nell’opera della creazione, e l’alleanza
definitiva in cui Cristo, dopo aver amato la Chiesa e aver dato se stesso per
lei, si unisce con essa in modo sponsale, corrispondente cioè all’immagine dei
coniugi. Questa continuità dell’iniziativa salvifica di Dio costituisce
la base essenziale della grande analogia contenuta nella lettera agli Efesini.
La continuità della iniziativa salvifica di Dio significa la continuità e
perfino l’identità del mistero, del “grande mistero”, nelle diverse fasi della
sua rivelazione - quindi in certo senso, della sua “manifestazione” - ed insieme
dell’attuazione; nella fase “più antica” dal punto di vista della storia
dell’uomo e della salvezza e nella fase “della pienezza del tempo” (Gal
4, 4).
4. È possibile intendere quel “grande mistero” come
“sacramento”? L’Autore della lettera agli Efesini parla forse, nel testo da noi
citato, del sacramento del matrimonio? Se non ne parla direttamente e in senso
stretto - qui occorre esser d’accordo con l’opinione abbastanza diffusa dei
biblisti e teologi - tuttavia sembra che in questo testo parli delle basi
della sacramentalità di tutta la vita cristiana, e in particolare, delle
basi della sacramentalità del matrimonio. Parla dunque della sacramentalità di
tutta l’esistenza cristiana nella Chiesa e in specie del matrimonio in modo
indiretto, tuttavia nel modo più fondamentale possibile.
5. “Sacramento” non è sinonimo di “mistero”
(1).
Il mistero infatti rimane “occulto” - nascosto in Dio stesso - cosicché anche
dopo la sua proclamazione (ossia rivelazione) non cessa di chiamarsi “mistero”,
e viene anche predicato come mistero. Il sacramento presuppone la rivelazione
del mistero e presuppone anche la sua accettazione mediante la fede, da parte
dell’uomo. Tuttavia esso è ad un tempo qualcosa di più che la proclamazione del
mistero e l’accettazione di esso mediante la fede. Il sacramento consiste nel “manifestare”
quel mistero in un segno che serve non solo a proclamare il mistero, ma
anche ad attuarlo nell’uomo. Il sacramento è segno visibile ed efficace
della grazia. Per suo mezzo si attua nell’uomo quel mistero nascosto dalla
eternità in Dio, di cui parla, subito all’inizio, la lettera agli Efesini (cf.
Ef 1, 9) - mistero della chiamata alla santità, da parte di Dio,
dell’uomo in Cristo, e mistero della sua predestinazione a divenire figlio
adottivo. Esso si attua in modo misterioso, sotto il velo di un segno; nondimeno
quel segno è pur sempre un “rendere visibile” quel mistero soprannaturale che
agisce nell’uomo sotto il suo velo.
6. Prendendo in considerazione il passo della
lettera agli Efesini qui analizzato, e in particolare le parole: “Questo mistero
è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa”, bisogna costatare che
l’Autore della Lettera scrive non soltanto del grande mistero nascosto in Dio,
ma anche - e soprattutto - del mistero che si realizza per il fatto che Cristo,
il quale con atto di amore redentore ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per
lei, col medesimo atto si è unito con la Chiesa in modo sponsale, così come si
uniscono reciprocamente marito e moglie nel matrimonio istituito dal Creatore.
Sembra che le parole della lettera agli Efesini motivino sufficientemente ciò
che leggiamo all’inizio stesso della costituzione
Lumen Gentium: “. . . la Chiesa è in Cristo come un sacramento o
segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere
umano” (Lumen Gentium, 1). Questo testo del Vaticano II non dice: “La
Chiesa è sacramento”, ma “è come sacramento”, indicando con questo che della
sacramentalità della Chiesa bisogna parlare in modo analogico e non identico
rispetto a ciò che intendiamo quando ci riferiamo ai sette sacramenti
amministrati dalla Chiesa per istituzione di Cristo. Se esistono le basi per
parlare della Chiesa come di un sacramento, tali basi sono state per la maggior
parte indicate appunto nella lettera agli Efesini.
7. Si può dire che tale sacramentalità della Chiesa
è costituita da tutti i sacramenti per mezzo dei quali essa compie la sua
missione santificatrice. Si può inoltre dire che la sacramentalità della Chiesa
è fonte dei sacramenti, e in particolare del Battesimo e dell’Eucaristia, come
risulta dal brano, già analizzato, della lettera agli Efesini (cf. Ef 5,
25-30). Bisogna infine dire che la sacramentalità della Chiesa rimane in un
particolare rapporto con il matrimonio: il sacramento più antico.
Mercoledì, 15 settembre 1982
1. Abbiamo davanti a noi il testo della lettera agli
Efesini 5, 22-33, che già da qualche tempo stiamo analizzando a motivo
della sua importanza per il problema del matrimonio e del sacramento.
Nell’insieme del suo contenuto, a cominciare dal primo capitolo, la lettera
tratta soprattutto del mistero “da secoli” “nascosto in Dio”, come dono
eternamente destinato all’uomo. “Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro
Gesù Cristo, / che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in
Cristo. / In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, / per essere
santi e immacolati al suo cospetto nella carità, / predestinandoci a essere suoi
figli adottivi / per opera di Gesù Cristo, / secondo il beneplacito della sua
volontà. / E questo a lode e gloria della sua grazia, / che ci ha dato nel suo
Figlio diletto” (Ef 1, 3-6).
2. Finora si parla del mistero nascosto “da secoli”
(Ef 3, 9) in Dio. Le frasi successive, introducono il lettore nella fase
di attuazione di quel mistero nella storia dell’uomo: il dono, destinato
a lui “da secoli” in Cristo, diviene parte reale dell’uomo nello stesso
Cristo: “. . . nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, / la
remissione dei peccati / secondo la ricchezza della sua grazia. / Egli
l’ha abbondantemente riversata su di noi / con ogni sapienza e intelligenza, /
poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, / secondo
quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito / per realizzarlo nella
pienezza dei tempi: / il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, /
quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1, 7-10).
3. Così l’eterno mistero è passato dallo stato del
“nascondimento in Dio” alla fase di rivelazione ed attuazione. Cristo, nel quale
l’umanità è stata “da secoli” scelta e benedetta “di ogni benedizione
spirituale” del Padre - Cristo, destinato, secondo l’eterno “disegno” di Dio,
affinché in lui, come nel Capo “fossero ricapitolate tutte le cose, quelle del
cielo come quelle della terra” nella prospettiva escatologica - rivela
l’eterno mistero e lo attua tra gli uomini. Perciò l’Autore della lettera agli
Efesini, nel seguito della lettera stessa, esorta coloro ai quali è giunta
questa rivelazione, e quanti l’hanno accolta nella fede, a modellare la loro
vita nello spirito della verità conosciuta. Alla stessa cosa esorta in modo
particolare i coniugi cristiani, mariti e mogli.
4. Per la massima parte del contesto, la lettera
diviene istruzione, ossia parenesi. L’Autore sembra parlare soprattutto degli
aspetti morali della vocazione dei cristiani, tuttavia facendo continuo
riferimento al mistero, che già opera in loro in virtù della redenzione
di Cristo, e opera con efficacia soprattutto in virtù del battesimo. Scrive
infatti: “In lui anche voi, / dopo aver ascoltato la parola della verità, / il
Vangelo della vostra salvezza / e avere in esse creduto, / avete ricevuto il
suggello dello Spirito Santo / che era stato promesso” (Ef 1, 13). Così
dunque gli aspetti morali della vocazione cristiana rimangono collegati
non soltanto con la rivelazione dell’eterno mistero divino in Cristo e con
l’accettazione di esso nella fede, ma anche con l’ordine sacramentale,
che, pur non ponendosi al primo piano in tutta la lettera, sembra tuttavia
esservi presente in modo discreto. Del resto, non può essere diversamente dato
che l’Apostolo scrive ai cristiani i quali, mediante il battesimo, erano
divenuti membri della comunità ecclesiale. Da questo punto di vista, il brano
della lettera agli Efesini 5, 22-33, finora analizzato, sembra avere una
importanza particolare. Getta infatti una luce speciale sull’essenziale rapporto
del mistero col sacramento e specialmente sulla sacramentalità del matrimonio.
5. Al centro del mistero è Cristo. In lui -
proprio in lui - l’umanità è stata eternamente benedetta “con ogni benedizione
spirituale”. In lui - in Cristo - l’umanità è stata scelta “prima della
creazione del mondo”, scelta “nella carità” e predestinata all’adozione di
figli. Quando in seguito, con la “pienezza dei tempi”, questo eterno mistero
viene realizzato nel tempo, ciò si attua anche in lui e per lui; in Cristo e per
Cristo. Per mezzo di Cristo viene rivelato il mistero dell’Amore divino. Per lui
e in lui, esso viene reso compiuto: in lui “abbiamo la redenzione mediante il
suo sangue, / la remissione dei peccati . . .” (Ef 1, 7). In tal modo gli
uomini che accettano mediante la fede il dono offerto loro in Cristo, divengono
realmente partecipi dell’eterno mistero, sebbene esso operi in loro sotto i veli
della fede. Questo soprannaturale conferimento dei frutti della redenzione
compiuta da Cristo acquista, secondo la lettera agli Efesini 5, 22-33, il
carattere di un darsi sponsale di Cristo stesso alla Chiesa a somiglianza del
rapporto sponsale tra il marito e la moglie. Quindi non solo i frutti della
redenzione sono dono, ma soprattutto lo è il Cristo: egli dà se stesso alla
Chiesa, come a sua sposa.
6. Dobbiamo porre la domanda, se in questo punto
tale analogia non ci consenta di penetrare più profondamente e con
maggior precisione nel contenuto essenziale del mistero. Dobbiamo porci
tale domanda, tanto più che quel “classico” passo della lettera agli Efesini (cf.
Ef 5, 22-33) non appare in astratto e isolato, ma costituisce una
continuità, in un certo senso un seguito degli enunciati dell’Antico
Testamento, i quali presentavano l’amore di Dio-Jahvè verso il popolo-Israele da
lui eletto secondo la stessa analogia. Si tratta in primo luogo dei testi dei
Profeti che nei loro discorsi hanno introdotto la somiglianza dell’amore
sponsale per caratterizzare in modo particolare l’amore che Jahvè nutre verso
Israele, l’amore che da parte del popolo eletto non trova comprensione e
contraccambio; anzi, incontra infedeltà e tradimento. L’espressione di infedeltà
e tradimento fu anzitutto l’idolatria, culto reso agli dèi stranieri.
7. Per dire il vero, nella maggior parte dei casi si
trattava di rilevare in modo drammatico proprio quel tradimento e quella
infedeltà denominati “adulterio” di Israele; tuttavia, alla base di tutti
questi enunciati dei profeti sta l’esplicita convinzione che
l’amore di Jahvè verso il popolo eletto può e deve essere paragonato all’amore
che unisce lo sposo con la sposa, l’amore che deve unire i coniugi. Converrebbe
qui citare numerosi passi dei testi di Isaia, Osea, Ezechiele (alcuni di essi
sono stati già riportati in precedenza quando è stato analizzato il concetto di
“adulterio” sullo sfondo delle parole pronunciate da Cristo nel discorso della
Montagna). Non si può dimenticare che al patrimonio dell’Antico Testamento
appartiene anche il “Cantico dei Cantici” in cui l’immagine dell’amore sponsale
è stata delineata - è vero - senza l’analogia tipica dei testi profetici, che
presentavano in quell’amore l’immagine dell’amore di Jahvè verso Israele, ma
anche senza quell’elemento negativo che negli altri testi costituisce il motivo
di “adulterio” ossia di infedeltà. Così dunque l’analogia dello sposo e della
sposa, che ha consentito all’Autore della lettera agli Efesini di definire
il rapporto di Cristo con la Chiesa, possiede una ricca tradizione nei
libri dell’Antica Alleanza. Analizzando questa analogia nel “classico” testo
della lettera agli Efesini, non possiamo non riportarci a quella tradizione.
8. Per illustrare tale tradizione ci limiteremo per
il momento a citare un brano del testo di Isaia. Il profeta dice: “Non temere,
perché non dovrai più arrossire; / non vergognarti, perché non sarai più
disonorata; / anzi, dimenticherai la vergogna della tua giovinezza / e non
ricorderai più il disonore della tua vedovanza. / Poiché tuo sposo è il tuo
creatore, / Signore degli eserciti è il suo nome; / tuo redentore è il Santo di
Israele, / è chiamato Dio di tutta la terra. / Come una donna abbandonata / e
con l’animo afflitto, il Signore ti ha richiamata. / Viene forse ripudiata la
donna sposata in gioventù? / Dice il tuo Dio. / Per un breve istante ti ho
abbandonata, / ma ti riprenderò con immenso amore. / . . . / non si
allontanerebbe da te il mio affetto, / né vacillerebbe la mia alleanza di pace;
/ dice il Signore che ti usa misericordia” (Is 54, 4-7.10).
Durante il nostro prossimo incontro inizieremo
l’analisi del testo citato di Isaia.
Mercoledì, 22 settembre 1982
1. La lettera agli Efesini, attraverso il paragone
del rapporto tra Cristo e la Chiesa con il rapporto sponsale dei coniugi, fa
riferimento alla tradizione dei profeti dell’Antico Testamento. Per illustrarlo,
citiamo il seguente testo di Isaia: “Non temere, perché non dovrai più
arrossire; / non vergognarti, perché non sarai più disonorata; / anzi,
dimenticherai la vergogna della tua giovinezza / e non ricorderai più il
disonore della tua vedovanza. / Poiché tuo sposo è il tuo creatore, / Signore
degli eserciti è il suo nome; / tuo redentore è il Santo di Israele, / è
chiamato Dio di tutta la terra. / Come una donna abbandonata e con l’animo
afflitto, / il Signore ti ha richiamata. / Viene forse ripudiata la donna
sposata in gioventù? / Dice il tuo Dio. / Per un breve istante ti ho abbandonata
/ ma ti riprenderò con immenso amore. / In un impeto di collera / ti ho nascosto
per un poco il mio volto; / ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, / dice
il tuo redentore, il Signore. / Ora è per me come ai giorni di Noè, / quando
giurai che non avrei più riversato / le acque di Noè sulla terra; / così ora
giuro di non più adirarmi con te / e di non farti più minacce. / Anche se i
monti si spostassero / e i colli vacillassero, / non si allontanerebbe da te il
mio affetto, / né vacillerebbe la mia alleanza di pace; / dice il Signore che ti
usa misericordia” (Is 54, 4-10).
2. Il testo di Isaia non contiene in questo
caso i rimproveri fatti ad Israele come a sposa infedele, che echeggiano con
tanta forza negli altri testi, in particolare di Osea o di Ezechiele. Grazie a
ciò, diventa più trasparente il contenuto essenziale dell’analogia biblica:
l’amore di Dio-Jahvè verso Israele-popolo eletto è espresso come l’amore
dell’uomo-sposo verso la donna eletta per essergli moglie attraverso il patto
coniugale. In tal modo Isaia spiega gli avvenimenti che compongono il corso
della storia di Israele, risalendo al mistero nascosto quasi nel cuore stesso di
Dio. In certo senso, egli ci conduce nella medesima direzione, in cui ci
condurrà, dopo molti secoli, l’Autore della lettera agli Efesini, il quale -
basandosi sulla redenzione già compiuta in Cristo - svelerà molto più pienamente
la profondità dello stesso mistero.
3. Il testo del profeta ha tutto il colorito della
tradizione e della mentalità degli uomini dell’Antico Testamento. Il profeta,
parlando a nome di Dio e quasi con le sue parole, si rivolge ad Israele come
sposo alla sposa da lui eletta. Queste parole traboccano di un autentico ardore
d’amore e nello stesso tempo pongono in rilievo tutta la specificità sia della
situazione sia della mentalità proprie di quell’epoca. Esse sottolineano che
la scelta da parte dell’uomo toglie alla donna il “disonore”, che, secondo
l’opinione della società, sembrava connesso allo stato nubile sia originario (la
verginità), sia secondario (la vedovanza), sia infine quello derivato dal
ripudio della moglie non amata (cf. Dt 24, 1) o eventualmente della
moglie infedele. Tuttavia, il testo citato non fa menzione dell’infedeltà;
rileva invece il motivo di “amore misericordioso” (Nel testo ebraico abbiamo le
parole hesed-rahamim, che appaiono insieme più di una volta.), indicando con ciò
non soltanto l’indole sociale del matrimonio nell’Antica Alleanza, ma
anche il carattere stesso del dono, che è l’amore di Dio verso
Israele-sposa: dono, che proviene interamente dall’iniziativa di Dio. In altre
parole: indicando la dimensione della grazia, che dal principio è
contenuta in quell’amore. Questa è forse la più forte “dichiarazione di amore”
da parte di Dio, collegata con il solenne giuramento di fedeltà per sempre.
4. L’analogia dell’amore che unisce i coniugi è in
questo brano fortemente rilevata. Isaia dice: “. . . tuo sposo è il tuo
creatore, / Signore degli eserciti è il suo nome; / tuo redentore è il Santo di
Israele, / è chiamato Dio di tutta la terra” (Is 54, 5). Così, dunque, in
quel testo lo stesso Dio, in tutta la sua maestà di Creatore e Signore della
creazione, viene esplicitamente chiamato “sposo” del popolo eletto. Questo
“sposo” parla del suo grande “affetto”, che non si “allontanerà” da
Israele-sposa, ma costituirà un fondamento stabile dell’“alleanza di pace” con
lui. Così il motivo dell’amore sponsale e del matrimonio viene collegato
con il motivo dell’alleanza. Inoltre il “Signore degli eserciti” chiama
se stesso non soltanto “creatore”, ma anche “redentore”. Il testo ha un
contenuto teologico di ricchezza straordinaria.
5. Confrontando il testo di Isaia con la lettera
agli Efesini e costatando la continuità riguardo all’analogia dell’amore
sponsale e del matrimonio, dobbiamo rilevare al tempo stesso una certa diversità
di ottica teologica. L’Autore della lettera già nel primo capitolo parla del
mistero dell’amore e dell’elezione, con cui “Dio, Padre del Signore nostro Gesù
Cristo” abbraccia gli uomini nel suo Figlio, soprattutto come di un mistero
“nascosto nella mente di Dio”. Questo è il mistero dell’amore paterno, mistero
dell’elezione alla santità (“per essere santi e immacolati al suo cospetto”) (Ef
1, 4) e dell’adozione a figli in Cristo (“predestinandoci a essere suoi figli
adottivi per opera di Gesù Cristo”) (Ef 1, 5). In tale contesto, la
deduzione dell’analogia circa il matrimonio, che abbiamo trovato in Isaia (“tuo
sposo è il tuo creatore, Signore degli eserciti è il suo nome”) (Is 54,
5), sembra essere uno scorcio facente parte della prospettiva teologica. La
prima dimensione dell’amore e dell’elezione, come mistero da secoli nascosto
in Dio, è una dimensione paterna e non “coniugale”. Secondo la lettera
agli Efesini, la prima nota caratteristica di quel mistero resta connessa con la
paternità stessa di Dio, messa particolarmente in rilievo dai profeti (cf. Os
11, 1-4; Is 63, 8-9; 64, 7; Ml 1, 6).
6. L’analogia dell’amore sponsale e del matrimonio
appare soltanto quando il “Creatore” e il “Santo di Israele” del testo di Isaia
si manifesta come “Redentore”. Isaia dice: “Tuo sposo è il tuo creatore, Signore
degli eserciti è il suo nome; / tuo redentore è il Santo di Israele” (Is
54, 5). Già in questo testo è possibile, in certo senso, leggere il parallelismo
tra lo “sposo” e il “Redentore”. Passando alla lettera agli Efesini, dobbiamo
osservare che questo pensiero vi è appunto pienamente sviluppato. La figura del
Redentore (Sebbene nei più antichi libri biblici il “redentore” [ebr. go’el]
significasse la persona obbligata per legami di sangue a vendicare il parente
ucciso [cfr., ex. gr., Nm. 35, 19], a portare aiuto al parente sfortunato
[cfr., ex. gr., Ru. 4, 6] e specialmente a riscattarlo dalla schiavitù
[cfr., ex. gr., Lv. 25, 48], con l’andar del tempo questa analogia venne
applicata a Jahvè, “il quale ha riscattato Israele dalla condizione servile,
dalla mano del faraone, re di Egitto” [Dt. 7, 8]. Particolarmente nel
Deutero-Isaia l’accento si sposta dall’azione di riscatto alla persona del
Redentore, che personalmente salva Israele, quasi soltanto mediante la sua
stessa presenza, “senza denaro e senza regali” [Is. 45, 13]. Perciò il
passaggio dal “Redentore” della profezia di Isaia 54 alla lettera agli Efesini
ha la stessa motivazione dell’applicazione, nella suddetta lettera, dei testi
del Canto sul Servo di Jahvè [cfr. Is. 53, 10-12; Ef. 5, 23.
25-26]) si delinea già nel I capitolo come propria di colui che è il primo
“Figlio diletto” del Padre (Ef 1, 6), diletto dall’eternità: di
colui, nel quale noi tutti siamo stati “da secoli” amati dal Padre. È il Figlio
della stessa sostanza del Padre, “nel quale abbiamo la remissione
mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua
grazia” (Ef 1, 7). Lo stesso Figlio, come Cristo (ossia come Messia), “ha
amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25).
Questa splendida formulazione della lettera agli
Efesini riassume in sé e insieme mette in rilievo gli elementi del Canto sul
Servo di Jahvè e del Canto di Sion (cf. ex. gr. Is 42, 1; 53, 8-12; 54,
8).
E così la donazione di se stesso per la Chiesa
equivale al compimento dell’opera della redenzione. In tal modo, il “creatore,
Signore degli eserciti” del testo di Isaia diviene il “Santo di Israele”, del
“nuovo Israele”, quale Redentore. Nella lettera agli Efesini la prospettiva
teologica del testo profetico è conservata ed insieme approfondita e
trasformata. Vi entrano nuovi momenti rivelati: il momento trinitario,
cristologico (Al posto della relazione “Dio-Israele”, Paolo introduce il
rapporto “Cristo-Chiesa”, applicando a Cristo tutto ciò che nell’Antico
Testamento si riferisce a jahvè [Adonai - Kyrios]. Cristo è Dio, ma Paolo gli
applica anche tutto ciò che si riferisce al Servo di Jahvè nei quattro Canti [Is.
42; 49; 50; 52-53], interpretati nel periodo intertestamentario in senso
messianico. Il motivo del “Capo” e del “Corpo” non è di derivazione biblica, ma
probabilmente ellenistica [stoica?]. Nella lettera agli Efesini questo tema è
stato utilizzato nel contesto del matrimonio [mentre nella prima lettera ai
Corinzi il tema del “Corpo” serve a dimostrare l’ordine che regna nella
società]. Dal punto di vista biblico l’introduzione di questo motivo è una
novità assoluta.) e infine escatologico.
7. Così dunque san Paolo, scrivendo la lettera al
Popolo di Dio della Nuova Alleanza e precisamente alla Chiesa di Efeso, non
ripeterà più: “Tuo sposo è il tuo creatore”, ma mostrerà in che modo il
“Redentore”, che è il Figlio primogenito e da secoli “diletto del Padre”, rivela
contemporaneamente il suo amore salvifico, che consiste nella donazione
di se stesso per la Chiesa, come amore sponsale con cui egli sposa la Chiesa
e la fa proprio Corpo. Così l’analogia dei testi profetici dell’Antico
Testamento (nel caso, soprattutto del libro di Isaia) rimane nella lettera agli
Efesini conservata e nello stesso tempo evidentemente trasformata. All’analogia
corrisponde il mistero, che attraverso essa viene espresso e in certo senso
spiegato. Nel testo di Isaia questo mistero è appena delineato, quasi
“socchiuso”; nella lettera agli Efesini, invece, è pienamente svelato
(s’intende, senza cessare di esser mistero). Nella lettera agli Efesini è
esplicitamente distinta la dimensione eterna del mistero in quanto nascosto in
Dio (“Padre del Signore nostro Gesù Cristo”) e la dimensione della sua
realizzazione storica, secondo la sua dimensione cristologica e insieme
ecclesiologica. L’analogia del matrimonio si riferisce soprattutto alla seconda
dimensione. Anche nei profeti (in Isaia) l’analogia del matrimonio si riferiva
direttamente ad una dimensione storica: era collegata con la storia del
popolo eletto dell’Antica Alleanza, con la storia di Israele; invece, la
dimensione cristologica ed ecclesiologica, nell’attuazione
veterotestamentaria del mistero, si trovava solo come in embrione: fu soltanto
preannunziata.
Nondimeno è chiaro che il testo di Isaia ci aiuta a
comprendere meglio la lettera agli Efesini e la grande analogia dell’amore
sponsale di Cristo e della Chiesa.
Mercoledì, 29 settembre 1982
1. Nella lettera agli Efesini (Ef 5, 22-33) -
come nei profeti dell’Antico Testamento (ad esempio in Isaia) - troviamo la
grande analogia del matrimonio o dell’amore sponsale tra Cristo e la Chiesa.
Quale funzione compie questa analogia nei riguardi
del mistero rivelato nell’Antica e nella Nuova Alleanza? A questa domanda
bisogna rispondere gradualmente. Prima di tutto, l’analogia dell’amore coniugale
o sponsale aiuta a penetrare nell’essenza stessa del mistero. Aiuta a
comprenderlo fino ad un certo punto, s’intende, in modo analogico. È ovvio che
l’analogia dell’amore terrestre, umano, del marito verso la moglie, dell’umano
amore sponsale, non può offrire una comprensione adeguata e completa di quella
Realtà assolutamente trascendente, che è il mistero divino, sia nel suo celarsi
da secoli in Dio, sia nella sua realizzazione “storica” nel tempo, quando
“Cristo ha amato la Chiesa ed ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25).
Il mistero rimane trascendente riguardo a questa analogia come riguardo a
qualunque altra analogia, con cui cerchiamo di esprimerlo in linguaggio umano.
Contemporaneamente, tuttavia, tale analogia offre la possibilità di una certa
“penetrazione” conoscitiva nell’essenza stessa del mistero.
2. L’analogia dell’amore sponsale ci consente di
comprendere in certo modo il mistero che da secoli è nascosto in Dio, e che nel
tempo viene realizzato da Cristo, come l’amore proprio di un totale e
irrevocabile dono di sé da parte di Dio all’uomo in Cristo. Si tratta
dell’“uomo” nella dimensione personale e insieme comunitaria (questa dimensione
comunitaria viene espressa nel libro di Isaia e nei profeti come “Israele”,
nella lettera agli Efesini come “Chiesa”; si può dire: Popolo di Dio dell’Antica
e della Nuova Alleanza). Aggiungiamo che in ambedue le concezioni, la dimensione
comunitaria è posta, in certo senso, in primo piano, ma non tanto da velare
totalmente la dimensione personale, che d’altronde appartiene semplicemente
all’essenza stessa dell’amore sponsale. In ambedue i casi abbiamo piuttosto a
che fare con una significativa “riduzione della comunità alla persona”
(Non si tratta soltanto della personificazione della società umana, che
costituisce un fenomeno abbastanza comune nella letteratura mondiale, ma di una
“corporate personality” specifica della Bibbia, contrassegnata da un
continuo reciproco rapporto dell’individuo con il gruppo [cf. H. Wheeler
Robinson, The Hebrew Conception of Corporate Personality: BZAW 66
[1936] 49-62; cf. anche J. L. McKenzie, Aspects of Old Testament Thought,
in “The Jerome Biblical Commentary”, vol. 2, London 1970, p. 748]): Israele e la
Chiesa sono considerati come sposa-persona da parte dello sposo-persona (“Jahvè”
e “Cristo”). Ogni “io” concreto deve ritrovare se stesso in quel biblico “noi”.
3. Così dunque l’analogia di cui trattiamo consente
di comprendere, in un certo grado, il mistero rivelato del Dio vivo, che è
Creatore e Redentore (e in quanto tale è, al tempo stesso, Dio dell’alleanza);
ci consente di comprendere tale mistero al modo di un amore sponsale, così come
consente di comprenderlo anche al modo di un amore “misericordioso” (secondo il
testo del libro di Isaia), oppure al modo di un amore “paterno” (secondo la
lettera agli Efesini, principalmente nel capitolo 1). I modi suddetti di
comprendere il mistero sono anch’essi senz’altro analogici. L’analogia
dell’amore sponsale contiene in sé una caratteristica del mistero, che non viene
direttamente messa in risalto né dall’analogia dell’amore misericordioso né
dall’analogia dell’amore paterno (o da qualunque altra analogia usata nella
Bibbia, a cui avremmo potuto riferirci).
4. L’analogia dell’amore degli sposi (o amore
sponsale) sembra porre in risalto soprattutto il momento del dono di
se stesso da parte di Dio all’uomo, “da secoli” scelto in Cristo
(letteralmente: ad “Israele”, alla “Chiesa”); dono totale (o piuttosto
“radicale”) e irrevocabile nel suo carattere essenziale, ossia come dono. Questo
dono è certamente “radicale” e perciò “totale”. Non si può parlare qui della
“totalità” in senso metafisico. L’uomo, infatti, come creatura non è capace di
“accogliere” il dono di Dio nella pienezza trascendentale della sua divinità. Un
tale “dono totale” (non creato) viene soltanto partecipato da Dio stesso nella
“trinitaria comunione delle Persone”. Invece, il dono di se stesso da parte di
Dio all’uomo, di cui parla l’analogia dell’amore sponsale, può avere soltanto
la forma della partecipazione alla natura divina (cf. 2 Pt 1, 4),
come è stato chiarito con grande precisione dalla teologia. Nondimeno, secondo
tale misura, il dono fatto all’uomo da parte di Dio in Cristo è un dono “totale”
ossia “radicale”, come indica appunto l’analogia dell’amore sponsale: è, in
certo senso, “tutto” ciò che Dio “ha potuto” dare di se stesso all’uomo,
considerate le facoltà limitate dell’uomo-creatura. In tal modo, l’analogia
dell’amore sponsale indica il carattere “radicale” della grazia: di tutto
l’ordine della grazia creata.
5. Quanto sopra sembra che si possa dire in
riferimento alla prima funzione della nostra grande analogia, che è passata
dagli scritti dei profeti dell’Antico Testamento alla lettera agli Efesini,
dove, come è stato già notato, ha subìto una significativa trasformazione.
L’analogia del matrimonio, come realtà umana, in cui viene incarnato l’amore
sponsale, aiuta in certo grado e in certo modo a comprendere il mistero della
grazia come realtà eterna in Dio e come frutto “storico” della redenzione
dell’umanità in Cristo. Tuttavia, abbiamo detto in precedenza che questa
analogia biblica non solo “spiega” il mistero, ma che, d’altra parte, il mistero
definisce e determina il modo adeguato di comprendere l’analogia, e precisamente
questa sua componente, in cui gli autori biblici vedono “l’immagine e
somiglianza” del mistero divino. Così, dunque, la comparazione del
matrimonio (a motivo dell’amore sponsale) al rapporto di “Jahvè-Israele”
nell’Antica Alleanza e di “Cristo-Chiesa” nella Nuova Alleanza decide in pari
tempo circa il modo di comprendere il matrimonio stesso e determina
questo modo.
6. Questa è la seconda funzione della nostra
grande analogia. E, nella prospettiva di questa funzione, ci avviciniamo di
fatto al problema “sacramento e mistero”, ossia, in senso generale e
fondamentale, al problema della sacramentalità del matrimonio. Ciò pare
particolarmente motivato alla luce dell’analisi della lettera agli Efesini (Ef
5, 22-33). Presentando infatti il rapporto di Cristo con la Chiesa a immagine
dell’unione sponsale del marito e della moglie, l’Autore di questa lettera parla
nel modo più generale ed insieme fondamentale non solo del realizzarsi
dell’eterno mistero divino, ma anche del modo in cui quel mistero si è espresso
nell’ordine visibile, del modo in cui è divenuto visibile, e per questo è
entrato nella sfera del Segno.
7. Con il termine “segno” intendiamo qui
semplicemente la “visibilità dell’Invisibile”. Il mistero da secoli nascosto in
Dio - ossia invisibile - è divenuto visibile prima di tutto nello stesso
evento storico di Cristo. E il rapporto di Cristo con la Chiesa, che nella
lettera agli Efesini viene definito “mysterium magnum”, costituisce
l’adempimento e la concretizzazione della visibilità dello stesso mistero.
Peraltro, il fatto che l’Autore della lettera agli Efesini paragoni
l’indissolubile rapporto di Cristo con la Chiesa al rapporto tra il marito e la
moglie, cioè al matrimonio - facendo al tempo stesso riferimento alle parole
della Genesi (Gen 2, 24), che con l’atto creatore di Dio istituiscono
originariamente il matrimonio -, volge la nostra riflessione verso ciò che è
stato presentato già in precedenza - nel contesto del mistero stesso della
creazione - come “visibilità dell’Invisibile”, verso l’“origine” stessa della
storia teologica dell’uomo.
Si può dire che il segno visibile del matrimonio “in
principio”, in quanto collegato al segno visibile di Cristo e della Chiesa al
vertice dell’economia salvifica di Dio, traspone l’eterno piano di amore
nella dimensione “storica” e ne fa il fondamento di tutto l’ordine
sacramentale. Un particolare merito dell’Autore della lettera agli Efesini
sta nell’aver accostato questi due segni, facendone l’unico grande segno,
cioè un grande sacramento (“sacramentum magnum”).
Mercoledì, 6 ottobre 1982
1. Proseguiamo l’analisi del classico testo del
capitolo 5 della lettera agli Efesini, versetti 22-23. A questo proposito
occorre citare alcune frasi contenute in una delle precedenti analisi dedicate a
questo tema: “L’uomo appare nel mondo visibile come la più alta espressione del
dono divino, perché porta in sé l’interiore dimensione del dono. E con essa
porta nel mondo la sua particolare somiglianza con Dio, con la quale egli
trascende e domina anche la sua «visibilità» nel mondo, la sua corporeità, la
sua mascolinità o femminilità, la sua nudità. Un riflesso di questa somiglianza
è anche la consapevolezza primordiale del significato sponsale del corpo,
pervasa dal mistero dell’innocenza originaria” (L’amore umano nel piano
divino, Città del Vaticano 1980, p. 90). Queste frasi riassumono in poche
parole il risultato delle analisi centrate sui primi capitoli del libro della
Genesi, in rapporto alle parole con cui Cristo, nel suo colloquio con i Farisei
sul tema del matrimonio e della sua indissolubilità, fece riferimento al
“principio”. Altre frasi della medesima analisi pongono il problema del
sacramento primordiale: “Così, in questa dimensione, si costituisce un
primordiale sacramento, inteso quale segno che trasmette efficacemente nel mondo
visibile il mistero invisibile nascosto in Dio dall’eternità. E questo è il
mistero della Verità e dell’Amore, il mistero della vita divina, alla quale
l’uomo partecipa realmente . . . È l’innocenza originaria che inizia questa
partecipazione . . .” (Ivi.).
2. Bisogna rivedere il contenuto di queste
affermazioni alla luce della dottrina paolina espressa nella lettera agli
Efesini, avendo presente soprattutto il passo del capitolo 5, 22-33,
collocato nel contesto complessivo di tutta la lettera. Del resto, la lettera ci
autorizza a far questo, perché l’Autore stesso nel capitolo 5, versetto 31, fa
riferimento al “principio”, e precisamente alle parole dell’istituzione del
matrimonio nel libro della Genesi (Gen 2, 24).In che senso possiamo
intravedere in queste parole un enunciato circa il sacramento, circa il
sacramento primordiale? Le precedenti analisi del “principio” biblico ci hanno
condotto gradualmente a questo, in considerazione dello stato dell’originaria
gratificazione dell’uomo nell’esistenza e nella grazia, che fu lo stato di
innocenza e di giustizia originarie. La lettera agli Efesini ci induce ad
accostarci a tale situazione - ossia allo stato dell’uomo prima del peccato
originale - dal punto di vista del mistero nascosto dall’eternità in Dio.
Infatti leggiamo nelle prime frasi della lettera che “Dio, Padre del
Signore nostro Gesù Cristo / . . . ci ha benedetti con ogni
benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. / In lui ci ha scelti prima
della creazione del mondo, / per essere santi e immacolati al suo
cospetto nella carità . . .” (Ef 1, 3-4).
3. La lettera agli Efesini apre davanti a noi il
mondo soprannaturale dell’eterno mistero, degli eterni disegni di Dio Padre nei
riguardi dell’uomo. Questi disegni precedono la “creazione del mondo”, quindi
anche la creazione dell’uomo. Al tempo stesso quei disegni divini cominciano a
realizzarsi già in tutta la realtà della creazione. Se al mistero della
creazione appartiene anche lo stato dell’innocenza originaria dell’uomo creato,
come maschio e femmina, ad immagine di Dio, ciò significa che il dono
primordiale, conferito all’uomo da parte di Dio, racchiudeva già in sé il
frutto dell’elezione, di cui leggiamo nella lettera agli Efesini: “Ci ha
scelti . . . per essere santi e immacolati al suo cospetto” (Ef 1,
4). Ciò appunto sembrano rilevare le parole del libro della Genesi, quando il
Creatore-Elohim trova nell’uomo - maschio e femmina - comparso “al suo
cospetto”, un bene degno di compiacimento: “Dio vide quanto aveva fatto, ed
ecco, era cosa molto buona” (Gen 1, 31). Solo dopo il peccato, dopo la
rottura dell’originaria alleanza con il Creatore, l’uomo sente il bisogno di
nascondersi “dal Signore Dio”: “Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto
paura, poiché sono nudo, e mi sono nascosto” (Gen 3, 10).
4. Invece, prima del peccato, l’uomo portava nella
sua anima il frutto dell’eterna elezione in Cristo, Figlio eterno del Padre.
Mediante la grazia di questa elezione l’uomo, maschio e femmina, era “santo e
immacolato” al cospetto di Dio. Quella primordiale (o originaria) santità e
purezza si esprimeva anche nel fatto che, sebbene entrambi fossero “nudi . . .,
non provavano vergogna” (Gen 2, 25), come già abbiamo cercato di mettere
in evidenza nelle precedenti analisi. Confrontando la testimonianza del
“principio”, riportata nei primi capitoli del libro della Genesi, con la
testimonianza della lettera agli Efesini, occorre dedurre che la realtà della
creazione dell’uomo era già permeata dalla perenne elezione dell’uomo
in Cristo: chiamata alla santità attraverso la grazia di adozione a figli
(“predestinandoci a essere suoi figli adottivi / per opera di Gesù Cristo, /
secondo il beneplacito della sua volontà. / E questo a lode e gloria della sua
grazia, / che ci ha dato nel suo Figlio diletto”) (Ef 1, 5-6).
5. L’uomo, maschio e femmina, divenne fin dal
“principio” partecipe di questo dono soprannaturale. Tale gratificazione è stata
data in considerazione di Colui, che dall’eternità era “diletto” quale Figlio,
sebbene - secondo le dimensioni del tempo e della storia - essa abbia preceduto
l’incarnazione di questo “Figlio diletto” e anche la “redenzione” che abbiamo in
lui “mediante il suo sangue” (Ef 1, 7).
La redenzione doveva diventare la fonte della
gratificazione soprannaturale dell’uomo dopo il peccato e, in certo senso,
malgrado il peccato. Questa gratificazione soprannaturale, che ebbe luogo prima
del peccato originale, cioè la grazia della giustizia e dell’innocenza
originarie - gratificazione che fu frutto dell’elezione dell’uomo in Cristo
prima dei secoli - si è compiuta appunto per riguardo a lui, a quell’unico
Diletto, pur anticipando cronologicamente la sua venuta nel corpo. Nelle
dimensioni del mistero della creazione, la elezione alla dignità della
figliolanza adottiva fu propria soltanto del “primo Adamo”, cioè dell’uomo
creato ad immagine e somiglianza di Dio, quale maschio e femmina.
6. In quale modo si verifica in questo contesto
la realtà del sacramento, del sacramento primordiale? Nell’analisi del
“principio”, di cui è stato citato poco fa un brano, abbiamo detto che “il
sacramento, come segno visibile, si costituisce con l’uomo, in quanto «corpo»,
mediante la sua «visibile» mascolinità e femminilità. Il corpo, infatti, e
soltanto esso, è capace di rendere visibile ciò che è invisibile: lo spirituale
e il divino. Esso è stato creato per trasferire nella realtà visibile del mondo
il mistero nascosto dall’eternità in Dio, e così esserne segno” (L’amore
umano nel piano divino, Città del Vaticano 1980, p. 90).
Questo segno ha inoltre una sua efficacia, come
ancora dicevo: “L’innocenza originaria collegata all’esperienza del significato
sponsale del corpo” fa sì che “l’uomo si sente, nel suo corpo di maschio e di
femmina, soggetto di santità” (Ivi., p. 91). “Si sente” e lo è fin dal
“principio”. Quella santità conferita originariamente all’uomo da parte del
Creatore appartiene alla realtà del “sacramento della creazione”. Le parole
della Genesi 2, 24, “l’uomo . . . si unirà a sua moglie e i due
saranno una sola carne”, pronunciate sullo sfondo di questa realtà originaria in
senso teologico, costituiscono il matrimonio quale parte integrante e, in
certo senso, centrale del “sacramento della creazione”. Esse
costituiscono - o forse piuttosto confermano semplicemente - il carattere della
sua origine. Secondo queste parole, il matrimonio è sacramento in quanto parte
integrale e, direi, punto centrale del “sacramento della creazione”. In questo
senso è sacramento primordiale.
7. L’istituzione del matrimonio, secondo le
parole della Genesi 2, 24, esprime non soltanto l’inizio della
fondamentale comunità umana che, mediante la forza “procreatrice” che le è
propria (“siate fecondi e moltiplicatevi”) (Gen 1, 28), serve a
continuare l’opera della creazione, ma essa nello stesso tempo esprime
l’iniziativa salvifica del Creatore, corrispondente alla eterna elezione
dell’uomo, di cui parla la lettera agli Efesini. Quella iniziativa salvifica
proviene da Dio-Creatore e la sua efficacia soprannaturale s’identifica con
l’atto stesso della creazione dell’uomo nello stato dell’innocenza originaria.
In questo stato, già fin nell’atto della creazione dell’uomo, fruttificò la sua
eterna elezione in Cristo. In tal modo occorre riconoscere che l’originario
sacramento della creazione trae la sua efficacia dal “Figlio diletto” (cf.
Ef 1, 6: dove si parla della “grazia che ci ha dato nel suo Figlio
diletto”). Se poi si tratta del matrimonio, si può dedurre che - istituito nel
contesto del sacramento della creazione nella sua globalità, ossia nello stato
dell’innocenza originaria - esso doveva servire non soltanto a prolungare
l’opera della creazione, ossia della procreazione, ma anche ad espandere sulle
ulteriori generazioni degli uomini lo stesso sacramento della creazione, cioè i
frutti soprannaturali dell’eterna elezione dell’uomo da parte del Padre
nell’eterno Figlio: quei frutti, di cui l’uomo è stato gratificato da Dio
nell’atto stesso della creazione.
La lettera agli Efesini sembra autorizzarci ad
intendere in tal modo il libro della Genesi e la verità sul “principio”
dell’uomo e del matrimonio ivi contenuta.
Mercoledì, 13 ottobre 1982
1. Nella nostra precedente considerazione abbiamo
cercato di approfondire - alla luce della lettera agli Efesini - il “principio”
sacramentale dell’uomo e del matrimonio nello stato della giustizia (o
innocenza) originaria.
È noto, tuttavia, che l’eredità della grazia è stata
respinta dal cuore umano al momento della rottura della prima alleanza con il
Creatore. La prospettiva della procreazione, invece di essere illuminata
dall’eredità della grazia originaria, donata da Dio non appena infusa
l’anima razionale, è stata offuscata dalla eredità del peccato originale. Si può
dire che il matrimonio, come sacramento primordiale, è stato privato di quella
efficacia soprannaturale, che, al momento della istituzione, attingeva al
sacramento della creazione nella sua globalità. Nondimeno, anche in questo
stato, cioè nello stato della peccaminosità ereditaria dell’uomo, il
matrimonio non cessò mai di essere la figura di quel sacramento, di cui
leggiamo nella lettera agli Efesini (Ef 5, 22-33) e che l’Autore
della medesima lettera non esita a definire “grande mistero”. Non possiamo forse
desumere che il matrimonio sia rimasto quale piattaforma dell’attuazione degli
eterni disegni di Dio, secondo i quali il sacramento della creazione aveva
avvicinato gli uomini e li aveva preparati al sacramento della Redenzione,
introducendoli nella dimensione dell’opera della salvezza? L’analisi della
lettera agli Efesini, e in particolare del “classico” testo del capo 5, versetti
22-33, sembra propendere per una tale conclusione.
2. Quando l’Autore, al versetto 31, fa riferimento
alle parole dell’istituzione del matrimonio, contenute nella Genesi (2, 24: “Per
questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due
saranno una sola carne”), e subito dopo dichiara: “Questo mistero è grande; lo
dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa” (Ef 5, 32), sembra indicare
non soltanto l’identità del Mistero nascosto in Dio dall’eternità, ma anche
quella continuità della sua attuazione che esiste tra il sacramento primordiale
connesso alla gratificazione soprannaturale dell’uomo nella creazione stessa e
la nuova gratificazione - avvenuta quando “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato
se stesso per lei, per renderla santa . . .” (Ef 5, 25-26) -
gratificazione che può essere definita nel suo insieme quale Sacramento della
Redenzione. In questo dono redentore di se stesso “per” la Chiesa, è anche
racchiuso - secondo il pensiero paolino - il dono di sé da parte di Cristo alla
Chiesa, ad immagine del rapporto sponsale che unisce marito e moglie nel
matrimonio. In tal modo il Sacramento della Redenzione riveste, in certo senso,
la figura e la forma del sacramento primordiale. Al matrimonio del primo marito
e della prima moglie, quale segno della gratificazione soprannaturale dell’uomo
nel sacramento della creazione, corrisponde lo sposalizio, o piuttosto
l’analogia dello sposalizio, di Cristo con la Chiesa, quale fondamentale
“grande” segno della gratificazione soprannaturale dell’uomo nel Sacramento
della Redenzione, della gratificazione, in cui si rinnova, in modo definitivo,
l’alleanza della grazia di elezione, infranta al “principio” con il peccato.
3. L’immagine contenuta nel passo citato della
lettera agli Efesini sembra parlare soprattutto del Sacramento della Redenzione
come della definitiva attuazione del Mistero nascosto dall’eternità in Dio.
In questo “mysterium magnum” si realizza appunto definitivamente tutto
ciò, di cui la medesima lettera agli Efesini aveva trattato nel capitolo 1. Essa
infatti dice, come ricordiamo, non soltanto: “In lui (cioè in Cristo) [Dio] ci
ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo
cospetto . . .” (Ef 1, 4), ma anche: “Nel quale [Cristo] abbiamo la
redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati, secondo la
ricchezza della sua grazia. Egli l’ha abbondantemente riversata su di noi . . .”
(Ef 1, 7-8). La nuova gratificazione soprannaturale dell’uomo nel
“Sacramento della Redenzione” è anche una nuova attuazione del Mistero nascosto
dall’eternità in Dio, nuova in rapporto al sacramento della creazione. In questo
momento la gratificazione è, in certo senso, una “nuova creazione”. Si
differenzia però dal sacramento della creazione in quanto la gratificazione
originaria, unita alla creazione dell’uomo, costituiva quell’uomo “dal
principio”, mediante la grazia, nello stato della originaria innocenza e
giustizia. La nuova gratificazione dell’uomo nel Sacramento della Redenzione gli
dona invece soprattutto la “remissione dei peccati”. Tuttavia, anche qui può
“sovrabbondare la grazia”, come altrove si esprime san Paolo: “Laddove è
abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia” (Rm 5, 20).
4. Il Sacramento della Redenzione - frutto
dell’amore redentore di Cristo - diviene, in base al suo amore sponsale
verso la Chiesa, una permanente dimensione della vita della Chiesa
stessa, dimensione fondamentale e vivificante. È il “mysterium magnum” di
Cristo e della Chiesa: mistero eterno realizzato da Cristo, il quale “ha dato se
stesso per lei” (Ef 5, 25); mistero che si attua continuamente nella
Chiesa, perché Cristo “ha amato la Chiesa” (Ef 5, 25), unendosi con essa
con amore indissolubile, così come si uniscono gli sposi, marito e moglie, nel
matrimonio. In questo modo la Chiesa vive del Sacramento della Redenzione, e a
sua volta completa questo sacramento come la moglie, in virtù dell’amore
sponsale, completa il proprio marito, il che venne in certo modo già posto in
rilievo “al principio”, quando il primo uomo trovò nella prima donna “un aiuto
che gli era simile” (Gen 2, 20). Sebbene l’analogia della lettera agli
Efesini non lo precisi, possiamo tuttavia aggiungere che anche la Chiesa unita
con Cristo, come la moglie col proprio marito, attinge dal Sacramento della
Redenzione tutta la sua fecondità e maternità spirituale. Ne testimoniano, in
qualche modo, le parole della lettera di san Pietro, quando scrive che siamo
stati “rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola
di Dio viva ed eterna” (1 Pt 1, 23). Così il Mistero nascosto
dall’eternità in Dio - Mistero che al “principio”, nel sacramento della
creazione, divenne una realtà visibile attraverso l’unione del primo uomo
e della prima donna nella prospettiva del matrimonio - diventa nel Sacramento
della Redenzione una realtà visibile nell’unione indissolubile di Cristo con
la Chiesa, che l’Autore della lettera agli Efesini presenta come l’unione
sponsale dei coniugi, marito e moglie.
5. Il “sacramentum magnum” (il testo greco
dice: tò mysterion toûto méga estín) della lettera agli Efesini parla
della nuova realizzazione del Mistero nascosto dall’eternità in Dio;
realizzazione definitiva dal punto di vista della storia terrena della salvezza.
Parla inoltre del “renderlo [il mistero] visibile”: della visibilità
dell’Invisibile. Questa visibilità non fa sì che il mistero cessi d’esser
mistero. Ciò si riferiva al matrimonio costituito al “principio”, nello stato
dell’innocenza originaria, nel contesto del sacramento della creazione. Ciò si
riferisce anche all’unione di Cristo con la Chiesa, quale “mistero grande” del
Sacramento della Redenzione. La visibilità dell’Invisibile non significa - se
così si può dire - una totale chiarezza del mistero. Esso, come oggetto della
fede, rimane velato anche attraverso ciò in cui appunto si esprime e si attua.
La visibilità dell’Invisibile appartiene quindi all’ordine dei segni, e il
“segno” indica soltanto la realtà del mistero, ma non la “svela”. Come il “primo
Adamo” - l’uomo, maschio e femmina - creato nello stato dell’innocenza
originaria e chiamato in questo stato all’unione coniugale (in questo senso
parliamo del sacramento della creazione), fu segno dell’eterno Mistero, così il
“secondo Adamo”, Cristo, unito con la Chiesa attraverso il Sacramento della
Redenzione con un vincolo indissolubile, analogo all’indissolubile alleanza dei
coniugi, è segno definitivo dello stesso Mistero eterno. Parlando dunque del
realizzarsi dell’eterno mistero, parliamo anche del fatto che esso
diventa visibile con la visibilità del segno. E perciò parliamo pure della
“sacramentalità” di tutta l’eredità del Sacramento della Redenzione, in
riferimento all’intera opera della Creazione e della Redenzione, e tanto più in
riferimento al matrimonio istituito nel contesto del sacramento della creazione,
come anche in riferimento alla Chiesa come sposa di Cristo, dotata di
un’alleanza quasi coniugale con lui.
Mercoledì, 20 ottobre 1982
1. Mercoledì scorso abbiamo parlato dell’integrale
eredità dell’alleanza con Dio, e della grazia unita originariamente alla divina
opera della creazione. Di questa integrale eredità - come conviene dedurre dal
testo della lettera agli Efesini 5, 22-33 - faceva parte anche il
matrimonio, come sacramento primordiale, istituito dal “principio” e collegato
con il sacramento della creazione nella sua globalità. La sacramentalità del
matrimonio non è soltanto modello e figura del sacramento della Chiesa
(di Cristo e della Chiesa), ma costituisce anche parte essenziale della
nuova eredità: quella del sacramento della Redenzione, di cui la Chiesa viene
gratificata in Cristo. Occorre qui ancora una volta riportarsi alle parole di
Cristo in Matteo 19, 3-9 (cf. etiam Mc 10, 5-9), in cui Cristo,
nel rispondere alla domanda dei Farisei circa il matrimonio e il suo carattere
specifico, si riferisce soltanto ed esclusivamente alla istituzione
originaria di esso da parte del Creatore al “principio”. Riflettendo sul
significato di questa risposta alla luce della lettera agli Efesini, e in
particolare di Efesini 5, 22-33, concludiamo ad un rapporto in certo
senso duplice del matrimonio con tutto l’ordine sacramentale che, nella Nuova
Alleanza, emerge dallo stesso sacramento della Redenzione.
2. Il matrimonio come sacramento primordiale
costituisce, da una parte, la figura (e dunque: la somiglianza,
l’analogia), secondo cui viene costruita la fondamentale struttura portante
della nuova economia della salvezza e dell’ordine sacramentale, che trae origine
dalla gratificazione sponsale che la Chiesa riceve da Cristo, insieme con tutti
i beni della Redenzione (si potrebbe dire, servendosi delle parole iniziali
della lettera agli Efesini: “Di ogni benedizione spirituale”) (Ef 1, 3).
In tal modo il matrimonio, come sacramento primordiale, viene assunto ed
inserito nella struttura integrale della nuova economia sacramentale, sorta
dalla Redenzione in forma, direi, di “prototipo”: viene assunto ed
inserito quasi dalle sue stesse basi. Cristo stesso, nel colloquio con i Farisei
(Mt 19, 3-9), riconferma prima di tutto la sua esistenza. A ben
riflettere su questa dimensione, bisognerebbe concludere che tutti i sacramenti
della Nuova Alleanza trovano in un certo senso nel matrimonio quale sacramento
primordiale il loro prototipo. Ciò sembra prospettarsi nel classico brano citato
della lettera agli Efesini, come diremo ancora fra poco.
3. Tuttavia, il rapporto del matrimonio con tutto
l’ordine sacramentale, sorto dalla gratificazione della Chiesa con i beni della
Redenzione, non si limita soltanto alla dimensione di modello. Cristo, nel suo
colloquio con i Farisei (cf. Mt 19), non solo conferma l’esistenza del
matrimonio istituito dal “principio” dal Creatore, ma lo dichiara anche parte
integrale dalla nuova economia sacramentale, del nuovo ordine dei “segni”
salvifici, che trae origine dal sacramento della Redenzione, così come
l’economia originaria è emersa dal sacramento della creazione; e in realtà
Cristo si limita all’unico Sacramento, che era stato il matrimonio istituito
nello stato dell’innocenza e della giustizia originarie dell’uomo, creato come
maschio e femmina “ad immagine e somiglianza di Dio”.
4. La nuova economia sacramentale, che viene
costituita sulla base del sacramento della Redenzione, emergendo dalla sponsale
gratificazione della Chiesa da parte di Cristo, differisce dalla economia
originaria. Essa, infatti, è diretta non all’uomo della giustizia e
innocenza originarie, ma all’uomo gravato dall’eredità del peccato originale e
dallo stato di peccaminosità (“status naturae lapsae”). È diretta
all’uomo della triplice concupiscenza, secondo le classiche parole della
prima lettera di Giovanni (cf. 1 Gv 2, 16), all’uomo, in cui “la carne .
. . ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla
carne” (Gal 5, 17), secondo la teologia (e antropologia) paolina, alla
quale abbiamo dedicato molto spazio nelle nostre precedenti riflessioni.
5. Queste considerazioni, sulla scorta di
un’approfondita analisi del significato dell’enunciato di Cristo nel discorso
della Montagna circa lo “sguardo concupiscente” quale “adulterio del cuore”,
preparano a comprendere il matrimonio come parte integrante del nuovo ordine
sacramentale, che trae origine dal sacramento della Redenzione, ossia da quel
“grande mistero” che, come mistero di Cristo e della Chiesa, determina la
sacramentalità della Chiesa stessa. Queste considerazioni, inoltre, preparano a
comprendere il matrimonio come sacramento della Nuova Alleanza, la cui
opera salvifica va organicamente unita con l’insieme di quell’ethos, che
nelle analisi precedenti è stato definito “ethos della redenzione”. La lettera
agli Efesini esprime, a suo modo, la stessa verità: parla infatti del matrimonio
come sacramento “grande” in un ampio contesto parenetico, cioè nel contesto
delle esortazioni di carattere morale, concernenti appunto l’ethos che deve
qualificare la vita dei cristiani, cioè degli uomini consapevoli della elezione
che si realizza in Cristo e nella Chiesa.
6. Su questo vasto sfondo delle riflessioni che
emergono dalla lettura della lettera agli Efesini (cf. speciatim Ef 5,
22-33), si può e si deve infine toccare ancora il problema dei Sacramenti della
Chiesa. Il testo citato agli Efesini ne parla in modo indiretto e, direi,
secondario, sebbene sufficiente affinché anche questo problema trovi posto nelle
nostre considerazioni. Tuttavia conviene qui precisare, almeno brevemente, il
senso che adottiamo nell’uso del termine “sacramento”, che è significativo
per le nostre considerazioni.
7. Finora, infatti, ci siamo serviti del termine
“sacramento” (conformemente d’altronde a tutta la tradizione biblico-patristica)
(cf. Leone XIII, Acta, vol. II, 1881, p. 22) in un senso più lato di
quello che è proprio della terminologia teologica tradizionale e contemporanea,
che con la parola “sacramento” indica i segni istituiti da Cristo e amministrati
dalla Chiesa, i quali esprimono e conferiscono la grazia divina alla persona che
riceve il relativo sacramento. In questo senso, ciascuno dei sette Sacramenti
della Chiesa è caratterizzato da una determinata azione liturgica, costituita
attraverso la parola (forma) e la specifica “materia” sacramentale - secondo la
diffusa teoria ilemorfica proveniente da Tommaso d’Aquino e da tutta la
tradizione scolastica.
8. In rapporto a questo significato così
circoscritto, ci siamo serviti nelle nostre considerazioni di un significato
più largo e forse anche più antico e più fondamentale del termine
“sacramento” (cf. Giovanni Paolo II,
Allocutio in Audientia Generali, die 8 sept. 1982, adnot. 1: vide
supra, p. 389). La lettera agli Efesini, e specialmente 5, 22-23,
sembra in modo particolare autorizzarci a questo. Sacramento significa qui il
mistero stesso di Dio, che è nascosto fin dall’eternità, tuttavia non in
nascondimento eterno, ma anzitutto nella sua stessa rivelazione e attuazione
(anche: nella rivelazione mediante l’attuazione). In tal senso, si è parlato
anche del sacramento della creazione e del sacramento della Redenzione. In base
al sacramento della creazione, occorre intendere l’originaria sacramentalità del
matrimonio (sacramento primordiale). In seguito, in base al sacramento della
Redenzione si può comprendere la sacramentalità della Chiesa, o piuttosto la
sacramentalità dell’unione di Cristo con la Chiesa che l’Autore della lettera
agli Efesini presenta nella similitudine del matrimonio, dell’unione sponsale
del marito e della moglie. Un’attenta analisi del testo dimostra che in questo
caso non si tratta solo di un paragone in senso metaforico, ma di un reale
rinnovamento (ovvero di una “ri-creazione”, cioè di una nuova creazione)
di ciò che costituiva il contenuto salvifico (in certo senso la “sostanza
salvifica”) del sacramento primordiale. Questa constatazione ha un significato
essenziale, sia per chiarire la sacramentalità della Chiesa (e a ciò si
riferiscono le parole molto significative del primo capitolo della costituzione
Lumen Gentium), sia anche per comprendere la sacramentalità del
matrimonio, inteso proprio come uno dei Sacramenti della Chiesa.
Mercoledì, 27 ottobre 1982
1. Il testo della lettera agli Efesini (Ef 5,
22-33) parla dei sacramenti della Chiesa - e in particolare del Battesimo e
dell’Eucaristia - ma soltanto in modo indiretto e in certo senso allusivo,
sviluppando l’analogia del matrimonio in riferimento a Cristo e alla Chiesa. E
così leggiamo dapprima che Cristo, il quale “ha amato la Chiesa e ha dato se
stesso per lei” (Ef 5, 25), ha fatto questo “per renderla santa,
purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola” (Ef
5, 26). Si tratta qui indubbiamente del sacramento del Battesimo, che per
istituzione di Cristo viene sin dall’inizio conferito a coloro che si
convertono. Le parole citate mostrano con grande plasticità in che modo il
Battesimo attinge il suo significato essenziale e la sua forza sacramentale da
quell’amore sponsale del Redentore, attraverso cui si costituisce soprattutto la
sacramentalità della Chiesa stessa, “sacramentum magnum”. Lo stesso si
può forse dire anche dell’Eucaristia, che sembrerebbe essere indicata
dalle parole seguenti sul nutrimento del proprio corpo, che ogni uomo appunto
nutre e cura “come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo” (Ef
5, 29-30). Infatti, Cristo nutre la Chiesa con il suo Corpo appunto
nell’Eucaristia.
2. Si vede, tuttavia, che né nel primo né nel
secondo caso possiamo parlare di una sacramentaria ampiamente sviluppata. Non se
ne può parlare nemmeno quando si tratta del sacramento del matrimonio come
uno dei sacramenti della Chiesa. La lettera agli Efesini, esprimendo il
rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa, consente di comprendere che, in base
a questo rapporto, la Chiesa stessa è il “grande sacramento”, il nuovo segno
dell’alleanza e della grazia, che trae le sue radici dalle profondità del
sacramento della Redenzione, così come dalle profondità del sacramento della
creazione è emerso il matrimonio, segno primordiale dell’alleanza e della
grazia. L’Autore della lettera agli Efesini proclama che quel sacramento
primordiale si realizza in un modo nuovo nel “sacramento” di Cristo e della
Chiesa. Anche per questa ragione l’Apostolo, nello stesso “classico” testo di
Efesini 5, 21-33, si rivolge ai coniugi, affinché siano “sottomessi gli uni
agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21) e modellino la loro vita
coniugale fondandola sul sacramento istituito al “principio” dal Creatore:
sacramento, che trovò la sua definitiva grandezza e santità nell’alleanza
sponsale di grazia tra Cristo e la Chiesa.
3. Sebbene la lettera agli Efesini non parli
direttamente e immediatamente del matrimonio come di uno dei sacramenti
della Chiesa, tuttavia la sacramentalità del matrimonio viene in essa
particolarmente confermata e approfondita. Nel “grande sacramento” di
Cristo e della Chiesa i coniugi cristiani sono chiamati a modellare la loro vita
e la loro vocazione sul fondamento sacramentale.
4. Dopo l’analisi del classico testo di Efesini
5, 21-33, indirizzato ai coniugi cristiani, in cui Paolo annunzia loro il
“grande mistero” (“sacramentum magnum”) dell’amore sponsale di Cristo e
della Chiesa, è opportuno ritornare a quelle significative parole del Vangelo,
che già in precedenza abbiamo sottoposto ad analisi, vedendo in esse gli
enunciati-chiave per la teologia del corpo. Cristo pronuncia queste parole,
per così dire, dalla profondità divina della “redenzione del corpo” (Rm
8, 23). Tutte queste parole hanno un significato fondamentale per l’uomo in
quanto appunto egli è corpo - in quanto è maschio o femmina. Esse hanno un
significato per il matrimonio, in cui l’uomo e la donna si uniscono così che i
due diventano “una sola carne”, secondo l’espressione del libro della Genesi (Gen
2, 24), sebbene, nello stesso tempo, le parole di Cristo indichino anche la
vocazione alla continenza “per il regno dei cieli” (Mt 19, 12).
5. In ciascuna di queste vie “la redenzione del
corpo” non è soltanto una grande attesa di coloro che posseggono “le primizie
dello Spirito” (Rm 8, 23), ma anche una permanente fonte di speranza che
la creazione sarà “liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella
libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8, 21). Le parole di Cristo,
pronunciate dalla profondità divina del mistero della Redenzione, e della
“redenzione del corpo”, portano in sé il lievito di questa speranza: le aprono
la prospettiva sia nella dimensione escatologica sia nella dimensione della vita
quotidiana. Infatti, le parole indirizzate agli ascoltatori immediati sono
rivolte contemporaneamente all’uomo “storico” dei vari tempi e luoghi.
Quell’uomo, appunto, che possiede “le primizie dello Spirito . . . geme .
. . aspettando la redenzione del . . . corpo” (Rm 8, 23). In lui si
concentra anche la speranza “cosmica” di tutta la creazione, che in lui,
nell’uomo, “attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio” (Rm
8, 19).
6. Cristo colloquia con i Farisei, che gli chiedono:
“È lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?” (Mt
19, 3); essi lo interrogano in tale modo, appunto perché la legge attribuita a
Mosè ammetteva la cosiddetta “lettera di ripudio” (Dt 24, 1). La risposta
di Cristo è questa: “Non avete letto che il Creatore da principio li creò
maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si
unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più due, ma
una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” (Mt
19, 4-6). Se poi si tratta della “lettera di ripudio”, Cristo risponde così:
“Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre
mogli, ma da principio non fu così. Perciò io vi dico: chiunque ripudia la
propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra, commette
adulterio” (Mt 19, 8-9). “Chi sposa una donna ripudiata dal marito,
commette adulterio” (Lc 16, 28).
7. L’orizzonte della “redenzione del corpo” si apre
con queste parole, che costituiscono la risposta a una concreta domanda di
carattere giuridico-morale; si apre, anzitutto, per il fatto che Cristo si
colloca sul piano di quel sacramento primordiale, che i suoi interlocutori
ereditano in modo singolare, dato che ereditano anche la rivelazione del mistero
della creazione, racchiusa nei primi capitoli del libro della Genesi.
Queste parole contengono ad un tempo una risposta
universale, indirizzata all’uomo “storico” di tutti i tempi e luoghi, poiché
sono decisive per il matrimonio e per la sua indissolubilità; infatti si
richiamano a ciò che è l’uomo, maschio e femmina, quale è divenuto in modo
irreversibile per il fatto di esser creato “ad immagine e somiglianza di Dio”:
l’uomo, che non cessa di essere tale anche dopo il peccato originale, benché
questo l’abbia privato dell’innocenza originaria e della giustizia. Cristo, che
nel rispondere alla domanda dei Farisei fa riferimento al “principio”, sembra in
tal modo sottolineare particolarmente il fatto che egli parla dalla profondità
del mistero della Redenzione, e della redenzione del corpo. La Redenzione
significa, infatti, quasi una “nuova creazione” - significa
l’assunzione di tutto ciò che è creato: per esprimere nella creazione la
pienezza di giustizia, di equità e di santità, designata da Dio, e per esprimere
quella pienezza soprattutto nell’uomo, creato come maschio e femmina “ad
immagine di Dio”.
Nell’ottica delle parole di Cristo rivolte ai
Farisei su ciò che era il matrimonio “dal principio”, rileggiamo anche il
classico testo della lettera agli Efesini (Ef 5, 22-23) come
testimonianza della sacramentalità del matrimonio, basata sul “grande mistero”
di Cristo e della Chiesa.
Mercoledì, 24 novembre 1982
1. Abbiamo analizzato la lettera agli Efesini, e
soprattutto il passo del capitolo 5, 22-33, dal punto di vista della
sacramentalità del matrimonio. Ora esaminiamo ancora lo stesso testo nell’ottica
delle parole del Vangelo.
Le parole di Cristo rivolte ai Farisei (cf. Mt
19) si riferiscono al matrimonio quale sacramento, ossia alla rivelazione
primordiale del volere e dell’operare salvifico di Dio “al principio”, nel
mistero stesso della creazione. In virtù di quel volere ed operare salvifico di
Dio, l’uomo e la donna, unendosi tra loro così da divenire “una sola carne” (Gen
2, 24), erano ad un tempo destinati ad essere uniti “nella verità e nella
carità” come figli di Dio (cf.
Gaudium et Spes, 24), figli adottivi nel Figlio Primogenito, diletto
dall’eternità. A tale unità e verso tale comunione di persone, a somiglianza
dell’unione delle persone divine (cf. Ivi.), sono dedicate le parole di
Cristo, che si riferiscono al matrimonio come sacramento primordiale e nello
stesso tempo confermano quel sacramento sulla base del mistero della Redenzione.
Infatti, l’originaria “unità nel corpo” dell’uomo e della donna non cessa di
plasmare la storia dell’uomo sulla terra, sebbene abbia perduto la limpidezza
del sacramento, del segno della salvezza, che possedeva “al principio”.
2. Se Cristo di fronte ai suoi interlocutori, nel
Vangelo di Matteo e di Marco (cf. Mt 19; Mc 10), conferma il
matrimonio quale sacramento istituito dal Creatore “al principio” -
se in conformità con questo ne esige l’indissolubilità - con ciò stesso apre il
matrimonio all’azione salvifica di Dio, alle forze che scaturiscono “dalla
redenzione del corpo” e che aiutano a superare le conseguenze del peccato e
a costruire l’unità dell’uomo e della donna secondo l’eterno disegno del
Creatore. L’azione salvifica che deriva dal mistero della Redenzione assume in
sé l’originaria azione santificante di Dio nel mistero stesso della Creazione.
3. Le parole del Vangelo di Matteo (cf. Mt
19, 3-9; Mc 10, 2-12) hanno, al tempo stesso, una eloquenza etica molto
espressiva. Queste parole confermano - in base al mistero della Redenzione - il
sacramento primordiale e nello stesso tempo stabiliscono un ethos adeguato,
che già nelle nostre precedenti riflessioni abbiamo chiamato “ethos della
redenzione”. L’ethos evangelico e cristiano, nella sua essenza teologica, è
l’ethos della redenzione. Possiamo certo trovare per quell’ethos una
interpretazione razionale, una interpretazione filosofica di carattere
personalistico; tuttavia, nella sua essenza teologica, esso è un ethos della
redenzione, anzi: “un ethos della redenzione del corpo”. La redenzione
diviene ad un tempo la base per comprendere la particolare dignità del corpo
umano, radicata nella dignità personale dell’uomo e della donna. La ragione di
questa dignità sta appunto alla radice dell’indissolubilità dell’alleanza
coniugale.
4. Cristo fa riferimento al carattere indissolubile
del matrimonio come sacramento primordiale e, confermando questo sacramento
sulla base del mistero della redenzione, ne trae ad un tempo le conclusioni di
natura etica: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette
adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro,
commette adulterio” (Mc 10, 11 s; cf. Mt 19, 9). Si può affermare
che in tal modo la redenzione è data all’uomo come grazia della
nuova alleanza con Dio in Cristo - ed insieme gli è assegnata come ethos:
come forma della morale corrispondente all’azione di Dio nel mistero della
Redenzione. Se il matrimonio come sacramento è un segno efficace dell’azione
salvifica di Dio “dal principio”, al tempo stesso - nella luce delle parole di
Cristo qui meditate - questo sacramento costituisce anche una
esortazione rivolta all’uomo, maschio e femmina, affinché partecipino
coscienziosamente alla redenzione del corpo.
5. La dimensione etica della redenzione del corpo si
delinea in modo particolarmente profondo, quando meditiamo sulle parole
pronunciate da Cristo nel Discorso della Montagna in rapporto al comandamento
“Non commettere adulterio”. “Avete inteso che fu detto: non commettere
adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già
commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt 5, 27-28). A questo
lapidario enunciato di Cristo abbiamo precedentemente dedicato un ampio
commento, nella convinzione che esso ha un significato fondamentale per tutta la
teologia del corpo, soprattutto nella dimensione dell’uomo “storico”. E sebbene
queste parole non si riferiscano direttamente ed immediatamente al matrimonio
come sacramento, tuttavia è impossibile separarle dall’intero sostrato
sacramentale, in cui, per quanto riguarda il patto coniugale, è stata
collocata l’esistenza dell’uomo quale maschio e femmina: sia nel contesto
originario del mistero della Creazione, sia pure, in seguito, nel contesto del
mistero della Redenzione. Questo sostrato sacramentale riguarda sempre le
persone concrete, penetra in ciò che è l’uomo e la donna (o piuttosto in chi è
l’uomo e la donna) nella propria originaria dignità di immagine e somiglianza
con Dio a motivo della creazione, ed insieme nella stessa dignità ereditata
malgrado il peccato e di nuovo continuamente “assegnata” come compito all’uomo
mediante la realtà della Redenzione.
6. Cristo, che nel Discorso della Montagna dà
la propria interpretazione del comandamento “Non commettere adulterio” -
interpretazione costitutiva del nuovo ethos - con le medesime lapidarie parole
assegna come compito ad ogni uomo la dignità di ogni donna; e contemporaneamente
(sebbene dal testo ciò risulti solo in modo indiretto) assegna anche ad ogni
donna la dignità di ogni uomo (Il testo di San Marco che parla
dell’indissolubilità del matrimonio afferma chiaramente che anche la donna
diventa soggetto dell’adulterio,quando ripudia il marito e sposa un altro [cf.
Mc 10, 12]). Assegna infine a ciascuno - sia all’uomo che alla donna - la
propria dignità: in certo senso, il “sacrum” della persona, e ciò in
considerazione della sua femminilità o mascolinità, in considerazione del
“corpo”. Non è difficile rilevare che le parole pronunciate da Cristo nel
Discorso della Montagna riguardano l’ethos. Al tempo stesso, non è difficile
affermare, dopo una riflessione approfondita, che tali parole scaturiscono dalla
profondità stessa della redenzione del corpo. Benché esse non si riferiscano
direttamente al matrimonio come sacramento, non è difficile costatare che
raggiungono il loro proprio e pieno significato in rapporto con il sacramento:
sia quello primordiale, che è unito con il mistero della Creazione, sia quello
in cui l’uomo “storico”, dopo il peccato e a motivo della sua peccaminosità
ereditaria, deve ritrovare la dignità e santità dell’unione coniugale “nel
corpo”, in base al mistero della Redenzione.
7. Nel Discorso della Montagna - come anche nel
colloquio con i Farisei sull’indissolubilità del matrimonio - Cristo parla dal
profondo di quel mistero divino. E in pari tempo si addentra nella profondità
stessa del mistero umano. Perciò fa richiamo al “cuore”, a quel “luogo
intimo”, in cui combattono nell’uomo il bene e il male, il peccato e la
giustizia, la concupiscenza e la santità. Parlando della concupiscenza (dello
sguardo concupiscente) (cf. Mt 5, 28), Cristo rende consapevoli i suoi
ascoltatori che ognuno porta in sé, insieme al mistero del peccato, la
dimensione interiore “dell’uomo della concupiscenza” (che è triplice:
“concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita”) (1
Gv 2, 16). Proprio a quest’uomo della concupiscenza è dato nel
matrimonio il sacramento della Redenzione come grazia e segno
dell’alleanza con Dio - e gli è assegnato “come ethos”. E
contemporaneamente, in rapporto con il matrimonio come sacramento, esso è
assegnato come ethos a ciascun uomo, maschio e femmina: è assegnato al suo
“cuore”, alla sua coscienza, ai suoi sguardi e al suo comportamento. Il
matrimonio - secondo le parole di Cristo (cf. Mt 19, 4) - è sacramento
dal “principio” stesso e ad un tempo, in base alla peccaminosità “storica”
dell’uomo, è sacramento sorto dal mistero della “redenzione del corpo”.
Mercoledì, 1° dicembre 1982
1. Abbiamo fatto l’analisi della lettera agli
Efesini, e soprattutto del passo del capitolo 5, 22-33, nella prospettiva della
sacramentalità del matrimonio. Ora cercheremo ancora una volta di considerare il
medesimo testo alla luce delle parole del Vangelo e delle lettere paoline ai
Corinzi e ai Romani.
Il matrimonio - come sacramento nato dal mistero
della Redenzione e rinato, in certo senso, nell’amore sponsale di Cristo e della
Chiesa - è una efficace espressione della potenza salvifica di Dio, che realizza
il suo eterno disegno anche dopo il peccato e malgrado la triplice
concupiscenza, nascosta nel cuore di ogni uomo, maschio e femmina. Come
espressione sacramentale di quella potenza salvifica, il matrimonio è
anche un’esortazione a dominare la concupiscenza (come ne parla Cristo nel
Discorso della Montagna). Frutto di tale dominio è l’unità e indissolubilità del
matrimonio, e inoltre, l’approfondito senso della dignità della donna nel cuore
dell’uomo (come anche della dignità dell’uomo nel cuore della donna), sia nella
convivenza coniugale, sia in ogni altro àmbito dei rapporti reciproci.
2. La verità, secondo cui il matrimonio, quale
sacramento della redenzione, è dato “all’uomo della concupiscenza”, come grazia
e in pari tempo come ethos, ha trovato particolare espressione anche
nell’insegnamento di san Paolo, specialmente nel 7° capitolo della prima
lettera ai Corinzi. L’Apostolo, confrontando il matrimonio con la verginità
(ossia con la “continenza per il regno dei cieli”) e dichiarandosi per la
“superiorità” della verginità, costata ugualmente che “ciascuno ha il proprio
dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro” (1 Cor 7, 7). In base al
mistero della Redenzione, al matrimonio corrisponde dunque un “dono”
particolare, ossia la grazia. Nello stesso contesto l’Apostolo dando
consigli ai suoi destinatari, raccomanda il matrimonio “per il pericolo
dell’incontinenza” (1 Cor 7, 2), e in seguito raccomanda ai coniugi che
“il marito compia il suo dovere verso la moglie; ugualmente anche la moglie
verso il marito” (1Cor 7,3). E continua così: “È meglio sposarsi che ardere” (1
Cor 7, 9).
3. Su questi enunciati paolini si è formata
l’opinione che il matrimonio costituisca uno specifico “remedium
concupiscentiae”. Tuttavia san Paolo, il quale, come abbiamo potuto
costatare, insegna esplicitamente che al matrimonio corrisponde un “dono”
particolare e che nel mistero della Redenzione il matrimonio è dato all’uomo e
alla donna come grazia, esprime nelle sue parole, suggestive ed insieme
paradossali, semplicemente il pensiero che il matrimonio è assegnato ai coniugi
come ethos. Nelle parole paoline “È meglio sposarsi che ardere”, il verbo
“ardere” significa il disordine delle passioni, proveniente dalla stessa
concupiscenza della carne (analogamente viene presentata la concupiscenza
nell’Antico Testamento dal Siracide) (cf. Sir 23, 17). Il “matrimonio”,
invece, significa l’ordine etico, introdotto consapevolmente in questo
àmbito. Si può dire che il matrimonio è luogo d’incontro dell’ eros con l’ ethos
e del reciproco compenetrarsi di essi nel “cuore” dell’uomo e della donna, come
pure in tutti i loro rapporti reciproci.
4. Questa verità - che cioè il matrimonio, quale
sacramento scaturito dal mistero della Redenzione, è dato all’uomo “storico”
come grazia ed insieme come ethos - determina inoltre il carattere del
matrimonio quale uno dei sacramenti della Chiesa. Come sacramento della Chiesa,
il matrimonio ha indole di indissolubilità. Come sacramento della Chiesa,
esso è anche parola dello Spirito, che esorta l’uomo e la donna a modellare
tutta la loro convivenza attingendo forza dal mistero della “redenzione del
corpo”. In tal modo, essi sono chiamati alla castità come allo stato di vita
“secondo lo Spirito” che è loro proprio (cf. Rm 8, 4-5; Gal 5,
25). La redenzione del corpo significa, in questo caso, anche quella “speranza”
che, nella dimensione del matrimonio, può essere definita speranza del giorno
quotidiano, speranza della temporalità. Sulla base di una tale speranza viene
dominata la concupiscenza della carne come fonte della tendenza ad un
egoistico appagamento, e la stessa “carne”, nell’alleanza sacramentale della
mascolinità e femminilità, diventa lo specifico “sostrato” di una comunione
duratura ed indissolubile delle persone (“communio personarum”) al modo
degno delle persone.
5. Coloro che, come coniugi, secondo l’eterno
disegno divino si uniscono così da divenire, in certo senso, “una sola
carne”, sono anche a loro volta chiamati, mediante il sacramento, ad una
vita “secondo lo Spirito”, tale che corrisponda al “dono” ricevuto nel
sacramento. In virtù di quel “dono”, conducendo come coniugi una vita “secondo
lo Spirito”, sono capaci di riscoprire la particolare gratificazione, di cui
sono divenuti partecipi. Quanto la “concupiscenza” offusca l’orizzonte della
visuale interiore, toglie ai cuori la limpidezza dei desideri e delle
aspirazioni, altrettanto la vita “secondo lo Spirito” (ossia la grazia del
sacramento del matrimonio) consente all’uomo e alla donna di ritrovare la vera
libertà del dono, unita alla consapevolezza del senso sponsale del corpo nella
sua mascolinità e femminilità.
6. La vita “secondo lo Spirito” si esprime dunque
anche nel reciproco “unirsi” (cf. Gen 4, 1), con cui i coniugi, divenendo
“una sola carne”, sottopongono la loro femminilità e mascolinità alla
benedizione della procreazione: “Adamo si unì a Eva, sua moglie, la quale
concepì e partorì . . . e disse: Ho acquistato un uomo dal Signore” (Gen
4, 1).
La vita “secondo lo Spirito” si esprime anche
qui nella consapevolezza della gratificazione, a cui corrisponde la dignità
degli stessi coniugi in qualità di genitori, cioè si esprime nella profonda
consapevolezza della santità della vita (“sacrum”), a cui ambedue danno
origine, partecipando - come i progenitori - alle forze del mistero della
creazione. Alla luce di quella speranza, che è connessa col mistero della
redenzione del corpo (cf. Rm 8, 19-23), questa nuova vita umana, l’uomo
nuovo concepito e nato dall’unione coniugale di suo padre e di sua madre, si
apre alle “primizie dello Spirito” (Rm 8, 23) “per entrare nella libertà
della gloria dei figli di Dio” (Rm 8, 21). E se “tutta la creazione geme
e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm 8, 22), una particolare
speranza accompagna le doglie della madre partoriente, cioè la speranza della
“rivelazione dei figli di Dio” (Rm 8, 19), speranza di cui ogni neonato
che viene al mondo porta con sé una scintilla.
7. Questa speranza che è “nel mondo”, compenetrando
- come insegna san Paolo - tutta la creazione, non è, al tempo stesso, “dal
mondo”. Ancor più: essa deve combattere nel cuore umano con ciò che è “dal
mondo”, con ciò che è “nel mondo”. “Perché tutto quello che è nel mondo, la
concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della
vita, non viene dal Padre, ma dal mondo” (1 Gv 2, 16). Il matrimonio,
come sacramento primordiale ed insieme come sacramento nato nel mistero
della redenzione del corpo dall’amore sponsale di Cristo e della Chiesa, “viene
dal Padre”. Non è “dal mondo”, ma “dal Padre”. Di conseguenza, anche il
matrimonio, come sacramento, costituisce la base della speranza per la persona,
cioè per l’uomo e per la donna, per i genitori e per i figli, per le generazioni
umane. Da una parte, infatti, “passa il mondo con la sua concupiscenza”,
dall’altra “chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (1 Gv 2, 17). Con
il matrimonio, quale sacramento, è unita l’origine dell’uomo nel mondo, e in
esso è anche iscritto il suo avvenire, e ciò non soltanto nelle dimensioni
storiche, ma anche in quelle escatologiche.
8. A ciò si riferiscono le parole, in cui Cristo
si richiama alla risurrezione dei corpi - parole riportate dai tre sinottici
(cf. Mt 22, 23-32; Mc 12, 18-27; Lc 20, 34-39). “Alla
risurrezione infatti non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel
cielo”: così Matteo e in modo simile Marco; ed ecco Luca: “I figli di questo
mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni
dell’altro mondo e della risurrezione dei morti, non prendono moglie né marito;
e nemmeno possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli
della risurrezione, sono figli di Dio” (Lc 20, 34-36). Questi testi sono
stati sottoposti in precedenza ad una analisi particolareggiata.
9. Cristo afferma che il matrimonio - sacramento
dell’origine dell’uomo nel mondo visibile temporaneo - non appartiene alla
realtà escatologica del “mondo futuro”. Tuttavia l’uomo, chiamato a partecipare
a questo avvenire escatologico mediante la risurrezione del corpo, è il medesimo
uomo, maschio e femmina, la cui origine nel mondo visibile temporaneo è
collegata col matrimonio quale sacramento primordiale del mistero stesso della
creazione. Anzi, ogni uomo, chiamato a partecipare alla realtà della futura
risurrezione, porta nel mondo questa vocazione, per il fatto che nel mondo
visibile temporaneo ha la sua origine per opera del matrimonio dei suoi
genitori. Così, dunque, le parole di Cristo, che escludono il matrimonio
dalla realtà del “mondo futuro”, al tempo stesso svelano indirettamente il
significato di questo sacramento per la partecipazione degli uomini,
figli e figlie, alla futura risurrezione.
10. Il matrimonio, che è sacramento primordiale -
rinato, in un certo senso, nell’amore sponsale di Cristo e della Chiesa - non
appartiene alla “redenzione del corpo” nella dimensione della speranza
escatologica (cf. Rm 8, 23). Lo stesso matrimonio dato all’uomo come
grazia, come “dono” destinato da Dio appunto ai coniugi, e al tempo stesso
assegnato loro, con le parole di Cristo, come ethos - quel matrimonio
sacramentale si compie e si realizza nella prospettiva della speranza
escatologica. Esso ha un significato essenziale per la “redenzione del
corpo” nella dimensione di questa speranza. Proviene, difatti, dal Padre ed a
lui deve la sua origine nel mondo. E se questo “mondo passa”, e se con esso
passano anche la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la
superbia della vita, che vengono “dal mondo”, il matrimonio come sacramento
serve immutabilmente affinché l’uomo, maschio e femmina, dominando la
concupiscenza, faccia la volontà del Padre. E chi “fa la volontà di Dio rimane
in eterno” (1 Gv 2, 17).
11. In tale senso il matrimonio, come sacramento,
porta in sé anche il germe dell’avvenire escatologico dell’uomo, cioè la
prospettiva della “redenzione del corpo” nella dimensione della speranza
escatologica, a cui corrispondono le parole di Cristo circa la risurrezione:
“Alla risurrezione . . . non si prende né moglie né marito” (Mt 22, 30);
tuttavia, anche coloro che, “essendo figli della risurrezione . . . sono uguali
agli angeli e . . . sono figli di Dio” (Lc 20, 36), debbono la propria
origine nel mondo visibile temporaneo al matrimonio e alla procreazione
dell’uomo e della donna. Il matrimonio, come sacramento del “principio” umano,
come sacramento della temporalità dell’uomo storico, compie in tal modo
un insostituibile servizio riguardo al suo avvenire extra-temporale, riguardo al
mistero della “redenzione del corpo” nella dimensione della speranza
escatologica.
Mercoledì, 15 dicembre 1982
1. L’Autore della lettera agli Efesini, come abbiamo
già visto, parla di un “grande mistero”, unito al sacramento primordiale
mediante la continuità del piano salvifico di Dio. Anche egli si riporta al
“principio”, come aveva fatto Cristo nel colloquio con i Farisei (cf. Mt
19, 8), citando le stesse parole: “Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua
madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (Gen 2,
24). Quel “grande mistero” è soprattutto il mistero della unione di Cristo con
la Chiesa, che l’Apostolo presenta nella similitudine dell’unità dei coniugi:
“Lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa” (Ef 5, 32). Ci troviamo
nell’àmbito della grande analogia, in cui il matrimonio come sacramento
da un lato viene presupposto e, dall’altro, riscoperto. Viene
presupposto come sacramento del “principio” umano, unito al mistero della
creazione. E viene invece riscoperto come frutto dell’amore sponsale di Cristo e
della Chiesa, collegato col mistero della Redenzione.
2. L’Autore della lettera agli Efesini, rivolgendosi
direttamente ai coniugi, li esorta a plasmare il loro rapporto reciproco sul
modello dell’unione sponsale di Cristo e della Chiesa. Si può dire che -
presupponendo la sacramentalità del matrimonio nel suo significato primordiale -
ordina loro di apprendere nuovamente questo sacramento dall’unione
sponsale di Cristo e della Chiesa: “E voi, mariti, amate le vostre mogli, come
Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa . . .”
(Ef 5, 25-26). Questo invito, indirizzato dall’Apostolo ai coniugi
cristiani, ha la sua piena motivazione in quanto essi, mediante il matrimonio
come sacramento, partecipano all’amore salvifico di Cristo, che si esprime al
tempo stesso come amore sponsale di lui verso la Chiesa. Alla luce della lettera
agli Efesini - appunto mediante la partecipazione a questo amore salvifico di
Cristo - viene confermato ed insieme rinnovato il matrimonio come sacramento del
“principio” umano, cioè sacramento in cui l’uomo e la donna, chiamati a
diventare “una sola carne”, partecipano all’amore creatore di Dio stesso. E vi
partecipano, sia per il fatto che, creati ad immagine di Dio, sono stati
chiamati in virtù di questa immagine ad una particolare unione (“communio
personarum”), sia perché questa stessa unione è stata fin dal principio
benedetta con la benedizione della fecondità (cf. Gen 1, 28).
3. Tutta questa originaria e stabile struttura del
matrimonio come sacramento del mistero della creazione - secondo il “classico”
testo della lettera agli Efesini (Ef 5, 21-33) - si rinnova nel mistero
della Redenzione, quando quel mistero assume l’aspetto della gratificazione
sponsale della Chiesa da parte di Cristo. Quell’originaria e stabile forma del
matrimonio, si rinnova quando gli sposi lo ricevono come sacramento della
Chiesa, attingendo alla nuova profondità della gratificazione dell’uomo da parte
di Dio, che si è svelata e aperta col mistero della Redenzione, quando “Cristo
ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa . . .” (Ef
5, 25-26). Si rinnova quella originaria e stabile immagine del matrimonio
come sacramento, quando i coniugi cristiani - consapevoli dell’autentica
profondità della “redenzione del corpo” - si uniscono “nel timore di Cristo” (Ef
5, 21).
4. L’immagine paolina del matrimonio, iscritta nel
“grande mistero” di Cristo e della Chiesa, accosta la dimensione redentrice
dell’amore alla dimensione sponsale. In certo senso unisce queste due dimensioni
in una sola. Cristo è divenuto sposo della Chiesa, ha sposato la Chiesa come sua
sposa, perché “ha dato se stesso per lei” (Ef 5, 25). Mediante il
matrimonio come sacramento (come uno dei sacramenti della Chiesa) ambedue
queste dimensioni dell’amore, quella sponsale e quella redentrice, insieme
con la grazia del sacramento, penetrano nella vita dei coniugi. Il significato
sponsale del corpo nella sua mascolinità e femminilità, che si è manifestato per
la prima volta nel mistero della creazione sullo sfondo dell’innocenza
originaria dell’uomo, viene collegato nell’immagine della lettera agli Efesini
col significato redentore, e in tal modo confermato e in certo senso “nuovamente
creato”.
5. Questo è importante riguardo al matrimonio, alla
vocazione cristiana dei mariti e delle mogli. Il testo della lettera agli
Efesini (Ef 5, 21-33) si rivolge direttamente a loro e parla soprattutto
a loro. Tuttavia, quel collegamento del significato sponsale del corpo con il
suo significato “redentore” è ugualmente essenziale e valido per
l’ermeneutica dell’uomo in generale: per il fondamentale problema della
comprensione di lui e dell’auto-comprensione del suo essere nel mondo. È ovvio
che non possiamo escludere da questo problema l’interrogativo sul senso di
essere corpo, sul senso di essere, in quanto corpo, uomo e donna. Questi
interrogativi sono stati posti per la prima volta in rapporto con l’analisi del
“principio” umano, nel contesto del libro della Genesi. Fu quel contesto stesso,
in certo senso, ad esigere che fossero posti. Ugualmente lo richiede il
“classico” testo della lettera agli Efesini. E se il “grande mistero”
dell’unione di Cristo con la Chiesa ci obbliga a collegare il significato
sponsale del corpo con il suo significato redentore, in tale collegamento i
coniugi trovano la risposta all’interrogativo sul senso di “essere corpo”, e non
solo essi, benché soprattutto a loro sia indirizzato questo testo della lettera
dell’Apostolo.
6. L’immagine paolina del “grande mistero” di Cristo
e della Chiesa parla indirettamente anche della “continenza per il regno dei
cieli”, in cui ambedue le dimensioni dell’amore, sponsale e redentore, si
uniscono reciprocamente in un modo diverso da quello matrimoniale, secondo
diverse proporzioni. Non è forse quell’amore sponsale, con cui Cristo
“ha amato la Chiesa”, sua sposa, “e ha dato se stesso per lei”, ugualmente
la più piena incarnazione dell’ideale della “continenza per il regno
dei cieli” (cf. Mt 19, 12)? Non trovano sostegno proprio in essa
tutti coloro - uomini e donne - che, scegliendo lo stesso ideale, desiderano
collegare la dimensione sponsale dell’amore con la dimensione redentrice,
secondo il modello di Cristo stesso? Essi desiderano confermare con la loro vita
che il significato sponsale del corpo - della sua mascolinità o femminilità -,
profondamente inscritto nella struttura essenziale della persona umana, è stato
aperto in un modo nuovo, da parte di Cristo e con l’esempio della sua vita, alla
speranza unita alla redenzione del corpo. Così, dunque, la grazia del mistero
della Redenzione fruttifica anche - anzi fruttifica in modo particolare - con la
vocazione alla continenza “per il regno dei cieli”.
7. Il testo della lettera agli Efesini (Ef 5,
22-23) non ne parla esplicitamente. Esso è indirizzato ai coniugi e costruito
secondo l’immagine del matrimonio, che attraverso l’analogia spiega l’unione di
Cristo con la Chiesa: unione nell’amore redentore e sponsale insieme. Non è
forse appunto questo amore che, quale viva e vivificante espressione del mistero
della Redenzione, oltrepassa il cerchio dei destinatari della lettera
circoscritti dall’analogia del matrimonio? Non abbraccia ogni uomo e, in
certo senso, tutto il creato, come denota il testo paolino sulla “redenzione del
corpo” nella lettera ai Romani (cf. Rm 8, 23)? Il “sacramentum magnum” in
tal senso è addirittura un nuovo sacramento dell’uomo in Cristo e nella
Chiesa: sacramento “dell’uomo e del mondo”, così come la creazione
dell’uomo, maschio e femmina, ad immagine di Dio fu l’originario sacramento
dell’uomo e del mondo. In questo nuovo sacramento della redenzione è inscritto
organicamente il matrimonio, così come fu inscritto nell’originario sacramento
della creazione.
8. L’uomo, che “dal principio” è maschio e femmina,
deve cercare il senso della sua esistenza e il senso della sua umanità giungendo
fino al mistero della creazione attraverso la realtà della Redenzione. Ivi si
trova anche la risposta essenziale all’interrogativo sul significato del corpo
umano, sul significato della mascolinità e femminilità della persona umana.
L’unione di Cristo con la Chiesa ci consente di intendere in quale modo il
significato sponsale del corpo si completa con il significato redentore, e ciò
nelle diverse strade della vita e nelle diverse situazioni: non soltanto nel
matrimonio o nella “continenza” (ossia verginità o celibato), ma anche, per
esempio, nella multiforme sofferenza umana, anzi: nella stessa
nascita e morte dell’uomo. Attraverso il “grande mistero”, di cui
tratta la lettera agli Efesini, attraverso la nuova alleanza di Cristo con la
Chiesa, il matrimonio viene nuovamente inscritto in quel “sacramento dell’uomo”
che abbraccia l’universo, nel sacramento dell’uomo e del mondo, che grazie alle
forze della “redenzione del corpo” si modella secondo l’amore sponsale di Cristo
e della Chiesa fino alla misura del compimento definitivo nel regno del Padre.
Il matrimonio come sacramento rimane una parte viva
e vivificante di questo processo salvifico.
Mercoledì, 5 gennaio 1983
1. “Io . . . prendo te . . . come mia sposa”; “Io .
. . prendo te . . . come mio sposo”: queste parole sono al centro della liturgia
del matrimonio quale sacramento della Chiesa. Queste parole pronunciano i
fidanzati inserendole nella seguente formula del consenso: “. . . prometto di
esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia,
e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita”. Con tali parole i
fidanzati contraggono il matrimonio e nello stesso tempo lo ricevono come
sacramento, di cui entrambi sono ministri. Entrambi, uomo e donna, amministrano
il sacramento. Lo fanno davanti al testimoni. Testimone qualificato è il
sacerdote, che in pari tempo benedice il matrimonio e presiede a tutta la
liturgia del sacramento. Inoltre testimoni sono, in certo senso, tutti i
partecipanti al rito delle nozze, e in modo “ufficiale” alcuni di essi (di
solito due), appositamente chiamati. Essi debbono testimoniare che il matrimonio
è contratto davanti a Dio e confermato dalla Chiesa. Nell’ordine normale delle
cose, il matrimonio sacramentale è un atto pubblico, per mezzo del quale due
persone, un uomo e una donna, diventano di fronte alla società e alla Chiesa
marito e moglie, cioè soggetto attuale della vocazione e della vita
matrimoniale.
2. Il matrimonio come sacramento viene contratto
mediante la parola, che è segno sacramentale in ragione del suo contenuto:
“Prendo te come mia sposa - come mio sposo - e prometto di esserti fedele
sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e
onorarti tutti i giorni della mia vita”. Tuttavia, questa parola sacramentale è,
di per sé, soltanto il segno dell’attuazione del matrimonio. E l’attuazione del
matrimonio si distingue dalla sua consumazione fino al punto che, senza questa
consumazione, il matrimonio non è ancora costituito nella sua piena realtà. La
constatazione che un matrimonio è stato giuridicamente contratto ma non
consumato (“ratum - non consummatum”), corrisponde alla constatazione che esso
non è stato costituito pienamente come matrimonio. Infatti le parole stesse:
“Prendo te come mia sposa - mio sposo” si riferiscono non soltanto ad una realtà
determinata, ma possono essere adempiute soltanto attraverso la copula
coniugale. Tale realtà (la copula coniugale) è peraltro definita fin dal
principio per istituzione del Creatore: “L’uomo abbandonerà suo padre e sua
madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (Gen 2,
24).
3. Così, dunque, dalle parole, con le quali l’uomo e
la donna esprimono la loro disponibilità a divenire “una sola carne”, secondo
l’eterna verità stabilita nel mistero della creazione, passiamo alla realtà che
corrisponde a queste parole. L’uno e l’altro elemento è importante rispetto alla
struttura del segno sacramentale, a cui conviene dedicare il seguito delle
presenti considerazioni. Dato che il sacramento è il segno per mezzo del quale
si esprime ed insieme si attua la realtà salvifica della grazia e dell’alleanza,
bisogna considerarlo ora sotto l’aspetto del segno, mentre le precedenti
riflessioni sono state dedicate alla realtà della grazia e dell’alleanza.
Il matrimonio, come sacramento della Chiesa, viene
contratto mediante le parole dei ministri, cioè degli sposi novelli: parole che
significano e indicano, nell’ordine intenzionale, ciò che (o piuttosto: chi)
entrambi hanno deciso di essere, d’ora in poi, l’uno per l’altro e l’uno con
l’altro. Le parole degli sposi novelli fanno parte della struttura integrale del
segno sacramentale, non soltanto per ciò che significano, ma, in certo senso,
anche con ciò che esse significano e determinano. Il segno sacramentale si
costituisce nell’ordine intenzionale, in quanto viene contemporaneamente
costituito nell’ordine reale.
4. Di conseguenza, il segno del sacramento del
matrimonio è costituito mediante le parole degli sposi novelli, in quanto ad
esse corrisponde la “realtà” che loro stessi costituiscono. Tutti e due, come
uomo e donna, essendo ministri del sacramento nel momento di contrarre il
matrimonio, costituiscono in pari tempo il pieno e reale segno visibile del
sacramento stesso. Le parole da essi pronunciate non costituirebbero di per sé
il segno sacramentale del matrimonio, se non vi corrispondesse la soggettività
umana del fidanzato e della fidanzata e contemporaneamente la coscienza del
corpo, legata alla mascolinità e alla femminilità dello sposo e della sposa. Qui
bisogna rievocare alla mente tutta la serie delle analisi relative al Libro
della Genesi (cf. Gen 1-2), compiute in precedenza. La struttura del
segno sacramentale resta infatti nella sua essenza la stessa che “in principio”.
La determina, in certo senso, “il linguaggio del corpo”, in quanto l’uomo e la
donna, che mediante il matrimonio debbono diventare una sola carne, esprimono in
questo segno il reciproco dono della mascolinità e della femminilità, quale
fondamento dell’unione coniugale delle persone.
5. Il segno del sacramento del matrimonio viene
costituito per il fatto che le parole pronunciate dagli sposi novelli riprendono
il medesimo “linguaggio del corpo” come al “principio”, e in ogni caso gli danno
una espressione concreta e irripetibile. Gli danno una espressione intenzionale
sul piano dell’intelletto e della volontà, della coscienza e del cuore. Le
parole: “Io prendo te come mia sposa - come mio sposo”, portano in sé appunto
quel perenne, e ogni volta unico e irripetibile, “linguaggio del corpo” e nello
stesso tempo lo collocano nel contesto della comunione delle persone: “Prometto
di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella
malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita”. In tal modo il
perenne e ogni volta nuovo “linguaggio del corpo”, è non soltanto il “substrato”
ma, in certo senso, il contenuto costitutivo della comunione delle persone. Le
persone - uomo e donna - diventano per sé un dono reciproco. Diventano quel dono
nella loro mascolinità e femminilità scoprendo il significato sponsale del corpo
e riferendolo reciprocamente a se stessi in modo irreversibile: nella dimensione
di tutta la vita.
6. Così il sacramento del matrimonio come segno
permette di comprendere le parole degli sposi novelli, parole che conferiscono
un nuovo aspetto alla loro vita nella dimensione strettamente personale (e
interpersonale: “communio personarum”), sulla base del “linguaggio del corpo”.
L’amministrazione del sacramento consiste in questo: che nel momento di
contrarre il matrimonio l’uomo e la donna, con le parole adeguate e nella
rilettura del perenne “linguaggio del corpo”, formano un segno, un segno
irripetibile, che ha anche un significato prospettico: “tutti i giorni della mia
vita”, cioè fino alla morte. Questo è segno visibile ed efficace dell’alleanza
con Dio in Cristo, cioè della grazia, che in tale segno deve divenire parte
loro, come “proprio dono” (secondo l’espressione della prima Lettera ai Corinzi
7, 7) (1 Cor 7, 7).
7. Formulando la questione in categorie
socio-giuridiche, si può dire che fra gli sposi novelli è stipulato un patto
coniugale di contenuto ben determinato. Si può inoltre dire che, in seguito a
questo patto, essi sono diventati sposi in modo socialmente riconosciuto, e che
in questo modo è anche costituita nel suo germe la famiglia come fondamentale
cellula sociale. Tale modo di intendere è ovviamente concorde con la realtà
umana del matrimonio, anzi, è fondamentale anche nel senso religioso e
religioso-morale. Tuttavia, dal punto di vista della teologia del sacramento, la
chiave per comprendere il matrimonio rimane la realtà del segno, con cui il
matrimonio viene costituito sulla base dell’alleanza dell’uomo con Dio in Cristo
e nella Chiesa: viene costituito nell’ordine soprannaturale del vincolo sacro
esigente la grazia. In questo ordine, il matrimonio è un segno visibile ed
efficace. Originato dal mistero della creazione, esso trae la sua nuova origine
dal mistero della Redenzione, servendo all’“unione dei figli di Dio nella verità
e nella carità” (Gaudium
et Spes, 24). La liturgia del sacramento del matrimonio dà forma a quel
segno: direttamente, durante il rito sacramentale, in base all’insieme delle sue
eloquenti espressioni; indirettamente, nello spazio di tutta la vita. L’uomo e
la donna, come coniugi, portano questo segno in tutta la loro vita e rimangono
quel segno fino alla morte.
Mercoledì, 12 gennaio 1983
1. Analizziamo ora la sacramentalità del matrimonio
sotto l’aspetto del segno.
Quando affermiamo che nella struttura del matrimonio
quale segno sacramentale, entra essenzialmente anche il “linguaggio del corpo”,
facciamo riferimento alla lunga tradizione biblica. Questa ha la sua origine nel
Libro della Genesi (Gen 2, 23-25) e trova il suo definitivo coronamento
nella Lettera agli Efesini (cf. Ef 5, 21-33). I Profeti dell’Antico
Testamento hanno avuto un ruolo essenziale nel formare questa tradizione.
Analizzando i testi di Osea, Ezechiele, Deutero-Isaia, e di altri profeti, ci
siamo trovati sulla via di quella grande analogia, la cui espressione ultima è
la proclamazione della nuova alleanza sotto forma di uno sposalizio tra Cristo e
la Chiesa (cf. Ef 5, 21-33). In base a questa lunga tradizione, è
possibile parlare di uno specifico “profetismo del corpo”, sia per il fatto che
incontriamo questa analogia anzitutto nei Profeti, sia riguardo al contenuto
stesso di essa. Qui, il “profetismo del corpo” significa appunto il “linguaggio
del corpo”,
2. L’analogia sembra avere due strati. Nello strato
primo e fondamentale, i Profeti prospettano il paragone dell’alleanza, stabilita
tra Dio e Israele, come un matrimonio (il che ci consentirà ancora di
comprendere il matrimonio stesso come un’alleanza tra marito e moglie) (cf.
Pro 2, 17; Ml 2, 14). In questo caso, l’alleanza deriva
dall’iniziativa di Dio, Signore di Israele. Il fatto che, come Creatore e
Signore, egli stringe alleanza prima con Abramo e poi con Mosè, attesta già una
elezione particolare. E perciò i Profeti, presupponendo tutto il contenuto
giuridico-morale dell’alleanza vanno più in profondità, rivelandone una
dimensione incomparabilmente più profonda di quella del solo “patto”. Dio,
scegliendo Israele, si è unito col suo popolo mediante l’amore e la grazia. Si è
legato con vincolo particolare, profondamente personale, e perciò Israele,
sebbene sia un popolo, viene presentato in questa visione profetica
dell’alleanza come “sposa” o “moglie”, quindi, in certo senso, come persona: “.
. . Tuo sposo è il tuo Creatore, / Signore degli eserciti è il suo nome; / tuo
redentore è il Santo di Israele / è chiamato Dio di tutta la terra . . . / Dice
il tuo Dio . . . / Non si allontanerebbe da te il mio affetto, / né vacillerebbe
la mia alleanza di pace (Is 54, 5. 6,10),
3. Jahvè è il Signore di Israele, ma divenne anche
il suo Sposo. I libri del Vecchio Testamento attestano la completa originalità
del “dominio” di Jahvè sul suo popolo. Agli altri aspetti del dominio di Jahvè,
Signore dell’alleanza e Padre di Israele, se ne aggiunge uno nuovo svelato dai
Profeti, cioè la dimensione stupenda di questo “dominio”, che è la dimensione
sponsale. In tal modo, l’assoluto del dominio risulta l’assoluto dell’amore. In
rapporto a tale assoluto, la rottura dell’alleanza significa non soltanto
l’infrazione del “patto” collegata con l’autorità del supremo Legislatore, ma
l’infedeltà e il tradimento: un colpo che addirittura trafigge il suo cuore di
Padre, di Sposo e di Signore.
4. Se, nell’analogia usata dai Profeti, si può
parlare di strati, questo è in un certo senso lo strato primo e fondamentale.
Dato che l’alleanza di Jahvè con Israele ha il carattere di vincolo sponsale a
somiglianza del patto coniugale, quel primo strato dell’analogia ne svela il
secondo, che è appunto il “linguaggio del corpo”. Abbiamo qui in mente, in primo
luogo, il linguaggio in senso oggettivo, i Profeti paragonano l’alleanza al
matrimonio, si riportano a quel sacramento primordiale di cui parla Genesi
2, 24, nel quale l’uomo e la donna diventano, per libera scelta, “una sola
carne”. Tuttavia è caratteristico del modo di esprimersi dei Profeti il fatto
che, supponendo il “linguaggio del corpo” in senso oggettivo, essi passano, ad
un tempo, al suo significato soggettivo: cioè consentono, per così dire, al
corpo stesso di parlare. Nei testi profetici dell’alleanza, in base all’analogia
dell’unione sponsale dei coniugi, è il corpo stesso che “parla”; parla con la
sua mascolinità o femminilità, parla con il misterioso linguaggio del dono
personale, parla infine - e ciò avviene più spesso - sia col linguaggio della
fedeltà cioè dell’amore, sia con quello dell’infedeltà coniugale, cioè
dell’“adulterio”.
5. E noto che sono stati i diversi peccati del
popolo eletto - e soprattutto le frequenti infedeltà relative al culto del Dio
uno, cioè varie forme di idolatria - a offrire ai Profeti l’occasione per le
enunciazioni suddette. Il profeta dell’“adulterio” di Israele è diventato in
modo particolare Osea, che lo stigmatizza non solo con le parole, ma, in certo
senso, anche con atti dal significato simbolico: “Va’, prenditi in moglie una
prostituta e abbi figli di prostituzione, poiché il paese non fa che
prostituirsi allontanandosi dal Signore (Os 1, 2). Osea pone in rilievo
tutto lo splendore dell’alleanza, di quello sposalizio in cui Jahvè si dimostra
sposo-coniuge sensibile, affettuoso, disposto a perdonare, e insieme esigente e
severo, L’“adulterio” e la “prostituzione” di Israele costituiscono un evidente
contrasto col vincolo sponsale, su cui è basata l’alleanza, così come,
analogamente, il matrimonio dell’uomo con la donna.
6. Ezechiele stigmatizza in modo analogo
l’idolatria, servendosi del simbolo dell’adulterio di Gerusalemme (cf. Ez
16) e, in un altro passo, di Gerusalemme e di Samaria (cf. Ez 23):
“Passai vicino a te e ti vidi; ecco la tua età era l’età dell’amore . . . Giurai
alleanza con te, dice il Signore Dio, e diventasti mia” (Ez 16, 8). “Tu
però, infatuata per la tua bellezza e approfittando della tua fama, ti sei
prostituita concedendo i tuoi favori ad ogni passante” (Ez 16, 15).
7. Nei testi profetici, il corpo umano parla un
“linguaggio”, di cui esso non è l’autore. Suo autore è l’uomo in quanto maschio
o femmina, in quanto sposo o sposa: l’uomo con la sua perenne vocazione alla
comunione delle persone. L’uomo, tuttavia, non è capace, in certo senso, di
esprimere senza corpo questo linguaggio singolare della sua esistenza personale
e della sua vocazione. Egli è stato costituito in tal modo già dal “principio”,
così che le più profonde parole dello spirito - parole di amore, di donazione,
di fedeltà - esigono un adeguato “linguaggio del corpo”. E senza di esso non
possono essere pienamente espresse. Sappiamo dal Vangelo che ciò si riferisce
sia al matrimonio sia alla continenza “per il Regno dei cieli”.
8. I Profeti, come ispirati portavoce dell’alleanza
di Jahvè con Israele, cercano appunto, mediante questo “linguaggio del corpo”,
di esprimere sia la profondità sponsale della suddetta alleanza, sia tutto ciò
che la contraddice. Elogiano la fedeltà, stigmatizzano invece l’infedeltà come
“adulterio”: parlano dunque secondo categorie etiche, contrapponendo
reciprocamente il bene e il male morale. La contrapposizione del bene e del male
è essenziale per l’ethos. I testi profetici hanno in questo campo un significato
essenziale, come abbiamo già rivelato nelle nostre precedenti riflessioni.
Sembra, però, che il “linguaggio del corpo” secondo i Profeti non sia unicamente
un linguaggio dell’ethos, un elogio della fedeltà e della purezza, nonché una
condanna dell’“adulterio” e della “prostituzione”. Infatti, per ogni linguaggio,
quale espressione della conoscenza, le categorie della verità e della non-verità
(ossia del falso) sono essenziali. Nei testi dei Profeti, che scorgono
l’analogia dell’alleanza di Jahvè con Israele nel matrimonio, il corpo dice la
verità mediante la fedeltà e l’amore coniugale, e, quando commette “adulterio”,
dice la menzogna, commette la falsità.
9. Non si tratta qui di sostituire le
differenziazioni etiche con quelle logiche. Se i testi profetici indicano la
fedeltà coniugale e la castità come “verità”, e l’adulterio, invece, o la
prostituzione, come non-verità, come “falsità” del linguaggio del corpo, ciò
avviene perché nel primo caso il soggetto (Israele come sposa) è concorde col
significato sponsale che corrisponde al corpo umano (a motivo della sua
mascolinità o femminilità) nella struttura integrale della persona; nel secondo
caso, invece, lo stesso oggetto è in contraddizione e collisione con questo
significato.
Possiamo dunque dire che l’essenziale per il
matrimonio come sacramento è il “linguaggio del corpo”, riletto nella verità.
Proprio mediante esso si costituisce infatti il segno sacramentale.
Mercoledì, 19 gennaio 1983
1. I testi dei Profeti hanno grande importanza per
comprendere il matrimonio come alleanza di persone (ad immagine dell’alleanza di
Jahvè con Israele) e, in particolare, per comprendere l’alleanza sacramentale
dell’uomo e della donna nella dimensione del segno. Il “linguaggio del corpo”
entra - come già in precedenza è stato considerato - nella struttura integrale
del segno sacramentale, il cui precipuo soggetto è l’uomo, maschio e femmina. Le
parole del consenso coniugale costituiscono questo segno, perché in esse trova
espressione il significato sponsale del corpo nella sua mascolinità e
femminilità. Un tale significato viene espresso soprattutto dalle parole: “Io .
. . prendo te . . . come mia sposa . . . mio sposo”. Per di più con queste
parole è confermata l’essenziale “verità” del linguaggio del corpo e viene anche
(almeno indirettamente) esclusa l’essenziale “non verità”, la falsità del
linguaggio del corpo. Il corpo, infatti, dice la verità attraverso l’amore, la
fedeltà, l’onestà coniugali, così come la non verità, ossia la falsità, viene
espressa attraverso tutto ciò che è negazione dell’amore, della fedeltà,
dell’onestà coniugali. Si può quindi dire che, nel momento di proferire le
parole del consenso coniugale, gli sposi novelli si pongono sulla linea dello
stesso “profetismo del corpo”, i cui portavoce furono gli antichi Profeti. Il
“linguaggio del corpo”, espresso per bocca dei ministri del matrimonio come
sacramento della Chiesa, istituisce lo stesso segno visibile dell’alleanza e
della grazia, che - risalendo con la sua origine al mistero della creazione - si
alimenta continuamente con la forza della “redenzione del corpo”, offerta da
Cristo alla Chiesa.
2. Secondo i testi profetici il corpo umano parla un
“linguaggio . . . di cui esso non è l’autore. L’autore ne è l’uomo che, come
maschio e femmina, sposo e sposa, rilegge correttamente il significato di questo
“linguaggio”. Rilegge dunque quel significato sponsale del corpo come
integralmente inscritto nella struttura della mascolinità o femminilità del
soggetto personale. Una corretta rilettura “nella verità” è condizione
indispensabile per proclamare tale verità, ossia per istituire il segno visibile
del matrimonio come sacramento. Gli sposi proclamano appunto questo “linguaggio
del corpo”, riletto nella verità, quale contenuto e principio della loro nuova
vita in Cristo e nella Chiesa. Sulla base del “profetismo del corpo”, i ministri
del sacramento del matrimonio compiono un atto di carattere profetico.
Confermano in tal modo la loro partecipazione alla missione profetica della
Chiesa, ricevuta da Cristo. “Profeta” è colui che esprime con parole umane la
verità proveniente da Dio, colui che proferisce tale verità in sostituzione di
Dio, nel suo nome e, in certo senso, con la sua autorità.
3. Tutto ciò si riferisce agli sposi novelli, i
quali, come ministri del sacramento del matrimonio, istituiscono con le parole
del consenso coniugale il segno visibile, proclamando il “linguaggio del corpo”,
riletto nella verità, come contenuto e principio della loro nuova vita in Cristo
e nella Chiesa. Questa proclamazione “profetica” ha un carattere complesso. Il
consenso coniugale è insieme annunzio e causa del fatto che, d’ora in poi,
entrambi saranno dinanzi alla Chiesa e alla società marito e moglie (un tale
annunzio intendiamo come “indicazione” nel senso ordinario del termine).
Tuttavia, il consenso coniugale ha soprattutto il carattere di una reciproca
professione degli sposi novelli, fatta dinanzi a Dio. Basta soffermarsi con
attenzione sul testo, per convincersi che quella proclamazione profetica del
linguaggio del corpo, riletto nella verità, è immediatamente e direttamente
rivolta dall’“io” al “tu”: dall’uomo alla donna e da lei a lui. Posto centrale
nel consenso coniugale hanno proprio le parole che indicano il soggetto
personale, i pronomi “io” e “te”. Il “linguaggio del corpo”, riletto nella
verità del suo significato sponsale, costituisce mediante le parole degli sposi
novelli l’unione-comunione delle persone. Se il consenso coniugale ha carattere
profetico, se è la proclamazione della verità proveniente da Dio, e in certo
senso l’enunciazione di questa verità nel nome di Dio, ciò si attua soprattutto
nella dimensione della comunione interpersonale, e soltanto indirettamente
“dinanzi” agli altri e “per” gli altri.
4. Sullo sfondo delle parole pronunciale dai
ministri del sacramento del matrimonio, sta il perenne “linguaggio del corpo”, a
cui Dio “diede inizio” creando l’uomo quale maschio e femmina: linguaggio, che è
stato rinnovato da Cristo. Questo perenne “linguaggio del corpo” porta in sé
tutta la ricchezza e la profondità del Mistero: prima della creazione, poi della
redenzione. Gli sposi, attuando il segno visibile del sacramento mediante le
parole del loro consenso coniugale, esprimono in esso “il linguaggio del corpo”,
con tutta la profondità del mistero della creazione e della redenzione (la
liturgia del sacramento del matrimonio ne offre un ricco contesto). Rileggendo
in tal modo “il linguaggio del corpo”, gli sposi non solo racchiudono nelle
parole del consenso coniugale la soggettiva pienezza della professione,
indispensabile ad attuare il segno proprio di questo sacramento, ma giungono
anche, in un certo senso, alle sorgenti stesse, da cui quel segno attinge ogni
volta la sua eloquenza profetica e la sua forza sacramentale. Non è lecito
dimenticare che “il linguaggio del corpo”, prima di essere pronunciato dalle
labbra degli sposi, ministri del matrimonio quale sacramento della Chiesa, è
stato pronunciato dalla parola del Dio vivo, iniziando dal Libro della Genesi,
attraverso i Profeti dell’antica alleanza, fino all’Autore della Lettera agli
Efesini.
5. Adoperiamo qui a più riprese l’espressione
“linguaggio del corpo”, riportandoci ai testi profetici. In questi testi, come
abbiamo già detto, il corpo umano parla un “linguaggio”, di cui esso non è
l’autore nel senso proprio del termine. L’autore è l’uomo - maschio e femmina -
che rilegge il vero senso di quel “linguaggio”, riportando alla luce il
significato sponsale del corpo come integralmente iscritto nella struttura
stessa della mascolinità e femminilità del soggetto personale. Tale rilettura
“nella verità” del linguaggio del corpo già di per sé conferisce un carattere
profetico alle parole del consenso coniugale, per mezzo delle quali l’uomo e la
donna attuano il segno visibile del matrimonio come sacramento della Chiesa.
Queste parole contengono tuttavia qualcosa di più che una semplice rilettura
nella verità di quel linguaggio, di cui parla la femminilità e la mascolinità
degli sposi novelli nel loro rapporto reciproco: “Io prendo te come mia sposa -
come mio sposo”. Nelle parole del consenso coniugale sono racchiusi: il
proposito, la decisione e la scelta. Entrambi gli sposi decidono di agire in
conformità col linguaggio del corpo, riletto nella verità. Se l’uomo, maschio e
femmina, è l’autore di quel linguaggio, lo è soprattutto in quanto vuole
conferire, ed effettivamente conferisce al suo comportamento e alle sue azioni
il significato conforme all’eloquenza riletta della verità della mascolinità e
della femminilità nel reciproco rapporto coniugale.
6. In questo ambito l’uomo è artefice delle azioni
che hanno di per sé significati definiti. È dunque artefice delle azioni e
insieme autore dei loro significato. La somma di quei significati costituisce,
in certo senso, l’insieme del “linguaggio del corpo”, con cui gli sposi decidono
di parlare tra loro come ministri del sacramento del matrimonio. Il segno che
essi attuano con le parole del consenso coniugale non è puro segno immediato e
passeggero, ma un segno prospettico che riproduce un effetto duraturo, cioè il
vincolo coniugale, unico e indissolubile (“tutti i giorni della mia vita”, cioè
fino alla morte). In questa prospettiva essi debbono riempire quel segno del
molteplice contenuto offerto dalla comunione coniugale e familiare delle
persone, e anche di quel contenuto che, originato “dal linguaggio del corpo”,
viene continuamente riletto nella verità. In tal modo la “verità” essenziale del
segno rimarrà organicamente legata all’ethos della condotta coniugale. In questa
verità del segno e, in seguito, nell’ethos della condotta coniugale, s’inserisce
prospetticamente il significato procreativo del corpo, cioè la paternità e la
maternità, di cui abbiamo trattato in precedenza. Alla domanda: “Siete disposti
ad accogliere responsabilmente con amore i figli che Dio vorrà donarvi ed
educarli secondo la legge di Cristo e della sua Chiesa?”, l’uomo e la donna
rispondono: “Sì”.
E per ora rimandiamo ad altri incontri
approfondimenti ulteriori del tema.
Mercoledì, 26 gennaio 1983
1. Il segno del matrimonio come sacramento della
Chiesa viene costituito ogni volta secondo quella dimensione, che gli è propria
dal “principio”, e allo stesso tempo viene costituito sul fondamento dell’amore
sponsale di Cristo e della Chiesa, come l’unica e irripetibile espressione
dell’alleanza fra “questo” uomo e “questa” donna, che sono ministri del
matrimonio come sacramento della loro vocazione e della loro vita. Nel dire che
il segno del matrimonio come sacramento della Chiesa si costituisce sulla base
del “linguaggio del corpo”, ci serviamo dell’analogia (“analogia attributionis”),
che abbiamo cercato di chiarire già in precedenza. È ovvio che il corpo come
tale non “parla”, ma parla l’uomo, rileggendo ciò che esige di essere espresso
appunto in base al “corpo”, alla mascolinità o femminilità del soggetto
personale, anzi, in base a ciò che può essere espresso dall’uomo unicamente per
mezzo del corpo.
In questo senso, l’uomo - maschio o femmina - non
soltanto parla col linguaggio del corpo, ma in un certo senso consente al corpo
di parlare “per lui” e “da parte di lui”: direi, a suo nome e con la sua
autorità personale. In tal modo, anche il concetto di “profetismo del corpo”
sembra essere fondato: il “profeta”, infatti, è colui che parla “per” e “da
parte di”: a nome e con l’autorità di una persona.
2. Gli sposi novelli ne sono consapevoli quando,
contraendo il matrimonio, ne istituiscono il segno visibile. Nella prospettiva
della vita in comune e della vocazione coniugale, quel segno iniziale, segno
originario del matrimonio come sacramento della Chiesa, verrà continuamente
colmato dal “profetismo del corpo”. I corpi degli sposi parleranno “per” e “da
parte di” ciascuno di loro, parleranno nel nome e con l’autorità della persona,
di ciascuna delle persone, svolgendo il dialogo coniugale, proprio della loro
vocazione e basato sul linguaggio del corpo, riletto a suo tempo opportunamente
e continuamente: ed è necessario che esso sia riletto nella verità! I coniugi
sono chiamati a formare la loro vita e la loro convivenza come “comunione delle
persone” sulla base di quel linguaggio. Dato che al linguaggio corrisponde un
complesso di significati, i coniugi - attraverso la loro condotta e
comportamento, attraverso le loro azioni e gesti (“gesti di tenerezza”) (cf.
Gaudium et Spes, 49) - sono chiamati a diventare gli autori di tali
significati del “linguaggio del corpo”, di cui conseguentemente si costruiscono
e di continuo si approfondiscono l’amore, la fedeltà, l’onestà coniugale e
quell’unione che rimane indissolubile fino alla morte.
3. Il segno del matrimonio come sacramento della
Chiesa si forma per l’appunto di quei significati, di cui i coniugi sono autori.
Tutti questi significati sono iniziati e in certo senso “programmati” in modo
sintetico nel consenso coniugale, al fine di costruire in seguito - nel modo più
analitico, giorno per giorno - lo stesso segno, immedesimandosi con esso nella
dimensione dell’intera vita. C’è un legame organico fra il rileggere nella
verità l’integrale significato del “linguaggio del corpo” e il conseguente usare
di quel linguaggio nella vita coniugale. In quest’ultimo ambito l’essere umano -
maschio e femmina - è l’autore dei significati del “linguaggio del corpo”. Ciò
implica che questo linguaggio, di cui egli è autore, corrisponda alla verità che
è stata riletta. In base alla tradizione biblica, parliamo qui del “profetismo
del corpo”. Se l’essere umano - maschio e femmina - nel matrimonio (e
indirettamente anche in tutti gli ambiti della mutua convivenza) conferisce al
suo comportamento un significato conforme alla verità fondamentale del
linguaggio del corpo, allora anche lui stesso “è nella verità”. Nel caso
contrario, egli commette menzogne e falsifica il linguaggio del corpo.
4. Se ci poniamo sulla linea prospettica del
consenso coniugale, che - come abbiamo ormai detto - offre agli sposi una
particolare partecipazione alla missione profetica della Chiesa, tramandata da
Cristo stesso, ci si può a questo proposito servire anche della distinzione
biblica tra profeti “veri” e profeti “falsi”.
Attraverso il matrimonio come sacramento della
Chiesa, l’uomo e la donna sono in modo esplicito chiamati a dare - servendosi
correttamente del “linguaggio del corpo” - la testimonianza dell’amore sponsale
e procreativo, testimonianza degna di “veri profeti”. In questo consiste il
significato giusto e la grandezza del consenso coniugale nel sacramento della
Chiesa.
5. La problematica del segno sacramentale del
matrimonio ha carattere altamente antropologico. La costruiamo sulla base
dell’antropologia teologica e in particolare su ciò che, sin dall’inizio delle
presenti considerazioni, abbiamo definito come “teologia del corpo”. Perciò, nel
continuare queste analisi, dobbiamo sempre avere davanti agli occhi le
considerazioni precedenti, che si riferiscono all’analisi delle parole-chiave di
Cristo (diciamo “parole-chiave, perché ci aprono - come la chiave - le singole
dimensioni dell’antropologia teologica, specialmente della teologia del corpo).
Costruendo su questa base l’analisi del segno sacramentale del matrimonio di cui
- anche dopo il peccato originale - sono sempre partecipi l’uomo e la donna,
quale “uomo storico”, dobbiamo ricordare costantemente il fatto che quell’uomo
“storico”, maschio e femmina, è ad un tempo l’“uomo della concupiscenza” come
tale, ogni uomo e ogni donna entrano nella storia della salvezza e ne vengono
coinvolti mediante il sacramento, che è segno visibile dell’alleanza e della
grazia.
6. Perciò, nel contesto delle presenti riflessioni
sulla struttura sacramentale del segno del matrimonio, dobbiamo tener conto non
soltanto di ciò che Cristo disse sull’unità e indissolubilità del matrimonio
facendo riferimento al “principio”, ma anche (e ancor più) di ciò che egli
espresse nel Discorso della Montagna, quando si richiamò al “cuore umano”.
Mercoledì, 9 febbraio 1983
1. Abbiamo detto in precedenza che nel contesto
delle presenti riflessioni sulla struttura del matrimonio come segno
sacramentale, dobbiamo tener conto non soltanto di ciò che Cristo dichiarò sulla
sua unità e indissolubilità facendo riferimento al “principio”, ma anche (e
ancor più) di ciò che egli disse nel Discorso della Montagna, quando si richiamò
al “cuore umano”. Riportandosi al comandamento: “Non commettere adulterio”,
Cristo parlò dell’“adulterio nel cuore”: “Chiunque guarda una donna per
desiderarla ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt 5, 28).
Così, dunque, nell’affermare che il segno
sacramentale del matrimonio - segno dell’alleanza coniugale dell’uomo e della
donna - si forma in base al “linguaggio del corpo” una volta riletto nella
verità (e di continuo riletto), ci rendiamo conto che colui il quale rilegge
questo “linguaggio” e poi lo esprime, non secondo le esigenze proprie del
matrimonio come patto e sacramento, è naturalmente e moralmente l’uomo della
concupiscenza: maschio e femmina, intesi ambedue come l’“uomo della
concupiscenza”. I profeti dell’Antico Testamento hanno certamente davanti agli
occhi questo uomo quando, servendosi di una analogia, stigmatizzano l’“adulterio
di Israele e di Giuda”. L’analisi delle parole pronunciate da Cristo nel
Discorso della Montagna c’induce a comprendere più profondamente l’“adulterio”
stesso. E in pari tempo ci porta a convincerci che il “cuore” umano non è tanto
“accusato e condannato” da Cristo a motivo della concupiscenza (“concupiscentia
carnis”), quanto prima di tutto “chiamato”. Qui passa una decisa divergenza fra
l’antropologia (o l’ermeneutica antropologica) del Vangelo e alcuni influenti
rappresentanti dell’ermeneutica contemporanea dell’uomo (i cosiddetti maestri
del sospetto).
2. Passando sul terreno della nostra presente
analisi, possiamo constatare che sebbene l’uomo, nonostante il segno
sacramentale del matrimonio, nonostante il consenso coniugale e la sua
attuazione, rimanga naturalmente l’“uomo della concupiscenza”, tuttavia egli è
contemporaneamente l’uomo della “chiamata”. È “chiamato” attraverso il mistero
della redenzione del corpo, mistero divino, che ad un tempo è - in Cristo e per
Cristo in ogni uomo - realtà umana. Quel mistero, inoltre, comporta un
determinato ethos che per essenza è “umano”, e che abbiamo già in precedenza
chiamato ethos della redenzione.
3. Alla luce delle parole pronunciate da Cristo nel
Discorso della Montagna, alla luce di tutto il Vangelo e della nuova alleanza,
la triplice concupiscenza (e in particolare la concupiscenza della carne) non
distrugge la capacità di rileggere nella verità il “linguaggio del corpo” - e di
rileggerlo continuamente in modo più maturo e più pieno -, per cui il segno
sacramentale viene costituito sia nel suo primo momento liturgico sia, in
seguito, nella dimensione di tutta la vita. A questa luce occorre constatare
che, se la concupiscenza di per sé genera molteplici “errori” nel rileggere il
“linguaggio del corpo” e insieme a ciò genera anche il “peccato”, il male
morale, contrario alla virtù della castità (sia coniugale che extra-coniugale),
tuttavia nell’ambito dell’ethos della redenzione rimane sempre la possibilità di
passare dall’“errore” alla “verità”, come pure la possibilità di ritorno, ossia
di conversione, dal peccato alla castità, quale espressione di una vita secondo
lo Spirito (cf. Gal 5, 16).
4. In questo modo, nell’ottica evangelica e
cristiana del problema, l’uomo “storico” (dopo il peccato originale), in base al
“linguaggio del corpo” riletto nella verità, è capace - come maschio e femmina -
di costituire il segno sacramentale dell’amore, della fedeltà e dell’onestà
coniugale, e questo come segno duraturo: “Esserti fedele sempre, nella gioia e
nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni
della mia vita”. Ciò significa che l’uomo, in modo reale, è autore dei
significati per mezzo dei quali, dopo aver riletto nella verità il “linguaggio
del corpo”, è anche capace di formare nella verità quel linguaggio nella
comunione coniugale e familiare delle persone. Ne è capace anche come “uomo
della concupiscenza”, essendo nello stesso tempo “chiamato” dalla realtà della
Redenzione di Cristo (“simul lapsus et redemptus”).
5. Mediante la dimensione del segno, propria del
matrimonio come sacramento, viene confermata la specifica antropologia
teologica, la specifica ermeneutica dell’uomo, che in questo caso potrebbe anche
chiamarsi “ermeneutica del sacramento”, perché consente di comprendere l’uomo in
base all’analisi del segno sacramentale. L’uomo - maschio e femmina - come
ministro del sacramento, autore (co-autore) del segno sacramentale, è soggetto
cosciente e capace di autodeterminazione. Soltanto su questa base egli può
essere l’autore del “linguaggio del corpo”, può essere anche autore (co-autore)
del matrimonio come segno: segno della divina creazione e “redenzione del
corpo”. Il fatto che l’uomo (il maschio e la femmina) è l’uomo della
concupiscenza, non pregiudica che egli sia capace di rileggere il linguaggio del
corpo nella verità. È l’“uomo della concupiscenza”, ma nello stesso tempo è
capace di discernere la verità dalla falsità nel linguaggio del corpo e può
essere autore dei significati veri (o falsi) di quel linguaggio.
6. È l’uomo della concupiscenza, ma non è
completamente determinato dalla “libido” (nel senso in cui viene spesso usato
questo termine). Una tale determinazione significherebbe che l’insieme dei
comportamenti dell’uomo, perfino anche, per esempio, la scelta della continenza
per motivi religiosi, si spiegherebbe soltanto attraverso le specifiche
trasformazioni di questa “libido”. In tal caso - nell’ambito del linguaggio del
corpo - l’uomo sarebbe in certo senso condannato a falsificazioni essenziali:
sarebbe soltanto colui che esprime una specifica determinazione da parte della
“libido”, ma non esprimerebbe la verità (o la falsità) dell’amore sponsale e
della comunione delle persone, anche se pensasse di manifestarla. Di
conseguenza, egli sarebbe dunque condannato a sospettare se stesso e gli altri,
riguardo alla verità del linguaggio del corpo. A causa della concupiscenza della
carne potrebbe essere soltanto “accusato”, ma non potrebbe essere veramente
“chiamato”.
L’“ermeneutica del sacramento” ci consente di tirare
la conclusione che l’uomo è sempre essenzialmente “chiamato” e non soltanto
“accusato”, e ciò proprio in quanto “uomo della concupiscenza”.
SESTO CICLO
Amore Sponsale
Riflessioni su il Cantico dei
Cantici e il Libro di Tobia
Mercoledì, 23 maggio 1984
1. Durante l’Anno Santo sospesi la trattazione del
tema dell’amore umano nel piano divino. Vorrei ora concludere quell’argomento
con alcune considerazioni soprattutto circa l’insegnamento dell’Humanae
Vitae, premettendo qualche riflessione circa il Cantico dei Cantici
e il Libro di Tobia. Mi sembra, infatti, che quanto intendo esporre nelle
prossime settimane costituisca come il coronamento di quanto ho illustrato.
Il tema dell’amore sponsale, che unisce l’uomo e la
donna, connette in certo senso questa parte della Bibbia con tutta la tradizione
della “grande analogia” che, attraverso gli scritti dei profeti, è confluita nel
Nuovo Testamento e in particolare nella lettera agli Efesini (cf. Ef 5,
21-23), la cui spiegazione ho interrotto all’inizio dell’Anno Santo.
Esso è divenuto oggetto di numerosi studi esegetici,
commenti e ipotesi. In merito al suo contenuto, in apparenza “profano”, le
posizioni sono state diverse: mentre da un lato se ne sconsigliava spesso la
lettura, dall’altro esso è stato la fonte a cui hanno attinto i più grandi
scrittori mistici e i versetti del Cantico dei cantici sono stati inseriti nella
liturgia della Chiesa.
Infatti sebbene l’analisi del testo di questo libro
ci obblighi a collocare il suo contenuto al di fuori dell’ambito della grande
analogia profetica, tuttavia non è possibile staccarlo dalla realtà del
sacramento primordiale. Non è possibile rileggerlo se non nella linea di ciò
che è scritto nei primi capitoli della Genesi, come testimonianza del
“principio” - di quel “principio” al quale Cristo si riferì nel decisivo
colloquio con i farisei (cf. Mt 19, 4). Il Cantico dei cantici si trova
certamente sulla scia di quel sacramento, in cui, attraverso il “linguaggio del
corpo” è costituito il segno visibile della partecipazione dell’uomo e della
donna all’alleanza della grazia e dell’amore, offerta da Dio all’uomo. Il
Cantico dei cantici dimostra la ricchezza di questo “linguaggio”, la cui prima
espressione è già in Genesi 2, 23-25.
2. Già i primi versetti del “Cantico” ci introducono
immediatamente nell’atmosfera di tutto il “poema”, in cui lo sposo e la sposa
sembrano muoversi nel cerchio tracciato dall’irradiazione dell’amore. Le parole
degli sposi, i loro movimenti, i loro gesti, corrispondono all’interiore mozione
dei cuori. Soltanto attraverso il prisma di tale mozione è possibile comprendere
il “linguaggio del corpo”, nel quale si attua quella scoperta a cui diede
espressione il primo uomo di fronte a colei che era stata creata come “un
aiuto che gli fosse simile” (cf. Gen 2, 20.23), e che era stata tratta,
come riporta il testo biblico, da una delle sue “costole” (la “costola” sembra
anche indicare il cuore).
Questa scoperta - già analizzata in base a Genesi 2
- nel Cantico dei cantici si riveste di tutta la ricchezza del linguaggio
dell’amore umano. Ciò che nel capitolo 2 della Genesi (cf. Gen 2, 23-25)
è stato espresso appena in poche parole, semplici ed essenziali, qui si sviluppa
come in un ampio dialogo o piuttosto un duetto, in cui le parole dello sposo si
intrecciano con quelle della sposa e si completano a vicenda. Le prime parole
dell’uomo nella Genesi, capitolo 2,23, alla vista della donna creata da
Dio esprimono lo stupore e l’ammirazione, anzi il senso di fascino. E un
simile fascino - che è stupore e ammirazione - scorre in una forma più ampia
attraverso i versetti del Cantico dei cantici. Scorre in onda placida e omogenea
dall’inizio sino alla fine del poema.
3. Perfino un’analisi sommaria del testo del Cantico
dei cantici permette di sentire esprimersi in quel fascino reciproco il
“linguaggio del corpo”. Tanto il punto di partenza quanto il punto d’arrivo di
questo fascino - reciproco stupore e ammirazione - sono infatti la femminilità
della sposa e la mascolinità dello sposo nell’esperienza diretta della loro
visibilità. Le parole d’amore, pronunciate da entrambi, si concentrano dunque
sul “corpo”, non solo perché esso costituisce per se stesso sorgente di
reciproco fascino, ma anche e soprattutto perché su di esso si sofferma
direttamente e immediatamente quell’attrazione verso l’altra persona,
verso l’altro “io” - femminile o maschile - che nell’interiore impulso del cuore
genera l’amore.
L’amore inoltre sprigiona una particolare
esperienza del bello, che si accentra su ciò che è visibile, ma coinvolge
contemporaneamente la persona intera. L’esperienza del bello genera il
compiacimento, che è reciproco.
“O bellissima tra le donne . . .” (Ct 1, 8),
dice lo sposo, e gli echeggiano le parole della sposa: “Bruna sono ma bella, o
figlie di Gerusalemme” (Ct 1, 5). Le parole dell’incanto maschile si
ripetono continuamente, ritornano in tutti e cinque i canti del poema. Ad esse
fanno eco espressioni simili della sposa.
4. Si tratta di metafore che possono oggi
sorprenderci. Molte di esse sono state prese dalla vita dei pastori; e altre
sembrano indicare lo stato regale dello sposo. L’analisi di quel linguaggio
poetico va lasciata agli esperti. Il fatto stesso di adoperare la metafora
dimostra quanto, nel nostro caso, il “linguaggio del corpo” cerchi appoggio e
conferma in tutto il mondo visibile. Questo è senza dubbio un “linguaggio”
che viene riletto contemporaneamente col cuore e con gli occhi dello sposo,
nell’atto di speciale concentrazione su tutto l’“io” femminile della
sposa. Questo “io” parla a lui attraverso ogni tratto femmineo, suscitando
quello stato d’animo, che può essere definito fascino, incanto. Questo “io”
femminile si esprime quasi senza parole; tuttavia il “linguaggio del corpo”
espresso senza parole trova ricca eco nelle parole dello sposo, nel suo parlare
pieno di trasporto poetico e di metafore, che testimoniano l’esperienza del
bello, un amore di compiacimento. Se le metafore del “Cantico” cercano per
questo bello un’analogia nelle diverse cose del mondo visibile (in questo mondo,
che è il “mondo proprio” dello sposo), nello stesso tempo sembrano indicare
l’insufficienza di ognuna di esse in particolare. “Tutta bella tu sei, amica
mia, in te nessuna macchia” (Ct 4, 7): con questa locuzione lo sposo
termina il suo canto, lasciando tutte le metafore, per volgersi a quell’unica,
attraverso cui il “linguaggio del corpo” sembra esprimere ciò che è più proprio
della femminilità e il tutto della persona.
Continueremo l’analisi del Cantico dei cantici nella
prossima udienza generale.
Mercoledì, 30 maggio 1984
Nel brano degli Atti degli Apostoli, testé letto,
abbiamo ascoltato la narrazione dell’Ascensione di Gesù al cielo. Come è noto,
domani si celebra, secondo il calendario della Chiesa universale, la solennità
dell’Ascensione.
È una festa che ci invita a guardare in alto, a
pensare al nostro destino ultraterreno e a pregare con insistenza e costanza
affinché venga il regno di Dio.
Domani pomeriggio ordinerò settantasette nuovi
sacerdoti. Vi invito a pregare perché diventino, mediante il sacramento
dell’Ordine, guide al cielo, pastori di uomini che si prodigano generosamente
per la gloria di Dio e il servizio dei fratelli.
1. Riprendiamo la nostra analisi del Cantico dei
cantici, al fine di comprendere in modo più adeguato ed esauriente il segno
sacramentale del matrimonio, quale lo manifesta il linguaggio del corpo, che è
un singolare linguaggio d’amore generato dal cuore.
Lo sposo a un certo punto, esprimendo una
particolare esperienza di valori, che irradia su tutto ciò che è in
rapporto con la persona amata, dice: “Tu mi hai rapito il cuore, / sorella mia,
sposa, / tu mi hai rapito il cuore / con un solo tuo sguardo, / con una perla
sola della tua collana! / Quanto sono soavi le tue carezze, / sorella mia, sposa
. . .” (Ct 4, 9-10).
Da queste parole emerge che è di importanza
essenziale per la teologia del corpo - e in questo caso per la teologia del
segno sacramentale del matrimonio - sapere chi è il femminile “tu” per il
maschile “io” e viceversa.
Lo sposo del Cantico dei cantici esclama: “Tutta
bella tu sei, amica mia” (Ct 4, 7) e la chiama: “Sorella mia, sposa” (Ct
4, 9). Non la chiama col nome proprio, ma usa espressioni che dicono di più.
Sotto un certo aspetto, rispetto all’appellativo di
“amica”, quello di “sorella”, usato per la sposa, sembra essere più eloquente e
radicato nell’insieme del Cantico, che manifesta come l’amore riveli l’altro.
2. Il termine “amica” indica ciò che è sempre
essenziale per l’amore, che pone il secondo “io” accanto al proprio “io”.
L’amicizia - l’amore di amicizia (“amor amicitiae”) - significa nel Cantico un
particolare avvicinamento sentito e sperimentato come forza interiormente
unificante. Il fatto che in questo avvicinamento quell’“io” femminile si riveli
per lo sposo come “sorella” - e che proprio come sorella sia sposa - ha
una particolare eloquenza. L’espressione “sorella” parla dell’unione
nell’umanità e insieme della diversità e originalità femminile della medesima
nei riguardi non solo del sesso, ma del modo stesso di “essere persona”, che
vuol dire sia “essere soggetto” sia “essere in rapporto”. Il termine “sorella”
sembra esprimere, in modo più semplice, la soggettività dell’“io” femminile nel
rapporto personale con l’uomo, cioè nell’apertura di lui verso gli altri,
che vengono intesi e percepiti come fratelli. La “sorella” in un certo
senso aiuta l’uomo a definirsi e concepirsi in tal modo, costituendo per lui una
sorta di sfida in questa direzione.
3. Lo sposo del Cantico accoglie la sfida e cerca il
passato comune, come se lui e la sua donna discendessero dalla cerchia della
stessa famiglia, come se fin dall’infanzia fossero uniti dai ricordi del comune
focolare. Così si sentono reciprocamente vicini come fratello e sorella, che
debbono la loro esistenza alla stessa madre. Ne consegue uno specifico senso di
comune appartenenza. Il fatto che si sentano fratello e sorella permette loro di
vivere in sicurezza la reciproca vicinanza e di manifestarla, trovando in ciò
appoggio e non temendo il giudizio iniquo degli altri uomini.
Le parole dello sposo, mediante l’appellativo
“sorella”, tendono a riprodurre, direi, la storia della femminilità della
persona amata, la vedono ancora nel tempo della fanciullezza e abbracciano il
suo intero “io”, anima e corpo, con una tenerezza disinteressata. Da qui
nasce quella pace di cui parla la sposa. Questa è la “pace del corpo”,
che in apparenza somiglia al sonno (“non destate, non scuotete dal sonno
l’amata, finché non lo voglia”). Questa è soprattutto la pace dell’incontro
nell’umanità quale immagine di Dio e l’incontro per mezzo di un dono
reciproco e disinteressato (“Così sono ai tuoi occhi, come colei che ha
trovato pace”) (Ct 8, 10).
4. In relazione al precedente trama, che potrebbe
essere chiamata trama “fraterna”, emerge nell’amoroso duetto del Cantico dei
cantici un’altra trama, diciamo: un altro sostrato del contenuto. Possiamo
esaminarla partendo da certe locuzioni che nel poemetto sembrano avere un
significato chiave. Questa trama non emerge mai esplicitamente, ma attraverso
tutto il componimento e si manifesta espressamente solo in alcuni passi. Ecco,
parla lo sposo: “Giardino chiuso tu sei, / sorella mia, sposa /
giardino chiuso, fontana sigillata” (Ct 4, 12).
Le metafore appena lette: “giardino chiuso, fonte
sigillata” rivelano la presenza di un’altra visione dello stesso “io”
femminile, padrone del proprio mistero. Si può dire che ambedue le metafore
esprimono la dignità personale della donna che, in quanto soggetto spirituale si
possiede e può decidere non solo della profondità metafisica, ma anche della
verità essenziale e dell’autenticità del dono di sé, teso a quell’unione di cui
parla il libro della Genesi.
Il linguaggio delle metafore - linguaggio poetico -
sembra essere in questo ambito particolarmente appropriato e preciso. La
“sorella-sposa” è per l’uomo padrona del suo mistero come “giardino chiuso” e
“fonte sigillata”. Il “linguaggio del corpo” riletto nella verità va di pari
passo con la scoperta dell’interiore inviolabilità della persona. Al
tempo stesso proprio questa scoperta esprime l’autentica profondità della
reciproca appartenenza degli sposi coscienti di appartenersi vicendevolmente, di
essere destinati l’uno all’altra: “Il mio diletto è per me e io per lui” (Ct
2, 16; cf. Ct 6, 3).
5. Questa coscienza del reciproco appartenersi
risuona soprattutto sulla bocca della sposa. In un certo senso ella risponde con
tali parole a quelle dello sposo con cui egli l’ha riconosciuta padrona del
proprio mistero. Quando la sposa dice: “Il mio diletto è per me”, vuol dire al
tempo stesso: è colui al quale affido me stessa, e perciò dice: “E io per lui” (Ct
2, 16). Gli aggettivi: “mio” e “mia” affermano qui tutta la profondità di
quell’affidamento, che corrisponde alla verità interiore della persona.
Corrisponde inoltre al significato sponsale della
femminilità in relazione all’“io” maschile, cioè al “linguaggio del corpo”
riletto nella verità della dignità personale.
Questa verità è stata pronunciata dallo sposo con le
metafore del “giardino chiuso” e della “fonte sigillata”. La sposa gli risponde
con le parole del dono, cioè dell’affidamento di se stessa. Come padrona della
propria scelta dice: “Io sono per il mio diletto”. Il Cantico dei cantici rileva
sottilmente la verità interiore di questa risposta. La libertà del dono e
risposta alla profonda coscienza del dono espressa dalle parole dello sposo.
Mediante tale verità e libertà si costruisce l’amore, di cui occorre affermare
che è amore autentico.
Mercoledì, 6 giugno 1984
Abbiamo ascoltato nel brano degli Atti degli
apostoli, ora proclamato, il racconto di quell’avvenimento fondamentale nella
vita della Chiesa, che fu la Pentecoste. La discesa dello Spirito Santo su Maria
e gli apostoli, raccolti nel cenacolo, segnò la nascita ufficiale della Chiesa e
la sua presentazione al mondo.
Nel prepararci a rivivere domenica prossima quel
momento decisivo, preghiamo il divino Spirito perché disponga il cuore dei
fedeli ad accogliere con gioia una nuova effusione dei suoi doni. Corroborati
dal fuoco del suo amore, essi sapranno farsi testimoni coraggiosi del Vangelo,
portando anche a questa nostra generazione l’annuncio di Cristo redentore.
Riprendiamo ora l’argomento delle udienze dei
mercoledì scorsi.
1. Anche oggi riflettiamo sul Cantico dei cantici al
fine di comprendere maggiormente il segno sacramentale del matrimonio.
La verità dell’amore, proclamata dal Cantico dei
cantici, non può essere separata dal “linguaggio del corpo”. La verità
dell’amore fa sì che lo stesso “linguaggio del corpo” venga riletto nella
verità. Questa è anche la verità del progressivo avvicinarsi degli sposi che
cresce attraverso l’amore: e la vicinanza significa pure l’iniziazione al
mistero della persona, senza però implicarne la violazione (cf. Ct 1,
13-14.16).
La verità della crescente vicinanza degli sposi
attraverso l’amore si sviluppa nella dimensione soggettiva “del cuore”,
dell’affetto e del sentimento, la quale permette di scoprire in sé l’altro come
dono e, in un certo senso, di “gustarlo” in sé (cf. Ct 2, 3-6).
Attraverso questa vicinanza lo sposo vive più
pienamente l’esperienza di quel dono che da parte dell’“io” femminile si unisce
con l’espressione e il significato sponsali del corpo. Le parole dell’uomo (cf.
Ct 7, 1-8) non contengono solo una descrizione poetica dell’amata, della
sua bellezza femminea, su cui si soffermano i sensi, ma parlano del dono e
del donarsi della persona.
La sposa sa che verso di lei è la “brama” dello
sposo e gli va incontro con la prontezza del dono di sé (cf. Ct 7, 9-13)
perché l’amore che li unisce è di natura spirituale e sensuale insieme. Ed è
anche in base a quest’amore che si attua la rilettura nella verità del
significato del corpo, poiché l’uomo e la donna debbono in comune costituire
quel segno del reciproco dono di sé, che pone il sigillo su tutta la loro
vita.
2. Nel Cantico dei cantici il “linguaggio del corpo”
è inserito nel singolare processo della reciproca attrattiva dell’uomo e della
donna, che viene espresso nei frequenti ritornelli che parlano della ricerca
piena di nostalgia, di sollecitudine affettuosa (cf. Ct 2, 7) e del
vicendevole ritrovarsi degli sposi (cf. Ct 5, 2). Ciò porta loro gioia e
quiete e sembra indurli a una ricerca continua. Si ha l’impressione che,
incontrandosi, raggiungendosi, sperimentando la propria vicinanza, continuino
incessantemente a tendere a qualcosa: cedano alla chiamata di qualcosa che
sovrasta il contenuto del momento e oltrepassa i limiti dell’eros, riletti nelle
parole del mutuo “linguaggio del corpo” (cf. Ct 1, 7-8; 2, 17). Questa
ricerca ha la sua dimensione interiore: “il cuore veglia” perfino nel sonno.
Questa aspirazione nata dall’amore sulla base del “linguaggio del corpo” è una
ricerca del bello integrale, della purezza libera da ogni macchia: è una ricerca
di perfezione che contiene, direi, la sintesi della bellezza umana, bellezza
dell’anima e del corpo.
Nel Cantico dei Cantici l’eros umano svela il volto
dell’amore sempre alla ricerca e quasi mai appagato. L’eco
di questa inquietudine percorre le strofe del poemetto: “Ho aperto allora al mio
diletto, / il mio diletto già se n’era andato, era scomparso. / Io venni meno,
ma non l’ho trovato, / l’ho chiamato ma non m’ha risposto” (Ct 5, 6). “Io
vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, / se trovate il mio diletto / che cosa gli
racconterete? / Che sono malata d’amore” (Ct 5, 9).
3. Dunque alcune strofe del Cantico dei cantici
presentano l’eros come la forma dell’amore umano, in cui operano le energie del
desiderio. Ed è in esse che si radica la coscienza ossia la certezza soggettiva
del reciproco, fedele ed esclusivo appartenersi. Al tempo stesso, però, molte
altre strofe del poema ci impongono di riflettere sulla causa della ricerca e
dell’inquietudine che accompagnano la coscienza dell’essere l’uno dell’altra.
Questa inquietudine fa parte anch’essa della natura dell’eros? Se così fosse,
tale inquietudine indicherebbe pure la necessità dell’autosuperamento. La
verità dell’amore si esprime nella coscienza del reciproco appartenersi, frutto
dell’aspirazione e della ricerca vicendevole e della necessità dell’aspirazione
e della ricerca, esito del reciproco appartenersi.
In tale necessità interiore, in tale dinamica di
amore, si svela indirettamente la quasi impossibilità di appropriarsi e
impossessarsi della persona da parte dell’altra. La persona è qualcuno che
sovrasta tutte le misure di appropriazione e padroneggiamento, di possesso e di
appagamento, che emergono dallo stesso “linguaggio del corpo”. Se lo sposo e la
sposa rileggono questo “linguaggio” nella piena verità della persona e
dell’amore, giungono alla sempre più profonda convinzione che l’ampiezza della
loro appartenenza costituisce quel dono reciproco in cui l’amore si rivela
“forte come la morte”, cioè risale fino agli ultimi limiti del “linguaggio del
corpo” per superarli. La verità dell’amore interiore e la verità del dono
reciproco chiamano, in un certo senso, continuamente lo sposo e la sposa –
attraverso i mezzi di espressione del reciproco appartenersi e perfino
staccandosi da quei mezzi – a pervenire a ciò che costituisce il nucleo del dono
da persona a persona.
4. Seguendo i sentieri delle parole tracciate dalle
strofe del Cantico dei cantici sembra che ci avviciniamo dunque alla dimensione
in cui l’“eros” cerca di integrarsi, mediante ancora un’altra verità dell’amore.
Secoli dopo – alla luce della morte e risurrezione di Cristo – questa verità la
proclamerà Paolo di Tarso, con le parole della lettera ai Corinzi: “La carità è
paziente, è benigna la carità, non è invidiosa la carità, non si vanta, non si
gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non
tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della
verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non
avrà mai fine” (1 Cor 13, 4-8).
La verità sull’amore, espressa nelle strofe del
Cantico dei cantici viene confermata alla luce di queste parole paoline?
Nel Cantico leggiamo, ad esempio sull’amore, che la sua “gelosia” è “tenace come
gli inferi” (Ct 8, 6), e nella lettera paolina leggiamo che “non è
invidiosa la carità”. In quale rapporto sono entrambe le espressioni sull’amore?
In quale rapporto sta l’amore che “è forte come la morte”, secondo il Cantico
dei cantici, con l’amore “che non avrà mai fine”, secondo la lettera paolina?
Non moltiplichiamo queste domande, non apriamo l’analisi comparativa. Sembra
tuttavia che l’amore si apra, davanti a noi, in due prospettive: come se ciò, in
cui l’“eros” umano chiude il proprio orizzonte, si aprisse ancora, attraverso le
parole paoline, a un altro orizzonte di amore che parla un altro linguaggio;
l’amore che sembra emergere da un’altra dimensione della persona e chiama,
invita a un’altra comunione. Questo amore è stato chiamato col nome di
“agape” e l’agape porta a compimento, purificandolo, l’eros.
Abbiamo così concluso queste brevi meditazioni sul
Cantico dei cantici, intese ad approfondire ulteriormente il tema del
“linguaggio del corpo”. In questo ambito, il Cantico dei cantici ha un
significato del tutto singolare.
Mercoledì, 27 giugno 1984
1. Commentando nelle scorse settimane il Cantico dei
cantici, ho sottolineato come il segno sacramentale del matrimonio si
costituisce sulla base del “linguaggio del corpo”, che l’uomo e la donna
esprimono nella verità che gli è propria. Sotto tale aspetto intendo analizzare
oggi alcuni brani del Libro di Tobia.
Nel racconto dello sposalizio di Tobia con Sara si
trova, oltre l’espressione “sorella” - per cui sembra essere radicata nell’amore
sponsale un’indole fraterna - anche un’altra espressione analoga a quelle del
suddetto Cantico.
Come ricorderete, nel duetto degli sposi l’amore,
che si dichiarano vicendevolmente, è “forte come la morte” (Ct 8, 6). Nel
Libro di Tobia troviamo la frase che, dicendo che egli amò Sara “al punto di non
saper più distogliere il cuore da lei” (Tb 6, 19), presenta una
situazione confermante la verità delle parole sull’amore “forte come la morte”.
2. Per capire meglio occorre rifarsi ad alcuni
particolari che trovano spiegazione sullo sfondo dello specifico carattere del
Libro di Tobia. Vi leggiamo che Sara, figlia di Raguele, in precedenza era
“stata data in moglie a sette uomini” (Tb 6, 14), ma tutti erano morti
prima di unirsi a lei. Ciò era accaduto per opera dello spirito maligno e anche
il giovane Tobia aveva ragioni per temere una morte analoga.
Così l’amore di Tobia doveva fin dal primo momento
affrontare la prova della vita e della morte. Le parole sull’amore “forte
come la morte”, pronunciate dagli sposi del Cantico dei cantici nel trasporto
del cuore, assumono qui il carattere di una prova reale. Se l’amore si dimostra
forte come la morte, ciò avviene soprattutto nel senso che Tobia e, insieme con
lui, Sara, vanno senza esitare verso questa prova. Ma in questa prova della vita
e della morte vince la vita, perché, durante la prova della prima notte
di nozze, l’amore, sorretto dalla preghiera, si rivela più forte della morte.
3. Questa prova della vita e della morte ha pure un
altro significato che ci fa comprendere l’amore e il matrimonio degli sposi
novelli. Infatti essi, unendosi come marito e moglie, si trovano nella
situazione in cui le forze del bene e del male si combattono e si misurano
reciprocamente. Il duetto degli sposi del Cantico dei cantici sembra non
percepire affatto questa dimensione della realtà. Gli sposi del Cantico vivono e
si esprimono in un mondo ideale o “astratto”, in cui è come se non esistesse la
lotta delle forze oggettive tra il bene e il male. È forse proprio la forza e la
verità interiore dell’amore ad attenuare la lotta che si svolge nell’uomo e
intorno a lui?
La pienezza di questa verità e di questa forza
propria dell’amore sembra tuttavia essere diversa e sembra tendere piuttosto là
dove ci conduce l’esperienza del Libro di Tobia. La verità e la forza dell’amore
si manifestano nella capacità di porsi tra le forze del bene e del male, che
combattono nell’uomo e intorno a lui, perché l’amore è fiducioso nella vittoria
del bene ed è pronto a fare di tutto affinché il bene vinca. Di conseguenza la
verità dell’amore degli sposi del Libro di Tobia non viene confermata dalle
parole espresse dal linguaggio del trasporto amoroso come nel Cantico dei
cantici, ma dalle scelte e dagli atti che assumono tutto il peso dell’esistenza
umana nell’unione di entrambi. Il “linguaggio del corpo”, qui, sembra usare le
parole delle scelte e degli atti scaturiti dall’amore, che vince perché prega.
4. La preghiera di Tobia (Tb 8, 5-8), che è
innanzitutto preghiera di lode e di ringraziamento, poi di supplica, colloca il
“linguaggio del corpo” sul terreno dei termini essenziali della teologia del
corpo. È un linguaggio “oggettivizzato”, pervaso non tanto dalla forza emotiva
dell’esperienza, quanto dalla profondità e gravità della verità dell’esistenza
stessa.
Gli sposi professano questa verità insieme,
all’unisono davanti al Dio dell’alleanza: “Dio dei nostri padri”. Si può dire
che sotto questo aspetto il “linguaggio del corpo” diventa il linguaggio dei
ministri del sacramento consapevoli che nel patto coniugale si esprime e si
attua il mistero che ha la sua sorgente in Dio stesso. Il loro patto coniugale è
infatti l’immagine - e il primordiale sacramento dell’alleanza di Dio con
l’uomo, con il genere umano - di quell’alleanza che trae la sua origine
dall’amore eterno.
Tobia e Sara terminano la loro preghiera con le
parole seguenti: “Degnati di aver misericordia di me e di lei e di farci
giungere insieme alla vecchiaia” (Tb 8, 7).
Si può ammettere (in base al contesto) che essi
hanno davanti agli occhi la prospettiva di perseverare nella comunione sino alla
fine dei loro giorni: prospettiva che si apre dinanzi a loro con la prova della
vita e della morte, già durante la prima notte nuziale. Al tempo stesso essi
vedono con lo sguardo della fede la santità di questa vocazione, in cui -
attraverso l’unità dei due, costruita sulla verità reciproca del “linguaggio del
corpo” - debbono rispondere alla chiamata di Dio stesso, contenuta nel
mistero del principio. E per questo chiedono: “Degnati di aver misericordia di
me e di lei”.
5. Gli sposi del Cantico dei cantici dichiarano
vicendevolmente, con parole ardenti, il loro amore umano. Gli sposi novelli del
Libro di Tobia chiedono a Dio di saper rispondere all’amore. L’uno e l’altro
trovano il loro posto in ciò che costituisce il segno sacramentale del
matrimonio. L’uno e l’altro partecipano alla formazione di questo segno.
Si può dire che attraverso l’uno e l’altro il
“linguaggio del corpo”, riletto sia nella dimensione soggettiva della verità dei
cuori umani, sia nella dimensione “oggettiva” della verità del vivere nella
comunione, diviene la lingua della liturgia.
La preghiera degli sposi novelli del Libro di Tobia
sembra certamente confermarlo in un modo diverso dal Cantico dei cantici, e
anche in modo che senza dubbio commuove più profondamente.
SETTIMO CICLO
Amore e fecondità
(Rilettura ed approfondimenti di "Humanae
Vitae"
e abbozzi di spiritualità familiare e
coniugale alla luce dell'enciclica)
Mercoledì, 4 luglio 1984
1. Riportiamoci oggi
al classico testo del capitolo 5° della lettera agli Efesini, la quale rivela le
sorgenti eterne dell’alleanza nell’amore del Padre e insieme la sua nuova e
definitiva istituzione in Gesù Cristo.
Questo testo ci
conduce a una dimensione tale del “linguaggio del corpo” che potrebbe essere
chiamata “mistica”. Parla infatti del matrimonio come di un “grande mistero”.
“Questo mistero è grande”(Ef 5, 32). E sebbene questo mistero si compia
nell’unione sponsale di Cristo redentore con la Chiesa e nella Chiesa-sposa con
Cristo (“Lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa” (Ef 5, 32)),
sebbene si effettui definitivamente nelle dimensioni escatologiche, tuttavia
l’autore della lettera agli Efesini non esita ad estendere l’analogia
dell’unione di Cristo con la Chiesa nell’amore sponsale, delineata in modo così
“assoluto” ed “escatologico”, al segno sacramentale del patto sponsale dell’uomo
e della donna, i quali sono “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo”
(Ef 5, 21). Non esita a estendere quella mistica analogia al
“linguaggio del corpo”, riletto nella verità dell’amore sponsale e
dell’unione coniugale dei due.
2. Bisogna
riconoscere la logica di questo stupendo testo, che libera radicalmente il
nostro modo di pensare dagli elementi di manicheismo o da una considerazione non
personalista del corpo e al tempo stesso avvicina il “linguaggio del corpo”,
racchiuso nel segno sacramentale del matrimonio, alla dimensione della reale
santità.
I sacramenti
innestano la santità sul terreno dell’umanità dell’uomo: penetrano l’anima e il
corpo, la femminilità e la mascolinità del soggetto personale, con la forza
della santità. Tutto ciò viene espresso nella lingua della liturgia: vi si
esprime e vi si attua.
La liturgia,
la lingua liturgica, eleva il patto coniugale dell’uomo e della donna,
basato sul “linguaggio del corpo” riletto nella verità, alle dimensioni del
“mistero” e, nel medesimo tempo, consente che quel patto si realizzi nelle
suddette dimensioni attraverso il “linguaggio del corpo”.
Di ciò parla appunto
il segno del sacramento del matrimonio, il quale nella lingua liturgica esprime
un evento interpersonale, carico di intenso contenuto personale, assegnato ai
due “fino alla morte”. Il segno sacramentale significa non solo il “fieri”,
il nascere del matrimonio, ma costruisce il suo “esse”, la sua durata: l’uno e
l’altro come realtà sacra e sacramentale, radicata nella dimensione
dell’alleanza e della grazia, nella dimensione della creazione e della
redenzione. In tal modo la lingua liturgica assegna a entrambi, all’uomo e alla
donna, l’amore, la fedeltà e l’onestà coniugale mediante il “linguaggio del
corpo”. Assegna loro l’unità e l’indissolubilità del matrimonio nel “linguaggio
del corpo”. Assegna loro come compito tutto il “sacrum” della persona e della
comunione delle persone, e parimenti la loro femminilità e mascolinità,
proprio in questo linguaggio.
3. In tale senso
affermiamo, che la lingua liturgica diventa “linguaggio del corpo”. Ciò
significa una serie di fatti e di compiti, che formano la “spiritualità”
del matrimonio, il suo “ethos”. Nella vita quotidiana dei coniugi questi
fatti diventano compiti, e i compiti, fatti. Questi fatti - come anche gli
impegni - sono di natura spirituale, tuttavia si esprimono a un tempo col
“linguaggio del corpo”.
L’Autore della
lettera agli Efesini scrive in proposito: “. . . i mariti hanno il dovere di
amare le mogli come il proprio corpo . . .” (Ef 5, 28) (“come se stesso”:Ef
5, 33), “e la donna sia rispettosa verso il marito” (Ef 5, 33). Ambedue,
del resto, siano “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef
5, 21).
Il “linguaggio del
corpo”, quale ininterrotta continuità della lingua liturgica si esprime non solo
come il fascino e il compiacimento reciproco del Cantico dei Cantici, ma
anche come una profonda esperienza del “sacrum”, che sembra essere infuso
nella stessa mascolinità e femminilità attraverso la dimensione del “mysterium”:
“mysterium magnum” della lettera agli Efesini, che affonda le radici appunto nel
“principio”, cioè nel mistero della creazione dell’uomo: maschio e femmina a
immagine di Dio, chiamati fin “dal principio” ad essere segno visibile
dell’amore creativo di Dio.
4. Così dunque “quel
timore di Cristo” e “rispetto”, di cui parla l’autore della lettera agli
Efesini, è nient’altro che una forma spiritualmente matura di quel
fascino reciproco: vale a dire dell’uomo per la femminilità e della donna
per la mascolinità, che si rivela per la prima volta nel libro della Genesi (Gen
2, 23-25). In seguito, lo stesso fascino sembra scorrere come un largo torrente
attraverso i versetti del Cantico dei cantici per trovare, in circostanze del
tutto diverse, la sua concisa e concentrata espressione nel libro di Tobia.
La maturità
spirituale di questo fascino altro non è che il fruttificare del dono del
timore, uno dei sette doni dello Spirito Santo, di cui ha parlato san Paolo
nella prima lettera ai Tessalonicesi (1 Ts 4, 4-7).
D’altronde, la
dottrina di Paolo sulla castità, come “vita secondo lo Spirito” (cf. Rm
8, 5), ci consente (particolarmente in base alla prima lettera ai Corinzi 6) di
interpretare quel “rispetto” in senso carismatico, cioè quale dono dello
Spirito Santo.
5. La lettera agli
Efesini - nell’esortare i coniugi, perché siano sottomessi gli uni agli altri
“nel timore di Cristo” (Ef 5, 21) e nell’invogliarli, in seguito, al “rispetto”
nel rapporto coniugale, sembra rivelare - conformemente alla tradizione paolina
- la castità quale virtù e quale dono.
In tal modo,
attraverso la virtù e ancor più attraverso il dono (“vita secondo lo
Spirito”) matura spiritualmente il reciproco fascino della mascolinità e
della femminilità. Entrambi, l’uomo e la donna, allontanandosi dalla
concupiscenza, trovano la giusta dimensione della libertà del dono, unita alla
femminilità e mascolinità nel vero significato sponsale del corpo.
Così la lingua
liturgica, cioè la lingua del sacramento e del “mysterium”, diviene nella loro
vita e convivenza “linguaggio del corpo” in tutta una profondità, semplicità e
bellezza fino a quel momento sconosciute.
6. Tale sembra essere
il significato integrale del segno sacramentale del matrimonio. In quel
segno, attraverso il “linguaggio del corpo”, l’uomo e la donna vanno incontro al
“grande mysterium”, per trasferire la luce di quel mistero, luce di verità e di
bellezza, espresso nella lingua liturgica, in “linguaggio del corpo”, nel
linguaggio cioè della prassi dell’amore, della fedeltà e dell’onestà coniugale,
ossia nell’ethos radicato nella “redenzione del corpo” (cf. Rm 8, 23). Su
questa via, la vita coniugale diviene in certo senso liturgia.
Mercoledì, 11 luglio 1984
1. Le riflessioni
finora svolte sull’amore umano nel piano divino resterebbero in qualche modo
incomplete, se non cercassimo di vederne l’applicazione concreta nell’ambito
della morale coniugale e familiare. Vogliamo compiere questo ulteriore passo,
che ci porterà alla conclusione del nostro ormai lungo cammino, sulla scorta di
un importante pronunciamento del magistero recente: l’enciclica Humanae vitae,
che il papa Paolo VI ha pubblicato nel luglio del 1968. Rileggeremo questo
significativo documento alla luce dei risultati a cui siamo giunti esaminando
l’iniziale disegno divino e le parole di Cristo, che ad esso rimandano.
2. “La Chiesa
insegna che qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere per sé aperto alla
trasmissione della vita . . . Tale dottrina, più volte esposta dal magistero, è
fondata sulla connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può
rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il
significato unitivo e il significato procreativo” (Humanae
Vitae, 11-12).
3. Le considerazioni
che mi accingo a fare riguarderanno particolarmente il passo dell’enciclica che
tratta dei “due significati dell’atto coniugale” e della loro
“connessione inscindibile”. Non intendo presentare un commento all’intera
enciclica, ma piuttosto illustrarne e approfondirne un passo. Dal punto di vista
della dottrina morale racchiusa nel documento citato, quel passo ha un
significato centrale. Al tempo stesso è un brano che si collega strettamente con
le nostre precedenti riflessioni sul matrimonio nella dimensione del segno
(sacramentale).
Poiché - come detto -
è un passo centrale dell’enciclica, è ovvio che esso sia inserito molto
profondamente in tutta la sua struttura: la sua analisi pertanto deve orientarci
verso le varie componenti di quella struttura, anche se l’intenzione è di non
commentare l’intero testo.
4. Nelle riflessioni
sul segno sacramentale, è stato già detto a più riprese che esso è basato sul
“linguaggio del corpo” riletto nella verità. Si tratta di una verità
affermata una prima volta all’inizio del matrimonio, quando gli sposi novelli,
promettendosi a vicenda di “essere fedeli sempre . . . e di amarsi e onorarsi
tutti i giorni della loro vita”, divengono ministri del matrimonio come
sacramento della Chiesa.
Si tratta poi di una
verità che viene, per così dire, sempre nuovamente affermata. Infatti l’uomo e
la donna, vivendo nel matrimonio “sino alla morte”, ripropongono di continuo, in
un certo senso, quel segno ch’essi hanno posto - attraverso la liturgia del
sacramento - il giorno del loro sposalizio.
Le parole sopra
citate dell’enciclica di papa Paolo VI riguardano quel momento nella vita comune
dei coniugi, in cui entrambi, unendosi nell’atto coniugale, diventano, secondo
l’espressione biblica, “una sola carne” (Gen 2, 24). Proprio in un
tale momento, così ricco di significato, è pure particolarmente importante
che si rilegga il “linguaggio del corpo” nella verità. Tale lettura diviene
condizione indispensabile per agire nella verità, ossia per comportarsi
conformemente al valore e alla norma morale.
5. L’enciclica non
solo ricorda questa norma, ma cerca anche di darne l’adeguato fondamento.
Per chiarire più a fondo quella “connessione inscindibile che Dio ha voluto . .
. tra i due significati dell’atto coniugale”, Paolo VI così scrive nella frase
successiva: “. . . per la sua intima struttura, l’atto coniugale, mentre unisce
profondamente gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite, secondo
leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna” (Humanae Vitae,
12).
Osserviamo che nella
frase precedente il testo appena citato tratta soprattutto del “significato”
e nella frase successiva, della “intima struttura” (cioè della natura)
del rapporto coniugale. Definendo questa “struttura intima”, il testo fa
riferimento “alle leggi iscritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna”.
Il passaggio dalla
frase, che esprime la norma morale, alla frase che la esplica e motiva, è
particolarmente significativo. L’enciclica induce a cercare il fondamento della
norma, che determina la moralità delle azioni dell’uomo e della donna nell’atto
coniugale, nella natura di questo stesso atto e, ancor più profondamente, nella
natura degli stessi soggetti che agiscono.
6. In tal modo, l’“intima
struttura” (ossia natura) dell’atto coniugale costituisce la base
necessaria per un’adeguata lettura e scoperta dei significati, che devono
trasferirsi nella coscienza e nelle decisioni delle persone agenti, e anche la
base necessaria per stabilire l’adeguato rapporto di questi significati, cioè la
loro inscindibilità. Poiché ad un tempo “l’atto coniugale unisce profondamente
gli sposi . . . e li rende atti alla generazione di nuove vite”, e l’una cosa e
l’altra avvengono “per la sua intima struttura”, ne consegue che la persona
umana (con la necessità propria della ragione, la necessità logica) “deve”
leggere contemporaneamente i “due significati dell’atto coniugale”
e anche la “connessione inscindibile tra i due significati dell’atto
coniugale”.
Di null’altro qui si
tratta che di leggere nella verità il “linguaggio del corpo” come è stato detto
più volte nelle precedenti analisi bibliche. La norma morale, insegnata
costantemente dalla Chiesa in questo ambito, ricordata e riconfermata da Paolo
VI nella sua enciclica, scaturisce dalla lettura del “linguaggio del corpo”
nella verità.
Si tratta qui della
verità, prima nella dimensione ontologica (“struttura intima”) e
poi - di conseguenza - nella dimensione soggettiva e psicologica
(“significato”). Il testo dell’enciclica sottolinea che nel caso in questione si
tratta di una norma della legge naturale.
Mercoledì, 18 luglio 1984
1. Nell’enciclica Humanae Vitae (Pauli VI,
Humane Vitae, n. 11) si legge: “Richiamando gli uomini all’osservanza
delle norme della legge naturale interpretata dalla sua costante dottrina, la
Chiesa insegna che qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere per sé aperto alla
trasmissione della vita”.
In pari tempo lo stesso testo considera e perfino
pone in rilievo la dimensione soggettiva e psicologica, quando parla del
“significato”, ed esattamente dei “due significati dell’atto coniugale”.
Il “significato” nasce nella coscienza con
la rilettura della verità (ontologica) dell’oggetto. Mediante questa
rilettura, la verità (ontologica) entra per così dire nella dimensione
conoscitiva: soggettiva e psicologica.
L’Humanae Vitae sembra volgere
particolarmente la nostra attenzione verso quest’ultima dimensione. Ciò è
confermato tra l’altro, indirettamente, anche dalla frase seguente: “Noi
pensiamo che gli uomini del nostro tempo sono particolarmente in grado di
afferrare il carattere profondamente ragionevole e umano di questo fondamentale
principio” (Ibid., 12).
2. Quel “carattere ragionevole” riguarda non
soltanto la verità nella dimensione ontologica, ossia ciò che corrisponde alla
struttura reale dell’atto coniugale. Esso riguarda anche la stessa verità nella
dimensione soggettiva e psicologica, vale a dire la retta comprensione
dell’intima struttura dell’atto coniugale, cioè l’adeguata rilettura dei
significati corrispondenti a tale struttura e della loro connessione
inscindibile, in vista di un comportamento moralmente retto. In questo consiste
appunto la norma morale e la corrispondente regolazione degli atti umani nella
sfera della sessualità. In tal senso diciamo che la norma s’identifica con la
rilettura, nella verità, del “linguaggio del corpo”.
3. L’enciclica Humanae Vitae contiene dunque
la norma morale e la sua motivazione, o almeno un approfondimento di ciò che
costituisce la motivazione della norma. Poiché, per altro, nella norma si
esprime in modo vincolante il valore morale, ne segue che gli atti conformi alla
norma sono moralmente retti, gli atti contrari sono invece intrinsecamente
illeciti. L’autore dell’enciclica sottolinea che tale norma appartiene alla
“legge naturale”, vale a dire, che essa è conforme alla ragione come tale.
La Chiesa insegna questa norma, sebbene essa non sia espressa formalmente (cioè
letteralmente) nella Sacra Scrittura; e ciò fa nella convinzione che
l’interpretazione dei precetti della legge naturale appartenga alla competenza
del magistero.
Possiamo tuttavia dire di più. Anche se la norma
morale, in tal modo formulata nell’enciclica Humanae vitae, non si trova
letteralmente nella Sacra Scrittura, nondimeno dal fatto che essa è contenuta
nella tradizione e - come scrive il papa Paolo VI - è stata “più volte esposta
dal magistero” (Ivi) ai fedeli, risulta che questa norma corrisponde
all’insieme della dottrina rivelata contenuta nelle fonti bibliche (Ivi,
4).
4. Si tratta qui non solo dell’insieme della
dottrina morale racchiusa nella Sacra Scrittura, delle sue premesse essenziali e
del carattere generale del suo contenuto, ma di quel complesso più ampio, al
quale abbiamo dedicato in precedenza numerose analisi trattando della “teologia
del corpo”.
Proprio sullo sfondo di tale ampio complesso si
rende evidente che la menzionata norma morale appartiene non soltanto alla legge
morale naturale, ma anche all’ordine morale rivelato da Dio: anche da
questo punto di vista essa non potrebbe essere diversa, ma unicamente quale la
tramandano la tradizione e il magistero e, ai giorni nostri, l’enciclica
Humanae Vitae, come documento contemporaneo di tale magistero.
Paolo VI scrive: “Noi pensiamo che gli uomini del
nostro tempo sono particolarmente in grado di afferrare il carattere
profondamente ragionevole e umano di questo fondamentale principio” (Humanae
Vitae, 12). Si può aggiungere: essi sono in grado di afferrare anche la sua
profonda conformità con tutto ciò che viene trasmesso dalla tradizione scaturita
dalle fonti bibliche. Le basi di questa conformità sono da ricercarsi
particolarmente nell’antropologia biblica. D’altronde, è noto il significato che
l’antropologia ha per l’etica, cioè per la dottrina morale. Sembra essere del
tutto ragionevole cercare proprio nella “teologia del corpo” il fondamento
della verità delle norme che riguardano la problematica così fondamentale
dell’uomo in quanto “corpo”: “i due saranno una sola carne” (Gen 2, 24).
5. La norma dell’enciclica Humanae Vitae
riguarda tutti gli uomini, in quanto è norma della legge naturale e si basa
sulla conformità con la ragione umana (quando, s’intende, questa cerca la
verità). A maggior ragione essa concerne tutti i credenti membri della Chiesa,
dato che il carattere ragionevole di questa norma trova indirettamente conferma
e solido sostegno nell’insieme della “teologia del corpo”. Da questo punto di
vista abbiamo parlato, nelle precedenti analisi, dell’“ethos” della
redenzione del corpo.
La norma della legge naturale, basata su questo
“ethos”, trova non soltanto una nuova espressione, ma anche un pieno fondamento
antropologico ed etico sia nella parola del Vangelo, sia nell’azione purificante
e corroborante dello Spirito Santo.
Vi sono tutte le ragioni affinché ogni credente e in
particolare ogni teologo rilegga e comprenda sempre più profondamente la
dottrina morale dell’enciclica in questo contesto integrale.
Le riflessioni, che da lungo tempo facciamo qui,
costituiscono appunto un tentativo di tale rilettura.
Mercoledì, 25 luglio 1984
1. Riprendiamo le riflessioni che tendono a
collegare l’enciclica
Humanae Vitae con l’insieme della teologia del corpo.
Tale enciclica non si limita a ricordare la norma
morale che concerne la convivenza coniugale, riconfermandola davanti alle nuove
circostanze. Paolo VI, nel pronunciarsi con magistero autentico mediante
l’enciclica (1968), ha avuto dinanzi agli occhi l’autorevole enunciato del
Concilio Vaticano II, contenuto nella costituzione
Gaudium et Spes (1965).
L’enciclica non si trova soltanto sulla linea
dell’insegnamento conciliare, ma costituisce anche lo svolgimento e il
completamento dei problemi ivi racchiusi, in modo particolare riguardo al
problema dell’“accordo dell’amore umano col rispetto della vita”. Su questo
punto, leggiamo nella Gaudium et Spes le seguenti parole (Gaudium et
Spes, n. 51): “La Chiesa ricorda che non può esserci vera contraddizione tra
le leggi divine del trasmettere la vita e del dovere di favorire l’autentico
amore coniugale”.
2. La costituzione pastorale del Vaticano II
esclude qualsiasi “vera contraddizione” nell’ordine normativo, il che, da
parte sua, conferma Paolo VI, cercando contemporaneamente di far luce su quella
“non-contraddizione” e in tal modo di motivare la rispettiva norma morale,
dimostrandone la conformità alla ragione.
Tuttavia, l’Humanae Vitae parla non tanto
della “non contraddizione” nell’ordine normativo, quanto della “connessione
inscindibile” tra la trasmissione della vita e l’autentico amore coniugale
dal punto di vista dei “due significati dell’atto coniugale: il significato
unitivo e il significato procreativo” (Pauli VI, Humanae Vitae, 12), di
cui abbiamo già trattato.
3. Ci si potrebbe soffermare a lungo sull’analisi
della norma stessa; ma il carattere dell’uno e dell’altro documento induce
piuttosto a riflessioni, almeno indirettamente, pastorali. Infatti, la
Gaudium et Spes è una costituzione pastorale e l’enciclica di Paolo VI - con
il suo valore dottrinale - tende ad avere lo stesso orientamento. Essa vuol
essere, infatti, risposta agli interrogativi dell’uomo contemporaneo.
Sono, questi, interrogativi di carattere demografico, conseguentemente di
carattere socio-economico e politico, in rapporto alla crescita della
popolazione sul globo terrestre. Sono interrogativi che partono dal campo delle
scienze particolari, e di pari passo sono gli interrogativi dei moralisti
contemporanei (teologi-moralisti). Sono innanzitutto gli interrogativi dei
coniugi, che si trovano già al centro dell’attenzione della costituzione
conciliare e che l’enciclica riprende con tutta la precisione desiderabile. Vi
leggiamo infatti: “Date le condizioni della vita odierna e dato il significato
che le relazioni coniugali hanno per l’armonia tra gli sposi e per la loro mutua
fedeltà, non sarebbe forse indicata una revisione delle norme etiche
finora vigenti, soprattutto se si considera che esse non possono essere
osservate senza sacrifici, talvolta eroici?” (Ibid., 3).
4. Nella suddetta formulazione è evidente con quanta
sollecitudine l’autore dell’enciclica cerchi di affrontare gli interrogativi
dell’uomo contemporaneo in tutta la loro portata. La rilevanza di questi
interrogativi suppone una risposta proporzionalmente ponderata e profonda. Se
dunque da una parte è giusto attendersi un’acuta trattazione della norma,
dall’altra, ci si può pure aspettare che un peso non minore sia dato agli
argomenti pastorali, concernenti più direttamente la vita degli uomini
concreti, di coloro appunto che pongono le domande menzionate all’inizio.
Paolo VI ha avuto sempre davanti agli occhi questi
uomini. Di ciò è espressione, tra l’altro, il seguente passo della Humanae
Vitae (Pauli VI, Humanae Vitae, n. 20): “La dottrina della Chiesa
sulla regolazione della natalità, che promulga la legge divina, apparirà
facilmente a molti di difficile o addirittura impossibile attuazione. E
certamente, come tutte le realtà grandi e benefiche, essa richiede serio
impegno e molti sforzi, individuali, familiari e sociali. Anzi, non sarebbe
attuabile senza l’aiuto di Dio, che sorregge e corrobora la buona volontà, degli
uomini. Ma a chi ben riflette non potrà non apparire che tali sforzi sono
nobilitanti per l’uomo e benefici per la comunità umana”.
5. A questo punto non si parla più della
“non-contraddizione” normativa, ma piuttosto della “possibilità
dell’osservanza della legge divina”, cioè di un argomento, almeno
indirettamente, pastorale. Il fatto che la legge debba essere di “possibile”
attuazione, appartiene direttamente alla natura stessa della legge, ed è dunque
contenuto nel quadro della “non-contraddittorietà normativa”. Tuttavia la
“possibilità”, intesa come “attuabilità” della norma, appartiene anche
alla sfera pratica e pastorale. Nel testo citato il mio predecessore parla,
precisamente, da questo punto di vista.
6. Si può qui aggiungere una considerazione: il
fatto che tutto il retroterra biblico, denominato “teologia del corpo”,
ci offra, anche se indirettamente, la conferma della verità della norma morale,
contenuta nella Humanae Vitae, ci prepara a considerare più a fondo
gli aspetti pratici e pastorali del problema nel suo insieme. I principi e i
presupposti generali della “teologia del corpo” non erano forse estratti tutti
quanti dalle risposte che Cristo diede alle domande dei suoi concreti
interlocutori? E i testi di Paolo - come ad esempio quelli della lettera ai
Corinzi - non sono forse un piccolo manuale riguardante i problemi della vita
morale dei primi seguaci di Cristo? E in questi testi troviamo certamente quella
“regola di comprensione”, che sembra tanto indispensabile di fronte ai
problemi di cui tratta l’Humanae vitae, e che in questa enciclica è
presente.
Chi crede che il Concilio e l’enciclica non tengano
abbastanza conto delle difficoltà presenti nella vita concreta, non comprende la
preoccupazione pastorale che fu all’origine di quei documenti. Preoccupazione
pastorale significa ricerca del vero bene dell’uomo, promozione dei
valori impressi da Dio nella sua persona; significa cioè attuazione di quella
“regola di comprensione”, che mira alla scoperta sempre più chiara del disegno
di Dio sull’amore umano, nella certezza che l’unico e vero bene
della persona umana consiste nell’attuazione di questo disegno divino.
Si potrebbe dire che, proprio nel nome della citata
“regola di comprensione” il Concilio ha posto la questione dell’“accordo
dell’amore umano col rispetto della vita” (Gaudium et Spes, 51), e
l’enciclica Humanae Vitae ha in seguito ricordato non soltanto le norme
morali che obbligano in questo ambito, ma si occupa inoltre ampiamente del
problema della “possibilità dell’osservanza della legge divina”.
Le presenti riflessioni sul carattere del documento
Humanae Vitae ci preparano a trattare in seguito il tema della “paternità
responsabile”.
Mercoledì, 1° agosto 1984
1. Per oggi abbiamo scelto il tema della “paternità
e maternità responsabili” alla luce della costituzione
Gaudium et Spes e dell’enciclica
Humanae Vitae.
La Costituzione conciliare, nell’affrontare
l’argomento, si limita a ricordare le premesse fondamentali; il documento
pontificio invece va oltre, dando a queste premesse contenuti più concreti.
Il testo conciliare suona così: “. . . Quando si
tratta di comporre l’amore coniugale con la trasmissione responsabile della
vita, il carattere morale del comportamento non dipende solo dalla sincera
intenzione e dalla valutazione dei motivi, ma va determinato da criteri
oggettivi, che hanno il loro fondamento nella natura stessa della persona umana
e dei suoi atti e sono destinati a mantenere in un contesto di vero amore
l’integro senso della mutua donazione e della procreazione umana; e tutto ciò
non sarà possibile se non venga coltivata con sincero animo la virtù della
castità coniugale”.
E il Concilio aggiunge: “I figli della Chiesa,
fondati su questi principi, nel regolare la procreazione non potranno
seguire strade che sono condannate dal magistero” (Gaudium et Spes, 51.
50).
2. Prima del passo citato, il Concilio insegna che i
coniugi “adempiranno il loro dovere con umana e cristiana responsabilità
e con docile riverenza verso Dio”. Il che vuol dire che: “con riflessione e
impegno comune si formeranno un retto giudizio, tenendo conto sia del proprio
bene personale che di quello dei figli, tanto di quelli nati che di quelli che
si prevede nasceranno, valutando le condizioni di vita del proprio tempo e del
proprio stato di vita, nel loro aspetto tanto materiale, che spirituale; e,
infine, salvaguardando la scala dei valori del bene della comunità familiare,
della società temporale e della stessa Chiesa”.
A questo punto seguono parole particolarmente
importanti per determinare con maggiore precisione il carattere morale della
“paternità e maternità responsabili”. Leggiamo: “Questo giudizio, in ultima
analisi, lo devono formulare, davanti a Dio, gli sposi stessi”.
E proseguendo: “Però nella loro linea di condotta i
coniugi cristiani siano consapevoli che non possono procedere a loro arbitrio,
ma devono sempre essere retti da una coscienza che sia conforme alla legge
divina stessa, docili al magistero della Chiesa, che in modo autentico quella
legge interpreta alla luce del Vangelo. Tale legge divina manifesta il
significato pieno dell’amore coniugale, lo salvaguarda e lo sospinge verso la
sua perfezione veramente umana” (Gaudium et Spes, 50).
3. La costituzione conciliare, limitandosi a
ricordare le premesse necessarie per una “paternità e maternità responsabili”,
le ha rilevate in maniera del tutto univoca, precisando gli elementi
costitutivi di tale paternità e maternità, cioè il giudizio maturo della
coscienza personale nel suo rapporto con la legge divina, autenticamente
interpretata dal magistero della Chiesa.
4. L’enciclica Humanae Vitae, basandosi
sulle medesime premesse, prosegue oltre, offrendo indicazioni concrete. Lo si
vede prima nel modo di definire la “paternità responsabile” (Pauli VI,
Humanae Vitae, 10). Paolo VI cerca di precisare questo concetto, risalendo
ai suoi vari aspetti ed escludendo in anticipo la sua riduzione a uno degli
aspetti “parziali”, come fanno coloro che parlano esclusivamente di controllo
delle nascite. Fin dall’inizio, infatti, Paolo VI è guidato nella sua
argomentazione da una concezione integrale dell’uomo (cf. Ibid., 7) e
dell’amore coniugale (cf. Ibid., 8. 9).
5. Si può parlare di responsabilità nell’esercizio
della funzione paterna e materna sotto diversi aspetti. Così, egli scrive, “in
rapporto ai processi biologici, paternità responsabile significa
conoscenza e rispetto delle loro funzioni: l’intelligenza scopre, nel
potere di dare la vita, leggi biologiche che fanno parte della persona umana” (Pauli
VI, Humanae Vitae, 10). Quando poi si tratta della dimensione psicologica
delle “tendenze dell’istinto e delle passioni, la paternità responsabile
significa il necessario dominio che la ragione e la volontà devono esercitare su
di esse” (Ibid., 10).
Supposti i suddetti aspetti intra-personali e
aggiungendo ad essi “le condizioni economiche e sociali”, occorre riconoscere
che “la paternità responsabile si esercita, sia con la deliberazione ponderata e
generosa di far crescere una famiglia numerosa, sia con la decisione, presa per
gravi motivi e nel rispetto della legge morale, di evitare temporaneamente e
anche a tempo indeterminato, una nuova nascita” (Pauli VI, Humanae Vitae,
10).
Ne consegue che nella concezione della “paternità
responsabile” è contenuta la disposizione non soltanto ad evitare “una nuova
nascita” ma anche a far crescere la famiglia secondo i criteri della
prudenza. In questa luce, in cui bisogna esaminare e decidere la questione della
“paternità responsabile”, resta sempre centrale “l’ordine morale oggettivo,
stabilito da Dio, e di cui la retta coscienza è fedele interprete” (Ibid.,
10).
6. I coniugi adempiono in questo ambito “i propri
doveri verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso la società, in una
giusta gerarchia dei valori” (Pauli VI, Humanae Vitae, 10). Non si può
dunque parlare qui di “procedere a proprio arbitrio”. Al contrario, i coniugi
devono “conformare il loro agire all intenzione creatrice di Dio” (Ibid.,
10).
A partire da questo principio l’enciclica fonda la
sua argomentazione sull’“intima struttura dell’atto coniugale” e sulla
“connessione inscindibile dei due significati dell’atto coniugale” (cf. Ibid.,
12); il che è stato già in precedenza riferito. Il relativo principio della
morale coniugale risulta essere, pertanto, la fedeltà al piano divino,
manifestato nell’“intima struttura dell’atto coniugale” e nella “connessione
inscindibile dei due significati dell’atto coniugale”.
Mercoledì, 8 agosto 1984
1. Abbiamo detto precedentemente che il principio
della morale coniugale, insegnato dalla Chiesa (Concilio Vaticano II, Paolo VI),
è il criterio della fedeltà al piano divino.
In conformità con questo principio l’enciclica
Humanae Vitae distingue rigorosamente tra quello che costituisce il modo
moralmente illecito della regolazione delle nascite o, con più
precisione, della regolazione della fertilità e quello moralmente retto.
In primo luogo, è moralmente illecita
“l’interruzione diretta del processo generativo già iniziato” (“aborto”) (Ibid.,
14), la “sterilizzazione diretta” e “ogni azione che, o in previsione dell’atto
coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle conseguenze naturali si
proponga, come scopo o come mezzo, di rendere impossibile la procreazione” (Ibid.,
14), quindi, tutti i mezzi contraccettivi. È invece moralmente lecito “il
ricorso ai periodi infecondi” (Ibid., 16): “Se dunque per distanziare
le nascite esistono seri motivi, derivanti o dalle condizioni fisiche o
psicologiche dei coniugi, o da circostanze esteriori, la Chiesa insegna essere
allora lecito tener conto dei ritmi naturali immanenti alle funzioni generative
per l’uso del matrimonio nei soli periodi infecondi e così regolare la natalità
senza offendere i principi morali . . .” (Ibid., 16).
2. L’enciclica sottolinea in modo particolare che
“tra i due casi esiste una differenza essenziale” e cioè una differenza di
natura etica: “Nel primo caso, i coniugi usufruiscono legittimamente di una
disposizione naturale; nell’altro caso, essi impediscono lo svolgimento dei
processi naturali” (Pauli VI, Humanae Vitae, 16).
Ne derivano due azioni con qualificazione etica
diversa, anzi, addirittura opposta: la regolazione naturale della fertilità è
moralmente retta, la contraccezione non è moralmente retta. Questa differenza
essenziale tra le due azioni (modi di agire) concerne la loro intrinseca
qualificazione etica, sebbene il mio predecessore Paolo VI affermi che “nell’uno
e nell’altro caso, i coniugi concordano nella volontà positiva di evitare la
prole per ragioni plausibili”, e persino scriva: “cercando la sicurezza
che non verrà” (Ibid., 16). In queste parole il documento ammette che,
sebbene anche coloro che fanno uso delle pratiche anticoncezionali possano
essere ispirati da “ragioni plausibili”, tuttavia ciò non cambia la
qualificazione morale che si fonda sulla struttura stessa dell’atto coniugale
come tale.
3. Si potrebbe osservare, a questo punto, che i
coniugi, i quali ricorrono alla regolazione naturale della fertilità, potrebbero
essere privi delle ragioni valide, di cui si è parlato in precedenza: ciò
costituisce, però, un problema etico a parte, quando si tratti del senso
morale della “paternità e maternità responsabili”.
Supponendo che le ragioni per decidere di non
procreare siano moralmente rette, resta il problema morale del modo di
agire in tale caso, e questo si esprime in un atto che - secondo la dottrina
della Chiesa trasmessa nell’enciclica - possiede una sua intrinseca
qualificazione morale positiva o negativa. La prima, positiva, corrisponde alla
“naturale” regolazione della fertilità; la seconda, negativa, corrisponde alla
“contraccezione artificiale”.
4. Tutta la precedente argomentazione si riassume
nell’esposizione della dottrina contenuta nella Humanae Vitae,
rilevandone il carattere normativo e insieme pastorale. Nella dimensione
normativa si tratta di precisare e chiarire i principi morali dell’agire; nella
dimensione pastorale si tratta soprattutto di illustrare la possibilità di agire
secondo questi principi (“possibilità dell’osservanza della legge divina”:
Humanae Vitae, 20).
Dobbiamo soffermarci sull’interpretazione del
contenuto dell’enciclica. A tal fine occorre vedere quel contenuto,
quell’insieme normativa-pastorale alla luce della teologia del corpo, quale
emerge dall’analisi dei testi biblici.
5. La teologia del corpo non è tanto una teoria,
quanto piuttosto una specifica, evangelica, cristiana pedagogia del corpo. Ciò
deriva dal carattere della Bibbia, e soprattutto dal Vangelo che, come messaggio
salvifico, rivela ciò che è il vero bene dell’uomo, al fine di modellare
- a misura di questo bene - la vita sulla terra nella prospettiva della speranza
del mondo futuro.
L’enciclica Humanae Vitae, seguendo questa
linea, risponde al quesito sul vero bene dell’uomo come persona, in quanto
maschio e femmina; su ciò che corrisponde alla dignità dell’uomo e della donna,
quando si tratta dell’importante problema della trasmissione della vita nella
convivenza coniugale.
A questo problema dedicheremo ulteriori riflessioni.
Mercoledì, 22 agosto 1984
1. Qual è l’essenza della dottrina della Chiesa
circa la trasmissione della vita nella comunità coniugale, di quella dottrina
che ci è stata ricordata dalla costituzione pastorale del Concilio
Gaudium et Spes e dall’enciclica
Humanae Vitae di papa Paolo VI?
Il problema sta nel mantenere l’adeguato rapporto
tra ciò che viene definito “dominio . . . delle forze della natura” (Pauli
VI, Humanae Vitae, 2) e la “padronanza di sé” (Ibid., 21)
indispensabile alla persona umana. L’uomo contemporaneo manifesta la tendenza a
trasferire i metodi propri del primo ambito a quelli del secondo. “L’uomo ha
compiuto progressi stupendi nel dominio e nell’organizzazione razionale delle
forze della natura - leggiamo nell’enciclica - talché tende ad estendere questo
dominio al suo stesso essere globale: al corpo, alla vita psichica, alla vita
sociale, e perfino alle leggi che regolano la trasmissione della vita” (Ibid.,
2).
Tale estensione della sfera dei mezzi di “dominio .
. . delle forze della natura”, minaccia la persona umana, per la quale il metodo
della “padronanza di sé” è e rimane specifico. Essa - la padronanza di sé -
infatti corrisponde alla costituzione fondamentale della persona: è appunto un
metodo “naturale”. Invece la trasposizione dei “mezzi artificiali” infrange
la dimensione costitutiva della persona, priva l’uomo della soggettività che gli
è propria e fa di lui un oggetto di manipolazione.
2. Il corpo umano non è soltanto il campo di
reazioni di carattere sessuale, ma è, al tempo stesso, il mezzo di espressione
dell’uomo integrale, della persona, che rivela se stessa attraverso il
“linguaggio del corpo”. Questo “linguaggio” ha un importante significato
interpersonale, specialmente quando si tratta dei rapporti reciproci tra l’uomo
e la donna. Per di più, le nostre analisi precedenti mostrano che in questo caso
il “linguaggio del corpo” deve esprimere, a un determinato livello, la
verità del sacramento. Partecipando all’eterno piano d’amore “Sacramentum
absconditum in Deo” il “linguaggio del corpo” diventa infatti quasi un
“profetismo del corpo”.
Si può dire che l’enciclica Humanae Vitae
porta alle estreme conseguenze, non soltanto logiche e morali, ma anche pratiche
e pastorali, questa verità sul corpo umano nella sua mascolinità e femminilità.
3. L’unità dei due aspetti del problema - della
dimensione sacramentale (ossia teologica) e di quella personalistica
- corrisponde alla globale “rivelazione del corpo”. Da qui deriva anche la
connessione della visione strettamente teologica con quella etica, che si
richiama alla “legge naturale”.
Il soggetto della legge naturale è infatti l’uomo
non soltanto nell’aspetto “naturale” della sua esistenza, ma anche nella verità
integrale della sua soggettività personale. Egli ci si manifesta, nella
rivelazione, come maschio e femmina, nella sua piena vocazione temporale ed
escatologica. Egli è chiamato da Dio ad essere testimone e interprete
dell’eterno disegno dell’amore, divenendo ministro del sacramento, che “da
principio” è costituito nel segno dell’“unione della carne”.
4. Come ministri di un sacramento che si costituisce
attraverso il consenso e si perfeziona attraverso l’unione coniugale, l’uomo e
la donna sono chiamati ad esprimere quel misterioso “linguaggio” dei
loro corpi in tutta la verità che gli è propria. Per mezzo dei gesti e delle
reazioni, per mezzo di tutto il dinamismo, reciprocamente condizionato, della
tensione e del godimento - la cui diretta sorgente è il corpo nella sua
mascolinità e femminilità, il corpo nella sua azione e interazione - attraverso
tutto questo “parla” l’uomo, la persona.
L’uomo e la donna svolgono nel “linguaggio del
corpo” quel dialogo che - secondo la Genesi (Gen 2, 24-25) - ebbe inizio
nel giorno della creazione. È appunto a livello di questo “linguaggio del corpo”
- che è qualcosa di più della sola reattività sessuale e che, come autentico
linguaggio delle persone, è sottoposto alle esigenze della verità, cioè a norme
morali obiettive - l’uomo e la donna esprimono reciprocamente se stessi nel modo
più pieno e più profondo, in quanto è loro consentito dalla stessa dimensione
somatica . . . mascolinità e femminilità: l’uomo e la donna esprimono se stessi
nella misura di tutta la verità della loro persona.
5. L’uomo è appunto persona perché è padrone di
sé e domina se stesso. In quanto infatti è padrone di se stesso può
“donarsi” all’altro. Ed è questa dimensione della libertà del dono - che diventa
essenziale e decisiva per quel “linguaggio del corpo”, in cui l’uomo e la donna
si esprimono reciprocamente nell’unione coniugale. Dato che questa è comunione
di persone, il “linguaggio del corpo” deve essere giudicato secondo il criterio
della verità. Proprio tale criterio richiama l’enciclica Humanae Vitae,
come è confermato dai passi citati in precedenza.
6. Secondo il criterio di questa verità, che
deve esprimersi nel “linguaggio del corpo”, l’atto coniugale “significa” non
soltanto l’amore, ma anche la potenziale fecondità, e perciò non può essere
privato del suo pieno e adeguato significato mediante interventi artificiali.
Nell’atto coniugale non è lecito separare artificialmente il significato unitivo
dal significato procreativo, perché l’uno e l’altro appartengono alla verità
intima dell’atto coniugale: l’uno si attua insieme all’altro e in certo senso
l’uno attraverso l’altro. Così insegna l’enciclica (cf. Humanae Vitae,
12). Quindi in tal caso l’atto coniugale privo della sua verità interiore,
perché privato artificialmente della sua capacità procreativa, cessa
anche di essere atto di amore.
7. Si può dire che nel caso di un’artificiale
separazione di questi due significati, nell’atto coniugale si compie una reale
unione corporea, ma essa non corrisponde alla verità interiore e alla dignità
della comunione personale: “communio personarum”. Tale comunione esige
infatti che il “linguaggio del corpo” sia espresso reciprocamente nell’integrale
verità del suo significato. Se manca questa verità, non si può parlare ne della
verità del reciproco dono e della reciproca accettazione di sé da parte della
persona. Tale violazione dell’ordine interiore della comunione coniugale, che
affonda le sue radici nell’ordine stesso della persona, costituisce il male
essenziale dell’atto contraccettivo.
8. La suddetta interpretazione della dottrina
morale, esposta nell’enciclica Humanae Vitae, si situa sul vasto sfondo
delle riflessioni connesse con la teologia del corpo. Specialmente valide per
questa interpretazione sono le riflessioni sul “segno” in connessione col
matrimonio, inteso come sacramento. E l’assenza della violazione che turba
l’ordine interiore dell’atto coniugale non può essere intesa in modo
teologicamente adeguato, senza le riflessioni sul tema della “concupiscenza
della carne”.
Mercoledì, 29 agosto 1984
1. L’enciclica
Humanae Vitae, dimostrando, il male morale della contraccezione, al
tempo stesso approva pienamente la regolazione naturale della fertilità e,
in questo senso, approva la paternità e maternità responsabili. Bisogna
qui escludere che possa qualificarsi “responsabile” dal punto di vista etico
quella procreazione nella quale si ricorre alla contraccezione per attuare la
regolazione della fertilità. Il vero concetto di “paternità e maternità
responsabili” è invece connesso con la regolazione della fertilità onesta dal
punto di vista etico.
2. Leggiamo a proposito: “Un’onesta pratica di
regolazione della natalità richiede anzitutto dagli sposi che acquistino e
posseggano solide convinzioni circa i veri valori della vita e della famiglia,
e che tendano ad acquistare una perfetta padronanza di sé. Il dominio
dell’istinto, mediante la ragione e la libera volontà, impone indubbiamente
un’ascesi, affinché le manifestazioni affettive della vita coniugale siano
secondo il retto ordine e in particolare per l’osservanza della continenza
periodica. Ma questa disciplina, propria della purezza degli sposi, ben lungi
dal nuocere all’amore coniugale, gli conferisce invece un più alto valore umano.
Esige un continuo sforzo, ma grazie al suo benefico influsso i coniugi
sviluppano integralmente la loro personalità arricchendosi di valori spirituali
. . . (Pauli VI, Humanae Vitae, 21).
3. L’enciclica illustra poi le conseguenze di tale
comportamento non soltanto per gli stessi coniugi, ma anche per tutta la
famiglia, intesa come comunità di persone. Occorrerà riprendere in
considerazione questo argomento. Essa sottolinea che la regolazione eticamente
onesta della fertilità esige dai coniugi anzitutto un determinato
comportamento familiare e procreativo: esige cioè “che acquistino e
posseggano solide convinzioni circa i valori della vita e della famiglia” (Humanae
Vitae, 21). Partendo da questa premessa, è stato necessario procedere a una
considerazione globale della questione, come fece il Sinodo dei Vescovi del
1980 (De muneribus familiae christianae). In seguito, la dottrina
relativa a questo particolare problema della morale coniugale e familiare, di
cui tratta l’enciclica Humanae Vitae, ha trovato il giusto posto e
l’ottica opportuna nel complessivo contesto dell’esortazione apostolica
Familiaris Consortio. La teologia del corpo, particolarmente come pedagogia
del corpo, affonda le radici, in certo senso, nella teologia della famiglia
e, ad un tempo, ad essa conduce. Tale pedagogia del corpo, la cui chiave
oggi è l’enciclica Humanae Vitae, si spiega soltanto nel pieno contesto
di una corretta visione dei valori della vita e della famiglia.
4. Nel testo sopra citato papa Paolo VI si richiama
alla castità coniugale, scrivendo che l’osservanza della continenza periodica è
la forma di padronanza di sé, in cui si manifesta “la purezza degli sposi” (Pauli
VI, Humanae Vitae, 21).
Nell’intraprendere ora un’analisi più approfondita
di questo problema, occorre tener presente tutta la dottrina sulla purezza
intesa come vita dello Spirito (cf. Gal 5, 25), considerata da noi già in
precedenza, per comprendere così le rispettive indicazioni dell’enciclica sul
tema della “continenza periodica”. Quella dottrina resta infatti la vera
ragione, a partire dalla quale l’insegnamento di Paolo VI definisce la
regolazione della natalità e la paternità e maternità responsabili come
eticamente oneste.
Sebbene la “periodicità” della continenza venga in
questo caso applicata ai cosiddetti “ritmi naturali” (Humanae Vitae, 16),
tuttavia la continenza stessa è un determinato e permanente atteggiamento
morale, è virtù, e perciò tutto il modo di comportarsi, da essa guidato,
acquista carattere virtuoso. L’enciclica sottolinea abbastanza chiaramente che
qui non si tratta solo di una determinata “tecnica”, ma dell’etica
nel senso stretto del termine come moralità di un comportamento.
Pertanto, opportunamente l’enciclica pone in
rilievo, da un lato, la necessità di rispettare nel suddetto comportamento
l’ordine stabilito dal Creatore, e, dall’altro, la necessità dell’immediata
motivazione di carattere etico.
5. Riguardo al primo aspetto leggiamo:
“Usufruire . . . del dono dell’amore coniugale rispettando le leggi del processo
generativo significa riconoscersi non arbitri delle sorgenti della vita umana,
ma piuttosto ministri del disegno stabilito dal Creatore” (Humanae Vitae,
13). “La vita umana è sacra” - come ha ricordato il nostro predecessore Giovanni
XXIII - fin dal suo affiorare impegna direttamente l’azione creatrice di Dio” (Mater
et magistra; cf. Humanae Vitae, 13). Quanto all’immediata
motivazione, l’enciclica Humanae Vitae richiede che “per distanziare
le nascite esistano seri motivi, derivanti o dalle condizioni fisiche o
psicologiche dei coniugi, o da circostanze esteriori . . .” (Humanae Vitae,
16).
6. Nel caso di una regolazione moralmente retta
della fertilità che si attua mediante la continenza periodica, si tratta
chiaramente di praticare la castità coniugale, cioè di un determinato
atteggiamento etico. Nel linguaggio biblico, diremo che si tratta di vivere
dello Spirito (cf. Gal 5, 25).
La regolazione moralmente retta viene anche
denominata “regolazione naturale della fertilità”, il che può essere
spiegato quale conformità alla “legge naturale”. Per “legge naturale” intendiamo
qui l’“ordine della natura” nel campo della procreazione, in quanto esso è
compreso dalla retta ragione: tale ordine è l’espressione del piano del Creatore
sull’uomo. Ed è proprio questo che l’enciclica, insieme con tutta la tradizione
della dottrina e della pratica cristiana, sottolinea in modo particolare: il
carattere virtuoso dell’atteggiamento, che si esprime nella “naturale”
regolazione della fertilità, è determinato non tanto dalla fedeltà a
un’impersonale “legge naturale” quanto al Creatore-persona, sorgente e
Signore dell’ordine che si manifesta in tale legge.
Da questo punto di vista, la riduzione alla sola
regolarità biologica, staccata dall’“ordine della natura” cioè dal “piano del
Creatore” deforma l’autentico pensiero dell’enciclica Humanae Vitae (cf.
Humanae Vitae, 14).
Il documento prosegue certamente quella
regolarità biologica, anzi, esorta le persone competenti a studiarla e ad
applicarla in modo ancor più approfondito, ma intende sempre tale regolarità
come l’espressione dell’“ordine della natura” cioè del provvidenziale piano
del Creatore, nella cui fedele esecuzione consiste il vero bene della
persona umana.
Mercoledì, 5 settembre 1984
1. Abbiamo precedentemente parlato dell’onesta
regolazione della fertilità, secondo la dottrina contenuta nell’enciclica
Humanae Vitae (Pauli VI, Humane Vitae, n. 19), e nell’esortazione
Familiaris Consortio. La qualifica di “naturale”, che si attribuisce
alla regolazione moralmente retta della fertilità (seguendo i ritmi naturali, cf.
Humanae Vitae, 16), si spiega con il fatto che il relativo modo di
comportarsi corrisponde alla verità della persona e quindi alla sua dignità: una
dignità che “per natura” spetta all’uomo quale essere ragionevole e libero.
L’uomo, come essere ragionevole e libero, può e deve rileggere con perspicacia
quel ritmo biologico che appartiene all’ordine naturale. Può e deve conformarsi
ad esso, al fine di esercitare quella “paternità-maternità responsabile”, che,
secondo il disegno del Creatore, è iscritta nell’ordine naturale della fecondità
umana. Il concetto di regolazione moralmente retta della fertilità non è altro
che la rilettura del “linguaggio del corpo” nella verità. Gli stessi “ritmi
naturali immanenti alle funzioni generative” appartengono alla verità
oggettiva di quel linguaggio, che le persone interessate dovrebbero
rileggere nel suo pieno contenuto oggettivo. Bisogna aver presente che il “corpo
parla” non soltanto con tutta l’eterna espressione della mascolinità e della
femminilità, ma anche con le strutture interne dell’organismo, della reattività
somatica e psicosomatica. Tutto ciò che deve trovare il posto che gli spetta in
quel linguaggio, con cui dialogano i coniugi, come persone chiamate alla
comunione nell’“unione del corpo”.
2. Tutti gli sforzi che tendono alla conoscenza
sempre più precisa di quei “ritmi naturali”, che si manifestano in rapporto alla
procreazione umana, tutti gli sforzi poi dei consultori familiari e infine degli
stessi coniugi interessati, non mirano a “biologizzare” il linguaggio del corpo
(a “biologizzare l’etica”, come erroneamente ritengono alcuni), ma
esclusivamente ad assicurare l’integrale verità a quel “linguaggio del
corpo”, con cui i coniugi debbono esprimersi in modo maturo di fronte alle
esigenze della paternità e maternità responsabili.
L’enciclica Humanae Vitae sottolinea a più
riprese che la “paternità responsabile” è connessa a un continuo sforzo e
impegno, e che essa viene attuata a prezzo di una precisa ascesi (cf.
Pauli VI, Humanae Vitae, 21). Tutte queste e altre simili espressioni
mostrano che nel caso della “paternità responsabile” ossia della regolazione
della fertilità moralmente retta, si tratta di ciò che è il vero bene delle
persone umane e di ciò che corrisponde alla vera dignità della persona.
3. L’usufruire dei “periodi infecondi” nella
convivenza coniugale può diventare sorgente di abusi, se i coniugi cercano in
tal modo di eludere senza giuste ragioni la procreazione, abbassandola sotto il
livello moralmente giusto delle nascite nella loro famiglia. Occorre che questo
giusto livello sia stabilito tenendo conto non soltanto del bene della propria
famiglia, come pure dello stato di salute e delle possibilità degli stessi
coniugi, ma anche del bene della società a cui appartengono, della Chiesa, e
perfino dell’umanità intera.
L’enciclica Humanae Vitae presenta la
“paternità responsabile” come espressione di un alto valore etico. In nessun
modo essa è unilateralmente diretta alla limitazione e ancor meno
all’esclusione della prole; essa significa anche la disponibilità ad accogliere
una prole più numerosa. Soprattutto, secondo l’enciclica Humanae Vitae,
la “paternità responsabile” attua “un più profondo rapporto all’ordine morale
chiamato oggettivo, stabilito da Dio e di cui la retta coscienza è fedele
interprete” (Pauli VI, Humanae Vitae, 10).
4. La verità della paternità e maternità
responsabile, e la sua messa in atto, è unita alla maturità morale della
persona, ed è qui che molto spesso si rivela la divergenza tra ciò a cui
l’enciclica attribuisce esplicitamente il primato e ciò a cui questo
viene attribuito nella mentalità comune.
Nell’enciclica viene messa in primo piano la
dimensione etica del problema, sottolineando il ruolo della virtù
della temperanza, rettamente intesa. Nell’ambito di questa dimensione
c’è anche un adeguato “metodo” secondo cui agire. Nel comune modo di pensare
capita spesso che il “metodo”, staccato dalla dimensione etica che gli è
proprio, viene messo in atto in modo meramente funzionale, e perfino utilitario.
Separando il “metodo naturale” dalla dimensione etica, si cessa di percepire la
differenza che intercorre tra esso e gli altri “metodi” (mezzi artificiali) e si
arriva a parlarne come se si trattasse soltanto di una diversa forma di
contraccezione.
5. Dal punto di vista dell’autentica dottrina,
espressa dall’enciclica Humanae Vitae è dunque importante una corretta
presentazione del metodo stesso, di cui fa cenno il medesimo documento (cf.
Pauli VI, Humanae Vitae, 16); soprattutto è importante
l’approfondimento della dimensione etica, nel cui ambito il metodo, come
“naturale”, acquista il significato di metodo onesto, “moralmente retto”. E
perciò, nel quadro della presente analisi, ci converrà volgere principalmente
l’attenzione a ciò che l’enciclica asserisce sul tema della padronanza di sé e
sulla continenza. Senza un’interpretazione penetrante di quel tema non
giungeremo né al nucleo della verità morale, né al nucleo della verità
antropologica del problema. Già prima è stato rilevato che le radici di questo
problema affondano nella teologia del corpo: è questa (quando diviene, come
deve, pedagogia del corpo) che costituisce in realtà il “metodo” moralmente
onesto della regolazione della natalità, inteso nel suo senso più profondo e più
pieno.
6. Caratterizzando in seguito i valori
specificamente morali della regolazione della natalità “naturale” (cioè onesta,
ossia moralmente retta), l’autore della Humanae Vitae così si esprime:
“Questa disciplina . . . apporta alla vita familiare frutti di serenità e di
pace e agevola la soluzione di altri problemi; favorisce l’attenzione verso
l’altro coniuge, aiuta gli sposi a bandire l’egoismo, nemico del vero amore, e
approfondisce il loro senso di responsabilità. I genitori acquistano con essa la
capacità di un influsso più profondo ed efficace per l’educazione dei figli; la
fanciullezza e la gioventù crescono nella giusta stima dei valori umani e nello
sviluppo sereno e armonioso delle loro facoltà spirituali e sensibili” (Pauli VI,
Humanae Vitae, 21).
7. Le frasi citate completano il quadro di
ciò che l’enciclica Humanae Vitae (Pauli VI, Humane Vitae, n. 21)
intende per “onesta pratica di regolazione della natalità”. Questa è, come si
vede, non soltanto un “modo di comportarsi” in un determinato campo, ma un
atteggiamento che si fonda sull’integrale maturità morale delle persone e
insieme la completa.
Mercoledì, 3 ottobre 1984
1. Riferendoci alla dottrina contenuta
nell’enciclica
Humanae Vitae, cercheremo di delineare ulteriormente la vita spirituale
dei coniugi.
Eccone le grandi parole: “La Chiesa, mentre insegna
le esigenze inviolabili della legge divina, annunzia la salvezza e apre con i
sacramenti le vie della grazia, la quale fa dell’uomo una nuova creatura, capace
di corrispondere nell’amore e nella vera libertà al disegno supremo del suo
Creatore e Salvatore e di trovare dolce il giogo di Cristo.
Gli sposi cristiani, dunque, docili alla sua voce,
ricordino che la loro vocazione cristiana iniziata col Battesimo si è
ulteriormente specificata e rafforzata col sacramento del matrimonio. Per
esso i coniugi sono corroborati e quasi consacrati per l’adempimento fedele
dei propri doveri, per l’attuazione della propria vocazione fino alla perfezione
e per una testimonianza cristiana loro propria di fronte al mondo. Ad essi il
Signore affida il compito di rendere visibile agli uomini la santità e la
soavità della legge che unisce l’amore vicendevole degli sposi con la loro
cooperazione all’amore di Dio autore della vita umana” (Pauli VI, Humanae
Vitae, 25).
2. Mostrando il male morale dell’atto
contraccettivo, e delineando al tempo stesso un quadro possibilmente integrale
della pratica “onesta” della regolazione della fertilità, ossia della paternità
e maternità responsabili, l’enciclica Humanae Vitae crea le premesse che
consentono di tracciare le grandi linee della spiritualità cristiana della
vocazione e della vita coniugale, e, parimente, di quella dei genitori e
della famiglia.
Si può anzi dire che l’enciclica presuppone l’intera
tradizione di questa spiritualità, la quale affonda le radici nelle sorgenti
bibliche, già in precedenza analizzate, offrendo l’occasione di riflettere
nuovamente su di esse e di costruire un’adeguata sintesi.
Conviene ricordare qui ciò ch’è stato detto sul
rapporto organico tra la teologia del corpo e la pedagogia del corpo. Tale
“teologia-pedagogia”, infatti, costituisce già di per se stessa il nucleo
essenziale della spiritualità coniugale. E ciò è indicato anche dalle frasi
sopraccitate dell’enciclica.
3. Certamente rileggerebbe ed interpreterebbe in
modo erroneo l’enciclica Humanae vitae colui che vedesse in essa soltanto la
riduzione della “paternità e maternità responsabile” ai soli “ritmi biologici di
fecondità”. L’autore dell’enciclica energicamente disapprova e contraddice ogni
forma di interpretazione riduttiva (e in tal senso “parziale”), e ripropone con
insistenza l’intendimento integrale. La paternità-maternità responsabile,
intesa integralmente, non è altro che un’importante componente di tutta
la spiritualità coniugale e familiare, di quella vocazione cioè di cui parla
il testo citato della Humanae Vitae, quando afferma che i coniugi debbono
attuare la “propria vocazione fino alla perfezione” (Pauli VI, Humanae Vitae,
25). È il sacramento del matrimonio che li corrobora e quasi consacra a
raggiungerla (cf. Humanae Vitae, 25).
Alla luce della dottrina, espressa nell’enciclica,
conviene renderci maggiormente conto di quella “forza corroborante” che è unita
alla “consacrazione sui generis” del sacramento del matrimonio.
Poiché l’analisi della problematica etica del
documento di Paolo VI era centrata soprattutto sulla giustezza della
rispettiva norma, l’abbozzo della spiritualità coniugale, che vi si trova,
intende porre in rilievo proprio queste “forze” che rendono possibile
l’autentica testimonianza cristiana della vita coniugale.
4. “Non intendiamo affatto nascondere le difficoltà
talvolta gravi inerenti alla vita dei coniugi cristiani: per essi, come per
ognuno, "è stretta la porta e angusta la via che conduce alla vita" (cf.
Mt 7, 14). Ma la speranza di questa vita deve illuminare il loro
cammino, mentre coraggiosamente si sforzano di vivere con saggezza, giustizia e
pietà nel tempo presente, sapendo che la figura di questo mondo passa” (Humanae
Vitae, 25).
Nell’enciclica, la visione della vita coniugale è,
ad ogni passo, contrassegnata da realismo cristiano, ed è proprio questo che
giova maggiormente a raggiungere quelle “forze” che consentono di formare la
spiritualità dei coniugi e dei genitori nello spirito di un’autentica pedagogia
del cuore e del corpo.
La stessa coscienza “della vita futura” apre, per
così dire, un ampio orizzonte ai quelle forze che debbono guidarli per la
via angusta (cf. Humanae Vitae, 25) e condurli per la porta stretta della
vocazione evangelica.
L’enciclica dice: “Affrontino quindi gli sposi i
necessari sforzi, sorretti dalla fede e dalla speranza che "non delude, perché
l’amore di Dio è stato effuso nei nostri cuori con lo Spirito Santo, che ci è
stato dato"” (Pauli VI, Humanae Vitae, 25).
5. Ecco la “forza” essenziale e fondamentale:
l’amore innestato nel cuore (“effuso nei cuori”) dallo Spirito Santo.
In seguito l’enciclica indica come i coniugi debbano implorare tale “forza”
essenziale e ogni altro “aiuto divino” con la preghiera; come debbano attingere
la grazia e l’amore alla sorgente sempre viva dell’Eucaristia; come debbano
superare “con umile perseveranza” le proprie mancanze e i propri peccati nel
sacramento della Penitenza.
Questi sono i mezzi - infallibili e
indispensabili - per formare la spiritualità cristiana della vita coniugale
e familiare. Con essi quella essenziale e spiritualmente creativa “forza”
d’amore giunge ai cuori umani e, nello stesso tempo, ai corpi umani nella
loro soggettiva mascolinità e femminilità. Questo amore, infatti, consente di
costruire tutta la convivenza dei coniugi secondo quella “verità del
segno”, per mezzo della quale viene costruito il matrimonio nella sua
dignità sacramentale, come rivela il punto centrale dell’enciclica (cf.
Humanae Vitae, 12).
Mercoledì, 10 ottobre 1984
1. Continuiamo a delineare la spiritualità coniugale
nella luce dell’enciclica
Humanae Vitae.
Secondo la dottrina in essa contenuta, conformemente
alle fonti bibliche e a tutta la tradizione, l’amore è - dal punto di
vista soggettivo - “forza”, cioè capacità dello spirito umano, di
carattere “teologico” (o piuttosto “teologale”). Questa è dunque la forza
data all’uomo per partecipare a quell’amore con cui Dio stesso ama nel
mistero della creazione e della redenzione. È quell’amore che “si compiace della
verità” (1 Cor 13, 6), nel quale cioè si esprime la gioia spirituale (il
“frui” agostiniano) di ogni autentico valore: gaudio simile al gaudio dello
stesso Creatore, il quale al principio vide che “era cosa molto buona” (Gen
1, 31).
Se le forze della concupiscenza tentano di
staccare il “linguaggio del corpo” dalla verità, tentano cioè di
falsificarlo, la forza dell’amore invece lo corrobora sempre di nuovo in
quella verità, affinché il mistero della redenzione del corpo possa fruttificare
in essa.
2. Lo stesso amore, che rende possibile e fa sì che
il dialogo coniugale si attui secondo la verità piena della vita degli sposi,
è a un tempo forza ossia capacità di carattere morale, orientata attivamente
verso la pienezza del bene e per ciò stesso verso ogni vero bene. E perciò il
suo compito consiste nel salvaguardare l’unità inscindibile dei “due significati
dell’atto coniugale”, di cui tratta l’enciclica (Pauli VI, Humanae Vitae,
12), vale a dire nel proteggere sia il valore della vera unione dei coniugi
(cioè della comunione personale) sia quello della paternità e maternità
responsabili (nella loro forma matura e degna dell’uomo).
3. Secondo il linguaggio tradizionale, l’amore,
quale “forza” superiore, coordina le azioni delle persone, del marito e della
moglie, nell’ambito dei fini del matrimonio. Sebbene né la costituzione
conciliare né l’enciclica, nell’affrontare l’argomento, usino il linguaggio un
tempo consueto, essi trattano, tuttavia, di ciò a cui si riferiscono le
espressioni tradizionali.
L’amore, come forza superiore che l’uomo e la donna
ricevono da Dio insieme alla particolare “consacrazione” del sacramento del
matrimonio, comporta una coordinazione corretta dei fini, secondo i quali
- nell’insegnamento tradizionale della Chiesa - si costituisce l’ordine
morale (o piuttosto “teologale e morale”) della vita dei coniugi.
La dottrina della costituzione
Gaudium et Spes, come pure quella dell’enciclica Humanae Vitae,
chiariscono lo stesso ordine morale nel riferimento all’amore, inteso come forza
superiore che conferisce adeguato contenuto e valore agli atti coniugali
secondo la verità dei due significati, quello unitivo e quello
procreativo, nel rispetto della loro inscindibilità.
In questa rinnovata impostazione, il tradizionale
insegnamento sui fini del matrimonio (e sulla loro gerarchia) viene confermato e
insieme approfondito dal punto di vista della vita interiore dei coniugi, ossia
della spiritualità coniugale e familiare.
4. Il compito dell’amore, che è “effuso nei cuori” (Rm
5, 5) degli sposi come la fondamentale forza spirituale del loro patto
coniugale, consiste - come si è detto - nel proteggere sia il valore della vera
comunione dei coniugi, sia quello della paternità-maternità veramente
responsabile. La forza dell’amore - autentica nel senso teologico ed etico - si
esprime in questo che l’amore unisce correttamente “i due significati
dell’atto coniugale”, escludendo non solo nella teoria, ma soprattutto nella
pratica, la “contraddizione” che potrebbe verificarsi in questo campo. Tale
“contraddizione” è il più frequente motivo di obiezione all’enciclica Humanae
Vitae e all’insegnamento della Chiesa. Occorre un’analisi ben approfondita,
e non soltanto teologica ma anche antropologica (abbiamo cercato di farla in
tutta la presente riflessione), per dimostrare che non bisogna qui parlare di
contraddizione”, ma soltanto di “difficoltà”. Orbene, l’enciclica stessa
sottolinea tale “difficoltà” in vari passi.
E questa deriva dal fatto che la forza dell’amore
è innestata nell’uomo insidiato dalla concupiscenza: nei soggetti umani
l’amore s’imbatte con la triplice concupiscenza (cf. 1 Gv 2, 16), in
particolare con la concupiscenza della carne che deforma la verità del
“linguaggio del corpo”. E perciò anche l’amore non è in grado di realizzarsi
nella verità del “linguaggio del corpo”, se non mediante il dominio sulla
concupiscenza.
5. Se l’elemento chiave della spiritualità dei
coniugi e dei genitori - quella essenziale “forza” che i coniugi debbono di
continuo attingere dalla “consacrazione” sacramentale - è l’amore, questo
amore, come risulta dal testo dell’enciclica (cf. Pauli VI, Humanae Vitae,
20), è per sua natura congiunto con la castità che si manifesta come
padronanza di sé, ossia come continenza: in particolare, come continenza
periodica. Nel linguaggio biblico, sembra alludere a ciò l’autore della Lettera
agli Efesini, quando nel suo “classico” testo esorta gli sposi a essere
“sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21).
Si può dire che l’enciclica Humanae Vitae
costituisca appunto lo sviluppo di questa verità biblica sulla spiritualità
cristiana coniugale e familiare. Tuttavia per renderlo ancor più manifesto
occorre un’analisi più profonda della virtù della continenza e del suo
particolare significato per la verità del mutuo “linguaggio del corpo” nella
convivenza coniugale e (indirettamente) nell’ampia sfera dei reciproci rapporti
tra l’uomo e la donna.
Intraprenderemo questa analisi durante le successive
riflessioni del mercoledì.
Mercoledì, 24 ottobre 1984
1. In conformità a quanto preannunciato,
intraprendiamo oggi l’analisi della virtù della continenza.
La “continenza”, che fa parte della virtù più
generale della temperanza, consiste nella capacità di dominare, controllare e
orientare le pulsioni di carattere sessuale (concupiscenza della carne) e le
loro conseguenze, nella soggettività psico-somatica dell’uomo. Tale capacità, in
quanto disposizione costante della volontà, merita di essere chiamata virtù.
Sappiamo dalle precedenti analisi che la
concupiscenza della carne, e il relativo “desiderio” di carattere sessuale da
essa suscitato, si esprime con una specifica pulsione nella sfera della
reattività somatica e inoltre con un’eccitazione psico-emotiva dell’impulso
sessuale.
Il soggetto personale per giungere a padroneggiare
tale pulsione ed eccitazione deve impegnarsi in una progressiva educazione
all’autocontrollo della volontà, dei sentimenti, delle emozioni, che deve
svilupparsi a partire dai gesti più semplici, nei quali è relativamente facile
tradurre in atto la decisione interiore. Ciò suppone, com’è ovvio, la chiara
percezione dei valori espressi nella norma e la conseguente maturazione di salde
convinzioni che, se accompagnate dalla rispettiva disposizione della
volontà, danno origine alla corrispondente virtù. Tale è appunto la virtù della
continenza (padronanza di sé), che si rivela fondamentale condizione sia perché
il reciproco linguaggio del corpo rimanga nella verità, e sia perché i coniugi
“siano sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo”, secondo le parole
bibliche (Ef 5, 21). Questa “sottomissione reciproca” significa la
comune sollecitudine per la verità del “linguaggio del corpo”, la
sottomissione invece “nel timore di Cristo” indica il dono del timore di Dio
(dono dello Spirito Santo) che accompagna la virtù della continenza.
2. Questo è molto importante per un’adeguata
comprensione della virtù della continenza e, in particolare, della cosiddetta
“continenza periodica”, di cui tratta l’enciclica
Humanae Vitae. La convinzione che la virtù della continenza “si
oppone” alla concupiscenza della carne è giusta, ma non è del tutto completa.
Non è completa, specialmente quando teniamo conto del fatto che questa virtù non
appare e non agisce astrattamente e quindi isolatamente, ma sempre in
connessione con le altre (“nexus virtutum”), dunque in connessione con la
prudenza, giustizia, fortezza e soprattutto con la carità.
Alla luce di queste considerazioni, è facile
intendere che la continenza non si limita a opporre resistenza alla
concupiscenza della carne, ma mediante questa resistenza si apre ugualmente a
quei valori, più profondi e più maturi, che ineriscono al significato
sponsale del corpo nella sua femminilità e mascolinità, come anche all’autentica
libertà del dono nel reciproco rapporto delle persone. La concupiscenza stessa
della carne, in quanto cerca anzitutto il godimento carnale e sensuale, rende
l’uomo, in certo senso, cieco e insensibile ai valori più profondi che
scaturiscono dall’amore e che nello stesso tempo costituiscono l’amore nella
verità interiore che gli è propria.
3. In tal modo si manifesta anche il carattere
essenziale della castità coniugale nel suo legame organico con la “forza”
dell’amore, che è effuso nei cuori degli sposi insieme alla “consacrazione” del
sacramento del matrimonio. Diviene inoltre evidente che l’invito diretto ai
coniugi, affinché siano “sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef
5, 21), sembra aprire quello spazio interiore in cui entrambi divengono
sempre più sensibili ai valori più profondi e più maturi, che sono connessi
con il significato sponsale del corpo e con la vera libertà del dono.
Se la castità coniugale (e la castità in generale)
si manifesta dapprima come capacità di resistere alla concupiscenza della carne,
in seguito essa gradualmente si rivela quale singolare capacità di
percepire, amare e attuare quei significati del “linguaggio del corpo”, che
rimangono del tutto sconosciuti alla concupiscenza stessa e che progressivamente
arricchiscono il dialogo sponsale dei coniugi, purificandolo, approfondendolo e
insieme semplificandolo.
Perciò quell’ascesi della continenza, di cui parla
l’enciclica (Pauli VI, Humanae Vitae, 21) non comporta l’impoverimento
delle “manifestazioni affettive”, anzi le rende più intense spiritualmente,
e quindi ne comporta l’arricchimento.
4. Analizzando in tal modo la continenza, nella
dinamica propria di questa virtù (antropologica, etica e teologica), ci
accorgiamo che sparisce quell’apparente “contraddizione” che viene spesso
obiettata all’enciclica Humanae Vitae e alla dottrina della Chiesa sulla
morale coniugale. Esisterebbe cioè “contraddizione” (secondo coloro che muovono
questa obiezione) tra i due significati dell’atto coniugale, il significato
unitivo e quello procreativo (cf. Humanae Vitae, 12), così che se non
fosse lecito dissociarli i coniugi verrebbero privati del diritto all’unione
coniugale, quando non potessero responsabilmente permettersi di procreare.
A questa apparente “contraddizione” dà risposta
l’enciclica Humanae Vitae se studiata profondamente. Papa Paolo VI
conferma, infatti, che non esiste tale “contraddizione”, ma soltanto una
“difficoltà” collegata con tutta la situazione interiore dell’“uomo della
concupiscenza”. Invece, precisamente in ragione di questa “difficoltà”, viene
assegnato all’impegno interiore e ascetico dei coniugi il vero ordine della
convivenza coniugale, in vista del quale essi vengono “corroborati e quasi
consacrati” (Humanae Vitae, 25) dal sacramento del matrimonio.
5. Quell’ordine della convivenza coniugale significa
inoltre l’armonia soggettiva tra la paternità (responsabile) e la comunione
personale, armonia creata dalla castità coniugale. In essa, di fatto, maturano i
frutti interiori della continenza. Attraverso questa maturazione interiore lo
stesso atto coniugale acquista l’importanza e dignità che gli è propria nel
suo significato potenzialmente procreativo; contemporaneamente acquistano un
adeguato significato tutte le “manifestazioni affettive” (Humanae
Vitae, 21), che servono a esprimere la comunione personale dei coniugi
proporzionalmente alla ricchezza soggettiva della femminilità e mascolinità.
6. Conformemente all’esperienza e alla tradizione,
l’enciclica rivela che l’atto coniugale è anche una “manifestazione di
affetto” (Humanae Vitae, 16), ma una “manifestazione di affetto”
particolare, perché, al tempo stesso ha un significato potenzialmente
procreativo, Di conseguenza, esso è orientato ad esprimere l’unione personale,
ma non soltanto quella. Contemporaneamente l’enciclica, sia pure in modo
indiretto, indica molteplici “manifestazioni di affetto”, efficaci
esclusivamente ad esprimere l’unione personale dei coniugi.
Il compito della castità coniugale, e ancor più
precisamente quello della continenza, non sta solo nel proteggere
l’importanza e la dignità dell’atto coniugale in rapporto al suo significato
potenzialmente procreativo, ma anche nel tutelare l’importanza e la
dignità proprie dell’atto coniugale in quanto espressivo dell’unione
interpersonale, svelando alla coscienza e all’esperienza dei coniugi tutte le
altre possibili “manifestazioni di affetto”, che esprimano tale loro comunione
profonda.
Si tratta infatti di non recare danno alla
comunione dei coniugi nel caso in cui per giuste ragioni essi debbano
astenersi dall’atto coniugale. E, ancor più, che tale comunione, costruita di
continuo, giorno per giorno, mediante conformi “manifestazioni affettive”,
costituisca, per così dire, un vasto terreno su cui, nelle condizioni
opportune, matura la decisione di un atto coniugale moralmente retto.
Mercoledì, 31 ottobre 1984
1. Procediamo nell’analisi della continenza, alla
luce dell’insegnamento contenuto nell’enciclica
Humanae Vitae. Si pensa spesso che la continenza provochi tensioni
interiori, dalle quali l’uomo deve liberarsi. Alla luce delle analisi compiute,
la continenza, integralmente intesa, è piuttosto l’unica via per liberare
l’uomo da tali tensioni. Essa significa nient’altro che lo sforzo spirituale
che mira ad esprimere il “linguaggio del corpo” non solo nella verità, ma anche
nell’autentica ricchezza delle “manifestazioni di affetto”.
2. È possibile questo sforzo? Con altre
parole (e sotto altro aspetto) ritorna qui l’interrogativo circa l’“attuabilità
della norma morale”, ricordata e confermata dall’Humanae Vitae. Esso
costituisce uno degli interrogativi più essenziali (ed attualmente anche uno dei
più urgenti) nell’ambito della spiritualità coniugale.
La Chiesa è pienamente convinta della giustezza del
principio che afferma la paternità e maternità responsabili - nel senso spiegato
in precedenti catechesi - e questo non soltanto per motivi “demografici”, ma per
ragioni più essenziali. Responsabile chiamiamo la paternità e maternità che
corrispondono alla dignità personale dei coniugi come genitori, alla
verità della loro persona e dell’atto coniugale. Di qui deriva lo
stretto e diretto rapporto che collega questa dimensione con tutta la
spiritualità coniugale.
Il papa Paolo VI, nella Humanae Vitae, ha
espresso ciò che d’altronde avevano affermato molti autorevoli moralisti e
scienziati anche non cattolici, e cioè precisamente che in questo campo, tanto
profondamente ed essenzialmente umano e personale, occorre anzitutto far
riferimento all’uomo come persona, al soggetto che decide di se stesso e non ai
“mezzi” che lo fanno “oggetto” (di manipolazioni) e lo “depersonalizzano”. Si
tratta dunque qui di un significato autenticamente “umanistico” dello sviluppo e
del progresso della civiltà umana.
3. È possibile questo sforzo? Tutta la
problematica dell’enciclica Humanae Vitae non si riduce semplicemente
alla dimensione biologica della fertilità umana (alla questione dei “ritmi
naturali di fecondità”), ma risale alla soggettività stessa dell’uomo, a
quell’“io” personale, per cui egli è uomo o è donna.
Già durante la discussione nel Concilio Vaticano
II, in relazione al capitolo della
Gaudium et Spes sulla “Dignità del matrimonio e della famiglia e la sua
valorizzazione” si parlava della necessità di un’analisi approfondita delle
relazioni (e anche delle emozioni) collegate con la reciproca influenza
della mascolinità e femminilità sul soggetto umano. Questo problema
appartiene non tanto alla biologia quanto alla psicologia: dalla biologia e
psicologia passa in seguito nella sfera della spiritualità coniugale e
familiare. Qui, infatti, questo problema è in stretto rapporto con il metodo di
intendere la virtù della continenza, ossia della padronanza di sé e, in
particolare, della continenza periodica.
4. Un’attenta analisi della psicologia umana (che è
ad un tempo una soggettiva autoanalisi e in seguito diviene analisi di un
“oggetto” accessibile alla scienza umana), consente di giungere ad alcune
affermazioni essenziali. Di fatto, nelle relazioni interpersonali in cui si
esprime l’influsso reciproco della mascolinità e femminilità, si libera nel
soggetto psico-emotivo nell’“io” umano, accanto a una reazione
qualificabile come “eccitazione”, un’altra reazione che può e deve essere
chiamata “emozione”. Benché questi due generi di reazioni appaiano congiunti, è
possibile distinguerli sperimentalmente e “differenziarli” riguardo al contenuto
ovvero al loro “oggetto”.
La differenza oggettiva tra l’uno e l’altro genere
di reazioni consiste nel fatto che l’eccitazione è anzitutto “corporea” e
in questo senso, “sessuale”; l’emozione invece - sebbene suscitata dalla
reciproca reazione della mascolinità e femminilità - si riferisce soprattutto
all’altra persona intesa nella sua “integralità”. Si può dire che questa è una “emozione
causata dalla persona”, in rapporto alla sua mascolinità o femminilità.
5. Ciò che qui affermiamo relativamente alla
psicologia delle reciproche reazioni della mascolinità e femminilità aiuta a
comprendere la funzione della virtù della continenza, di cui si è parlato in
precedenza. Questa non è soltanto - e neppure principalmente - la capacità di
“astenersi”, cioè la padronanza delle molteplici reazioni che s’intrecciano
nel reciproco influsso della mascolinità e femminilità: una tale funzione
potrebbe essere definita come “negativa”. Ma esiste anche un’altra funzione (che
possiamo chiamare “positiva”) della padronanza di sé: ed è la capacità di
dirigere le rispettive reazioni, sia quanto al loro contenuto sia
quanto al loro carattere.
È stato già detto che, nel campo delle reciproche
reazioni della mascolinità e femminilità, l’“eccitazione” e l’“emozione”
appaiono non soltanto come due distinte e differenti esperienze dell’“io” umano,
ma molto spesso appaiono congiunte nell’ambito della stessa esperienza quali due
diverse componenti di essa. Da varie circostanze di natura interiore ed
esteriore dipende la reciproca proporzione in cui queste due componenti appaiono
in una determinata esperienza. Alle volte prevale nettamente una delle
componenti, altre volte piuttosto c’è equilibrio tra loro.
6. La continenza, quale capacità di dirigere
l’“eccitazione” e l’“emozione” nella sfera dell’influsso reciproco della
mascolinità e femminilità, ha il compito essenziale di mantenere l’equilibrio
tra la comunione in cui i coniugi desiderano esprimere reciprocamente soltanto
la loro unione intima e quella in cui (almeno implicitamente) accolgono la
paternità responsabile. Difatti, l’“eccitazione” e l’“emozione” possono
pregiudicare, da parte del soggetto, l’orientamento e il carattere del reciproco
“linguaggio del corpo”.
L’eccitazione cerca anzitutto di esprimersi
nella forma del piacere sensuale e corporeo, ossia tende all’atto coniugale
che (dipendente dai “ritmi naturali di fecondità”) comporta la possibilità di
procreazione. Invece l’emozione provocata da un altro essere umano come
persona, anche se nel suo contenuto emotivo è condizionata dalla femminilità o
mascolinità dell’“altro”, non tende di per sé all’atto coniugale, ma si
limita ad altre “manifestazioni di affetto”, nelle quali si esprime
il significato sponsale del corpo, e che tuttavia non racchiudono il suo
significato (potenzialmente) procreativo.
È facile comprendere quali conseguenze derivano da
ciò rispetto al problema della paternità e maternità responsabili. Queste
conseguenze sono di natura morale.
Mercoledì, 7 novembre 1984
1. Proseguiamo l’analisi della virtù della
continenza alla luce della dottrina contenuta nell’enciclica
Humanae Vitae. Conviene ricordare che i grandi classici del pensiero
etico (e antropologico), sia precristiani sia cristiani (Tommaso d’Aquino),
vedono nella virtù della continenza non soltanto la capacità di “contenere” le
reazioni corporali e sensuali, ma ancor più la capacità di controllare e guidare
tutta la sfera sensuale ed emotiva dell’uomo. Nel caso in questione si tratta
della capacità di dirigere sia la linea dell’eccitazione verso il suo
corretto sviluppo, sia anche la linea dell’emozione stessa,
orientandola verso l’approfondimento e l’intensificazione interiore del suo
carattere “puro” e, in un certo senso, “disinteressato”.
2. Questa differenziazione tra la linea
dell’eccitazione e la linea dell’emozione non è una contrapposizione. Essa non
significa che l’atto coniugale, come effetto dell’eccitazione, non comporti
nello stesso tempo la commozione dell’altra persona. Certamente è così, o
comunque, non dovrebbe essere altrimenti.
Nell’atto coniugale, l’unione intima dovrebbe
comportare una particolare intensificazione dell’emozione, anzi, la commozione
dell’altra persona. Ciò è anche contenuto nella Lettera agli Efesini, sotto
forma di esortazione, diretta ai coniugi: “Siate sottomessi gli uni agli altri
nel timore di Cristo” (Ef 5, 21).
La distinzione tra “eccitazione” ed “emozione”,
rilevata in questa analisi, comprova soltanto la soggettiva ricchezza
reattivo-emotiva dell’“io” umano; questa ricchezza esclude qualunque
riduzione unilaterale e fa sì che la virtù della continenza possa essere attuata
come capacità di dirigere il manifestarsi sia dell’eccitazione sia
dell’emozione, suscitate dalla reciproca reattività della mascolinità e della
femminilità.
3. La virtù della continenza, così intesa, ha un
ruolo essenziale per mantenere l’equilibrio interiore tra i due significati,
l’unitivo e il procreativo, dell’atto coniugale (cf. Pauli VI, Humanae Vitae,
12), in vista di una paternità e maternità veramente responsabili.
L’enciclica Humanae Vitae dedica la dovuta
attenzione all’aspetto biologico del problema, vale a dire, al carattere ritmico
della fecondità umana. Sebbene tale periodicità possa essere chiamata,
alla luce dell’enciclica, indice provvidenziale per una paternità e
maternità responsabili, tuttavia non solo a questo livello si risolve un
problema come questo, che ha un significato così profondamente
personalistico e sacramentale (teologico).
L’enciclica insegna la paternità e maternità
responsabili “come verifica di un maturo amore coniugale” e perciò contiene non
soltanto la risposta al concreto interrogativo che si pone nell’ambito
dell’etica della vita coniugale, ma, come è già stato detto, indica altresì un
tracciato della spiritualità coniugale, che desideriamo almeno delineare.
4. Il corretto modo di intendere e praticare la
continenza periodica quale virtù (ossia, secondo la Humanae Vitae,
21, la “padronanza di sé”) decide anche essenzialmente della “naturalità” del
metodo, denominato anch’esso “metodo naturale”: questa è “naturalità” a livello
della persona. Non si può quindi pensare a un’applicazione meccanica delle leggi
biologiche. La conoscenza stessa dei “ritmi di fecondità” – anche se
indispensabile – non crea ancora quella libertà interiore del dono, che è di
natura esplicitamente spirituale e dipende dalla maturità dell’uomo interiore.
Questa libertà suppone una capacità tale di dirigere le reazioni sensuali ed
emotive, da rendere possibile la donazione di sé all’altro “io” in
base al possesso maturo del proprio “io” nella sua soggettività corporea ed
emotiva.
5. Come è noto dalle analisi bibliche e teologiche
fatte in precedenza, il corpo umano nella sua mascolinità e femminilità è
interiormente ordinato alla comunione delle persone (“communio personarum”).
In questo consiste il suo significato sponsale.
Proprio il significato sponsale del corpo è stato
deformato, quasi alle sue stesse basi, dalla concupiscenza (in particolare dalla
concupiscenza della carne, nell’ambito della “triplice concupiscenza”). La virtù
della continenza nella sua forma matura svela gradatamente l’aspetto “puro” del
significato sponsale del corpo. In tal modo la continenza sviluppa la
comunione personale dell’uomo e della donna, comunione che non è in grado
di formarsi e di svilupparsi nella piena verità delle sue possibilità
unicamente sul terreno della concupiscenza. Appunto ciò afferma l’enciclica
Humanae Vitae. Tale verità ha due aspetti: quello personalistico e quello
teologico.
Mercoledì, 14 novembre 1984
1. Alla luce dell’enciclica
Humanae Vitae l’elemento fondamentale della spiritualità coniugale è
l’amore effuso nei cuori degli sposi come dono dello Spirito Santo (cf. Rm
5, 5). Gli sposi ricevono nel sacramento questo dono insieme a una particolare
“consacrazione”. L’amore è unito alla castità coniugale che, manifestandosi come
continenza, realizza l’ordine interiore della convivenza coniugale.
La castità è vivere nell’ordine del cuore. Questo
ordine consente lo sviluppo delle “manifestazioni affettive” nella proporzione e
nel significato loro propri. In tal modo viene confermata anche la castità
coniugale come “vita dello Spirito” (cf. Gal 5, 25), secondo
l’espressione di san Paolo. L’apostolo aveva in mente non soltanto le energie
immanenti dello spirito umano, ma soprattutto l’influsso santificante dello
Spirito Santo e i suoi doni particolari.
2. Al centro della spiritualità coniugale sta dunque
la castità, non solo come virtù morale (formata dall’amore), ma parimente come
virtù connessa con i doni dello Spirito Santo - anzitutto con il dono del
rispetto di ciò che viene da Dio (“donum pietatis”). Questo dono è nella
mente dell’autore della Lettera agli Efesini, quando esorta i coniugi ad essere
“sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21). Così
dunque l’ordine interiore della convivenza coniugale, che consente alle
“manifestazioni affettive” di svilupparsi secondo la loro giusta proporzione e
significato, è frutto non solo della virtù in cui i coniugi si
esercitano, ma anche dei doni dello Spirito Santo con cui
collaborano.
L’enciclica Humanae Vitae in alcuni passi del
testo (particolarmente 21; 26), trattando della specifica ascesi coniugale,
ossia dell’impegno per acquistare la virtù dell’amore, della castità e della
continenza, parla indirettamente dei doni dello Spirito Santo, ai quali i
coniugi divengono sensibili nella misura della maturazione nella virtù.
3. Ciò corrisponde alla vocazione dell’uomo al
matrimonio. Quei “due”, i quali - secondo l’espressione più antica della Bibbia
- “saranno una sola carne” (Gen 2, 24), non possono attuare tale unione
al livello delle persone (“communio personarum”), se non mediante le
forze provenienti dallo spirito, e precisamente, dallo Spirito Santo
che purifica, vivifica, corrobora e perfeziona le forze dello spirito umano. “È
lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla” (Gv 6, 63).
Ne risulta che le linee essenziali della
spiritualità coniugale sono “dal principio” iscritte nella verità biblica sul
matrimonio. Tale spiritualità è anche “da principio” aperta ai doni dello
Spirito Santo. Se l’enciclica Humanae Vitae esorta i coniugi ad una
“perseverante preghiera” e alla vita sacramentale (dicendo: “attingano
soprattutto nell’Eucaristia la sorgente della grazia e della carità”; “ricorrano
con umile perseveranza alla misericordia di Dio, che viene elargita nel
sacramento della Penitenza”, Pauli VI, Humanae Vitae, 25), essa lo fa in
quanto è memore dello Spirito che “dà vita” (2 Cor 3, 6).
4. I doni dello Spirito Santo, e in particolare il
dono del rispetto di ciò che è sacro, sembrano avere qui un significato
fondamentale. Tale dono sostiene infatti e sviluppa nei coniugi una singolare
sensibilità a tutto ciò che nella loro vocazione e convivenza porta il
segno del mistero della creazione e redenzione: a tutto ciò che è un
riflesso creato della sapienza e dell’amore di Dio. Pertanto quel dono sembra
iniziare l’uomo e la donna in modo particolarmente profondo al rispetto dei due
significati inscindibili dell’atto coniugale, di cui parla l’enciclica (Humanae
Vitae, 12) in rapporto al sacramento del matrimonio. Il rispetto dei due
significati dell’atto coniugale può svilupparsi pienamente solo in base ad un
profondo riferimento alla dignità personale di ciò che nella persona
umana è intrinseco alla mascolinità e femminilità, e inscindibilmente in
riferimento alla dignità personale della nuova vita, che può sorgere
dall’unione coniugale dell’uomo e della donna. Il dono del rispetto di
quanto è creato da Dio si esprime appunto in tale riferimento.
5. Il rispetto del duplice significato dell’atto
coniugale nel matrimonio, che nasce dal dono del rispetto per la creazione di
Dio, si manifesta anche come timore salvifico: timore di infrangere o di
degradare ciò che porta in sé il segno del mistero divino della creazione e
redenzione. Di tale timore parla appunto l’autore della Lettera agli efesini:
“Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5, 21).
Se tale timore salvifico si associa
immediatamente alla funzione “negativa” della continenza (ossia alla resistenza
nei riguardi della concupiscenza della carne), esso si manifesta pure - e in
misura crescente, via via che tale virtù matura - come sensibilità piena di
venerazione per i valori essenziali dell’unione coniugale: per i “due
significati dell’atto coniugale (ovvero, parlando nel linguaggio delle analisi
precedenti, per la verità interiore del mutuo “linguaggio del corpo”).
In base a un profondo riferimento a questi due
valori essenziali, ciò che significa unione dei coniugi viene armonizzato
nel soggetto con ciò che significa paternità e maternità responsabili. Il
dono del rispetto di ciò che è creato da Dio fa sì che l’apparente
“contraddizione” in questa sfera sparisca e la difficoltà derivante dalla
concupiscenza venga gradatamente superata, grazie alla maturità della virtù e
alla forza del dono dello Spirito Santo.
6. Se si tratta della problematica della cosiddetta
continenza periodica (ossia del ricorso ai “metodi naturali”), il dono del
rispetto per l’opera di Dio aiuta, in linea di massima, a conciliare la dignità
umana con i “ritmi naturali di fecondità”, cioè con la dimensione
biologica della femminilità e mascolinità dei coniugi; dimensione che ha anche
un proprio significato per la verità del mutuo “linguaggio del corpo” nella
convivenza coniugale.
In tal modo, anche ciò che - non tanto nel senso
biblico, quanto addirittura in quello “biologico” - si riferisce all’“unione
coniugale del corpo”, trova la sua forma umanamente matura grazie alla vita
“secondo lo spirito”.
Tutta la pratica dell’onesta regolazione della
fertilità, così strettamente unita alla paternità e maternità responsabili,
fa parte della cristiana spiritualità coniugale e familiare; e
soltanto vivendo “secondo lo Spirito” diventa interiormente vera e autentica.
Mercoledì, 21 novembre 1984
1. Sullo sfondo della dottrina contenuta
nell’enciclica
Humanae Vitae intendiamo tracciare un abbozzo della spiritualità
coniugale. Nella vita spirituale dei coniugi operano anche i doni dello Spirito
Santo e, in particolare, il “donum pietatis”, cioè il dono del rispetto per ciò
che è opera di Dio.
2. Questo dono, unito all’amore e alla castità,
aiuta a identificare, nell’insieme della convivenza coniugale,
quell’atto in cui, almeno potenzialmente, il significato sponsale del corpo
si collega col significato procreativo. Esso orienta a capire, tra le possibili
“manifestazioni di affetto”, il significato singolare, anzi, eccezionale di
quell’atto: la sua dignità e la conseguente grave responsabilità ad esso
connessa. Pertanto, l’antitesi della spiritualità coniugale è costituita, in
certo senso, dalla soggettiva mancanza di tale comprensione, legata alla pratica
e alla mentalità anticoncezionali. Oltre a tutto, ciò è un enorme danno dal
punto di vista dell’interiore cultura dell’uomo. La virtù della castità
coniugale, e ancor più il dono del rispetto per ciò che viene da Dio, modellano
la spiritualità dei coniugi al fine di proteggere la particolare dignità di
questo atto, di questa “manifestazione di affetto”, in cui la verità del
“linguaggio del corpo” può essere espressa solo salvaguardando la potenzialità
procreativa.
La paternità e maternità responsabili significano la
spirituale valutazione - conforme alla verità - dell’atto coniugale nella
coscienza e nella volontà di entrambi i coniugi, che in questa “manifestazione
di affetto”, dopo aver considerato le circostanze interiori ed esterne, in
particolare quelle biologiche, esprimono la loro matura disponibilità alla
paternità e maternità.
3. Il rispetto per l’opera di Dio contribuisce a far
sì che l’atto coniugale non venga sminuito e privato d’interiorità nell’insieme
della convivenza coniugale - che non divenga “abitudine” - e che in esso
si esprima un’adeguata pienezza di contenuti personali ed etici, e anche di
contenuti religiosi, cioè la venerazione alla maestà del Creatore, unico e
ultimo depositario della sorgente della vita, e all’amore sponsale del
Redentore. Tutto ciò crea e allarga, per così dire, lo spazio interiore della
mutua libertà del dono, in cui si manifesta pienamente il significato sponsale
della mascolinità e femminilità.
L’ostacolo a questa libertà è dato dall’interiore
costrizione della concupiscenza, diretta verso l’altro “io” quale oggetto di
godimento. Il rispetto di ciò che è creato da Dio libera da questa costrizione,
libera da tutto ciò che riduce l’altro “io” a semplice oggetto: corrobora la
libertà interiore del dono.
4. Ciò può realizzarsi soltanto attraverso una
profonda comprensione della dignità personale, sia dell’“io” femminile
che di quello maschile, nella reciproca convivenza. Tale comprensione spirituale
è il frutto fondamentale del dono dello Spirito che spinge la persona a
rispettare l’opera di Dio. Da tale comprensione, e dunque indirettamente da quel
dono, attingono il vero significato sponsale tutte le “manifestazioni
affettive”, che costituiscono la trama del perdurare dell’unione coniugale.
Questa unione si esprime attraverso l’atto coniugale solo in circostanze
determinate, ma può e deve manifestarsi continuamente, ogni giorno, attraverso
varie “manifestazioni affettive”, le quali sono determinate dalla capacità di
una “disinteressata” emozione dell’“io” in rapporto alla femminilità e -
reciprocamente - in rapporto alla mascolinità.
L’atteggiamento di rispetto per l’opera di Dio,
che lo Spirito suscita nei coniugi, ha un enorme significato per quelle
“manifestazioni affettive”, poiché di pari passo con esso va la capacità del
profondo compiacimento, dell’ammirazione, della disinteressata attenzione alla
“visibile” bellezza della femminilità e mascolinità, e infine un profondo
apprezzamento del dono disinteressato dell’“altro”.
5. Tutto ciò decide della identificazione spirituale
di ciò che è maschile o femminile, di ciò che è “corporeo” e insieme spirituale.
Da questa spirituale identificazione emerge la consapevolezza
dell’unione “attraverso il corpo”, nella tutela della libertà interiore del
dono. Mediante le “manifestazioni affettive” i coniugi si aiutano
vicendevolmente a perdurare nell’unione, e al tempo stesso queste
“manifestazioni” proteggono in ciascuno quella “pace del profondo” che è, in
certo senso, la risonanza interiore della castità guidata dal dono del rispetto
per ciò che è creato da Dio.
Questo dono comporta una profonda e universale
attenzione alla persona nella sua mascolinità e femminilità, creando così il
clima interiore idoneo alla comunione personale. Solo in tale clima di comunione
personale dei coniugi matura correttamente quella procreazione, che
qualifichiamo come “responsabile”.
6. L’enciclica Humanae Vitae ci consente di
tracciare un abbozzo della spiritualità coniugale. Questo è il clima umano e
soprannaturale in cui - tenendo conto dell’ordine “biologico” e, ad un tempo, in
base alla castità sostenuta dal “donum pietatis” - si plasma l’interiore
armonia del matrimonio, nel rispetto di ciò che l’enciclica chiama “duplice
significato dell’atto coniugale” (Pauli VI, Humanae Vitae, 12). Questa
armonia significa che i coniugi convivono insieme nell’interiore verità del
“linguaggio del corpo”. L’enciclica Humanae Vitae proclama inscindibile
la connessione tra questa “verità” e l’amore.
Mercoledì, 28 novembre 1984
1. L’insieme delle catechesi che ho iniziato da
oltre quattro anni e che oggi concludo, può essere compreso sotto il titolo:
“L’amore umano nel piano divino”, o con maggior precisione: “La redenzione del
corpo e la sacramentalità del matrimonio”. Esse si dividono in due parti.
La prima parte è dedicata all’analisi
delle parole di Cristo, che risultano adatte ad aprire il tema presente.
Queste parole sono state analizzate a lungo nella globalità del testo
evangelico: e in seguito alla pluriennale riflessione si è convenuto di porre in
rilievo i tre testi, che sono sottoposti all’analisi appunto nella prima parte
delle catechesi. C’è anzitutto il testo in cui Cristo si riferisce “al
principio” nel colloquio con i farisei sull’unità e indissolubilità del
matrimonio (cf. Mt 19, 8; Mc 10, 6-9). Proseguendo, ci sono le
parole pronunziate da Cristo nel discorso della montagna sulla “concupiscenza”
come “adulterio commesso nel cuore” (cf. Mt 5, 28). Infine, ci sono le
parole trasmesse da tutti i sinottici, in cui Cristo si richiama alla
risurrezione dei corpi nell’“altro mondo” (cf. Mt 22, 30; Mc 12,
25; Lc 20, 35).
La parte seconda della catechesi è stata
dedicata all’analisi del sacramento in base alla Lettera agli Efesini (Ef
5, 22-33) che si riporta al biblico “principio” del matrimonio espresso nelle
parole del libro della Genesi: “. . . l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e
si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (Gen 2, 24).
Le catechesi della prima e della seconda parte si
servono ripetutamente del termine teologia del corpo. Questo, in certo senso, è
un termine “di lavoro”. L’introduzione del termine e del concetto di “teologia
del corpo” era necessaria per fondare il tema: “La redenzione del corpo e la
sacramentalità del matrimonio” su una base più ampia. Bisogna infatti osservare
subito che il termine “teologia del corpo” oltrepassa ampiamente il contenuto
delle riflessioni fatte. Queste riflessioni non comprendono molteplici problemi
che, riguardo al loro oggetto, appartengono alla teologia del corpo (come per
esempio il problema della sofferenza e della morte, così rilevante nel messaggio
biblico). Occorre dirlo chiaramente. Nondimeno, bisogna anche riconoscere in
modo esplicito che le riflessioni sul tema: “La redenzione del corpo e la
sacramentalità del matrimonio” possono essere svolte correttamente, partendo dal
momento in cui la luce della rivelazione tocca la realtà del corpo umano (ossia
sulla base della “teologia del corpo”). Ciò è confermato, tra l’altro, dalle
parole del libro della Genesi: “I due saranno una sola carne”, parole che
originariamente e tematicamente stanno alla base del nostro argomento.
2. Le riflessioni sul sacramento del matrimonio sono
state condotte nella considerazione delle due dimensioni essenziali a
questo sacramento (come ad ogni altro), cioè la dimensione dell’alleanza
e della grazia e la dimensione del segno.
Attraverso queste due dimensioni siamo
risaliti continuamente alle riflessioni sulla teologia del corpo, unite alle
parole-chiave di Cristo. A queste riflessioni siamo risaliti anche
intraprendendo, alla fine di tutto questo ciclo di catechesi, l’analisi
dell’enciclica
Humanae Vitae.
La dottrina contenuta in questo documento
dell’insegnamento contemporaneo della Chiesa resta in rapporto organico sia con
la sacramentalità del matrimonio sia con tutta la problematica biblica della
teologia del corpo, centrata sulle “parole-chiave” di Cristo. In un certo senso
si può perfino dire che tutte le riflessioni che trattano della “redenzione del
corpo e della sacramentalità del matrimonio”, sembrano costituire un
ampio commento alla dottrina contenuta appunto nell’enciclica Humanae
Vitae.
Tale commento sembra assai necessario. L’enciclica
infatti, nel dare risposta ad alcuni interrogativi di oggi nell’ambito della
morale coniugale e familiare, al tempo stesso ha suscitato anche altri
interrogativi, come sappiamo, di natura bio-medica. Ma anche (e anzitutto)
essi sono di natura teologica; appartengono a quell’ambito dell’antropologia
e teologia, che abbiamo denominato “teologia del corpo”.
Le riflessioni fatte consistono nell’affrontare gli
interrogativi sorti in rapporto all’enciclica Humanae Vitae. La reazione,
che ha suscitato l’enciclica, conferma l’importanza e la difficoltà di questi
interrogativi. Essi sono riaffermati anche dagli ulteriori enunciati di Paolo VI,
ove egli rilevava la possibilità di approfondire l’esposizione della verità
cristiana in questo settore.
Lo ha ribadito inoltre l’esortazione
Familiaris Consortio, frutto del Sinodo dei vescovi del 1980: “De
muneribus familiae christianae”. Il documento contiene un appello, diretto
particolarmente ai teologi, a elaborare in modo più completo gli aspetti
biblici e personalistici della dottrina contenuta nella Humanae Vitae.
Cogliere gli interrogativi suscitati dall’enciclica
vuol dire formularli e al tempo stesso ricercarne la risposta. La dottrina
contenuta nella Familiaris Consortio chiede che sia la formulazione degli
interrogativi, sia la ricerca di un’adeguata risposta si concentrino sugli
aspetti biblici e personalistici. Tale dottrina indica anche l’indirizzo di
sviluppo della teologia del corpo, la direzione dello sviluppo e pertanto anche
la direzione del suo progressivo completarsi e approfondirsi.
3. L’analisi degli aspetti biblici parla del
modo di radicare la dottrina proclamata dalla Chiesa contemporanea nella
rivelazione. Ciò è importante per lo sviluppo della teologia. Lo
sviluppo, ossia il progresso nella teologia, si attua infatti attraverso un
continuo riprendere lo studio del deposito rivelato.
Il radicamento della dottrina proclamata dalla
Chiesa in tutta la tradizione e nella stessa rivelazione divina è sempre aperto
agli interrogativi posti dall’uomo e si serve anche degli strumenti più conformi
alla scienza moderna e alla cultura di oggi. Sembra che in questo settore
l’intenso sviluppo dell’antropologia filosofica (in particolare
dell’antropologia che sta alla base dell’etica) s’incontri molto da vicino
con gli interrogativi suscitati dall’enciclica Humanae Vitae nei
riguardi della teologia e specialmente dell’etica teologica.
L’analisi degli aspetti personalistici della
dottrina contenuta in questo documento ha un significato esistenziale per
stabilire in che cosa consista il vero progresso, cioè lo sviluppo dell’uomo.
Esiste infatti in tutta la civiltà contemporanea - specie nella civiltà
occidentale - un’occulta e insieme abbastanza esplicita tendenza a misurare
questo progresso con la misura delle “cose”, cioè dei beni materiali.
L’analisi degli aspetti personalistici della
dottrina della Chiesa, contenuta nell’enciclica di Paolo VI, mette in evidenza
un appello risoluto a misurare il progresso dell’uomo con la misura della
“persona”, ossia di ciò che è un bene dell’uomo come uomo, che corrisponde alla
sua essenziale dignità. L’analisi degli aspetti personalistici porta alla
convinzione che l’enciclica presenta come problema fondamentale il punto
di vista dell’autentico sviluppo dell’uomo; tale sviluppo si misura
infatti, in linea di massima, con la misura dell’etica e non soltanto della
“tecnica”.
4. Le catechesi dedicate all’enciclica Humanae
Vitae costituiscono solo una parte, la parte finale, di quelle che hanno
trattato della redenzione del corpo e la sacramentalità del matrimonio.
Se richiamo particolarmente l’attenzione proprio a
queste ultime catechesi, lo faccio non solo perché il tema da esse trattato è
più strettamente unito alla nostra contemporaneità, ma anzitutto per il fatto
che da esso provengono gli interrogativi, che permeano, in certo senso,
l’insieme delle nostre riflessioni. Ne consegue che questa parte finale non è
artificiosamente aggiunta all’insieme, ma è unita con esso in modo organico e
omogeneo. In certo senso, quella parte che nella disposizione complessiva è
collocata alla fine, si trova in pari tempo all’inizio di quest’insieme. Ciò è
importante dal punto di vista della struttura e del metodo.
Anche il momento storico sembra avere il suo
significato: difatti, le presenti catechesi sono state iniziate nel periodo dei
preparativi al Sinodo dei vescovi 1980 sul tema del matrimonio e della
famiglia (“De muneribus familiae christianae”), e terminano dopo la
pubblicazione dell’esortazione Familiaris Consortio, che è frutto di
lavori di questo Sinodo. È a tutti noto che il Sinodo del 1980 ha fatto
riferimento anche all’enciclica Humanae Vitae e ne ha riconfermato
pienamente la dottrina.
Tuttavia il momento più importante sembra quello
essenziale, che, nell’insieme delle riflessioni compiute, si può precisare nel
modo seguente: per affrontare gli interrogativi che suscita l’enciclica
Humanae Vitae, soprattutto in teologia, per formulare tali interrogativi e
cercarne la risposta, occorre trovare quell’ambito biblico teologico, a
cui si allude quando parliamo di “redenzione del corpo e di sacramentalità del
matrimonio”. In questo ambito si trovano le risposte ai perenni interrogativi
della coscienza di uomini e donne, e anche ai difficili interrogativi del nostro
mondo contemporaneo a riguardo del matrimonio e della procreazione.
F I N E
Catechesi di Papa Giovanni
Paolo II
" L'AMORE UMANO NEL PIANO
DIVINO "
"la redenzione del corpo e la
sacramentalità del matrimonio"
( la Teologia del Corpo )
Fonte : www.vatican.va
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