PAPA GIOVANNI PAOLO II
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LA TEOLOGIA DEL CORPO
Udienze Generali
(Udienze Generali 1979 - 1984)
Catechesi di Papa Giovanni
Paolo II
" L'AMORE UMANO NEL PIANO
DIVINO "
"la redenzione del corpo e la
sacramentalità del matrimonio"
PRIMA PARTE
ANALISI DELLE PAROLE DI
CRISTO
PRIMO CICLO
L’unità
originaria dell’uomo e della donna
"Catechesi sul Libro della Genesi"
SECONDO CICLO
La redenzione
del cuore
(Teologia del
corpo dell'uomo decaduto e redento)
TERZO CICLO
La risurrezione della carne
(Teologia del
corpo dell'uomo dell'uomo risorto, pienamente redento e ri-creato)
QUARTO CICLO
La verginità cristiana
QUINTO CICLO
Il matrimonio cristiano
(il sacramento
del matrimonio nella dimensione dell'Alleanza,
della Grazia e del Segno)
SESTO CICLO
Amore Sponsale
(riflessioni su Il Cantico dei Cantici e il
Libro di Tobia)
SETTIMO CICLO
Amore e fecondità
(Rilettura ed
approfondimenti di "humanae vitae" e abbozzi di spiritualità familiare e
coniugale alla luce dell'enciclica)
PRIMA
PARTE
ANALISI DELLE PAROLE DI CRISTO
PRIMO CICLO
L’unità originaria dell’uomo e della donna
"Catechesi sul Libro della
Genesi"
Mercoledì, 5
settembre 1979
1. Da un certo tempo sono in corso i
preparativi per la prossima assemblea ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si
svolgerà a Roma nell’autunno dell’anno venturo. Il tema del Sinodo: “De
muneribus familiae christianae” (Doveri della famiglia cristiana) concentra la
nostra attenzione su tale comunità della vita umana e cristiana, che sin da
principio è fondamentale. Proprio di questa espressione “da principio” si è
servito il Signore Gesù nel colloquio sul matrimonio, riportato nel Vangelo di
San Matteo e da quello di San Marco. Vogliamo chiederci che cosa significhi
questa parola: “principio”. Vogliamo inoltre chiarire perché Cristo si richiami
al “principio” appunto in quella circostanza e, pertanto, ci proponiamo una più
precisa analisi del relativo testo della Sacra Scrittura.
2. Due volte, durante il colloquio
con i farisei, che gli ponevano il quesito sulla indissolubilità del matrimonio,
Gesù Cristo si è riferito al “principio”. Il colloquio si è svolto nel modo
seguente: “...gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli
chiesero: “E lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi
motivo?”. Ed egli rispose: “Non avete letto che il Creatore da principio li creò
maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si
unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più due, ma
una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi”. Gli
obiettarono: “Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di
mandarla via?”. Rispose loro Gesù: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha
permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così”” (Mt
19,3ss.; cf. Mc 10,2ss.).
Cristo non accetta la discussione al
livello nel quale i suoi interlocutori cercano di introdurla, in certo senso non
approva la dimensione che essi hanno cercato di dare al problema. Evita di
impigliarsi nelle controversie giuridico-casistiche; e invece si richiama due
volte al “principio”. Agendo così, fa chiaro riferimento alle relative parole
del Libro della Genesi che anche i suoi interlocutori conoscono a memoria. Da
quelle parole dell’antichissima rivelazione, Cristo trae la conclusione e il
colloquio si chiude.
3. “Principio” significa quindi ciò
di cui parla il Libro della Genesi. È dunque la Genesi 1,27 che Cristo cita, in
forma riassuntiva: “Il Creatore da principio li creò maschio e femmina”, mentre
il brano originario completo suona testualmente così: “Dio creò l’uomo a sua
immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”. In seguito, il
Maestro si richiama alla Genesi 2,24: “Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e
sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”. Citando
queste parole quasi “in extenso”, per intero, Cristo dà loro un ancor più
esplicito significato normativo (dato che sarebbe ipotizzabile che nel Libro
della Genesi suonino come affermazioni di fatto: “abbandonerà... si unirà...
saranno una sola carne”). Il significato normativo è plausibile in quanto Cristo
non si limita soltanto alla citazione stessa, ma aggiunge: “Così che non sono
più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo
separi”. Quel “non lo separi” è determinante. Alla luce di questa parola di
Cristo, la Genesi 2,24 enuncia il principio dell’unità e indissolubilità del
matrimonio come il contenuto stesso della parola di Dio, espressa nella più
antica rivelazione.
4. Si potrebbe a questo punto
sostenere che il problema sia esaurito, che le parole di Gesù Cristo confermino
l’eterna legge formulata e istituita da Dio da “principio” come la creazione
dell’uomo. Potrebbe anche sembrare che il Maestro, nel confermare questa
primordiale legge del Creatore, non faccia altro che stabilire esclusivamente il
suo proprio senso normativo, richiamandosi all’autorità stessa del primo
Legislatore. Tuttavia, quella espressione significativa: “da principio”,
ripetuta due volte, induce chiaramente gli interlocutori a riflettere sul modo
in cui nel mistero della creazione è stato plasmato l’uomo, appunto, come
“maschio e femmina”, per capire correttamente il senso normativo delle parole
della Genesi. E questo non è meno valido per gli interlocutori di oggi quanto
non sia stato per quelli di allora. Pertanto, nel presente studio, considerando
tutto ciò, dobbiamo metterci proprio nella posizione degli odierni interlocutori
di Cristo.
5. Durante le successive riflessioni
del mercoledì, nelle udienze generali, cercheremo, come odierni interlocutori di
Cristo, di fermarci più a lungo sulle parole di San Matteo (Mt 19,3ss.). Per
rispondere all’indicazione, che Cristo ha in esse racchiuso, cercheremo di
addentrarci verso quel “principio”, al quale egli si è riferito in modo tanto
significativo; e così seguiremo da lontano il gran lavoro, che su questo tema
proprio adesso intraprendono i partecipanti al prossimo Sinodo dei Vescovi.
Insieme a loro vi prendono parte numerosi gruppi di pastori e di laici, che si
sentono particolarmente responsabili circa i compiti, che Cristo pone al
matrimonio e alla famiglia cristiana; i compiti che egli ha posto sempre, e pone
anche nella nostra epoca, nel mondo contemporaneo.
Il ciclo di riflessioni che iniziamo
oggi, con l’intenzione di continuarlo durante i successivi incontri del
mercoledì, ha anche, tra l’altro, come scopo di accompagnare, per così dire da
lontano, i lavori preparatori al Sinodo, non toccandone però direttamente il
tema, ma volgendo l’attenzione alle profonde radici, da cui questo tema
scaturisce.
Mercoledì, 12
settembre 1979
Mercoledì scorso abbiamo iniziato il
ciclo di riflessioni sulla risposta che Cristo Signore diede ai suoi
interlocutori circa la domanda sull’unità e indissolubilità del matrimonio. Gli
interlocutori farisei, come ricordiamo, si sono appellati alla legge di Mosè;
Cristo invece si è richiamato al “principio”, citando le parole del Libro della
Genesi.
Il “principio”, in questo caso,
riguarda ciò di cui tratta una delle prime pagine del Libro della Genesi. Se
vogliamo fare un’analisi di questa realtà, dobbiamo senz’altro rivolgerci
anzitutto al testo. Infatti le parole pronunziate da Cristo nel colloquio con i
farisei, che il capo 19 di Matteo e il capo 10 di Marco ci hanno riportato,
costituiscono un passo che a sua volta si inquadra in un contesto ben definito,
senza il quale non possono essere né intese né giustamente interpretate. Questo
contesto è dato dalle parole; “Non avete letto che il Creatore da principio li
creò maschio e femmina...?” (Mt 19,4), e fa riferimento al cosiddetto primo
racconto della creazione dell’uomo, inserito nel ciclo dei sette giorni della
creazione del mondo (Gen 1,1-2.4). Invece, il contesto più prossimo alle altre
parole di Cristo, tratte da Genesi 2,24, è il cosiddetto secondo racconto della
creazione dell’uomo (Gen 2,5-25), ma indirettamente è tutto il terzo capitolo
della Genesi. Il secondo racconto della creazione dell’uomo forma una unità
concettuale e stilistica con la descrizione dell’innocenza originaria, della
felicità dell’uomo ed anche della sua prima caduta. Data la specificità del
contenuto espresso nelle parole di Cristo, prese da Genesi 2,24, si potrebbe
anche includere nel contesto almeno la prima frase del capitolo quarto della
Genesi, che tratta del concepimento e della nascita dell’uomo dai genitori
terrestri. Così noi intendiamo fare nella presente analisi.
2. Dal punto di vista della critica
biblica, bisogna subito ricordare che il primo racconto della creazione
dell’uomo è cronologicamente posteriore al secondo. L’origine di quest’ultimo è
molto più remota. Tale testo più antico si definisce come “jahvista”, perché per
denominare Dio si serve del termine “Jahvè”. È difficile non restare
impressionati dal fatto che l’immagine di Dio ivi presentata ha dei tratti
antropomorfici abbastanza rilevanti (tra l’altro vi leggiamo infatti che “...il
Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue (Gen 2,7). In
confronto a questa descrizione, il primo racconto, cioè proprio quello ritenuto
cronologicamente più recente, è molto più maturo sia per quanto riguarda
l’immagine di Dio, sia nella formulazione delle verità essenziali sull’uomo.
Questo racconto proviene dalla tradizione sacerdotale e insieme “elohista”, da “Elohim”,
termine da esso usato per denominare Dio.
3. Dato che in questa narrazione la
creazione dell’uomo come maschio e femmina, alla quale si riferisce Gesù nella
sua risposta secondo Matteo 19, è inserita nel ritmo dei sette giorni della
creazione del mondo, le si potrebbe attribuire soprattutto un carattere
cosmologico; l’uomo viene creato sulla terra e insieme al mondo visibile. Ma
nello stesso tempo il Creatore gli ordina di soggiogare e dominare la terra (cf.
Gen 1,28): egli è quindi posto al di sopra del mondo. Sebbene l’uomo sia così
strettamente legato al mondo visibile, tuttavia la narrazione biblica non parla
della sua somiglianza col resto delle creature, ma solamente con Dio (“Dio creò
l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò...” (Gen 1,27). Nel ciclo dei
sette giorni della creazione è evidente una precisa gradualità (Parlando della
materia non vivificata, l’autore biblico adopera differenti predicati, come
“separò”, “chiamò”, “fece”, “pose”. Parlando invece degli esseri dotati di vita
usa i termini “creò” e “benedisse”. Dio ordina loro: “Siate fecondi e
moltiplicatevi”. Questo ordine si riferisce sia agli animali, sia all’uomo,
indicando che la corporalità è comune a loro [cf. Gen 1,27-28]. Tuttavia la
creazione dell’uomo si distingue essenzialmente, nella descrizione biblica,
dalle precedenti opere di Dio. Non soltanto è preceduta da una solenne
introduzione, come se si trattasse di una deliberazione di Dio prima di questo
atto importante, ma soprattutto l’eccezionale dignità dell’uomo viene messa in
rilievo dalla “somiglianza” con Dio di cui è l’immagine. Creando la materia non
vivificata Dio “separava”, agli animali ordina di essere fecondi e di
moltiplicarsi, ma la differenza del sesso è sottolineata soltanto nei confronti
dell’uomo [“maschio e femmina li creò”] benedicendo nello stesso tempo la loro
fecondità, cioè il vincolo delle persone [Gen 1,27-28]; l’uomo invece non viene
creato secondo una naturale successione, ma il Creatore sembra arrestarsi prima
di chiamarlo all’esistenza, come se rientrasse in se stesso per prendere una
decisione: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza...” (Gen
1,26).
4. Il livello di quel primo racconto
della creazione dell’uomo, anche se cronologicamente posteriore, è soprattutto
di carattere teologico. Ne è indice soprattutto la definizione dell’uomo sulla
base del suo rapporto con Dio (“a immagine di Dio lo creò”), il che racchiude
contemporaneamente l’affermazione dell’assoluta impossibilità di ridurre l’uomo
al “mondo”. Già alla luce delle prime frasi della Bibbia, l’uomo non può essere
né compreso né spiegato fino in fondo con le categorie desunte dal “mondo”, cioè
dal complesso visibile dei corpi. Nonostante ciò anche l’uomo è corpo. Genesi
1,27 constata che questa verità essenziale circa l’uomo si riferisce tanto al
maschio che alla femmina: “Dio creò l’uomo a sua immagine... maschio e femmina
li creò” (Il testo originale dice: “Dio creò l’uomo [ha-adam – sostantivo
collettivo: l’“umanità”?], a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschi [zakar
– maschile] e femmina [uneqebah – femminile] li creò” [Gen 1,27]. Bisogna
riconoscere che il primo racconto è conciso, libero da qualsiasi traccia di
soggettivismo: contiene soltanto il fatto oggettivo e definisce la realtà
oggettiva, sia quando parla della creazione dell’uomo, maschio e femmina, ad
immagine di Dio, sia quando vi aggiunge poco dopo le parole della prima
benedizione: “Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra; soggiogatela e dominate”” (Gen 1,28).
5. Il primo racconto della creazione
dell’uomo, che, come abbiamo constatato, è di indole teologica, nasconde in sé
una potente carica metafisica. Non si dimentichi che proprio questo testo del
Libro della Genesi è diventato la sorgente delle più profonde ispirazioni per i
pensatori che hanno cercato di comprendere l’“essere” e l’“esistere” (forse
soltanto il capitolo terzo del libro dell’Esodo può reggere il confronto con
questo testo) (“Haec sublimis veritas”: “Io sono colui che sono” [Es 3,14]
costituisce oggetto di riflessione di molti filosofi, incominciando da
Sant’Agostino, il quale riteneva che Platone dovesse conoscere questo testo
perché gli sembrava tanto vicino alle sue concezioni. La dottrina agostiniana
della divina “essentialitas” ha esercitato, mediante Sant’Anselmo, un profondo
influsso sulla teologia di Riccardo da S. Vittore, di Alessandro di Hales e di
S. Bonaventura. “Pour passer de cette interprétation philosophique du texte de
l’Exode à celle qu’allait proposer saint Thomas il fallait nécessairement
franchir la distance qui sépare “l’être de l’essence” de “l’être de l’existence”.
Les preuves thomistes de l’existence de Dieu l’ont franchie”. Diversa è la
posizione di Maestro Eckhart, che sulla base di questo testo attribuisce a Dio
la “puritas essendi”: “est aliquid altius ente... ” [cf. E. Gilson, Le
Thomisme, Paris 1944 [Vrin], pp. 122-127; E. Gilson, History of Christian
Philosophy in the Middle Ages, London 1955 [Sheed and Ward], 810]).
Nonostante alcune espressioni particolareggiate e plastiche del brano, l’uomo vi
è definito prima di tutto nelle dimensioni dell’essere e dell’esistere (“esse”).
È definito in modo più metafisico che fisico. Al mistero della sua creazione (“a
immagine di Dio lo creò”) corrisponde la prospettiva della procreazione (“siate
fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra”), di quel divenire nel mondo e nel
tempo, di quel “fieri” che è necessariamente legato alla situazione metafisica
della creazione: dell’essere contingente (“contingens”). Proprio in tale
contesto metafisico della descrizione di Genesi 1, bisogna intendere l’entità
del bene, cioè l’aspetto del valore. Infatti, questo aspetto torna nel ritmo di
quasi tutti i giorni della creazione e raggiunge il culmine dopo la creazione
dell’uomo: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen
1,31). Per cui si può dire con certezza che il primo capitolo della Genesi ha
formato un punto inoppugnabile di riferimento e la solida base per una
metafisica ed anche per un’antropologia e un’etica, secondo la quale “ens et
bonum convertuntur”. Senz’altro, tutto ciò ha un suo significato anche per la
teologia e soprattutto per la teologia del corpo.
6. A questo punto interrompiamo le
nostre considerazioni. Tra una settimana ci occuperemo del secondo racconto
della creazione, cioè di quello che, secondo i biblisti, è cronologicamente più
antico. L’espressione “teologia del corpo”, or ora usata, merita una spiegazione
più esatta, ma la rimandiamo ad un altro incontro. Dobbiamo prima cercare di
approfondire quel passo del Libro della Genesi, al quale Cristo si è
richiamato.
Mercoledì, 19
settembre 1979
1. In riferimento alle parole di
Cristo sul tema del matrimonio, in cui egli si richiama al “principio”, abbiamo
rivolto la nostra attenzione, una settimana fa, al primo racconto della
creazione dell’uomo nel Libro della Genesi (Gen 1) Oggi passeremo al secondo
racconto il quale, poiché Dio vi è chiamato “Jahvè”, viene spesso definito
“jahvista”.
Il secondo racconto della creazione
dell’uomo (legato alla presentazione sia dell’innocenza e felicità originarie
che della prima caduta) ha per sua natura un carattere diverso. Pur non volendo
anticipare i particolari di questa narrazione – perché ci converrà richiamarli
nelle ulteriori analisi – dobbiamo constatare che tutto il testo, nel formulare
la verità sull’uomo, ci stupisce con la sua tipica profondità, diversa da quella
del primo capitolo della Genesi. Si può dire che è una profondità di natura
soprattutto soggettiva e quindi, in certo senso, psicologica. Il capitolo 2
della Genesi costituisce, in certo qual modo, la più antica descrizione e
registrazione dell’auto-comprensione dell’uomo e, insieme al capitolo 3, è la
prima testimonianza della coscienza umana. Con una approfondita riflessione su
questo testo – attraverso tutta la forma arcaica della narrazione, che manifesta
il suo primitivo carattere mitico (Se nel linguaggio del razionalismo del XIX
secolo il termine “mito” indicava ciò che non si conteneva nella realtà, il
prodotto di immaginazione [Wundt], o ciò che è irrazionale [Lévy-Bruhl], il
secolo XX ha modificato la concezione del mito. L. Walk vede nel mito la
filosofia naturale, primitiva e areligiosa; R. Otto lo considera strumento di
conoscenza religiosa; per C. G. Jung invece il mito è manifestazione degli
archetipi e l’espressione dell’“inconscio collettivo”, simbolo dei processi
interiori. M. Eliade scopre nel mito la struttura della realtà che è
inaccessibile all’indagine razionale ed empirica: il mito infatti trasforma
l’evento in categoria e rende capaci di percepire la realtà trascendente; non è
soltanto simbolo dei processi interiori [come afferma Jung], ma un atto autonomo
e creativo dello spirito umano, mediante il quale si attua la rivelazione [cf.
Traité d’histoire des religiones, Paris 1949, p. 363; Images et
symboles, Paris 1952, pp. 199-235]. Secondo P. Tillich il mito è un simbolo,
costituito dagli elementi della realtà per presentare l’assoluto e la
trascendenza dell’essere, ai quali tende l’atto religioso. H. Schlier sottolinea
che il mito non conosce i fatti storici e non ne ha bisogno, in quanto descrive
ciò che è destino cosmico dell’uomo che è sempre tale e quale. Infine il mito
tende a conoscere ciò che è inconoscibile.) – vi troviamo “in nucleo” quasi
tutti gli elementi dell’analisi dell’uomo, ai quali è sensibile l’antropologia
filosofica moderna e soprattutto contemporanea. Si potrebbe dire che Genesi 2
presenta la creazione dell’uomo specialmente nell’aspetto della sua
soggettività. Confrontando insieme ambedue i racconti, giungiamo alla
convinzione che questa soggettività corrisponde all’oggettiva realtà dell’uomo
creato “a immagine di Dio”. E anche questo fatto è – in un altro modo –
importante per la teologia del corpo, come vedremo nelle analisi seguenti.
2. È significativo che il Cristo,
nella sua risposta ai farisei in cui si richiama al “principio”, indica
innanzitutto la creazione dell’uomo con riferimento a Genesi 1,27: “Il Creatore
da principio li creò maschio e femmina”; soltanto in seguito cita il testo di
Genesi 2,24. Le parole, che direttamente descrivono l’unità e indissolubilità
del matrimonio, si trovano nell’immediato contesto del secondo racconto della
creazione, il cui tratto caratteristico è la creazione separata della donna
(cf.Gen 2,18-23), mentre il racconto della creazione del primo uomo (maschio) si
trova in Genesi 2,5-7. Questo primo essere umano la Bibbia lo chiama “uomo”
(“‘adam”), mentre invece dal momento della creazione della prima donna, comincia
a chiamarlo “maschio”, “‘is”, in relazione a “‘iššâ” (“femmina”, perché è stata
tolta dal maschio = “‘iš”) (Quanto all’etimologia, non è escluso che il termine
ebraico “‘iš” derivi da una radice che significa “forza” [“‘iš” oppure “‘wš”];
invece “‘iššâ” è legata ad una serie di termini semitici, il cui significato
oscilla tra “femmina” e “moglie”. L’etimologia proposta dal testo biblico è di
carattere popolare e serve a sottolineare l’unità della provenienza dell’uomo e
della donna; ciò sembra confermato dall’assonanza di ambedue le voci.). Ed è
anche significativo che, riferendosi a Genesi 2,24, Cristo non soltanto collega
il “principio” col mistero della creazione, ma anche ci conduce, per così dire,
al confine della primitiva innocenza dell’uomo e del peccato originale.
La seconda descrizione della
creazione dell’uomo è stata fissata nel Libro della Genesi proprio in tale
contesto. Vi leggiamo innanzitutto: “Il Signore Dio plasmò con la costola, che
aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse:
“Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà
donna perché dall’uomo è stata tolta”” (Gen 2,22-23).
“Per questo l’uomo abbandonerà suo
padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (Gen
2,24).
“Ora tutti e due erano nudi, l’uomo
e sua moglie, ma non provavano vergogna” (Gen 2,25).
3. In seguito, immediatamente dopo
questi versetti, inizia Genesi 3, il racconto della prima caduta dell’uomo e
della donna, collegato con l’albero misterioso, che già prima è stato chiamato
“albero della conoscenza del bene e del male” (Gen 2,17). Con ciò emerge una
situazione completamente nuova, essenzialmente diversa da quella precedente.
L’albero della conoscenza del bene e del male è una linea di demarcazione tra le
due situazioni originarie, di cui parla il libro della Genesi. La prima
situazione è quella dell’innocenza originaria, in cui l’uomo (maschio e femmina)
si trova quasi al di fuori della conoscenza del bene e del male, fino al momento
in cui non trasgredisce la proibizione del Creatore e non mangia il frutto
dell’albero della conoscenza. La seconda situazione, invece, è quella in cui
l’uomo, dopo aver trasgredito il comando del Creatore per suggerimento dello
spirito maligno simboleggiato dal serpente, si trova, in un certo modo, dentro
la conoscenza del bene e del male. Questa seconda situazione determina lo stato
di peccaminosità umana, contrapposto allo stato di innocenza primitiva.
Sebbene il testo jahvista sia
nell’insieme molto conciso, basta però a differenziare e a contrapporre con
chiarezza quelle due situazioni originarie. Parliamo qui di situazioni, avendo
davanti agli occhi il racconto che è una descrizione di eventi. Nondimeno
attraverso questa descrizione e tutti i suoi particolari, emerge la differenza
essenziale tra lo stato di peccaminosità dell’uomo e quello della sua innocenza
originaria (“Lo stesso linguaggio religioso richiede la trasposizione da
“immagini” o piuttosto “modalità simboliche” a “modalità concettuali” di
espressione. A prima vista questa trasposizione può sembrare un cambiamento
puramente “estrinseco”... Il linguaggio simbolico sembra inadeguato a prendere
la via del concetto per un motivo che è peculiare della cultura occidentale. In
questa cultura il linguaggio religioso è sempre stato condizionato da un altro
linguaggio, quello filosofico, che è il linguaggio concettuale “per
eccellenza”... Se è vero che un vocabolario religioso è compreso solo in una
comunità che lo interpreta e secondo una tradizione di interpretazione, è vero
però anche che non esiste tradizione di interpretazione che non sia “mediata” da
qualche concezione filosofica. Ecco che la parola “Dio”, che nei testi biblici
riceve il suo significato dalla “convergenza” di diversi modi del discorso
[racconti e profezie, testi di legislazione e letteratura sapienziale, proverbi
ed inni], – vista, questa convergenza, sia come il punto di intersezione che
come l’orizzonte sfuggente ad ogni e qualsiasi forma – dovette essere assorbita
nello spazio concettuale, per essere reinterpretata nei termini dell’Assoluto
filosofico, come primo motore, causa prima, “Actus essendi”, essere perfetto,
ecc. Il nostro concetto di Dio appartiene quindi ad una onto-teologia, nella
quale si organizza l’intera costellazione delle parole-chiave della semantica
teologica, ma in una cornice di significati dettati dalla metafisica” [P. Ricœur,
Ermeneutica biblica, Morcelliana, Brescia 1978, pp. 140-141; tit. orig.:
Biblical Ermeneutics, Montana 1975]. La questione, se la riduzione
metafisica esprima realmente il contenuto che nasconde in sé il linguaggio
simbolico e metaforico, è un tema a parte.). La teologia sistematica scorgerà in
queste due situazioni antitetiche due diversi stati della natura umana: “status
naturae integrae” (stato di natura integra) e “status naturae lapsae” (stato di
natura decaduta). Tutto ciò emerge da quel testo jahvista di Genesi 2 e 3, che
racchiude in sé la più antica parola della rivelazione, ed evidentemente ha un
significato fondamentale per la teologia dell’uomo e per la teologia del corpo.
4. Quando Cristo, riferendosi al
“principio”, indirizza i suoi interlocutori alle parole scritte in Genesi 2,24,
ordina loro, in certo senso, di oltrepassare il confine che, nel testo jahvista
della Genesi, corre tra la prima e la seconda situazione dell’uomo. Egli non
approva ciò che “per durezza del... cuore” Mosè ha permesso, e si richiama alle
parole del primo ordinamento divino, che in questo testo è espressamente legato
allo stato di innocenza originaria dell’uomo. Ciò significa che questo
ordinamento non ha perduto il suo vigore, benché l’uomo abbia perso la primitiva
innocenza. La risposta di Cristo è decisiva e senza equivoci. Perciò dobbiamo
trarne le conclusioni normative, che hanno un significato essenziale non
soltanto per l’etica, ma soprattutto per la teologia dell’uomo e per la teologia
del corpo, la quale, come un momento particolare dell’antropologia teologica, si
costituisce sul fondamento della parola di Dio che si rivela. Cercheremo di
trarre tali conclusioni durante il prossimo incontro.
Mercoledì, 26
settembre 1979
1. Cristo, rispondendo alla domanda
sull’unità e indissolubilità del matrimonio, si è richiamato a ciò che sul tema
del matrimonio è stato scritto nel Libro della Genesi. Nelle due precedenti
nostre riflessioni abbiamo sottoposto ad analisi sia il cosiddetto testo
elohista (Gen 1), sia quello jahvista (Gen 2). Oggi desideriamo trarre da queste
analisi alcune conclusioni.
Quando Cristo si riferisce al
“principio”, chiede ai suoi interlocutori di superare, in un certo senso, il
confine che, nel Libro della Genesi, passa tra lo stato di innocenza originaria
e quello di peccaminosità, iniziato con la caduta originale.
Simbolicamente si può legare questo
confine con l’albero della conoscenza del bene e del male, che nel testo
jahvista delimita due situazioni diametralmente opposte: la situazione
dell’innocenza originaria e quella del peccato originale. Queste situazioni
hanno una propria dimensione nell’uomo, nel suo intimo, nella sua conoscenza,
coscienza, scelta e decisione, e tutto ciò in rapporto a Dio Creatore che, nel
testo jahvista (Gen 2-3), è, al tempo stesso, il Dio dell’alleanza, della più
antica alleanza del Creatore con la sua creatura, cioè con l’uomo. L’albero
della conoscenza del bene e del male, come espressione e simbolo dell’alleanza
con Dio infranta nel cuore dell’uomo, delimita e contrappone due situazioni e
due stati diametralmente opposti: quello dell’innocenza originaria e quello del
peccato originale, e insieme della peccaminosità ereditaria dell’uomo che ne
deriva. Tuttavia le parole di Cristo, che si riferiscono al “principio”, ci
permettono di trovare nell’uomo una continuità essenziale e un legame fra questi
due diversi stati o dimensioni dell’essere umano. Lo stato di peccato fa parte
dell’“uomo storico”, sia di colui del quale leggiamo in Matteo 19 cioè
dell’interlocutore di Cristo d’allora, sia pure di ogni altro potenziale o
attuale interlocutore di tutti i tempi della storia, e quindi, naturalmente,
anche dell’uomo di oggi. Quello stato però – lo stato “storico”, appunto – in
ogni uomo, senza alcuna eccezione, affonda le radici nella sua propria
“preistoria” teologica, che è lo stato dell’innocenza originaria.
2. Non si tratta qui di sola
dialettica. Le leggi del conoscere rispondono a quelle dell’essere. È
impossibile capire lo stato della peccaminosità “storica”, senza riferirsi o
richiamarsi (e Cristo infatti vi si richiama) allo stato di originaria (in un
certo senso “preistorica”) e fondamentale innocenza. Il sorgere quindi della
peccaminosità come stato, come dimensione della esistenza umana è, sin dagli
inizi, in rapporto con questa reale innocenza dell’uomo come stato originario e
fondamentale, come dimensione dell’essere creato “a immagine di Dio”.
E così avviene non soltanto per il
primo uomo, maschio e femmina quali “dramatis personae” e protagonisti delle
vicende descritte nel testo jahvista dei capitoli 2 e 3 della Genesi, ma anche
per l’intero percorso storico dell’esistenza umana. L’uomo storico è dunque, per
così dire, radicato nella sua preistoria teologica rivelata; e perciò ogni punto
della sua peccaminosità storica si spiega (sia per l’anima che per il corpo) col
riferimento all’innocenza originaria. Si può dire che questo riferimento è
“coeredità” del peccato, e proprio del peccato originale. Se questo peccato
significa, in ogni uomo storico, uno stato di grazia perduta, allora esso
comporta pure un riferimento a quella grazia, che era precisamente la grazia
dell’innocenza originaria.
3. Quando Cristo, secondo il
capitolo 19 di Matteo, si richiama al “principio”, con questa espressione egli
non indica soltanto lo stato di innocenza originaria quale orizzonte perduto
dell’esistenza umana nella storia. Alle parole, che egli pronunzia proprio con
la sua bocca, abbiamo il diritto di attribuire contemporaneamente tutta
l’eloquenza del mistero della redenzione. Infatti già nell’ambito dello stesso
jahvista di Genesi 2 e 3, siamo testimoni di quando l’uomo, maschio e femmina,
dopo aver rotto l’alleanza originaria col suo Creatore, riceve la prima promessa
di redenzione nelle parole del cosiddetto Protoevangelo in Genesi 3,15 (Già la
traduzione greca dell’Antico Testamento, quella dei Settanta, risalente circa al
II secolo a. C. interpreta Genesi 3,15 nel senso messianico, applicando il
pronome maschile “autòs” in riferimento al sostantivo neutro greco “sperma”
[“semen” nella Volgata]. La traduzione giudaica continua questa interpretazione.
L’esegesi cristiana, cominciando da
Sant’Ireneo [Adversus haereses, III, 23,7] vede questo testo come
protoevangelo, che preannunzia la vittoria su Satana riportata da Gesù Cristo.
Sebbene negli ultimi secoli gli studiosi della Sacra Scrittura abbiano
diversamente interpretato questa pericope, ed alcuni di essi contestino
l’interpretazione messianica, tuttavia negli ultimi tempi si ritorna ad essa
sotto un aspetto un po’ diverso. L’autore jahvista unisce infatti la preistoria
con la storia di Israele, che raggiunge il suo vertice nella dinastia messianica
di Davide, la quale porterà a compimento le promesse di Genesi 3,15 [cf.2Sam
7,12]. Il Nuovo Testamento ha illustrato il compimento della promessa nella
stessa prospettiva messianica: Gesù è Messia, discendente di Davide [Rm 1,3;2Tm
2,8], nato da donna [Gal 4,4], nuovo Adamo-Davide [1Cor 15], che deve regnare
“finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi” [1Cor 15,25] E infine
[Ap 12,1-10] presenta il compimento finale della profezia di Genesi 3,15, che
pur non essendo un chiaro e immediato annunzio di Gesù, come Messia di Israele,
conduce tuttavia a Lui attraverso la tradizione regale e messianica che unisce
l’Antico e il Nuovo Testamento), e comincia a vivere nella prospettiva teologica
della redenzione. Così dunque l’uomo “storico” sia l’interlocutore di Cristo, di
quel tempo, di cui parla Matteo 19, sia l’uomo di oggi partecipa a questa
prospettiva. Egli partecipa non soltanto alla storia della peccaminosità umana,
come un soggetto ereditario e nello stesso tempo personale e irrepetibile di
questa storia, ma partecipa pure alla storia della salvezza, anche qui come suo
soggetto e concreatore. Egli è quindi non soltanto chiuso a causa della sua
peccaminosità, riguardo all’innocenza originaria, ma è contemporaneamente aperto
verso il mistero della redenzione, che si è compiuta in Cristo e attraverso
Cristo. Paolo, autore della lettera ai Romani, esprime questa prospettiva della
redenzione nella quale vive l’uomo “storico”, quando scrive: “...anche noi, che
possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando... la
redenzione del nostro corpo” (Rm 8,23). Non possiamo perdere di vista questa
prospettiva mentre seguiamo le parole di Cristo che, nel suo colloquio
sull’indissolubilità del matrimonio, fa ricorso al “principio”. Se quel
“principio” indicasse solo la creazione dell’uomo come “maschio e femmina”, se –
come già abbiamo accennato – conducesse gli interlocutori solo attraverso il
confine dello stato di peccato dell’uomo fino all’innocenza originaria, e non
aprisse contemporaneamente la prospettiva di una “redenzione del corpo” la
risposta di Cristo non sarebbe affatto intesa in modo adeguato.
Proprio questa prospettiva della
redenzione del corpo garantisce la continuità e l’unità tra lo stato ereditario
del peccato dell’uomo e la sua innocenza originaria, sebbene questa innocenza
sia stata storicamente da lui perduta in modo irrimediabile. È anche evidente
che Cristo ha il massimo diritto di rispondere alla domanda postagli dai dottori
della Legge e dell’alleanza (come leggiamo in Matteo 19 e in Marco 10), nella
prospettiva della redenzione sulla quale poggia l’alleanza stessa.
4. Se nel contesto sostanzialmente
così delineato della teologia dell’uomo-corpo pensiamo al metodo delle analisi
ulteriori circa la rivelazione del “principio”, in cui è essenziale il
riferimento ai primi capitoli del Libro della Genesi, dobbiamo subito rivolgere
la nostra attenzione ad un fattore che è particolarmente importante per
l’interpretazione teologica: importante perché consiste nel rapporto tra
rivelazione ed esperienza. Nell’interpretazione della rivelazione circa l’uomo,
e soprattutto circa il corpo, per ragioni comprensibili dobbiamo riferirci
all’esperienza, poiché l’uomo-corpo viene percepito da noi soprattutto
nell’esperienza. Alla luce delle menzionate considerazioni fondamentali, abbiamo
il pieno diritto di nutrire la convinzione che questa nostra esperienza
“storica” deve, in un certo modo, fermarsi alle soglie dell’innocenza originaria
dell’uomo, poiché nei suoi confronti rimane inadeguata. Tuttavia alla luce delle
stesse considerazioni introduttive, dobbiamo arrivare alla convinzione che la
nostra esperienza umana è, in questo caso, un mezzo in qualche modo legittimo
per l’interpretazione teologica, ed è, in un certo senso, un indispensabile
punto di riferimento, al quale dobbiamo richiamarci nell’interpretazione del
“principio”. L’analisi più particolareggiata del testo ci permetterà di averne
una visione più chiara.
5. Sembra che le parole della
lettera ai Romani 8,23, or ora citata, rendano nel modo migliore l’orientamento
delle nostre ricerche incentrate sulla rivelazione di quel “principio”, al quale
si è riferito Cristo nel suo colloquio sull’indissolubilità del matrimonio (Mt
19;Mc 10). Tutte le successive analisi che a questo proposito saranno fatte in
base ai primi capitoli della Genesi, rifletteranno quasi necessariamente la
verità delle parole paoline: “Noi che possediamo le primizie dello Spirito,
gemiamo interiormente aspettando... la redenzione del nostro corpo”. Se ci
mettiamo in questa posizione – così profondamente concorde con l’esperienza
(Parlando qui del rapporto tra l’“esperienza” e la “rivelazione”, anzi di una
sorprendente convergenza tra loro, vogliamo soltanto constatare che l’uomo, nel
suo attuale stato dell’esistere nel corpo, sperimenta molteplici limiti,
sofferenze, passioni, debolezze ed infine la morte stessa, i quali, in pari
tempo, riferiscono questo suo esistere nel corpo ad un altro e diverso stato o
dimensione. Quando San Paolo scrive della “redenzione del corpo”, parla con il
linguaggio della rivelazione; l’esperienza infatti non è in grado di cogliere
questo contenuto, l’autore della Lettera ai Romani, 8,23 riprende tutto
ciò che tanto a lui quanto, in certo modo, ad ogni uomo [indipendentemente dal
suo rapporto con la rivelazione] è offerto attraverso l’esperienza
dell’esistenza umana, che è un’esistenza nel corpo. Abbiamo quindi il diritto di
parlare del rapporto tra l’esperienza e la rivelazione, anzi abbiamo il diritto
di porre il problema della loro reciproca relazione, anche se per molti tra
l’una e l’altra passa una linea di totale antitesi e di radicale antinomia.
Questa linea, a loro parere, deve senz’altro essere tracciata tra la fede e la
scienza, tra la teologia e la filosofia. Nel formulare tale punto di vista,
vengono presi in considerazione piuttosto concetti astratti che non l’uomo quale
soggetto vivo.) – il “principio” deve parlarci con la grande ricchezza di luce
che proviene dalla rivelazione, alla quale desidera rispondere soprattutto la
teologia. Il seguito delle analisi ci spiegherà perché e in quale senso questa
deve essere teologia del corpo.
Mercoledì, 10 ottobre 1979
L’uomo alla ricerca della definizione di se stesso
1. Nell’ultima riflessione
del presente ciclo siamo giunti ad una conclusione introduttiva, tratta dalle
parole del Libro della Genesi sulla creazione dell’uomo quale maschio e femmina.
A queste parole, ossia al "principio", si è riferito il Signore Gesù nel suo
colloquio sull’indissolubilità del matrimonio (cf. Mt 19,3-9;
Mc 10,1-12).
Ma la conclusione, alla quale siamo pervenuti, non pone ancora fine alla serie
delle nostre analisi. Dobbiamo infatti rileggere le narrazioni del primo e del
secondo capitolo del Libro della Genesi in un contesto più ampio, che ci
permetterà di stabilire una serie di significati del testo antico, al quale
Cristo si è riferito. Oggi pertanto rifletteremo sul significato
dell’originaria solitudine dell’uomo.
2. Lo spunto per tale
riflessione ci viene dato direttamente dalle seguenti parole del Libro della
Genesi: "Non è bene che l’uomo (maschio) sia solo: gli voglio fare un aiuto che
gli sia simile" (Gen 2,18).
È Dio-Jahvè che pronunzia queste parole. Esse fanno parte del secondo racconto
della creazione dell’uomo e provengono quindi dalla tradizione jahvista. Come
abbiamo già ricordato in precedenza, è significativo che, quanto al testo
jahvista, il racconto della creazione dell’uomo (maschio) sia un brano a sé (cf. Gen 2,7),
che precede il racconto della creazione della prima donna (cf. Gen 2,21-22).
È inoltre significativo che il primo uomo ("‘adam"), creato dalla "polvere del
suolo", soltanto dopo la creazione della prima donna venga definito come un
"maschio" ("‘iš"). Così, dunque, quando Dio-Jahvè pronunzia le parole circa la
solitudine, le riferisce alla solitudine dell’"uomo" in quanto tale, e non
soltanto a quella del maschio (Il testo ebraico chiama costantemente il primo
uomo "ha’adam", mentre il termine "‘iš" ["maschio"] viene introdotto soltanto
quando emerge il confronto con la "‘iššâ" ["femmina"]. Solitario era quindi
l’uomo senza riferimento al sesso. Nella traduzione in alcune lingue europee è
difficile però esprimere questo concetto della Genesi, perché "uomo" e "maschio"
vengono definiti, di solito, con un unico vocabolo: "homo", "uomo", "homme", "hombre",
"man".).
È difficile però, solo in base a
questo fatto, andare troppo lontano nel trarre le conclusioni. Nondimeno il
contesto completo di quella solitudine, di cui parla la Genesi 2,18, può
convincerci che qui si tratti della solitudine dell’"uomo" (maschio e femmina) e
non soltanto della solitudine dell’uomo-maschio, causata dalla mancanza della
donna.
Sembra quindi, in base al contesto
intero, che questa solitudine abbia due significati: uno che deriva dalla
natura stessa dell’uomo, cioè dalla sua umanità (e ciò è evidente nel
racconto di Genesi 2), e l’altro che deriva dal rapporto maschio-femmina,
e ciò è evidente, in un certo modo, in base al primo significato. Una
particolareggiata analisi della descrizione sembra confermarlo.
3. Il problema della
solitudine si manifesta soltanto nel contesto del secondo racconto della
creazione dell’uomo. Il primo racconto non conosce questo problema. Ivi l’uomo
viene creato in un solo atto come "maschio e femmina" ("Dio creò l’uomo a sua
immagine... maschio e femmina li creò") (Gen
1,27). Il secondo racconto che, come abbiamo
già menzionato, parla prima della creazione dell’uomo e soltanto dopo della
creazione della donna dalla "costola" del maschio, concentra la nostra
attenzione sul fatto che "l’uomo è solo" e ciò appare un fondamentale problema
antropologico anteriore, in un certo senso, a quello posto dal fatto che tale
uomo sia maschio e femmina.
Questo problema è anteriore non
tanto nel senso cronologico, quanto nel senso esistenziale: esso è anteriore
"per sua natura". Tale si rivelerà anche il problema della solitudine dell’uomo
dal punto di vista della teologia del corpo, se riusciremo a fare un’analisi
approfondita del secondo racconto della creazione in Genesi 2.
4. L’affermazione di
Dio-Jahvè: "Non è bene che l’uomo sia solo", appare non soltanto nel contesto
immediato della decisione di creare la donna ("gli voglio fare un aiuto che gli
sia simile"), ma anche nel contesto più vasto di motivi e di circostanze, che
spiegano più profondamente il senso della solitudine originaria dell’uomo.
Il testo jahvista lega anzitutto la creazione dell’uomo col bisogno di "lavorare
il suolo" (Gen 2,5),
e ciò corrisponderebbe, nel primo racconto, alla vocazione di assoggettare e
dominare la terra (cf. Gen
1,28). Poi, il secondo racconto della
creazione parla della collocazione dell’uomo nel "giardino in Eden", e in questo
modo ci introduce nello stato della sua felicità originaria. Fino a questo
momento l’uomo è oggetto dell’azione creatrice di Dio-Jahvè, il quale nello
stesso tempo, come legislatore, stabilisce le condizioni della prima alleanza
con l’uomo. Già attraverso ciò viene sottolineata la soggettività dell’uomo.
Essa trova un’ulteriore espressione quando il Signore Dio "plasmò dal suolo ogni
sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo
(maschio), per vedere come li avrebbe chiamati" (Gen
2,19). Così dunque il primitivo significato
della solitudine originaria dell’uomo viene definito in base ad uno specifico
"test", o ad un esame che l’uomo sostiene di fronte a Dio (e in certo modo anche
di fronte a se stesso). Mediante tale "test", l’uomo prende coscienza della
propria superiorità, e cioè che non può essere messo alla pari con nessun’altra
specie di esseri viventi sulla terra.
Infatti, come dice il testo, "in
qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva
essere il suo nome" (Gen
2,19). "Così l’uomo impose nomi a tutto il
bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma –
finisce l’autore – l’uomo (maschio) non trovò un aiuto che gli fosse simile" (Gen
2,19-20).
5. Tutta questa parte del
testo è senza dubbio una preparazione al racconto della creazione della donna.
Tuttavia essa possiede un suo profondo significato anche indipendentemente da
questa creazione. Ecco, l’uomo creato si trova, fin dal primo momento
della sua esistenza, di fronte a Dio quasi alla ricerca della propria
entità; si potrebbe dire: alla ricerca della definizione di se stesso. Un
contemporaneo direbbe: alla ricerca della propria "identità". La constatazione
che l’uomo "è solo" in mezzo al mondo visibile e, in particolare, tra gli esseri
viventi, ha in questa ricerca un significato negativo, in quanto esprime ciò che
egli "non è".
Nondimeno la constatazione di non
potersi essenzialmente identificare col mondo visibile degli altri esseri
viventi ("animalia") ha, nello stesso tempo, un aspetto positivo per questa
ricerca primaria: anche se tale constatazione non è ancora una definizione
completa, pur tuttavia costituisce uno dei suoi elementi. Se accettiamo la
tradizione aristotelica nella logica e nell’antropologia, bisognerebbe definire
quest’elemento come "genere prossimo" ("genus proximum").
6. Il testo jahvista ci
consente tuttavia di scoprire anche ulteriori elementi in quel mirabile brano,
nel quale l’uomo si trova solo di fronte a Dio soprattutto per esprimere,
attraverso una prima autodefinizione, la propria autoconoscenza, quale primitiva
e fondamentale manifestazione di umanità. L’autoconoscenza va di pari passo con
la conoscenza del mondo, di tutte le creature visibili, di tutti gli esseri
viventi ai quali l’uomo ha dato il nome per affermare di fronte ad essi la
propria diversità. Così dunque la coscienza rivela l’uomo come colui che
possiede la facoltà conoscitiva rispetto al mondo visibile. Con
questa conoscenza che lo fa uscire, in certo modo, al di fuori del proprio
essere, in pari tempo l’uomo rivela sé a se stesso in tutta la peculiarità
del suo essere. Egli non è soltanto essenzialmente e soggettivamente solo.
Solitudine infatti significa anche soggettività dell’uomo, la quale si
costituisce attraverso l’autoconoscenza. L’uomo è solo perché è "differente" dal
mondo visibile, dal mondo degli esseri viventi. Analizzando il testo del Libro
della Genesi siamo, in certo senso, testimoni di come l’uomo "si distingue" di
fronte a Dio-Jahvè da tutto il mondo degli esseri viventi ("animalia") col primo
atto di autocoscienza, e di come pertanto si riveli a se stesso e insieme si
affermi nel mondo visibile come "persona". Quel processo delineato in modo così
incisivo in Genesi 2,19-20, processo di ricerca di una definizione di sé,
non porta soltanto ad indicare – riallacciandoci alla tradizione aristotelica –
il "genus proximum", che nel capitolo 2 della Genesi viene espresso con
le parole: "ha dato il nome", a cui corrisponde la "differentia" specifica
che è, secondo la definizione di Aristotele, "noû, zoón noetikón". Tale processo
porta anche alla prima delineazione dell’essere umano come persona
umana con la propria soggettività che la caratterizza.
Interrompiamo qui l’analisi del
significato della originaria solitudine dell’uomo. La riprenderemo tra una
settimana.
Mercoledì, 24 ottobre 1979
L’uomo dall’originaria solitudine alla consapevolezza che
lo fa persona
1. Nella precedente
conversazione abbiamo cominciato ad analizzare il significato della solitudine
originaria dell’uomo. Lo spunto ci è stato dato dal testo jahvista, e in
particolare dalle seguenti parole: "Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio
fare un aiuto che gli sia simile" (Gen
2,18). L’analisi dei relativi passi del
Libro della Genesi (cf. Gen
2) ci ha già portato a sorprendenti
conclusioni che riguardano l’antropologia, cioè la scienza fondamentale circa
l’uomo, racchiusa in questo libro. Infatti, in frasi relativamente scarse,
l’antico testo delinea l’uomo come persona con la soggettività che la
caratterizza.
Quanto a questo primo uomo, così
formato, Dio-Jahvè dà il comando che riguarda tutti gli alberi che crescono nel
"giardino in Eden", soprattutto quello della conoscenza del bene e del male, ai
lineamenti dell’uomo, sopra descritti, si aggiunge il momento della scelta e
dell’autodeterminazione, cioè della libera volontà. In questo modo, l’immagine
dell’uomo, come persona dotata di una propria soggettività, appare davanti a noi
come rifinita nel suo primo abbozzo.
Nel concetto di solitudine
originaria è inclusa sia l’autocoscienza che l’autodeterminazione. Il fatto che
l’uomo sia "solo" nasconde in sé tale struttura ontologica e insieme è un indice
di autentica comprensione. Senza di ciò, non possiamo capire correttamente le
parole successive, che costituiscono il preludio alla creazione della prima
donna: "voglio fare un aiuto". Ma, soprattutto, senza quel significato così
profondo della solitudine originaria dell’uomo, non può essere intesa e
correttamente interpretata l’intera situazione dell’uomo creato a immagine di
Dio", che è la situazione della prima, anzi primitiva alleanza con Dio.
2. Quest’uomo, di cui il
racconto del capitolo dice che è stato creato "a immagine di Dio", si manifesta
nel secondo racconto come soggetto dell’alleanza, e cioè soggetto
costituito come persona, costituito a misura di "partner dell’Assoluto"
in quanto deve consapevolmente discernere e scegliere tra il bene e il male, tra
la vita e la morte. Le parole del primo comando di Dio-Jahvè (Gen
2,16-17) che parlano direttamente della
sottomissione e della dipendenza dell’uomo-creatura dal suo Creatore, rivelano
indirettamente appunto tale livello di umanità, quale soggetto dell’alleanza e
"partner dell’Assoluto". L’uomo è "solo": ciò vuol dire che egli, attraverso
la propria umanità, attraverso ciò che egli è, viene nello stesso tempo
costituito in un’unica, esclusiva ed irripetibile relazione con Dio stesso.
La definizione antropologica contenuta nel testo jahvista si avvicina dal canto
suo a ciò che esprime la definizione teologica dell’uomo, che troviamo nel primo
racconto della creazione: "Facciamo l’uomo a nostra immagine e nostra
somiglianza" (Gen 1,26).
3. L’uomo, così formato,
appartiene al mondo visibile, è corpo tra i corpi. Riprendendo e, in certo modo,
ricostruendo, il significato della solitudine originaria, lo applichiamo
all’uomo nella sua totalità. Il corpo, mediante il quale l’uomo partecipa al
mondo creato visibile, lo rende nello stesso tempo consapevole di essere "solo".
Altrimenti non sarebbe stato capace di pervenire a quella convinzione, alla
quale, in effetti, come leggiamo, è giunto (cf. Gen 2,20),
se il suo corpo non lo avesse aiutato a comprenderlo, rendendo la cosa evidente.
La consapevolezza della solitudine avrebbe potuto infrangersi proprio a causa
dello stesso corpo. L’uomo ("‘adam") avrebbe potuto, basandosi sull’esperienza
del proprio corpo, giungere alla conclusione di essere sostanzialmente simile
agli altri esseri viventi ("animalia"). E invece, come leggiamo, non è arrivato
a questa conclusione, anzi è giunto alla persuasione di essere "solo". Il testo
jahvista non parla mai direttamente del corpo; perfino quando dice che "il
Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo", parla dell’uomo e non del
corpo. Ciononostante il racconto preso nel suo insieme ci offre basi sufficienti
per percepire quest’uomo, creato nel mondo visibile, proprio come corpo tra i
corpi.
L’analisi del testo jahvista ci
permette inoltre di collegare la solitudine originaria dell’uomo con la
consapevolezza del corpo, attraverso il quale l’uomo si distingue da tutti
gli "animalia" e "si separa" da essi, e anche attraverso il quale egli è
persona. Si può affermare con certezza che quell’uomo così formato ha
contemporaneamente la consapevolezza e la coscienza del senso del proprio corpo.
E ciò sulla base dell’esperienza della solitudine originaria.
4. Tutto ciò può essere
considerato come implicazione del secondo racconto della creazione dell’uomo, e
l’analisi del testo ce ne consente un ampio sviluppo.
Quando all’inizio del testo
jahvista, prima ancora che si parli della creazione dell’uomo dalla "polvere del
suolo", leggiamo che "nessuno lavorava il suolo e faceva salire dalla terra
l’acqua dei canali per irrigare tutto il suolo" (Gen
2,5-6), associamo giustamente questo brano a
quello del primo racconto, in cui viene espresso il comando divino: "Riempite la
terra: soggiogatela e dominate" (Gen
1,28). Il secondo racconto allude in modo
esplicito al lavoro che l’uomo svolge per coltivare la terra. Il primo
fondamentale mezzo per dominare la terra si trova nell’uomo stesso. L’uomo può
dominare la terra perché soltanto lui e nessun altro degli esseri viventi è
capace di "coltivarla" e trasformarla secondo i propri bisogni ("faceva salire
dalla terra l’acqua dei canali per irrigare il suolo"). Ed ecco, questo primo
abbozzo di un’attività specificamente umana sembra fare parte della definizione
dell’uomo, così come essa emerge dall’analisi del testo jahvista. Di
conseguenza, si può affermare che tale abbozzo è intrinseco al significato della
solitudine originaria e appartiene a quella dimensione di solitudine,
attraverso la quale l’uomo, sin dall’inizio, è nel mondo visibile quale corpo
tra i corpi e scopre il senso della propria corporalità.
Su questo argomento ritorneremo
nella prossima meditazione.
Mercoledì, 31 ottobre 1979
Nella definizione stessa dell’uomo l’alternativa tra morte ed
immortalità
1. Ci conviene ritornare
oggi ancora una volta sul significato della solitudine originaria dell’uomo, che
emerge soprattutto dall’analisi del cosiddetto testo jahvista di Genesi
2. Il testo biblico ci permette, come già abbiamo constatato nelle precedenti
riflessioni, di mettere in rilievo non soltanto la coscienza del corpo umano
(l’uomo è creato nel mondo visibile come "corpo tra i corpi"), ma anche quella
del suo significato proprio.
Tenendo conto della grande
concisione del testo biblico, non si può, senz’altro, ampliare troppo questa
implicazione. È però certo che tocchiamo qui il problema centrale
dell’antropologia. La coscienza del corpo sembra identificarsi in questo caso
con la scoperta della complessità della propria struttura che, in base a
un’antropologia filosofica, consiste, in definitiva, nel rapporto tra anima e
corpo. Il racconto jahvista col proprio linguaggio (cioè con la sua propria
terminologia) lo esprime dicendo: "Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del
suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere
vivente" (Gen 2,7).
E proprio quest’uomo, "essere vivente", si distingue in continuazione da tutti
gli altri esseri viventi del mondo visibile. La premessa di questo distinguersi
dell’uomo è proprio il fatto che solo lui è capace di "coltivare la terra" (cf. Gen 2,5)
e di "soggiogarla" (cf. Gen
1,28). Si può dire che la consapevolezza
della "superiorità", iscritta nella definizione di umanità, nasce fin
dall’inizio in base a una prassi o comportamento tipicamente umano. Questa
consapevolezza porta con sé una particolare percezione del significato del
proprio corpo, la quale emerge appunto dal fatto che sta all’uomo "coltivare la
terra" e "assoggettarla". Tutto ciò sarebbe impossibile senza un’intuizione
tipicamente umana del significato del proprio corpo.
2. Sembra quindi che
occorra parlare innanzitutto di questo aspetto, piuttosto che del problema della
complessità antropologica in senso metafisico. Se l’originaria descrizione della
coscienza umana, riportata dal testo jahvista, comprende nell’insieme del
racconto anche il corpo, se essa racchiude quasi la prima testimonianza della
scoperta della propria corporeità (e perfino, come è stato detto, la percezione
del significato del proprio corpo), tutto ciò si rivela non in base a una
qualche primordiale analisi metafisica, ma in base a una concreta soggettività
dell’uomo abbastanza chiara. L’uomo è un soggetto non soltanto per la sua
autocoscienza e autodeterminazione, ma anche in base al proprio corpo. La
struttura di questo corpo è tale da permettergli di essere l’autore di
un’attività prettamente umana. In questa attività il corpo esprime la
persona. Esso è quindi, in tutta la sua materialità ("plasmò l’uomo con polvere
del suolo"), quasi penetrabile e trasparente, in modo da rendere chiaro chi sia
l’uomo (e chi dovrebbe essere) grazie alla struttura della sua coscienza e della
sua autodeterminazione. Su questo poggia la fondamentale percezione del
significato del proprio corpo, che non si può non scoprire analizzando la
solitudine originaria dell’uomo.
3. Ed ecco che, con tale
fondamentale comprensione del significato del proprio corpo, l’uomo, quale
soggetto dell’antica alleanza col Creatore, viene posto dinanzi al mistero
dell’albero della conoscenza. "Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del
giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare,
perché, quando tu ne mangiassi certamente moriresti" (Gen
2,16-17). L’originario significato della
solitudine dell’uomo si basa sull’esperienza dell’esistenza ottenuta dal
Creatore. Tale esistenza umana è caratterizzata appunto dalla soggettività, che
comprende pure il significato del corpo. Ma l’uomo, il quale nella sua coscienza
originaria conosce esclusivamente l’esperienza dell’esistere e quindi della
vita, avrebbe potuto capire che cosa significasse la parola "morirai"?
Sarebbe stato egli capace di giungere a comprendere il senso di questa
parola attraverso la complessa struttura della vita, datagli quando "il Signore
Dio... soffiò nelle sue narici un alito di vita..."? Bisogna ammettere che
questa parola, completamente nuova, sia apparsa sull’orizzonte della coscienza
dell’uomo senza che egli ne abbia mai sperimentato la realtà, e che nello stesso
tempo questa parola sia apparsa davanti a lui come una radicale antitesi di
tutto ciò di cui l’uomo era stato dotato.
L’uomo udiva per la prima volta la
parola "morirai", senza avere con essa alcuna familiarità nell’esperienza fatta
fino ad allora; ma d’altra parte non poteva non associare il significato della
morte a quella dimensione di vita di cui aveva fino ad allora fruito. Le parole
di Dio-Jahvè rivolte all’uomo confermavano una dipendenza nell’esistere, tale da
fare dell’uomo un essere limitato e, per sua natura, suscettibile di
non-esistenza. Queste parole posero il problema della morte in modo
condizionale: "Quando tu ne mangiassi... moriresti". L’uomo, che aveva udito
tali parole, doveva ritrovarne la verità nella stessa struttura interiore della
propria solitudine. E, in definitiva, dipendeva da lui, dalla sua decisione e
libera scelta, se con la solitudine fosse entrato anche nel cerchio
dell’antitesi rivelatagli dal Creatore, insieme all’albero della conoscenza del
bene e del male, e avesse così fatto propria l’esperienza del morire e della
morte. Ascoltando le parole di Dio-Jahvè, l’uomo avrebbe dovuto capire che
l’albero della conoscenza aveva messo le radici non soltanto nel "giardino in
Eden", ma anche nella sua umanità. Egli, inoltre, avrebbe dovuto capire che
quell’albero misterioso nascondeva in sé una dimensione di solitudine, fino ad
allora sconosciuta, della quale il Creatore lo aveva dotato in mezzo al mondo
degli esseri viventi, ai quali lui, l’uomo – dinanzi allo stesso Creatore –
aveva "imposto nomi", per giungere a comprendere che nessuno di loro gli era
simile.
4. Quando dunque il
fondamentale significato del suo corpo era già stato stabilito attraverso la
distinzione dal resto delle creature, quando per ciò stesso era divenuto
evidente che l’"invisibile" determina l’uomo più che il "visibile", allora
dinanzi a lui si è presentata l’alternativa collegata strettamente e
direttamente da Dio-Jahvè all’albero della conoscenza del bene e del male.
L’alternativa tra la morte e l’immortalità, che emerge da Genesi
2,17, va oltre il significato essenziale del corpo dell’uomo, in quanto coglie
il significato escatologico non soltanto del corpo, ma dell’umanità stessa,
distinta da tutti gli esseri viventi, dai "corpi". Questa alternativa
riguarda però in un modo del tutto particolare il corpo creato dalla "polvere
dei suolo".
Per non prolungare di più questa
analisi, ci limitiamo a constatare che l’alternativa tra la morte e
l’immortalità entra, sin dall’inizio, nella definizione dell’uomo e che
appartiene "da principio" al significato della sua solitudine di fronte a Dio
stesso. Questo originario significato di solitudine, permeato dall’alternativa
tra morte e immortalità, ha anche un significato fondamentale per tutta la
teologia del corpo.
Con questa constatazione
concludiamo per ora le nostre riflessioni sul significato della solitudine
originaria dell’uomo. Tale constatazione, che emerge in modo chiaro e incisivo
dai testi del Libro della Genesi, induce anche a riflettere tanto sui testi
quanto sull’uomo, il quale ha forse troppo scarsa coscienza della verità che lo
riguarda, e che è racchiusa già nei primi capitoli della Bibbia.
Mercoledì, 7 novembre 1979
L’unità originaria dell’uomo e della donna nell’umanità
1. Le parole del libro
della Genesi, "Non è bene che l’uomo sia solo" (Gen
2,18), sono quasi un preludio al racconto
della creazione della donna. Insieme a questo racconto, il senso della
solitudine originaria entra a far parte del significato dell’originaria unità,
il cui punto chiave sembrano essere proprio le parole di Genesi 2,24,
alle quali si richiama Cristo nel suo colloquio con i farisei: "L’uomo lascerà
suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola" (Mt
19,5). Se Cristo, riferendosi al
"principio", cita queste parole, ci conviene precisare il significato di quella
originaria unità, che affonda le radici nel fatto della creazione dell’uomo come
maschio e femmina.
Il racconto del capitolo primo
della Genesi non conosce il problema della solitudine originaria dell’uomo:
l’uomo infatti sin dall’inizio è "maschio e femmina". Il testo jahvista del
capitolo secondo, invece, ci autorizza, in certo modo, a pensare prima solamente
all’uomo in quanto, mediante il corpo, appartiene al mondo visibile, però
oltrepassandolo; poi, ci fa pensare allo stesso uomo, ma attraverso la duplicità
del sesso. La corporeità e la sessualità non s’identificano completamente.
Sebbene il corpo umano, nella sua normale costituzione, porti in sé i segni del
sesso e sia, per sua natura, maschile o femminile, tuttavia il fatto che
l’uomo sia "corpo" appartiene alla struttura del soggetto personale più
profondamente del fatto che egli sia nella sua costituzione somatica anche
maschio o femmina. Perciò il significato della solitudine originaria, che
può essere riferito semplicemente all’"uomo", è sostanzialmente anteriore al
significato dell’unità originaria; quest’ultima infatti si basa sulla
mascolinità e sulla femminilità, quasi come su due differenti "incarnazioni",
cioè su due modi di "essere corpo" dello stesso essere umano, creato "a immagine
di Dio" (Gen 1,27).
2. Seguendo il testo
jahvista, nel quale la creazione della donna è stata descritta separatamente (Gen 2,21-22),
dobbiamo avere davanti agli occhi, nello stesso tempo, quell’"immagine di Dio"
del primo racconto della creazione. Il secondo racconto conserva, nel linguaggio
e nello stile, tutte le caratteristiche del testo jahvista. Il modo di narrare
concorda col modo di pensare e di esprimersi dell’epoca alla quale il testo
appartiene. Si può dire, seguendo la filosofia contemporanea della religione e
quella del linguaggio, che si tratta di un linguaggio mitico. In questo caso,
infatti, il termine "mito" non designa un contenuto fabuloso, ma semplicemente
un modo arcaico di esprimere un contenuto più profondo. Senza alcuna difficoltà,
sotto lo strato dell’antica narrazione, scopriamo quel contenuto, veramente
mirabile per quanto riguarda le qualità e la condensazione delle verità che vi
sono racchiuse. Aggiungiamo che il secondo racconto della creazione dell’uomo
conserva, fino ad un certo punto, una forma di dialogo tra l’uomo e
Dio-Creatore, e ciò si manifesta soprattutto in quella tappa nella quale
l’uomo ("‘adam") viene definitivamente creato quale maschio e femmina ("‘is-issah")
(Il termine ebraico "‘adam" esprime il concetto collettivo della specie
umana, cioè l’"uomo" che rappresenta l’umanità; [la Bibbia definisce l’individuo
usando l’espressione: "figlio dell’uomo", "ben-’adam"]. La contrapposizione: "‘iš-’iššah"
sottolinea la diversità sessuale [come in greco "aner-gyne"] Dopo la creazione
della donna, il testo biblico continua a chiamare il primo uomo "‘adam" [con
l’articolo definito], esprimendo così la sua "corporate personality", in quanto
è diventato "padre dell’umanità", suo progenitore e rappresentante, come poi
Abramo è stato riconosciuto quale "padre dei credenti" e Giacobbe è stato
identificato con Israele-Popolo Eletto.). La creazione si attua quasi
contemporaneamente in due dimensioni; l’azione di Dio-Jahvè che crea si svolge
in correlazione al processo della coscienza umana.
3. Così dunque Dio-Jahvè
dice: "Non è bene che l’uomo sia solo; gli voglio dare un aiuto che gli sia
simile" (Gen 2,18).
E nello stesso tempo l’uomo conferma la propria solitudine (Gen
2,20). In seguito leggiamo: "Allora il
Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una
delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la
costola che aveva tolta all’uomo una donna" (Gen 2,21-22).
Prendendo in considerazione la specificità del linguaggio bisogna prima di tutto
riconoscere che ci fa molto pensare quel torpore genesiaco, nel quale, per opera
di Dio-Jahvè, l’uomo s’immerge in preparazione del nuovo atto creatore. Sullo
sfondo della mentalità contemporanea, abituata – per via delle analisi del
subcosciente – a legare al mondo del sonno dei contenuti sessuali, quel torpore
può suscitare un’associazione particolare (Il torpore di Adamo [in ebraico "tardemah"]
è un profondo sonno [latino: "sopor"; inglese: "sleep"], in cui l’uomo cade
senza conoscenza o sogni [la Bibbia ha un altro termine per definire il sogno: "halom"];
cf. Gen 15,12;
1Sam 26,12.
Freud esamina, invece, il contenuto dei "sogni" [latino: "somnium"; inglese: "dream"],
i quali formandosi con elementi psichici "respinti nel subconscio", permettono,
secondo lui, di farne emergere i contenuti inconsci, che sarebbero, in ultima
analisi, sempre sessuali. Questa idea è naturalmente del tutto estranea
all’autore biblico. Nella teologia dell’autore jahvista, il torpore nel quale
Dio fece cadere il primo uomo sottolinea l’"esclusività dell’azione di Dio"
nell’opera della creazione della donna; l’uomo non aveva in essa alcuna
partecipazione cosciente. Dio si serve della sua costola soltanto per accentuare
la comune natura dell’uomo e della donna.). Tuttavia il racconto biblico sembra
andare oltre la dimensione del subconscio umano. Se si ammette poi una
significativa diversità di vocabolario, si può concludere che l’uomo ("‘adam")
cade in quel "torpore" per risvegliarsi "maschio" e "femmina". Infatti per la
prima volta in Genesi 2,23 ci imbattiamo nella distinzione "‘is-issah".
Forse quindi l’analogia del sonno indica qui non tanto un passare dalla
coscienza alla subcoscienza, quanto uno specifico ritorno al non-essere (il
sonno ha in sé una componente di annientamento dell’esistenza cosciente
dell’uomo) ossia al momento antecedente alla creazione, affinché da esso, per
iniziativa creatrice di Dio, l’"uomo" solitario possa riemergere nella sua
duplice unità di maschio e femmina ("Torpore" ["tardemah"] è il termine che
appare nella Sacra Scrittura, quando durante il sonno o direttamente dopo di
esso debbono accadere degli avvenimenti straordinari [cf. Gen 15,12;
1Sam 26,12;
Is 29,10;
Gb 4,13;
33,15].
I Settanta traducono "tardemah" con "éktasis" [un’estasi]. Nel Pentateuco "tardemah"
appare ancora una volta in un contesto misterioso: Abram, su comando di Dio, ha
preparato un sacrificio di animali, scacciando da essi gli uccelli rapaci:
"Mentre il sole stava per tramontare, "un torpore" cadde su Abram, ed ecco "un
oscuro terrore" lo assalì... " [Gen 15,12]. Proprio allora
Dio comincia a parlare e conclude con lui un’alleanza, che è "il vertice della
rivelazione" fatta ad Abram. Questa scena somiglia in certo modo a quella del
giardino di Getsemani: Gesù "cominciò a sentire paura e angoscia... " [Mc
14,33] e trovò gli Apostoli "che "dormivano
per la tristezza"" [Lc 22,45].
L’autore biblico ammette nel primo uomo un certo senso di carenza e di
solitudine ["non è bene che l’uomo sia solo"; "non trovò un aiuto che gli fosse
simile"], anche se non di paura. Forse questo stato provoca "un sonno causato
dalla tristezza", o forse, come in Abramo "da un oscuro terrore" di non-essere;
come alla soglia dell’opera della creazione: "la terra era informe e deserta e
le tenebre ricoprivano l’abisso" [Gen
1,2]. In ogni caso, secondo tutti e due i
testi, in cui il Pentateuco o piuttosto il Libro della Genesi parla del sonno
profondo [tardemah], ha luogo una speciale azione divina, cioè un’"alleanza"
carica di conseguenze per tutta la storia della salvezza: Adamo dà inizio al
genere umano, Abramo al Popolo Eletto.).
In ogni caso alla luce del contesto
di Genesi 2,18-20 non vi è alcun dubbio che l’uomo cada in quel "torpore"
col desiderio di trovare un essere simile a sé. Se possiamo, per analogia col
sonno, parlare qui anche di sogno, dobbiamo dire che quel biblico archetipo ci
consente di ammettere come contenuto di quel sogno un "secondo io", anch’esso
personale e ugualmente rapportato alla situazione di solitudine originaria, cioè
a tutto quel processo di stabilizzazione dell’identità umana in relazione
all’insieme degli esseri viventi ("animalia"), in quanto è processo di
"differenziazione" dell’uomo da tale ambiente. In questo modo, il cerchio della
solitudine dell’uomo-persona si rompe, perché il primo "uomo" si risveglia dal
suo sonno come "maschio e femmina".
4. La donna è plasmata
"con la costola" che Dio-Jahvè aveva tolto all’uomo. Considerando il modo
arcaico, metaforico e immaginoso di esprimere il pensiero, possiamo stabilire
che si tratta qui di omogeneità di tutto l’essere di entrambi; tale omogeneità
riguarda soprattutto il corpo, la struttura somatica, ed è confermata anche
dalle prime parole dell’uomo alla donna creata: "Questa volta essa è carne dalla
mia carne e osso dalle mie ossa" (Gen
2,23. È interessante notare che per gli
antichi Suméri il segno cuneiforme per indicare il sostantivo "costola"
coincideva con quello usato per indicare la parola "vita". Quanto poi al
racconto jahvista, secondo una certa interpretazione di Genesi 2,21, Dio
piuttosto ricopre la costola di carne [invece di rinchiudere la carne al suo
posto] e in questo modo "forma" la donna, che trae origine dalla "carne e dalle
ossa" del primo uomo [maschio]. Nel linguaggio biblico questa è una definizione
di consanguineità o appartenenza alla stessa discendenza [ad es. cf. Gen 29,14]:
la donna appartiene alla stessa specie dell’uomo, distinguendosi dagli altri
esseri viventi prima creati. Nell’antropologia biblica le "ossa" esprimono una
componente importantissima del corpo; dato che per gli Ebrei non vi era una
precisa distinzione tra "corpo" e "anima" [il corpo veniva considerato come
manifestazione esteriore della personalità], le "ossa" significavano
semplicemente, per sineddoche, l’"essere" umano [cf. ad es. Sal 139,15:
"Non ti erano nascoste le mie ossa"]. Si può quindi intendere "osso dalle ossa",
in senso relazionale, come l’"essere dall’essere"; "carne dalla carne" significa
che, pur avendo diverse caratteristiche fisiche, la donna possiede la stessa
personalità che possiede l’uomo. Nel "canto nuziale" del primo uomo,
l’espressione "osso dalle ossa, carne dalla carne" è una forma di superlativo,
sottolineato inoltre dalla triplice ripetizione: "questa", "essa", "la".). E
nondimeno le parole citate si riferiscono pure all’umanità dell’uomo-maschio.
Esse vanno lette nel contesto delle affermazioni fatte prima della creazione
della donna, nelle quali, pur non esistendo ancora l’"incarnazione" dell’uomo,
essa viene definita come "aiuto simile a lui" (cf. Gen 2,18 e 20.
È difficile tradurre esattamente l’espressione ebraica "cezer kenegdô", che
viene tradotta in vario modo nelle lingue europee, ad esempio: latino: "adiutorium
ei conveniens sicut oportebat iuxta eum"; tedesco: "eine Hilfe..., die ihm
entspricht"; francese: "égal vis-á-vis de lui"; italiano: "un aiuto che gli sia
simile"; spagnolo: "como él que le ayude"; inglese: "a helper fit for him";
polacco: "odopowicdnia alla niego pomoc". Poiché il termine "aiuto" sembra
suggerire il concetto di "complementarità" o meglio di "corrispondenza esatta",
il termine "simile" si collega piuttosto con quello di "similarità", ma in senso
diverso dalla somiglianza dell’uomo con Dio.). Così, dunque, la donna viene
creata, in certo senso, sulla base della medesima umanità.
L’omogeneità somatica,
nonostante la diversità della costituzione legata alla differenza sessuale, è
così evidente che l’uomo (maschio), svegliatosi dal sonno genetico, la esprime
subito, quando dice: "Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie
ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta" (Gen 2,23). In
questo modo l’uomo (maschio) manifesta per la prima volta gioia e perfino
esaltazione, di cui prima non aveva motivo, a causa della mancanza di un essere
simile a lui. La gioia per l’altro essere umano, per il secondo "io", domina
nelle parole dell’uomo (maschio) pronunziate alla vista della donna (femmina).
Tutto ciò aiuta a stabilire il pieno significato dell’originaria unità. Poche
sono qui le parole, ma ognuna è di grande peso. Dobbiamo quindi tener conto – e
lo faremo anche di seguito – del fatto che quella prima donna, "plasmata con la
costola tolta... all’uomo" (maschio), viene subito accettata come aiuto adeguato
a lui.
A questo stesso tema, cioè al
significato dell’unità originaria dell’uomo e della donna nell’umanità,
torneremo ancora nella prossima meditazione.
Mercoledì, 14 novembre 1979
Anche attraverso la comunione delle persone l’uomo diventa
immagine di Dio
1. Seguendo la narrazione del Libro della
Genesi, abbiamo costatato che la "definitiva" creazione dell’uomo consiste nella
creazione dell’unità di due esseri. La loro unità denota soprattutto
l’identità della natura umana; la dualità, invece, manifesta ciò che, in base a
tale identità, costituisce la mascolinità e la femminilità dell’uomo creato.
Questa dimensione ontologica dell’unità e della dualità ha, nello stesso tempo,
un significato assiologico. Dal testo di Genesi 2,23 e dall’intero contesto
risulta chiaramente che l’uomo è stato creato come un particolare valore dinanzi
a Dio ("Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona") (Gen
1,31) ma anche come un particolare valore per l’uomo stesso: primo,
perché è "uomo"; secondo, perché la "donna" è per l’uomo, e viceversa l’"uomo" è
per la donna. Mentre il capitolo primo della Genesi esprime questo valore in
forma puramente teologica (e indirettamente metafisica), il capitolo secondo,
invece, rivela, per così dire, il primo cerchio dell’esperienza vissuta
dall’uomo come valore. Questa esperienza è iscritta già nel significato
della solitudine originaria, e poi in tutto il racconto della creazione
dell’uomo come maschio e femmina. Il conciso testo di Genesi 2,23, che
racchiude le parole del primo uomo alla vista della donna creata, "da lui
tolta", può essere ritenuto il prototipo biblico del Cantico dei Cantici. E se è
possibile leggere impressioni ed emozioni attraverso parole così remote, si
potrebbe anche rischiare di dire che la profondità e la forza di questa prima e
"originaria" emozione dell’uomo-maschio dinanzi all’umanità della donna, e
insieme dinanzi alla femminilità dell’altro essere umano, sembra qualcosa di
unico ed irrepetibile.
2. In questo modo, il significato
dell’unità originaria dell’uomo, attraverso la mascolinità e la femminilità, si
esprime come superamento del confine della solitudine, e nello stesso tempo come
affermazione – nei confronti di entrambi gli esseri umani – di tutto ciò che
nella solitudine è costitutivo dell’"uomo". Nel racconto biblico, la solitudine
è via che porta a quell’unità che, seguendo il Vaticano II, possiamo definire
"communio personarum" ("Ma Dio non creò l’uomo lasciandolo solo; fin da
principio "uomo e donna li creò" (Gen 1,17) e la
loro unione costituisce la prima forma di comunione di persone" [Gaudium
et Spes, 12]). Come abbiamo già in precedenza constatato, l’uomo, nella
sua originaria solitudine, acquista una coscienza personale nel processo di
"distinzione" da tutti gli esseri viventi ("animalia") e nello stesso tempo, in
questa solitudine, si apre verso un essere affine a lui e che la Genesi (Gen
2,18 e 20) definisce quale "aiuto che gli è simile". Questa apertura
decide dell’uomo-persona non meno, anzi forse ancor più, della stessa
"distinzione". La solitudine dell’uomo, nel racconto jahvista, ci si presenta
non soltanto come la prima scoperta della caratteristica trascendenza propria
della persona, ma anche come scoperta di un’adeguata relazione "alla" persona, e
quindi come apertura e attesa di una "comunione delle persone".
Si potrebbe qui usare anche il termine "comunità", se non fosse
generico e non avesse così numerosi significati. "Communio" dice di più e con
maggior precisione, poiché indica appunto quell’"aiuto" che deriva, in certo
senso, dal fatto stesso di esistere come persona "accanto" a una persona.
Nel racconto biblico questo fatto diventa "eo ipso" – di per sé –
esistenza della persona "per" la persona, dato che l’uomo nella sua
solitudine originaria era, in certo modo, già in questa relazione. Ciò è
confermato, in senso negativo, proprio dalla sua solitudine. Inoltre, la
comunione delle persone poteva formarsi solo in base ad una "duplice solitudine"
dell’uomo e della donna, ossia come incontro nella loro "distinzione" dal mondo
degli esseri viventi ("animalia"), che dava ad ambedue la possibilità di essere
e di esistere in una particolare reciprocità. Il concetto di "aiuto" esprime
anche questa reciprocità nell’esistenza, che nessun altro essere vivente avrebbe
potuto assicurare. Indispensabile per questa reciprocità era tutto ciò che di
costitutivo fondava la solitudine di ciascuno di essi, e pertanto anche
l’autoconoscenza e l’autodeterminazione, ossia la soggettività e la
consapevolezza del significato del proprio corpo.
3. Il racconto della creazione dell’uomo,
nel capitolo primo, afferma sin dall’inizio e direttamente che l’uomo è stato
creato a immagine di Dio in quanto maschio e femmina. Il racconto del capitolo
secondo, invece, non parla dell’"immagine di Dio"; ma esso rivela, nel modo che
gli è proprio, che la completa e definitiva creazione dell’"uomo" (sottoposto
dapprima all’esperienza della solitudine originaria) si esprime nel dar vita a
quella "communio personarum" che l’uomo e la donna formano. In questo
modo, il racconto jahvista si accorda con il contenuto del primo racconto. Se,
viceversa, vogliamo ricavare anche dal racconto del testo jahvista il concetto
di "immagine di Dio", possiamo allora dedurre che l’uomo è divenuto "immagine
e somiglianza" di Dio non soltanto attraverso la propria umanità, ma anche
attraverso la comunione delle persone, che l’uomo e la donna formano sin
dall’inizio. La funzione dell’immagine è quella di rispecchiare colui che è il
modello, riprodurre il proprio prototipo. L’uomo diventa immagine di Dio non
tanto nel momento della solitudine quanto nel momento della comunione. Egli,
infatti, è fin "da principio" non soltanto immagine in cui si rispecchia la
solitudine di una Persona che regge il mondo, ma anche, ed essenzialmente,
immagine di una imperscrutabile divina comunione di Persone.
In questo modo, il secondo racconto potrebbe anche preparare a
comprendere il concetto trinitario dell’"immagine di Dio", anche se questa
appare solamente nel primo racconto. Ciò, ovviamente, non è senza significato
anche per la teologia del corpo, anzi forse costituisce perfino l’aspetto
teologico più profondo di tutto ciò che si può dire circa l’uomo. Nel mistero
della creazione – in base alla originaria e costitutiva "solitudine" del suo
essere – l’uomo è stato dotato di una profonda unità tra ciò che in lui
umanamente e mediante il corpo è maschile, e ciò che in lui altrettanto
umanamente e mediante il corpo è femminile. Su tutto questo, sin dall’inizio, è
scesa la benedizione della fecondità, congiunta con la procreazione umana (cf. Gen 1,28).
4. In questo modo, ci troviamo quasi nel
midollo stesso della realtà antropologica che ha nome "corpo". Le parole di
Genesi 2,23 ne parlano direttamente e per la prima volta nei seguenti
termini: "carne dalla mia carne e ossa dalle mie ossa". L’uomo maschio
pronunzia queste parole, come se soltanto alla vista della donna potesse
identificare e chiamare per nome ciò che in modo visibile li rende simili
l’uno all’altro, e insieme ciò in cui si manifesta l’umanità. Alla
luce della precedente analisi di tutti i "corpi", con i quali l’uomo è venuto a
contatto, e che egli ha concettualmente definito dando loro il nome ("animalia"),
l’espressione "carne dalla mia carne" acquista proprio questo significato: il
corpo rivela l’uomo. Questa formula concisa contiene già tutto ciò che sulla
struttura del corpo come organismo, sulla sua vitalità, sulla sua particolare
fisiologia sessuale, ecc., potrà mai dire la scienza umana. In questa prima
espressione dell’uomo maschio, "carne dalla mia carne", vi è anche racchiuso un
riferimento a ciò per cui quel corpo è autenticamente umano, e quindi a ciò che
determina l’uomo come persona, cioè come essere che anche in tutta la sua
corporeità è "simile" a Dio (Nella concezione dei più antichi libri biblici non
appare la contrapposizione dualistica "anima-corpo". Come già è stato
sottolineato, si può piuttosto parlare di una combinazione complementare
"corpo-vita". Il corpo è espressione della personalità dell’uomo, e se non
esaurisce pienamente questo concetto, occorre intenderlo nel linguaggio biblico
come "pars pro toto"; cf. ad es.: "né la carne né il sangue te l’hanno rivelato,
ma il Padre mio... " (Mt 16,17), cioè: non l’"uomo"
lo ha rivelato a te.).
5. Ci troviamo, dunque, quasi nel midollo
stesso della realtà antropologica, il cui nome è "corpo", corpo umano. Tuttavia,
come è facile osservare, tale midollo non è soltanto antropologico, ma anche
essenzialmente teologico. La teologia del corpo, che sin dall’inizio è legata
alla creazione dell’uomo a immagine di Dio, diventa, in certo modo, anche
teologia del sesso, o piuttosto teologia della mascolinità e della femminilità,
che qui, nel Libro della Genesi, ha il suo punto di partenza. Il significato
originario dell’unità, testimoniata dalle parole di Genesi 2,24, avrà
nella rivelazione di Dio ampia e lontana prospettiva. Quest’unità attraverso il
corpo ("e i due saranno una sola carne") possiede una dimensione multiforme: una
dimensione etica, come viene confermato dalla risposta di Cristo ai farisei in
Matteo 19 (cf. anche Mc 10) e anche una dimensione
sacramentale, strettamente teologica, come viene comprovato dalle parole di San
Paolo agli Efesini ("Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al
contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra
del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla
sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in
riferimento a Cristo e alla Chiesa!" [Ef 5,29-32]),
che si riferiscono altresì alla tradizione dei profeti (Osea, Isaia, Ezechiele).
Ed è così, perché quell’unità che si realizza attraverso il corpo indica, sin
dall’inizio, non soltanto il "corpo", ma anche la comunione "incarnata" delle
persone – "communio personarum" – che tale comunione sin dall’inizio
richiede. La mascolinità e la femminilità esprimono il duplice aspetto della
costituzione somatica dell’uomo ("questa volta essa è carne dalla mia carne
e ossa dalle mie ossa"), e indicano, inoltre, attraverso le stesse parole
di Genesi 2,23, la nuova coscienza del senso del proprio corpo:
senso, che si può dire consista in un arricchimento reciproco. Proprio
questa coscienza, attraverso la quale l’umanità si forma di nuovo come comunione
di persone, sembra costituire lo strato che nel racconto della creazione
dell’uomo (e nella rivelazione del corpo in esso racchiusa) è più profondo della
stessa struttura somatica come maschio e femmina. In ogni caso, questa struttura
è presentata sin dall’inizio con una profonda coscienza della corporeità e
sessualità umana, e ciò stabilisce una norma inalienabile per la comprensione
dell’uomo sul piano teologico.
Mercoledì, 21 novembre 1979
Valore del matrimonio uno e indissolubile alla luce dei
primi capitoli della Genesi
1. Ricordiamo che Cristo,
interrogato sull’unità e indissolubilità del matrimonio, si è richiamato a ciò
che era "al principio". Egli ha citato le parole scritte nei primi capitoli
della Genesi. Cerchiamo perciò, nel corso delle presenti riflessioni, di
penetrare il senso proprio di queste parole e di questi capitoli.
Il significato dell’unità
originaria dell’uomo, che Dio ha creato "maschio e femmina", si ottiene
(particolarmente alla luce di Genesi 2,23) conoscendo l’uomo nell’intera
dotazione del suo essere, cioè in tutta la ricchezza di quel mistero della
creazione, che sta alla base dell’antropologia teologica. Questa conoscenza, la
ricerca cioè dell’identità umana di colui che all’inizio è "solo", deve passare
sempre attraverso la dualità, la "comunione".
Ricordiamo il passo di Genesi
2,23: "Allora l’uomo disse: "Questa volta essa è carne dalla mia carne e ossa
dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta"". Alla luce
di questo testo, comprendiamo che la conoscenza dell’uomo passa attraverso la
mascolinità e la femminilità, che sono come due "incarnazioni" della stessa
metafisica solitudine, di fronte a Dio e al mondo – come due modi di "essere
corpo" e insieme uomo, che si completano reciprocamente – come due
dimensioni complementari dell’autocoscienza e dell’autodeterminazione e, nello
stesso tempo, come due coscienze complementari del significato del corpo.
Così come già dimostra Genesi 2,23, la femminilità ritrova, in certo
senso, se stessa di fronte alla mascolinità, mentre la mascolinità si conforma
attraverso la femminilità. Proprio la funzione del sesso, che è, in un certo
senso, "costitutivo della persona" (non soltanto "attributo della persona"),
dimostra quanto profondamente l’uomo, con tutta la sua solitudine spirituale,
con l’unicità e irripetibilità propria della persona, sia costituito dal corpo
come "lui" o "lei". La presenza dell’elemento femminile, accanto a quello
maschile e insieme con esso, ha il significato di un arricchimento per l’uomo in
tutta la prospettiva della sua storia, ivi compresa la storia della salvezza.
Tutto questo insegnamento sull’unità è già stato espresso originariamente in
Genesi 2,23.
2. L’unità, di cui parla
Genesi 2,23 ("i due saranno una sola carne"), è senza dubbio quella che
si esprime e realizza nell’atto coniugale. La formulazione biblica, estremamente
concisa e semplice, indica il sesso, femminilità e mascolinità, come quella
caratteristica dell’uomo – maschio e femmina – che permette loro, quando
diventano "una sola carne", di sottoporre contemporaneamente tutta la loro
umanità alla benedizione della fecondità. Tuttavia l’intero contesto della
lapidaria formulazione non ci permette di soffermarci alla superficie della
sessualità umana, non ci consente di trattare del corpo e del sesso al di fuori
della piena dimensione dell’uomo e della "comunione delle persone", ma ci
obbliga fin dal "principio" a scorgere la pienezza e la profondità proprie di
questa unità, che uomo e donna debbono costituire alla luce della rivelazione
del corpo.
Quindi, prima di tutto,
l’espressione prospettica che dice: "l’uomo... si unirà a sua moglie" così
intimamente che "i due saranno una sola carne", ci induce sempre a rivolgerci a
ciò che il testo biblico esprime antecedentemente riguardo all’unione
nell’umanità, che lega la donna e l’uomo nel mistero stesso della creazione. Le
parole di Genesi 2,23 or ora analizzate, spiegano questo concetto in modo
particolare. L’uomo e la donna, unendosi tra loro (nell’atto coniugale) così
strettamente da divenire "una sola carne", riscoprono, per così dire, ogni volta
e in modo speciale, il mistero della creazione, ritornano così a quell’unione
nell’umanità ("carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa"), che permette loro
di riconoscersi reciprocamente e, come la prima volta, di chiamarsi per nome.
Ciò significa rivivere, in certo senso, l’originario valore verginale dell’uomo,
che emerge dal mistero della sua solitudine di fronte a Dio e in mezzo al mondo.
Il fatto che divengano "una sola carne" è un potente legame stabilito dal
Creatore attraverso il quale essi scoprono la propria umanità, sia nella sua
unità originaria, sia nella dualità di una misteriosa attrattiva reciproca. Il
sesso, però, è qualcosa di più della forza misteriosa della corporeità umana,
che agisce quasi in virtù dell’istinto. A livello di uomo e nella reciproca
relazione delle persone, il sesso esprime un sempre nuovo superamento del limite
della solitudine dell’uomo insita nella costituzione del suo corpo, e ne
determina il significato originario. Questo superamento contiene sempre in sé
una certa assunzione della solitudine del corpo del secondo "io" come propria.
3. Perciò essa è legata
alla scelta. La stessa formulazione di Genesi 2,24 indica non solo che
gli esseri umani creati come uomo e donna sono stati creati per l’unità, ma pure
che proprio questa unità, attraverso la quale diventano "una sola carne",
ha fin dall’inizio un carattere di unione che deriva da una scelta.
Leggiamo infatti: "L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua
moglie". Se l’uomo appartiene "per natura" al padre e alla madre, in forza della
generazione, "si unisce" invece alla moglie (o al marito) per scelta. Il testo
di Genesi 2,24 definisce tale carattere del legame coniugale in
riferimento al primo uomo e alla prima donna, ma nello stesso tempo lo fa anche
nella prospettiva di tutto il futuro terreno dell’uomo. Perciò, a suo tempo,
Cristo si richiamerà a quel testo, come ugualmente attuale nella sua epoca.
Formati ad immagine di Dio, anche in quanto formano un’autentica comunione di
persone, il primo uomo e la prima donna debbono costituirne l’inizio e il
modello per tutti gli uomini e donne, che in qualunque tempo si uniranno tra di
loro così intimamente da essere "una sola carne". Il corpo, che attraverso la
propria mascolinità o femminilità, fin dall’inizio aiuta ambedue ("un aiuto che
gli sia simile") a ritrovarsi in comunione di persone, diviene, in modo
particolare, l’elemento costitutivo della loro unione, quando diventano marito e
moglie. Ciò si attua, però, attraverso una reciproca scelta. È la scelta che
stabilisce il patto coniugale tra le persone (Gaudium
et Spes, 48: "L’intima comunità di vita e d’amore coniugale, fondata dal
Creatore e strutturata con leggi proprie, è stabilita dal patto coniugale, vale
a dire dall’irrevocabile consenso personale".), le quali soltanto in base ad
essa divengono "una sola carne".
4. Ciò corrisponde alla
struttura della solitudine dell’uomo, e in concreto alla "duplice solitudine".
La scelta, come espressione di autodeterminazione, poggia sul fondamento di
quella struttura, cioè sul fondamento della sua autocoscienza. Soltanto in base
alla struttura propria dell’uomo, egli "è corpo" e, attraverso il corpo, è anche
maschio e femmina. Quando entrambi si uniscono tra di loro così intimamente da
diventare "una sola carne", la loro unione coniugale presuppone una matura
coscienza del corpo. Anzi, essa porta in sé una particolare consapevolezza
del significato di quel corpo nel reciproco donarsi delle persone. Anche in
questo senso, Genesi 2,24 è un testo prospettico. Esso dimostra, infatti,
che in ogni unione coniugale dell’uomo e della donna viene di nuovo scoperta la
stessa originaria coscienza del significato unitivo del corpo nella sua
mascolinità e femminilità; con ciò il testo biblico indica, nello stesso tempo,
che in ciascuna di tali unioni si rinnova, in certo modo, il mistero della
creazione in tutta la sua originaria profondità e forza vitale. "Tolta
dall’uomo" quale "carne dalla sua carne", la donna diventa in seguito, come
"moglie" e attraverso la sua maternità, madre dei viventi (cf. Gen 3,20),
poiché la sua maternità ha anche in lui la propria origine. La procreazione è
radicata nella creazione, ed ogni volta, in certo senso, riproduce il suo
mistero.
5. A questo argomento sarà
dedicata una speciale riflessione: "La conoscenza e la procreazione". In essa
occorrerà riferirsi ancora ad altri elementi del testo biblico. L’analisi fatta
finora del significato dell’unità originaria dimostra in che modo "da principio"
quella unità dell’uomo e della donna, inerente al mistero della creazione, viene
pure data come un impegno nella prospettiva di tutti i tempi successivi.
Mercoledì, 12 dicembre 1979
I significati delle primordiali esperienze dell’uomo
1. Si può dire che l’analisi dei primi
capitoli della Genesi ci costringe, in certo senso, a ricostruire gli elementi
costitutivi dell’originaria esperienza dell’uomo. In questo senso, il testo
jahvista è, per il suo carattere, una fonte peculiare. Parlando delle originarie
esperienze umane, abbiamo in mente non tanto la loro lontananza nel tempo,
quanto piuttosto il loro significato fondante. L’importante, quindi, non è che
queste esperienze appartengano alla preistoria dell’uomo (alla sua "preistoria
teologica"), ma che esse siano sempre alla radice di ogni esperienza umana. Ciò
è vero, anche se a queste esperienze essenziali, nell’evolversi dell’ordinaria
esistenza umana, non si presta molta attenzione. Esse, infatti, sono così
intrecciate alle cose ordinarie della vita che in genere non ci accorgiamo della
loro straordinarietà. In base alle analisi finora fatte abbiamo già potuto
renderci conto che quanto abbiamo chiamato all’inizio "rivelazione del corpo" ci
aiuta in qualche modo a scoprire la straordinarietà di ciò che è ordinario. Ciò
è possibile perché la rivelazione (quella originaria, che ha trovato espressione
prima nel racconto jahvista di Genesi 2-3, poi nel testo di Genesi
1) prende in considerazione proprio tali esperienze primordiali nelle quali
appare in maniera quasi completa l’assoluta originalità di ciò che è
l’essere umano maschio-femmina: in quanto uomo, cioè, anche attraverso il suo
corpo. L’umana esperienza del corpo, così come la scopriamo nei testi biblici
citati, si trova certo alla soglia di tutta l’esperienza "storica" successiva.
Essa, tuttavia, sembra anche poggiare su di una profondità ontologica tale, che
l’uomo non la percepisce nella propria vita quotidiana, anche se nel contempo, e
in certo modo, la presuppone e la postula come parte del processo di formazione
della propria immagine.
2. Senza tale riflessione introduttiva,
sarebbe impossibile precisare il significato della nudità originaria e
affrontare l’analisi di Genesi 2,25, che suona così: "Ora tutti e due
erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna". A prima vista,
l’introduzione di questo particolare, apparentemente secondario, nel racconto
jahvista della creazione dell’uomo può sembrare qualcosa di inadeguato o di
sfasato. Verrebbe da pensare che il passo citato non possa sostenere il paragone
con ciò di cui trattano i versetti precedenti e che, in certo senso, oltrepassi
il contesto. Tuttavia, ad un’analisi approfondita, tale giudizio non regge. In
effetti, Genesi 2,25, presenta uno degli elementi chiave della
rivelazione originaria, altrettanto determinante quanto gli altri testi
genesiaci (Gen 2,20.23), che
già ci hanno permesso di precisare il significato della solitudine originaria e
della originaria unità dell’uomo. A questi si aggiunge, come terzo elemento,
il significato della nudità originaria, chiaramente messo in evidenza nel
contesto; ed esso, nel primo abbozzo biblico dell’antropologia, non è
qualcosa di accidentale. Al contrario, esso è proprio la chiave per la sua
piena e completa comprensione.
3. È ovvio che appunto questo elemento
dell’antico testo biblico dia alla teologia del corpo un contributo specifico,
dal quale non si può assolutamente prescindere. Ce lo confermeranno le ulteriori
analisi. Ma, prima di intraprenderle, mi permetto di osservare che proprio il
testo di Genesi 2,25 esige espressamente di collegare le riflessioni
sulla teologia del corpo con la dimensione della soggettività personale
dell’uomo; è in questo ambito, infatti, che si sviluppa la coscienza del
significato del corpo. Genesi 2,25 ne parla in modo molto più diretto che
non altre parti di quel testo jahvista, che abbiamo già definito come prima
registrazione della coscienza umana. La frase, secondo cui i primi esseri umani,
uomo e donna, "erano nudi" e tuttavia "non provavano vergogna", descrive
indubbiamente il loro stato di coscienza, anzi, la loro reciproca esperienza del
corpo, cioè l’esperienza da parte dell’uomo della femminilità che si rivela
nella nudità del corpo e, reciprocamente, l’analoga esperienza della mascolinità
da parte della donna. Affermando che "non ne provavano vergogna", l’autore cerca
di descrivere questa reciproca esperienza del corpo con la massima precisione
a lui possibile.
Si può dire che questo tipo di precisione rispecchia
un’esperienza di base dell’uomo in senso "comune" e prescientifico, ma esso
corrisponde anche alle esigenze dell’antropologia e in particolare
dell’antropologia contemporanea, che si rifà volentieri alle cosiddette
esperienze di fondo, come l’esperienza del pudore (cf. ad esempio: M. Scheler,
Über Scham und Schamgefühl, Halle 1914; Fr. Sawicki, Fenomenologia del
pudore, Kraków 1949; ed anche K. Wojtyla, Amore e responsabilità,
Roma 1978, II ed., pp. 161-178).
4. Alludendo qui alla precisione del
racconto, quale era possibile all’autore del testo jahvista, siamo indotti a
considerare i gradi di esperienza dell’uomo "storico" carico dell’eredità del
peccato, i quali però metodologicamente partono appunto dallo stato di innocenza
originaria. Abbiamo già constatato precedentemente che nel riferirsi "al
principio" (da noi qui sottoposto a successive analisi contestuali) Cristo
indirettamente stabilisce l’idea di continuità e di legame tra quei due stati,
come se ci permettesse di retrocedere dalla soglia della peccaminosità "storica"
dell’uomo fino alla sua innocenza originaria. Proprio Genesi 2,25 esige
in modo particolare di oltrepassare quella soglia. È facile osservare come
questo passo, insieme al significato ad esso inerente della nudità originaria,
si inserisca nell’insieme contestuale della narrazione jahvista. Infatti, dopo
alcuni versetti, lo stesso autore scrive: "Allora si aprirono gli occhi di tutti
e due e si accorsero di essere nudi, intrecciarono foglie di fico e se ne fecero
cinture" (Gen 3,7). L’avverbio "allora" indica un
nuovo momento e una nuova situazione conseguenti alla rottura della prima
alleanza; è una situazione che segue al fallimento della prova legata all’albero
della conoscenza del bene e del male, che nel contempo costituiva la prima prova
di "obbedienza", cioè di ascolto della Parola in tutta la sua verità e di
accettazione dell’Amore, secondo la pienezza delle esigenze della Volontà
creatrice. Questo nuovo momento o nuova situazione comporta anche un nuovo
contenuto e una nuova qualità dell’esperienza del corpo, così che non si può più
dire: "erano nudi, ma non ne provavano vergogna". La vergogna è quindi
un’esperienza non soltanto originaria, ma "di confine".
5. È significativa, perciò, la differenza
di formulazioni, che divide Genesi 2,25 da Genesi 3,7. Nel primo
caso, "erano nudi, ma non ne provavano vergogna"; nel secondo caso, "si
accorsero di essere nudi". Si vuol forse dire, con ciò, che in un primo tempo
"non si erano accorti di essere nudi"? che non sapevano e non vedevano
reciprocamente la nudità dei loro corpi? La significativa trasformazione
testimoniataci dal testo biblico circa l’esperienza della vergogna (di cui parla
ancora la Genesi, particolarmente in 3,10-12), si attua ad un livello più
profondo del puro e semplice uso del senso della vista. L’analisi comparativa
tra Genesi 2,25 e Genesi 3 porta necessariamente alla conclusione
che qui non si tratta del passaggio dal "non conoscere" al "conoscere", ma di un
radicale cambiamento del significato della nudità originaria della donna
di fronte all’uomo e dell’uomo di fronte alla donna. Esso emerge dalla loro
coscienza, come frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male: "chi ti
ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo
comandato di non mangiare?" (Gen 3,11). Tale
cambiamento riguarda direttamente l’esperienza del significato del proprio corpo
di fronte al Creatore e alle creature. Ciò viene confermato in seguito dalle
parole dell’uomo: "Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché
sono nudo, e mi sono nascosto" (Gen 3,10). Ma in
particolare quel cambiamento, che il testo jahvista delinea in modo così conciso
e drammatico, riguarda direttamente, forse nel modo più diretto possibile, la
relazione uomo-donna, femminilità-mascolinità.
6. Sull’analisi di questa trasformazione
dovremo ritornare ancora in altre parti delle nostre ulteriori riflessioni. Ora,
giunti a quel confine che attraversa la sfera del "principio" al quale si è
richiamato Cristo, dovremmo chiederci se sia possibile ricostruire, in un
certo qual modo, il significato originario della nudità, che nel Libro della
Genesi costituisce il contesto prossimo della dottrina circa l’unità dell’essere
umano in quanto maschio e femmina. Ciò sembra possibile, se assumiamo come
punto di riferimento l’esperienza della vergogna così come essa nell’antico
testo biblico è stata chiaramente presentata quale esperienza "liminale".
Cercheremo di fare un tentativo di tale ricostruzione nel
seguito delle nostre meditazioni.
Mercoledì, 19 dicembre 1979
Pienezza personalistica dell’innocenza originale
1. Che cos’è la vergogna e come spiegare
la sua assenza nello stato di innocenza originaria, nella profondità stessa del
mistero della creazione dell’uomo come maschio e femmina? Dalle analisi
contemporanee della vergogna e in particolare del pudore sessuale si deduce la
complessità di questa fondamentale esperienza, nella quale l’uomo si esprime
come persona secondo la struttura che gli è propria. Nell’esperienza del pudore,
l’essere umano sperimenta il timore nei confronti del "secondo io" (così, ad
esempio, la donna di fronte all’uomo), e questo è sostanzialmente timore per il
proprio "io". Con il pudore, l’essere umano manifesta quasi "istintivamente" il
bisogno dell’affermazione e dell’accettazione di questo "io", secondo il suo
giusto valore. Lo esperimenta nello stesso tempo sia dentro se stesso, sia
all’esterno, di fronte all’"altro". Si può dunque dire che il pudore è
un’esperienza complessa anche nel senso che, quasi allontanando un essere umano
dall’altro (la donna dall’uomo), esso cerca nel contempo il loro personale
avvicinamento, creandogli una base e un livello idonei.
Per la stessa ragione, esso ha un significato fondamentale
quanto alla formazione dell’ethos nell’umana convivenza, e in particolare
nella relazione uomo-donna. L’analisi del pudore indica chiaramente quanto
profondamente esso sia radicato appunto nelle mutue relazioni, quanto
esattamente esprima le regole essenziali alla "comunione delle persone", e
parimenti quanto profondamente tocchi la dimensione della "solitudine"
originaria dell’uomo. L’apparire della "vergogna" nella successiva
narrazione biblica del capitolo 3 della Genesi ha un significato
pluridimensionale, e a suo tempo ci converrà riprenderne l’analisi.
Che cosa significa, invece, la sua originaria assenza in
Genesi 2,25: "Erano nudi ma non ne provavano vergogna"?
2. Bisogna stabilire, anzitutto, che si
tratta, di una vera non-presenza della vergogna, e non di una sua carenza o di
un suo sottosviluppo. Non possiamo qui in alcun modo sostenere una "primitivizzazione"
del suo significato. Quindi il testo di Genesi 2,25 non soltanto esclude
decisamente la possibilità di pensare ad una "mancanza di vergogna", ovverosia
alla impudicizia, ma ancor più esclude che la si spieghi mediante l’analogia con
alcune esperienze umane positive, come ad esempio quelle dell’età infantile
oppure della vita dei cosiddetti popoli primitivi. Tali analogie sono non
soltanto insufficienti, ma possono essere addirittura deludenti. Le parole di
Genesi 2,25 "non provavano vergogna" non esprimono carenza, ma, al
contrario, servono ad indicare una particolare pienezza di coscienza e di
esperienza, soprattutto la pienezza di comprensione del significato del corpo,
legata al fatto che "erano nudi".
Che così si debba comprendere e interpretare il testo citato, lo
testimonia il seguito della narrazione jahvista, in cui l’apparire della
vergogna e in particolare del pudore sessuale, è collegato con la perdita di
quella pienezza originaria. Presupponendo, quindi, l’esperienza del pudore come
esperienza "di confine", dobbiamo domandarci a quale pienezza di coscienza e
di esperienza, e in particolare a quale pienezza di comprensione del
significato del corpo corrisponda il significato della nudità originaria, di
cui parla Genesi 2,25.
3. Per rispondere a questa domanda, è
necessario tenere presente il processo analitico finora condotto, che ha la sua
base nell’insieme del passo jahvista. In questo contesto, la solitudine
originaria dell’uomo si manifesta come "non-identificazione" della propria
umanità col mondo degli esseri viventi ("animalia") che lo circondano.
Tale "non-identificazione", in seguito alla creazione dell’uomo
come maschio e femmina, cede il posto alla felice scoperta della propria umanità
"con l’aiuto" dell’altro essere umano; così l’uomo riconosce e ritrova la
propria umanità "con l’aiuto" della donna (Gen 2,25).
Questo loro atto, nello stesso tempo, realizza una percezione del mondo, che si
attua direttamente attraverso il corpo ("carne dalla mia carne"). Esso è la
sorgente diretta e visibile dell’esperienza che giunge a stabilire la loro unità
nell’umanità. Non è difficile capire, perciò, che la nudità corrisponde a quella
pienezza di coscienza del significato del corpo, derivante dalla tipica
percezione dei sensi. Si può pensare a questa pienezza in categorie di verità
dell’essere o della realtà, e si può dire che l’uomo e la donna erano
originariamente dati l’uno all’altro proprio secondo tale verità, in quanto
"erano nudi". Nell’analisi del significato della nudità originaria, non si può
assolutamente prescindere da questa dimensione.
Questo partecipare alla percezione del mondo – nel suo
aspetto "esteriore" – è un fatto diretto e quasi spontaneo, anteriore a
qualsiasi complicazione "critica" della conoscenza e dell’esperienza umana e
appare strettamente connesso all’esperienza del significato del corpo umano.
Già così si potrebbe percepire l’innocenza originaria della "conoscenza".
4. Tuttavia, non si può individuare il
significato della nudità originaria considerando soltanto la partecipazione
dell’uomo alla percezione esteriore del mondo; non lo si può stabilire senza
scendere nell’intimo dell’uomo. Genesi 2,25 ci introduce proprio a questo
livello e vuole che noi lì cerchiamo l’innocenza originaria del conoscere.
Infatti, è con la dimensione dell’interiorità umana che bisogna spiegare e
misurare quella particolare pienezza della comunicazione interpersonale, grazie
alla quale uomo e donna "erano nudi ma non ne provavano vergogna".
Il concetto di "comunicazione", nel nostro linguaggio
convenzionale, è stato pressoché alienato dalla sua più profonda, originaria
matrice semantica. Esso viene legato soprattutto alla sfera dei mezzi, e cioè,
in massima parte, ai prodotti che servono per l’intesa, lo scambio,
l’avvicinamento. Invece è lecito supporre che, nel suo significato originario e
più profondo, la "comunicazione" era ed è direttamente connessa a soggetti, che
"comunicano" appunto in base alla "comune unione" esistente tra di loro, sia per
raggiungere sia per esprimere una realtà che è propria e pertinente soltanto
alla sfera dei soggetti-persone. In questo modo, il corpo umano acquista un
significato completamente nuovo, che non può essere posto sul piano della
rimanente percezione "esterna" del mondo. Esso, infatti, esprime la persona
nella sua concretezza ontologica ed essenziale, che è qualcosa di più
dell’"individuo", e quindi esprime l’"io" umano personale, che fonda dal di
dentro la sua percezione "esteriore".
5. Tutta la narrazione biblica e in
particolare il testo jahvista, mostra che il corpo attraverso la propria
visibilità manifesta l’uomo e, manifestandolo, fa da intermediario, cioè
fa sì che uomo e donna, fin dall’inizio, "comunichino" tra loro secondo quella
"communio personarum" voluta dal Creatore proprio per loro. Soltanto
questa dimensione, a quanto pare, ci permette di comprendere in modo appropriato
il significato della nudità originaria. A questo proposito, qualunque criterio
"naturalistico" è destinato a fallire, mentre invece il criterio
"personalistico" può essere di grande aiuto. Genesi 2,25 parla certamente
di qualcosa di straordinario, che sta al di fuori dei limiti del pudore
conosciuto per il tramite dell’esperienza umana e che insieme decide della
particolare pienezza della comunicazione interpersonale, radicata nel cuore
stesso di quella "communio" che viene così rivelata e sviluppata. In tale
rapporto, le parole "non provavano vergogna" possono significare ("in sensu
obliquo") soltanto un’originale profondità nell’affermare ciò che è inerente
alla persona, ciò che è "visibilmente" femminile e maschile, attraverso cui si
costituisce l’"intimità personale" della reciproca comunicazione in tutta la sua
radicale semplicità e purezza. A questa pienezza di percezione "esteriore",
espressa mediante la nudità fisica, corrisponde l’"interiore" pienezza della
visione dell’uomo in Dio, cioè secondo la misura dell’"immagine di Dio" (cf.
Gen 1,17). Secondo questa misura, l’uomo "è"
veramente nudo ("erano nudi" [Gen 2,25]), prima
ancora di accorgersene (cf. Gen 3,7-10).
Dovremo ancora completare l’analisi di questo testo così
importante durante le meditazioni che seguiranno.
Mercoledì, 2 gennaio 1980
La creazione come dono fondamentale e originario
1. Ritorniamo all’analisi
del testo della Genesi (Gen
2, 25), iniziato alcune settimane fa.
Secondo tale passo, l’uomo e la
donna vedono se stessi quasi attraverso il mistero della creazione; vedono se
stessi in questo modo, prima di conoscere "di essere nudi". Questo reciproco
vedersi, non è solo una partecipazione all’"esteriore" percezione del mondo, ma
ha anche una dimensione interiore di partecipazione alla visione dello stesso
Creatore - di quella visione di cui parla più volte il racconto del capitolo
primo: "Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona" (Gen
1, 31). La "nudità" significa il bene
originario della visione divina. Essa significa tutta la semplicità e pienezza
della visione attraverso la quale si manifesta il valore "puro" dell’uomo quale
maschio e femmina, il valore "puro" del corpo e del sesso. La situazione che
viene indicata, in modo così conciso e insieme suggestivo, dall’originaria
rivelazione del corpo come risulta in particolare dal Genesi 2, 25, non
conosce interiore rottura e contrapposizione tra ciò che è spirituale e ciò che
è sensibile, così come non conosce rottura e contrapposizione tra ciò che
umanamente costituisce la persona e ciò che nell’uomo è determinato dal sesso:
ciò che è maschile e femminile.
Vedendosi reciprocamente, quasi
attraverso il mistero stesso della creazione, uomo e donna vedono se
stessi ancor più pienamente e più distintamente che non attraverso il senso
stesso della vista, attraverso cioè gli occhi del corpo. Vedono infatti, e
conoscono se stessi con tutta la pace dello sguardo interiore, che crea appunto
la pienezza dell’intimità delle persone. Se la "vergogna" porta con sé una
specifica limitazione del vedere mediante gli occhi del corpo, ciò avviene
soprattutto perché l’intimità personale è come turbata e quasi "minacciata" da
tale visione. Secondo Genesi 2, 25, l’uomo e la donna "non provavano
vergogna": vedendo e conoscendo se stessi in tutta la pace e tranquillità dello
sguardo interiore, essi "comunicano" nella pienezza dell’umanità, che si
manifesta in loro come reciproca complementarietà proprio perché "maschile" e
"femminile". Al tempo stesso, "comunicano" in base a quella comunione delle
persone, nella quale, attraverso la femminilità e la mascolinità essi diventano
dono vicendevole l’una per l’altra. In questo modo raggiungono nella reciprocità
una particolare comprensione del significato del proprio corpo. L’originario
significato della nudità corrisponde a quella semplicità e pienezza di visione,
nella quale la comprensione del significato del corpo nasce quasi nel cuore
stesso della loro comunità-comunione. La chiameremo "sponsale". L’uomo e la
donna in Genesi 2, 23-25 emergono, al "principio" stesso appunto, con
questa coscienza del significato del proprio corpo. Ciò merita un’analisi
approfondita.
2. Se il racconto della
creazione dell’uomo nelle due versioni, quella del capitolo primo e quella
jahvista del capitolo secondo ci permette di stabilire il significato originario
della solitudine, dell’unità e della nudità, per ciò stesso ci permette anche di
ritrovarci sul terreno di un’adeguata antropologia, che cerca di comprendere e
di interpretare l’uomo in ciò che è essenzialmente umano. (Il concetto di
"antropologia adeguata" è stato spiegato nel testo stesso come "comprensione e
interpretazione dell’uomo in ciò che è essenzialmente umano". Questo concetto
determina il principio stesso di riduzione, proprio della filosofia dell’uomo,
indica il limite di questo principio, e indirettamente esclude che si possa
varcare questo limite. L’antropologia "adeguata" poggia sull’esperienza
essenzialmente "umana", opponendosi al riduzionismo di tipo "naturalistico", che
va spesso di pari passo con la teoria evoluzionista circa gli inizi dell’uomo.)
I testi biblici contengono gli
elementi essenziali di tale antropologia, che si manifestano nel contesto
teologico dell’"immagine di Dio". Questo concetto nasconde in sé la radice
stessa della verità sull’uomo, rivelata attraverso quel "principio", al quale
Cristo si richiama nel colloquio con i farisei (cf. Mt 19, 3-9),
parlando della creazione dell’uomo come maschio e femmina. Bisogna ricordare che
tutte le analisi che qui facciamo, si ricollegano, almeno indirettamente,
proprio a queste sue parole. L’uomo, che Dio ha creato "maschio e femmina", reca
l’immagine divina impressa nel corpo "da principio"; uomo e donna costituiscono
quasi due diversi modi dell’umano "esser corpo" nell’unità di quell’immagine.
Ora, conviene rivolgersi nuovamente
a quelle fondamentali parole di cui Cristo si è servito, cioè alla parola "creò"
e al soggetto "Creatore", introducendo nelle considerazioni fatte finora una
nuova dimensione, un nuovo criterio di comprensione e di interpretazione,
che chiameremo "ermeneutica del dono". La dimensione del dono decide
della verità essenziale e della profondità di significato dell’originaria
solitudine-unità-nudità. Essa sta anche nel cuore stesso del mistero della
creazione, che ci permette di costruire la teologia del corpo "da principio", ma
esige, nello stesso tempo, che noi la costruiamo proprio in tale modo.
3. La parola "creò", in
bocca a Cristo, contiene la stessa verità che troviamo nel Libro della Genesi.
Il primo racconto della creazione ripete più volte questa parola, da Genesi
1,1 ("in principio Dio creò il cielo e la terra") fino a Genesi 1, 27
("Dio creò l’uomo a sua immagine"). (Il termine ebraico "bara" creò, usato
esclusivamente per determinare l’azione di Dio, appare nel racconto della
creazione soltanto nel v. 1 [creazione del cielo e della terra], nel v. 21
[creazione degli animali] e nel v. 27 [creazione dell’uomo]; qui però appare
addirittura tre volte. Ciò significa la pienezza e la perfezione di quell’atto
che è la creazione dell’uomo, maschio e femmina. Tale iterazione indica che
l’opera della creazione ha raggiunto qui il suo punto culminante.) Dio rivela se
stesso soprattutto come Creatore. Cristo si richiama a quella fondamentale
rivelazione racchiusa nel Libro della Genesi. Il concetto di creazione ha in
esso tutta la sua profondità non soltanto metafisica, ma anche pienamente
teologica. Creatore è colui che "chiama all’esistenza dal nulla", e che
stabilisce nell’esistenza il mondo e l’uomo nel mondo, perché Egli "è amore"
(1 Gv 4, 8). A
dire il vero, non troviamo questa parola amore (Dio è amore) nel racconto della
creazione; tuttavia questo racconto ripete spesso: "Dio vide quanto aveva fatto,
ed ecco, era cosa molto buona". Attraverso queste parole noi siamo avviati ad
intravvedere nell’amore il motivo divino della creazione, quasi la sorgente da
cui. essa scaturisce: soltanto l’amore infatti dà inizio al bene e si
compiace del bene (cf. 1 Cor
13). La creazione perciò, come azione di
Dio, significa non soltanto il chiamare dal nulla all’esistenza e lo stabilire
l’esistenza del mondo e dell’uomo nel mondo, ma significa anche, secondo la
prima narrazione "beresit bara", donazione; una donazione fondamentale e
"radicale", vale a dire, una donazione in cui il dono sorge proprio dal nulla.
4. La lettura dei primi
capitoli del Libro della Genesi ci introduce nel mistero della creazione,
dell’inizio cioè del mondo per volere di Dio, il quale è onnipotenza e amore. Di
conseguenza, ogni creatura porta in sé il segno del dono originario e
fondamentale.
Tuttavia, nello stesso tempo, il
concetto di "donare" non può riferirsi ad un nulla. Esso indica colui che dona e
colui che riceve il dono, ed anche la relazione che si stabilisce tra di loro.
Ora, tale relazione emerge nel racconto della creazione nel momento stesso della
creazione dell’uomo. Questa relazione è manifestata soprattutto
dall’espressione: "Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò" (Gen
1, 27). Nel racconto della creazione del
mondo visibile il donare ha senso soltanto rispetto all’uomo. In tutta l’opera
della creazione, solo di lui si può dire che è stato gratificato di un dono: il
mondo visibile è stato creato "per lui". Il racconto biblico della creazione ci
offre motivi sufficienti per una tale comprensione e interpretazione: la
creazione è un dono, perché in essa appare l’uomo che, come "immagine di Dio", è
capace di comprendere il senso stesso del dono nella chiamata dal nulla
all’esistenza. Ed egli è capace di rispondere al Creatore col linguaggio di
questa comprensione. Interpretando appunto con tale linguaggio il racconto della
creazione, si può dedurne che essa costituisce il dono fondamentale e
originario: l’uomo appare nella creazione come colui che ha ricevuto in dono il
mondo, e viceversa può dirsi anche che il mondo ha ricevuto in dono l’uomo.
Dobbiamo, a questo punto,
interrompere la nostra analisi. Ciò che abbiamo detto finora è in strettissimo
rapporto con tutta la problematica antropologica del "principio". L’uomo vi
appare come "creato", cioè come colui che, in mezzo al "mondo", ha ricevuto in
dono l’altro uomo. E proprio questa dimensione del dono noi dovremo sottoporre
in seguito ad una profonda analisi, per comprendere anche il significato del
corpo umano nella sua giusta misura. Sarà, questo, l’oggetto delle nostre
prossime meditazioni.
Mercoledì, 9 gennaio 1980
La rivelazione e la scoperta del significato sponsale del
corpo
1. Rileggendo ed
analizzando il secondo racconto della creazione, cioè il testo jahvista,
dobbiamo chiederci se il primo "uomo" (adam), nella sua solitudine originaria,
"vivesse" il mondo veramente quale dono, con atteggiamento conforme alla
condizione effettiva di chi ha ricevuto un dono, quale risulta dal racconto del
capitolo primo. Il secondo racconto ci mostra infatti l’uomo nel giardino
dell’Eden (cf. Gen 2,8);
ma dobbiamo osservare che, pur in questa situazione di felicità originaria, lo
stesso Creatore (Dio Jahvè) e poi anche l’"uomo", invece di sottolineare
l’aspetto del mondo come dono soggettivamente beatificante, creato per l’uomo
(cf. Gen 1,26-29),
rilevano che l’uomo è "solo". Abbiamo già analizzato il significato della
solitudine originaria; ora, però, è necessario notare che per la prima volta
appare chiaramente una certa carenza di bene: "Non è bene che l’uomo (maschio)
sia solo" - dice Dio Jahvè - "gli voglio fare un aiuto..." (Gen
2,18). La stessa cosa afferma il primo
"uomo"; anche lui, dopo aver preso coscienza fino in fondo della propria
solitudine tra tutti gli esseri viventi sulla terra, attende un "aiuto che gli
sia simile" (cf. Gen 2,20).
Infatti, nessuno di questi esseri (animalia) offre all’uomo le condizioni di
base, che rendano possibile esistere in una relazione di reciproco dono.
2. Così, dunque, queste
due espressioni, cioè l’aggettivo "solo" e il sostantivo "aiuto", sembrano
essere veramente la chiave per comprendere l’essenza stessa del dono a livello
d’uomo, come contenuto esistenziale iscritto nella verità dell’"immagine di
Dio". Infatti il dono rivela, per così dire, una particolare caratteristica
dell’esistenza personale, anzi della stessa essenza della persona. Quando
Dio Jahvè dice che "non è bene che l’uomo sia solo" (Gen 2,18), afferma
che da "solo" l’uomo non realizza totalmente questa essenza. La realizza
soltanto esistendo "con qualcuno" - e ancor più profondamente e più
completamente: esistendo "per qualcuno". Questa norma dell’esistere come
persona è dimostrato nel Libro della Genesi come caratteristica della creazione,
appunto mediante il significato di queste due parole: "solo" e "aiuto". Sono
proprio esse che indicano quanto fondamentale e costitutiva per l’uomo sia la
relazione e la comunione delle persone. Comunione delle persone significa
esistere in un reciproco "per", in una relazione di reciproco dono. E questa
relazione è appunto il compimento della solitudine originaria dell’"uomo".
3. Tale compimento è,
nella sua origine, beatificante. Senza dubbio esso è implicito nella felicità
originaria dell’uomo, e appunto costituisce quella felicità che appartiene al
mistero della creazione fatta per amore, cioè appartiene all’essenza stessa del
donare creativo. Quando l’uomo-"maschio", svegliato dal sonno genesiaco, vede
l’uomo-"femmina" da lui tratta, dice: "questa volta essa è carne dalla mia carne
e osso dalle mie ossa" (Gen
2,23); queste parole esprimono, in un certo
senso, l’inizio soggettivamente beatificante dell’esistenza dell’uomo nel mondo.
In quanto verificatosi al "principio", ciò conferma il processo di
individuazione dell’uomo nel mondo, e nasce, per così dire, dalla profondità
stessa della sua solitudine umana, che egli vive come persona di fronte a tutte
le altre creature e a tutti gli esseri viventi (animalia). Anche questo
"principio" appartiene quindi ad una antropologia adeguata e può sempre essere
verificato in base ad essa. Tale verifica puramente antropologica ci porta,
nello stesso tempo, al tema della "persona e al tema del "corpo-sesso".
Questa contemporaneità è
essenziale. Se infatti trattassimo del sesso senza la persona, sarebbe distrutta
tutta l’adeguatezza dell’antropologia, che troviamo nel Libro della Genesi. E
per il nostro studio teologico sarebbe allora velata la luce essenziale della
rivelazione del corpo, che in queste prime affermazioni traspare con tanta
pienezza.
4. C’è un forte legame tra
il mistero della creazione, quale dono che scaturisce dall’Amore, e quel
"principio" beatificante dell’esistenza dell’uomo come maschio e femmina, in
tutta la verità del loro corpo e del loro sesso, che è semplice e pura verità di
comunione tra le persone. Quando il primo uomo, alla vista della donna, esclama:
"È carne dalla mia carne, e osso dalle mie ossa" (Gen
2,23), afferma semplicemente l’identità
umana di entrambi. Così esclamando, egli sembra dire: ecco un corpo che
esprime la "persona"! Seguendo un precedente passo del testo jahvista, si
può anche dire: questo "corpo" rivela l’"anima vivente", quale l’uomo diventò
quando Dio Jahvè alitò la vita in lui (cf. Gen 2,7),
per cui ebbe inizio la sua solitudine di fronte a tutti gli altri esseri
viventi. Proprio attraverso la profondità di quella solitudine originaria,
l’uomo emerge ora nella dimensione del dono reciproco, la cui espressione - che
per ciò stesso è espressione della sua esistenza come persona - è il corpo umano
in tutta la verità originaria della sua mascolinità e femminilità. Il corpo, che
esprime la femminilità "per" la mascolinità e viceversa la mascolinità "per" la
femminilità, manifesta la reciprocità e la comunione delle persone. La esprime
attraverso il dono come caratteristica fondamentale dell’esistenza personale.
Questo è il corpo: testimone della creazione come di un dono
fondamentale, quindi testimone dell’Amore come sorgente, da cui è nato questo
stesso donare. La mascolinità-femminilità - cioè il sesso - è il segno
originario di una donazione creatrice di una presa di coscienza da parte
dell’uomo, maschio-femmina, un dono vissuto per così dire in modo originario.
Tale è il significato, con cui il sesso entra nella teologia del corpo.
5.
Quell’"inizio"beatificante dell’essere e dell’esistere dell’uomo, come maschio e
femmina, è collegato con la rivelazione e con la scoperta del significato del
corpo, che conviene chiamare "sposale". Se parliamo di rivelazione ed insieme di
scoperta, la facciamo in rapporto alla specificità del testo jahvista, nel quale
il filo teologico è anche antropologico, anzi appare come una certa realtà
coscientemente vissuta dall’uomo. Abbiamo già osservato che alle parole che
esprimono la prima gioia del comparire dell’uomo all’esistenza come "maschio e
femmina" (Gen 2,23)
segue il versetto che stabilisce la loro unità coniugale (Gen
2,24), e poi quello che attesta la nudità di
entrambi, priva di reciproca vergogna (Gen 2,25). Proprio
questo significativo confronto ci permette di parlare della rivelazione ed
insieme della scoperta del significato "sponsale" del corpo nel mistero
stesso della creazione. Questo significato (in quanto rivelato ed anche
cosciente, "vissuto" dall’uomo) conferma fino in fondo che il donare creativo,
che scaturisce dall’Amore, ha raggiunto la coscienza originaria dell’uomo,
diventando esperienza di reciproco dono, come si percepisce già nel testo
arcaico. Di ciò sembra anche testimoniare - forse perfino in modo specifico -
quella nudità di entrambi i progenitori, libera dalla vergogna.
6. Genesi 2,24
parla della finalizzazione della mascolinità e femminilità dell’uomo, nella vita
dei coniugi-genitori. Unendosi tra loro così strettamente da diventare "una sola
carne", questi sottoporranno, in certo senso, la loro umanità alla benedizione
della fecondità, cioè della "procreazione", di cui parla il primo racconto (Gen 1,28).
L’uomo entra "in essere" con la coscienza di questa finalizzazione della propria
mascolinità-femminilità, cioè della propria sessualità. Nello stesso tempo, le
parole di Genesi 2,25: "Tutti e due erano nudi ma non ne provavano
vergogna", sembrano aggiungere a questa fondamentale verità del significato del
corpo umano, della sua mascolinità e femminilità, un’altra verità non meno
essenziale e fondamentale. L’uomo, consapevole della capacità procreativa del
proprio corpo e del proprio sesso, è nello stesso tempo libero dalla
"costrizione" del proprio corpo e sesso.
Quella nudità originaria, reciproca
e ad un tempo non gravata dalla vergogna, esprime tale libertà interiore
dell’uomo. È, questa, la libertà dall’"istinto sessuale"? Il concetto di
"istinto" implica già una costrizione interiore, analogicamente all’istinto che
stimola la fecondità e la procreazione in tutto il mondo degli esseri viventi (animalia).
Sembra, però, che tutti e due i testi del Libro della Genesi, il primo e il
secondo racconto della creazione dell’uomo, colleghino sufficientemente la
prospettiva della procreazione con la fondamentale caratteristica della
esistenza umana in senso personale. Di conseguenza l’analogia del corpo umano e
del sesso in rapporto al mondo degli animali - che possiamo chiamare analogia
"della natura" - in tutti e due i racconti (benché in ciascuno in modo diverso)
è elevata anch’essa, in un certo senso, a livello di "immagine di Dio", e a
livello di persona e di comunione tra le persone.
A questo problema essenziale
occorrerà dedicare ancora altre analisi. Per la coscienza dell’uomo - anche per
l’uomo contemporaneo - è importante sapere che in quei testi biblici che parlano
del "principio" dell’uomo, si trova la rivelazione del "significato sponsale del
corpo". Però è ancor più importante stabilire che cosa esprima propriamente
questo significato.
Mercoledì, 16 gennaio 1980
L’uomo-persona diventa dono nella libertà dell’amore
1. Continuiamo oggi
l’analisi dei testi del Libro della Genesi, che abbiamo intrapreso secondo la
linea dell’insegnamento di Cristo. Ricordiamo, infatti, che, nel colloquio sul
matrimonio, Egli si è richiamato al "principio".
La rivelazione, ed insieme la
scoperta originaria del significato "sponsale" del corpo, consiste nel
presentare l’uomo, maschio e femmina, in tutta la realtà e verità del suo corpo
e sesso ("erano nudi") e nello stesso tempo nella piena libertà da ogni
costrizione del corpo e del sesso. Di ciò sembra testimoniare la nudità dei
progenitori, interiormente liberi dalla vergogna. Si può dire che, creati
dall’Amore, cioè dotati nel loro essere di mascolinità e femminilità, entrambi
sono "nudi" perché sono liberi della stessa libertà del dono. Questa
libertà sta appunto alla base del significato sponsale del corpo. Il corpo
umano, con il suo sesso, e la sua mascolinità e femminilità, visto nel mistero
stesso delle creazione, è non soltanto sorgente di fecondità e di procreazione,
come in tutto l’ordine naturale, ma racchiude fin "dal principio" l’attributo
"sponsale", cioè la capacità di esprimere l’amore: quell’amore appunto nel
quale l’uomo-persona diventa dono e - mediante questo dono - attua il senso
stesso del suo essere ed esistere. Ricordiamo qui il testo dell’ultimo Concilio,
dove si dichiara che l’uomo è l’unica creatura nel mondo visibile che Dio abbia
voluto "per se stessa", aggiungendo che quest’uomo non può "ritrovarsi
pienamente se non attraverso un dono sincero di sé".(Anzi, quando il Signore
Gesù prega il Padre, perché "tutti siano una cosa sola, come io e te siamo una
cosa sola" [Gv 17,21-22]
mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha suggerito una
certa similitudine tra l’unione delle persone divine e l’unione dei figli di Dio
nella verità e nella carità. Questa similitudine manifesta che l’uomo, il quale
in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stessa, non possa
ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé [Gaudium
et Spes, 24]. L’analisi strettamente teologica del "Libro della Genesi",
in particolare Genesi 2, 23-25, ci consente di far riferimento a
questo testo. Ciò costituisce un altro passo tra "antropologia adeguata" e
"teologia del corpo", strettamente legata alla scoperta delle caratteristiche
essenziali dell’esistenza personale nella "preistoria teologica" dell’uomo.
Sebbene questo possa incontrare resistenza da parte della mentalità
evoluzionistica [anche tra i teologi], tuttavia sarebbe difficile non accorgersi
che il testo analizzato del "Libro della Genesi", specialmente Genesi 2,
23-25, dimostra la dimensione non soltanto "originaria", ma anche "esemplare"
dell’esistenza delI’uomo, in particolare dell’uomo "come maschio e femmina".)
2. La radice di quella
nudità originaria libera dalla vergogna, di cui parla Genesi 2,25, si
deve cercare proprio in quella integrale verità sull’uomo. Uomo o donna, nel
contesto del loro a principio" beatificante, sono liberi della stessa libertà
del dono. Infatti, per poter rimanere nel rapporto del "dono sincero di sé" e
per diventare un tale dono l’uno per l’altro attraverso tutta la loro umanità
fatta di femminilità e mascolinità (anche in rapporto a quella prospettiva di
cui parla Genesi 2,24), essi debbono essere liberi proprio in questo
modo. Intendiamo qui la libertà soprattutto come padronanza di se stessi
(autodominio). Sotto questo aspetto, essa è indispensabile perché l’uomo
possa "dare se stesso", perché possa diventare dono, perché (riferendoci
alle parole del Concilio) possa "ritrovarsi pienamente" attraverso "un dono
sincero di sé". Così, le parole "erano nudi e non ne provavano vergogna" si
possono e si devono intendere come rivelazione - ed insieme riscoperta - della
libertà, che rende possibile e qualifica il senso "sponsale" del corpo.
3. Genesi 2,25 dice
però ancora di più. Difatti, questo passo indica la possibilità e la qualifica
di tale reciproca "esperienza del corpo". E inoltre ci permette di identificare
quel significato sponsale del corpo in actu. Quando leggiamo che "erano
nudi, ma non ne provavano vergogna", ne tocchiamo indirettamente quasi la
radice, e direttamente già i frutti. Liberi interiormente dalla costrizione del
proprio corpo e sesso, liberi della libertà del dono, uomo e donna potevano
fruire di tutta la verità, di tutta l’evidenza umana, così come Dio Jahvè le
aveva rivelate a loro nel mistero della creazione. Questa verità sull’uomo, che
il testo conciliare precisa con le parole sopra citate, ha due principali
accenti. Il primo afferma che l’uomo è l’unica creatura nel mondo che il
Creatore abbia voluto "per se stessa"; il secondo consiste nel dire che questo
stesso uomo, voluto in tal modo dal Creatore fin dal "principio", può ritrovare
se stesso soltanto attraverso un dono disinteressato di sé. Ora, questa verità
circa l’uomo, che in particolare sembra cogliere la condizione originaria
collegata al "principio" stesso dell’uomo nel mistero della creazione, può
essere riletta - in base al testo conciliare - in entrambe le direzioni. Una
tale rilettura ci aiuta a capire ancora maggiormente il significato sponsale del
corpo, che appare iscritto nella condizione originaria dell’uomo e della donna
(secondo Genesi 2,23-25) e in particolare nel significato della loro
nudità originaria.
Se, come abbiamo costatato, alla
radice della nudità c’è l’interiore libertà del dono - dono disinteressato di se
stessi - proprio quel dono permette ad ambedue, uomo e donna, di ritrovarsi
reciprocamente, in quanto il Creatore ha voluto ciascuno di loro "per se
stesso" (cf.
Gaudium et Spes, 24). Così l’uomo nel primo incontro beatificante,
ritrova la donna, ed essa ritrova lui. In questo modo egli accoglie
interiormente lei; l’accoglie così come essa è voluta "per se stessa" dal
Creatore, come è costituita nel mistero dell’immagine di Dio attraverso la sua
femminilità; e, reciprocamente, essa accoglie lui nello stesso modo, come egli è
voluto "per se stesso" dal Creatore, e da Lui costituito mediante la sua
mascolinità. In ciò consiste la rivelazione e la scoperta del significato
"sponsale" del corpo. La narrazione jahvista, e in particolare Genesi
2,25, ci permette di dedurre che l’uomo, come maschio e femmina, entra nel mondo
appunto con questa coscienza del significato del proprio corpo, della sua
mascolinità e femminilità.
4. Il corpo umano,
orientato interiormente dal "dono sincero" della persona, rivela non soltanto la
sua mascolinità o femminilità sul piano fisico, ma rivela anche un tale
valore e una tale bellezza da oltrepassare la dimensione semplicemente
fisica della "sessualità". (La tradizione biblica riferisce un’eco lontana
della perfezione fisica del primo uomo. Il profeta Ezechiele, paragonando
implicitamente il re di Tiro con Adamo nell’Eden, scrive così: "Tu eri un
modello di perfezione, / pieno di sapienza, / perfetto in bellezza; / in Eden,
giardino di Dio..." [Ez 28,12-13]). In
questo modo si completa in un certo senso la coscienza del significato sponsale
del corpo, collegato alla mascolinità-femminilità dell’uomo. Da una parte,
questo significato indica una particolare capacità di esprimere l’amore, in cui
l’uomo diventa dono; dall’altra, gli corrisponde la capacità e la profonda
disponibilità all’"affermazione della persona", cioè, letteralmente, la capacità
di vivere il fatto che l’altro - la donna per l’uomo e l’uomo per la donna - è,
per mezzo del corpo, qualcuno voluto dal Creatore "per se stesso", cioè l’unico
ed irripetibile: qualcuno scelto dall’eterno Amore.
L’"affermazione della persona" non
è nient’altro che accoglienza del dono, la quale, mediante la reciprocità, crea
la comunione delle persone; questa si costruisce dal di dentro, comprendendo
pure tutta l’"esteriorità" dell’uomo, cioè tutto quello che costituisce la
nudità pura e semplice del corpo nella sua mascolinità e femminilità. Allora -
come leggiamo in Genesi 2,25 - l’uomo e la donna non provavano vergogna.
L’espressione biblica "non provavano" indica direttamente "l’esperienza" come
dimensione soggettiva.
5. Proprio in tale
dimensione soggettiva, come due "io" umani determinati dalla loro mascolinità e
femminilità, appaiono entrambi, uomo e donna, nel mistero del loro beatificante
"principio" (ci troviamo nello stato della innocenza originaria e,
simultaneamente, della felicità originaria dell’uomo). Questo apparire è breve,
poiché comprende solo qualche versetto nel Libro della Genesi; tuttavia è pieno
di un sorprendente contenuto, teologico ed insieme antropologico. La
rivelazione e la scoperta del significato sponsale del corpo spiegano la
felicità originaria dell’uomo e, ad un tempo, aprono la prospettiva della
sua storia terrena, nella quale egli non si sottrarrà mai a questo
indispensabile "tema" della propria esistenza.
I versetti seguenti del Libro della
Genesi, secondo il testo jahvista del capitolo 3, dimostrano, a dire il vero,
che questa prospettiva "storica" si costruirà in modo diverso dal "principio"
beatificante (dopo il peccato originale). Tanto più, però, bisogna penetrare
profondamente nella struttura misteriosa, teologica ed insieme antropologica, di
tale "principio". Infatti, in tutta la prospettiva della propria "storia",
l’uomo non mancherà di conferire un significato sponsale al proprio corpo. Anche
se questo significato subisce e subirà molteplici deformazioni, esso rimarrà
sempre il livello più profondo, che esige di essere rivelato in tutta la sua
semplicità e purezza, e manifestarsi in tutta la sua verità, quale segno
dell’"immagine di Dio". Di qui passa anche la strada che va dal mistero della
creazione alla "redenzione del corpo" (cf. Rm 8).
Rimanendo, per ora, sulla soglia di
questa prospettiva storica, ci rendiamo chiaramente conto, in base a Genesi
2,23-25, dello stesso legame che esiste tra la rivelazione e la scoperta del
significato sponsale del corpo e la felicità originaria dell’uomo. Un tale
significato "sponsale" è anche beatificante e, come tale,
manifesta in definitiva tutta la realtà di quella donazione, di cui ci parlano
le prime pagine del Libro della Genesi. La loro lettura ci convince del fatto
che la coscienza del significato del corpo che ne deriva - in particolare del
suo significato "sponsale" - costituisce la componente fondamentale
dell’esistenza umana nel mondo.
Questo significato "sponsale" del
corpo umano si può capire solamente nel contesto della persona. Il corpo ha un
significato "sponsale" perché l’uomo-persona, come dice il Concilio, è una
creatura che Iddio ha voluto per se stessa, e che, simultaneamente, non può
ritrovarsi pienamente se non mediante il dono di sé.
Se Cristo ha rivelato all’uomo ed
alla donna, al di sopra della vocazione al matrimonio, un’altra vocazione -
quella cioè di rinunciare al matrimonio, in vista del Regno dei Cieli -, con
questa vocazione ha messo in rilievo la medesima verità sulla persona umana. Se
un uomo o una donna sono capaci di fare dono di sé per il regno dei cieli,
questo prova a sua volta (e forse anche maggiormente) che c’è la libertà del
dono nel corpo umano. Vuol dire che questo corpo possiede un pieno significato
"sponsale".
Mercoledì, 30 gennaio 1980
Coscienza del significato del corpo e innocenza originaria
1. La realtà del dono e
dell’atto del donare, delineata nei primi capitoli della Genesi come contenuto
costitutivo del mistero. della creazione, conferma che l’irradiazione dell’Amore
è parte integrante di questo stesso mistero. Soltanto l’Amore crea il bene, ed
esso solo può, in definitiva, essere percepito in tutte le sue dimensioni ed i
suoi profili nelle cose create e soprattutto nell’uomo. La sua presenza è quasi
il risultato finale di quell’ermeneutica del dono, che qui stiamo conducendo. La
felicità originaria, il "principio" beatificante dell’uomo che Dio ha creato
"maschio e femmina" (Gen
1,27), il significato sponsale del corpo
nella sua nudità originaria: tutto ciò esprime il radicamento nell’Amore.
Questo donare coerente, che risale
fino alle più profonde radici della coscienza e della subcoscienza, agli strati
ultimi dell’esistenza soggettiva di ambedue, uomo e donna, e che si riflette
nella loro reciproca "esperienza del corpo", "testimonia il
radicamento nell’Amore. I primi versetti della Bibbia ne parlano tanto da
togliere ogni dubbio. Parlano non soltanto della creazione del mondo e dell’uomo
nel mondo, ma anche della grazia, cioè del comunicarsi della santità,
dell’irradiare dello Spirito, che produce uno speciale stato di
"spiritualizzazione" in quell’uomo, che di fatto fu il primo. Nel linguaggio
biblico, cioè nel linguaggio della Rivelazione, la qualifica di "primo"
significa appunto "di Dio": "Adamo, figlio di Dio" (cf. Lc 3,38).
2. La felicità è il
radicarsi nell’Amore. La felicità originaria ci parla del "principio" dell’uomo,
che è sorto dall’Amore e ha dato inizio all’amore. E ciò è avvenuto in modo
irrevocabile, nonostante il successivo peccato e la morte. A suo tempo, Cristo
sarà testimone di questo amore irreversibile del Creatore e Padre, che si era
già espresso nel mistero della creazione e nella grazia dell’innocenza
originaria. E perciò anche il comune "principio" dell’uomo e della donna, cioè
la verità originaria del loro corpo nella mascolinità e femminilità, verso cui
Genesi 2,25 rivolge la nostra attenzione, non conosce la vergogna. Questo
"principio" si può anche definire come originaria e beatificante immunità dalla
vergogna per effetto dell’amore.
3. Una tale immunità ci
orienta verso il mistero dell’innocenza originaria dell’uomo. Essa è un mistero
della sua esistenza, anteriore alla conoscenza del bene e del male e quasi "al
di fuori" di questa. Il fatto che l’uomo esiste in questo modo, antecedentemente
alla rottura della prima Alleanza col suo Creatore, appartiene alla pienezza del
mistero della creazione. Se, come abbiamo già detto, la creazione è un dono
fatto all’uomo, allora la sua pienezza e dimensione più profonda è
determinata dalla grazia, cioè dalla partecipazione alla vita interiore di
Dio stesso, alla sua santità. Questa è anche, nell’uomo, fondamento interiore e
sorgente della sua innocenza originaria. È con questo concetto - e più
precisamente con quello di "giustizia originaria" - che la teologia definisce lo
stato dell’uomo prima del peccato originale. Nella presente analisi del
"principio", che ci spiana le vie indispensabili alla comprensione della
teologia del corpo, dobbiamo soffermarci sul mistero dello stato originario
dell’uomo. Infatti, proprio quella coscienza del corpo - anzi, la coscienza
del significato del corpo - che cerchiamo di mettere in luce attraverso
l’analisi del "principio", rivela la peculiarità dell’innocenza originaria.
Ciò che forse maggiormente si
manifesta in Genesi 2,25 in modo diretto, è appunto il mistero di tale
innocenza, che tanto l’uomo quanto la donna delle origini portano, ciascuno in
se stesso. Di tale caratteristica è testimone in certo senso "oculare" il loro
corpo stesso. È significativo che l’affermazione racchiusa in Genesi 2,25
- circa la nudità reciprocamente libera da vergogna - sia una enunciazione unica
nel suo genere in tutta la Bibbia, così che non sarà mai più ripetuta. Al
contrario, possiamo citare molti testi, in cui la nudità sarà legata alla
vergogna o addirittura, in senso ancor più forte, all’"ignominia".(La "nudità",
nel senso di "mancanza di vestito", nell’antico Medio Oriente significava lo
stato di abiezione degli uomini privi di libertà: di schiavi, prigionieri di
guerra o di condannati, di quelli che non godevano della protezione della legge.
La nudità delle donne era considerata disonore [cf. ad es. le minacce dei
profeti: Os 1,2
e Ez 23,26.29].
L’uomo libero, premuroso della sua dignità, doveva vestirsi sontuosamente: più
le vesti avevano strascico, più alta era la dignità [cf. ad es. la veste di
Giuseppe, che ispirava la gelosia dei suoi fratelli; o dei farisei, che
allungavano le loro frange]. Il secondo significato della "nudità", in senso
eufemistico, riguardava l’atto sessuale. La parola ebraica cerwat
significa un vuoto spaziale [ad es. del paesaggio], mancanza di vestito,
spogliazione, ma non aveva in sé nulla di obbrobrioso.) In questo ampio contesto
sono tanto più visibili le ragioni per scoprire in Genesi 2,25 una particolare
traccia del mistero dell’innocenza originaria e un particolare fattore della sua
irradiazione nel soggetto umano. Tale innocenza appartiene alla dimensione della
grazia contenuta nel mistero della creazione, cioè a quel misterioso dono
fatto all’intimo dell’uomo - al "cuore" umano - che consente ad entrambi,
uomo e donna, di esistere dal "principio" nella reciproca relazione
del dono disinteressato di sé. In ciò è racchiusa la rivelazione e insieme
la scoperta del significato "sponsale" del corpo nella sua mascolinità e
femminilità. Si comprende perché parliamo, in questo caso, di rivelazione ed
insieme di scoperta. Dal punto di vista della nostra analisi è essenziale che la
scoperta del significato sponsale del corpo, che leggiamo nella testimonianza
del Libro della Genesi, si attui attraverso l’innocenza originaria; anzi, è tale
scoperta che la svela e la mette in evidenza.
4. L’innocenza originaria
appartiene al mistero del "principio" umano, dal quale l’uomo "storico" si è poi
separato commettendo il peccato originale. Il che non significa, però, che non
sia in grado di avvicinarsi a quel mistero mediante la sua conoscenza teologica.
L’uomo "storico" cerca di comprendere il mistero dell’innocenza originaria quasi
attraverso un contrasto, e cioè risalendo anche all’esperienza della propria
colpa e della propria peccaminosità.("Sappiamo infatti che la legge è
spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. Io non
riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio,
ma quello che detesto... Quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita
in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in
me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio
il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non
voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque
in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti
acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra
legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della
legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà
da questo corpo votato alla morte?" [Rm
7,14-15.17-24; cf.: "Video meliora
proboque, deteriora sequor": Ovidio, Metamorph., VII, 20]). Egli cerca di
comprendere l’innocenza originaria come carattere essenziale per la teologia del
corpo, partendo dall’esperienza della vergogna; infatti, lo stesso testo biblico
così lo orienta. L’innocenza originaria è quindi ciò che "radicalmente",
cioè alle sue stesse radici, esclude la vergogna del corpo nel rapporto
uomo-donna, ne elimina la necessità nell’uomo, nel suo cuore,
ossia nella sua coscienza. Sebbene l’innocenza originaria parli
soprattutto del dono del Creatore, della grazia che ha reso possibile all’uomo
di vivere il senso della donazione primaria del mondo ed in particolare il senso
della donazione reciproca dell’uno all’altro attraverso la mascolinità e
femminilità in questo mondo, tuttavia tale innocenza sembra anzitutto riferirsi
allo stato interiore del "cuore" umano, della umana volontà. Almeno
indirettamente, in essa è inclusa la rivelazione e la scoperta dell’umana
coscienza morale - la rivelazione e la scoperta di tutta la dimensione della
coscienza - ovviamente, prima della conoscenza del bene e del male. In certo
senso, va intesa come rettitudine originaria.
5. Nel prisma del nostro
"a posteriori storico" cerchiamo quindi di ricostruire, in certo modo, la
caratteristica dell’innocenza originaria intesa quale contenuto della reciproca
esperienza del corpo come esperienza del suo significato sponsale (secondo la
testimonianza di Genesi 2,23-25). Poiché la felicità e l’innocenza sono
iscritte nel quadro della comunione delle persone, come se si trattasse di due
fili convergenti dell’esistenza dell’uomo nello stesso mistero della creazione,
la coscienza beatificante del significato del corpo - cioè del
significato sponsale della mascolinità e della femminilità umane - è
condizionata dall’originaria innocenza. Sembra che non vi sia alcun
impedimento per intendere qui quella innocenza originaria come una particolare
"purezza di cuore", che conserva un’interiore fedeltà al dono secondo il
significato sponsale del corpo. Di conseguenza, l’innocenza originaria, così
concepita, si manifesta come una tranquilla testimonianza della coscienza che
(in questo caso) precede qualsiasi esperienza del bene e del male; e tuttavia
tale testimonianza serena della coscienza è qualcosa di tanto più beatificante.
Si può dire, infatti, che la coscienza del significato sponsale del corpo, nella
sua mascolinità e femminilità, diventa "umanamente" beatificante solo mediante
tale testimonianza.
A questo argomento - cioè al legame
che, nell’analisi del "principio" dell’uomo, si delinea tra la sua innocenza
(purezza di cuore) e la sua felicità - dedicheremo la prossima meditazione.
Mercoledì, 6 febbraio 1980
Il dono del corpo crea un’autentica comunione
1. Proseguiamo l’esame di
quel "principio", al quale Gesù si è richiamato nel suo colloquio con i farisei
sul tema del matrimonio. Questa riflessione esige da noi di oltrepassare la
soglia della storia dell’uomo e di giungere fino allo stato di innocenza
originaria. Per cogliere il significato di tale innocenza, ci basiamo, in certo
modo, sull’esperienza dell’uomo "storico", sulla testimonianza del suo cuore,
della sua coscienza.
2. Seguendo la linea
dell’"a posteriori storico", tentiamo di ricostruire la peculiarità
dell’innocenza originaria racchiusa nell’esperienza reciproca del corpo e del
suo significato sponsale, secondo quanto attesta Genesi 2, 23-25. La
situazione qui descritta rivela l’esperienza beatificante del significato del
corpo che, nell’ambito del mistero della creazione, l’uomo attinge, per così
dire, nella complementarietà di ciò che in lui è maschile e femminile. Tuttavia,
alle radici di questa esperienza deve esserci la libertà interiore del dono,
unita soprattutto all’innocenza; la volontà umana è originariamente innocente
e, in questo modo, è facilitata la reciprocità e lo scambio del dono del
corpo, secondo la sua mascolinità e femminilità, quale dono della persona.
Conseguentemente, l’innocenza attestata in Genesi 2,25 si può definire
come innocenza della reciproca esperienza del corpo. La frase: "Tutti e due
erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna", esprime proprio
tale innocenza nella reciproca "esperienza del corpo", innocenza ispirante
l’interiore scambio del dono della persona, che, nel reciproco rapporto,
realizza in concreto il significato sponsale della mascolinità e femminilità.
Così, dunque, per comprendere l’innocenza della mutua esperienza del corpo,
dobbiamo cercare di chiarire in che cosa consista l’innocenza interiore nello
scambio del dono della persona. Tale scambio costituisce, infatti, la vera
sorgente dell’esperienza dell’innocenza.
3. Possiamo dire che
l’innocenza interiore (cioè la rettitudine di intenzione) nello scambio del dono
consiste in una reciproca "accettazione" dell’altro, tale da corrispondere
all’essenza stessa del dono; in questo modo, la donazione vicendevole crea la
comunione delle persone. Si tratta, perciò, di "accogliere" l’altro essere umano
e di "accettarlo", proprio perché in questa mutua relazione, di cui parla
Genesi 2, 23-25, l’uomo e la donna diventano dono l’uno per l’altro,
mediante tutta la verità e l’evidenza del loro proprio corpo, nella sua
mascolinità e femminilità. Si tratta, quindi, di una tale "accettazione" o
"accoglienza" che esprima e sostenga nella reciproca nudità il significato del
dono e perciò approfondisca la dignità reciproca di esso. Tale dignità
corrisponde profondamente al fatto che il Creatore ha voluto (e continuamente
vuole) l’uomo, maschio e femmina, "per se stesso". L’innocenza "del cuore", e,
di conseguenza, l’innocenza dell’esperienza significa partecipazione morale
all’eterno e permanente atto della volontà di Dio.
Il contrario di tale "accoglienza"
o "accettazione" dell’altro essere umano come dono sarebbe una privazione del
dono stesso e perciò un tramutamento e addirittura una riduzione dell’altro ad
"oggetto per me stesso" (oggetto di concupiscenza, di "appropriazione indebita",
ecc.).
Non tratteremo, ora, in modo
particolareggiato di questa multiforme, presumibile antitesi del dono. Occorre
però già qui, nel contesto di Genesi 2, 23-25, costatare che un tale
estorcere all’altro essere umano il suo dono (alla donna da parte dell’uomo e
viceversa) ed il ridurlo interiormente a puro "oggetto per me", dovrebbe appunto
segnare l’inizio della vergogna. Questa, infatti, corrisponde ad una minaccia
inferta al dono nella sua personale intimità e testimonia il crollo interiore
dell’innocenza nell’esperienza reciproca.
4. Secondo Genesi
2, 25, "uomo e donna non provavano vergogna". Questo ci permette di giungere
alla conclusione che lo scambio del dono, al quale partecipa tutta la loro
umanità, anima e corpo, femminilità e mascolinità, si realizza conservando la
caratteristica interiore (cioè appunto l’innocenza) della donazione di sé e
dell’accettazione dell’altro come dono. Queste due funzioni del mutuo
scambio sono profondamente connesse in tutto il processo del "dono di sé": il
donare e l’accettare il dono si compenetrano, così che lo stesso donare diventa
accettare, e l’accettare si trasforma in donare.
5. Genesi 2, 23-25
ci permette di dedurre che la donna, la quale nel mistero della creazione "è
data" all’uomo dal Creatore, grazie all’innocenza originaria viene "accolta",
ossia accettata da lui quale dono. Il testo biblico a questo punto è del tutto
chiaro e limpido. In pari tempo, l’accettazione della donna da parte dell’uomo e
lo stesso modo di accettarla diventano quasi una prima donazione, cosicché la
donna donandosi (sin dal primo momento in cui nel mistero della creazione è
stata a data" all’uomo da parte del Creatore) "riscopre" ad un tempo a se
stessa", grazie al fatto che è stata accettata e accolta e grazie al modo
con cui è stata ricevuta dall’uomo. Ella ritrova quindi se stessa nel proprio
donarsi ("attraverso un dono sincero di sé") (Gaudium
et Spes, 24), quando viene accettata così come l’ha voluta il Creatore,
cioè "per se stessa", attraverso la sua umanità e femminilità; quando in questa
accettazione viene assicurata tutta la dignità del dono, mediante l’offerta di
ciò che ella è in tutta la verità della sua umanità e in tutta la realtà del suo
corpo e sesso, della sua femminilità, ella perviene all’intima profondità della
sua persona e al pieno possesso di sé. Aggiungiamo che questo ritrovare se
stessi nel proprio dono diventa sorgente di un nuovo dono di sé, che cresce
in forza dell’interiore disposizione allo scambio del dono e nella misura in cui
incontra una medesima e anzi più profonda accettazione e accoglienza, come
frutto di una sempre più intensa coscienza del dono stesso.
6. Sembra che il secondo
racconto della creazione abbia assegnato "da principio" all’uomo la funzione di
chi soprattutto riceve il dono (cf. Gen 2,23).
La donna viene "da principio" affidata ai suoi occhi, alla sua coscienza, alla
sua sensibilità, al suo "cuore"; lui invece deve, in certo senso, assicurare il
processo stesso dello scambio del dono, la reciproca compenetrazione del dare e
ricevere in dono, la quale, appunto attraverso la sua reciprocità, crea
un’autentica comunione di persone.
Se la donna, nel mistero della
creazione, è colei che è stata "data" all’uomo, questi da parte sua, ricevendola
quale dono nella piena verità della sua persona e femminilità, per ciò stesso la
arricchisce, e in pari tempo anch’egli, in questa relazione reciproca, viene
arricchito. L’uomo si arricchisce non soltanto mediante lei, che gli dona la
propria persona e femminilità, ma anche mediante la donazione di se stesso. La
donazione da parte dell’uomo, in risposta a quella della donna, è per lui stesso
un arricchimento; infatti vi si manifesta quasi l’essenza specifica
della sua mascolinità che, attraverso la realtà del corpo e del sesso, raggiunge
l’intima profondità del "possesso di sé", grazie alla quale è capace sia di
dare se stesso che di ricevere il dono dell’altro. L’uomo, quindi, non soltanto
accetta il dono, ma ad un tempo viene accolto quale dono dalla donna, nel
rivelarsi della interiore spirituale essenza della sua mascolinità, insieme con
tutta la verità del suo corpo e sesso. Così accettato, egli, per questa
accettazione ed accoglienza del dono della propria mascolinità, si arricchisce.
In seguito, tale accettazione, in cui l’uomo ritrova se stesso attraverso il
"dono sincero di sé", diventa in lui sorgente di un nuovo e più profondo
arricchimento della donna con sé. Lo scambio è reciproco, ed in esso si rivelano
e crescono gli effetti vicendevoli del "dono sincero" e del "ritrovamento di
sé".
In questo modo, seguendo le orme
dell’"a posteriori storico" - e soprattutto seguendo le orme dei cuori umani -
possiamo riprodurre e quasi ricostruire quel reciproco scambio del dono della
persona, che è stato descritto nell’antico testo, tanto ricco e profondo, del
Libro della Genesi.
Mercoledì, 13 febbraio 1980
L’innocenza originaria e lo stato storico dell’uomo
1. La meditazione di oggi
presuppone quanto già è stato acquisito dalle varie analisi fatte finora. Queste
sono scaturite dalla risposta data da Gesù ai suoi interlocutori (cf. Mt 19,3-9;
Mc 10,1-12),
i quali gli avevano posto una questione sul matrimonio, sulla sua
indissolubilità e unità. Il Maestro aveva loro raccomandato di considerare
attentamente ciò che era "da principio". E proprio per questo, nel ciclo
delle nostre meditazioni fino ad oggi, abbiamo cercato di riprodurre in qualche
modo la realtà dell’unione, o meglio della comunione di persone, vissuta fin "da
principio" dall’uomo e dalla donna. In seguito, abbiamo cercato di penetrare nel
contenuto del conciso versetto 25 di Genesi 2: "Ora tutti e due erano
nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna".
Queste parole fanno riferimento al
dono dell’innocenza originaria, rivelandone il carattere in modo, per così dire,
sintetico. La teologia, su questa base, ha costruito l’immagine globale
dell’innocenza e della giustizia originaria dell’uomo, prima del peccato
originale, applicando il metodo dell’oggettivizzazione, specifico della
metafisica e dell’antropologia metafisica. Nella presente analisi cerchiamo
piuttosto di prendere in considerazione l’aspetto della soggettività umana;
questa, del resto, sembra trovarsi più vicina ai testi originari, specialmente
al secondo racconto della creazione, cioè il testo jahvista.
2. Indipendentemente da
una certa diversità di interpretazione, sembra abbastanza chiaro che
l’"esperienza del corpo", quale possiamo desumere dal testo arcaico di Genesi
2, 23 e più ancora di Genesi 2,25, indica un grado di a
spiritualizzazione" dell’uomo, diverso da quello di cui parla lo stesso testo
dopo il peccato originale (Genesi 3) e che noi conosciamo dall’esperienza
dell’uomo "storico". È una diversa misura di "spiritualizzazione", che comporta
un’altra composizione delle forze interiori nell’uomo stesso, quasi un altro
rapporto corpo-anima, altre proporzioni interne tra la sensitività, la
spiritualità, l’affettività, cioè un altro grado di sensibilità interiore verso
i doni dello Spirito Santo. Tutto ciò condiziona lo stato di innocenza
originaria dell’uomo ed insieme lo determina, permettendoci anche di comprendere
il racconto della Genesi. La teologia ed anche il magistero della Chiesa hanno
dato a queste fondamentali verità una propria forma. ("Si quis non confitetur
primum hominem Adam, cum mandatum Dei in paradiso fuisset transgressus, statim
sanctitatem et iustitiam, in qua constitutus fuerat, amisisse... anathema
sit" [Conc. Trident., Sess. V, can. 1, 2: D.-S. 788, 789].
"Protoparentes in statu sanctitatis et iustitiae constituti fuerunt... Status
iustitiae originalis protoparentibus collatus, erat gratuitus et vere
supernaturalis... Protoparentes constituti sunt in statu naturae integrae, id
est, immunes a concupiscentia, ignorantia, dolore et morte... singularique
felicitate gaudebant... Dona integritatis protoparentibus collata, erant
gratuita et praeternaturalia" [A. Tanquerey, Synopsis Theologiae Dgmaticae,
Parisiis 194324 pp. 534-549].)
3. Intraprendendo
l’analisi del "principio" secondo la dimensione della teologia del corpo, lo
facciamo basandoci sulle parole di Cristo, con le quali egli stesso si è
riferito a quel "principio". Quando disse: "Non avete letto che il Creatore da
principio li creò maschio e femmina?" (Mt
19,4), ci ha ordinato e sempre ci ordina di
ritornare alla profondità del mistero della creazione. E noi lo facciamo, avendo
piena coscienza del dono dell’innocenza originaria, propria dell’uomo prima del
peccato originale. Sebbene una insormontabile barriera ci divida da ciò che
l’uomo è stato allora come maschio e femmina, mediante il dono della grazia
unita al mistero della creazione, e da ciò che ambedue sono stati l’uno per
l’altro, come dono reciproco, tuttavia cerchiamo di comprendere quello stato
di innocenza originaria nel suo legame con lo stato "storico" dell’uomo dopo il
peccato originale: "status naturae lapsae simul et redemptae".
Per il tramite della categoria
dello "a posteriori storico", cerchiamo di giungere al senso originario del
corpo, e di afferrare il legame esistente tra di esso e l’indole dell’innocenza
originaria nell’"esperienza del corpo", quale si pone in evidenza in modo così
significativo nel racconto del Libro della Genesi. Arriviamo alla conclusione
che è importante ed essenziale precisare questo legame, non soltanto nei
confronti della "preistoria teologica" dell’uomo, in cui la convivenza dell’uomo
e della donna era quasi completamente permeata dalla grazia dell’innocenza
originaria, ma anche in rapporto alla sua possibilità di rivelarci le radici
permanenti dell’aspetto umano e soprattutto teologico dell’ethos del corpo.
4. L’uomo entra nel mondo
e quasi nella più intima trama del suo avvenire e della sua storia, con la
coscienza del significato sponsale del proprio corpo, della propria mascolinità
e femminilità. L’innocenza originaria dice che quel significato è condizionato
"eticamente" e inoltre che, da parte sua, costituisce l’avvenire dell’ethos
umano. Questo è molto importante per la teologia del corpo: è la ragione per cui
dobbiamo costruire questa teologia "dal principio", seguendo accuratamente
l’indicazione delle parole di Cristo.
Nel mistero della creazione, l’uomo
e la donna sono stati "dati" dal Creatore, in modo particolare, l’uno
all’altro, e ciò non soltanto nella dimensione di quella prima coppia umana
e di quella prima comunione di persone, ma in tutta la prospettiva
dell’esistenza del genere umano e della famiglia umana. Il fatto fondamentale di
questa esistenza dell’uomo in ogni tappa della sua storia è che Dio "li creò
maschio e femmina"; infatti sempre li crea in questo modo e sempre sono tali. La
comprensione dei significati fondamentali, racchiusi nel mistero stesso della
creazione, come il significato sponsale del corpo (e dei fondamentali
condizionamenti di tale significato), è importante e indispensabile per
conoscere chi sia l’uomo e chi debba essere, e quindi come dovrebbe plasmare la
propria attività. È cosa essenziale e importante per l’avvenire dell’ethos
umano.
5. Genesi 2,24
costata che i due, uomo e donna, sono stati creati per il matrimonio: "Per
questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due
saranno una sola carne". In tal modo si apre una grande prospettiva creatrice:
che è appunto la prospettiva dell’esistenza dell’uomo, la quale continuamente si
rinnova per mezzo della "procreazione" (si potrebbe dire dell’"autoriproduzione").
Tale prospettiva è profondamente radicata nella coscienza dell’umanità (cf. Gen 2,23)
e anche nella particolare coscienza del significato sponsale del corpo (Gen
2,25). L’uomo e la donna, prima di diventare
marito e moglie (in concreto ne parlerà in seguito Genesi 4,1), emergono dal
mistero della creazione prima di tutto come fratello e sorella nella stessa
umanità. La comprensione del significato sponsale del corpo nella sua
mascolinità e femminilità rivela l’intimo della loro libertà, che è libertà di
dono.
Di qui inizia quella comunione di
persone, in cui entrambi s’incontrano e si donano reciprocamente nella pienezza
della loro soggettività. Così ambedue crescono come persone-soggetti, e crescono
reciprocamente l’uno per l’altro anche attraverso il loro corpo e attraverso
quella "nudità" libera da vergogna. In questa comunione di persone viene
perfettamente assicurata tutta la profondità della solitudine originaria
dell’uomo (del primo e di tutti) e, nello stesso tempo, tale solitudine diventa
in modo meraviglioso permeata ed allargata dal dono dell’"altro". Se l’uomo e la
donna cessano di essere reciprocamente dono disinteressato, come lo erano l’uno
per l’altro, nel mistero della creazione, allora riconoscono di "esser nudi" (cf. Gen 3).
Ed allora nascerà nei loro cuori la vergogna di quella nudità, che non avevano
sentita nello stato di innocenza originaria.
L’innocenza originaria
manifesta ed insieme costituisce l’ethos perfetto del dono.
Su questo argomento ritorneremo
ancora.
Mercoledì, 20 febbraio 1980
Con “il sacramento del corpo” l’uomo si sente soggetto di
santità
1. Il libro della Genesi
rileva che l’uomo e la donna sono stati creati per il matrimonio: "... L’uomo
abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una
sola carne" (Gen 2,24).
In questo modo si apre la grande
prospettiva creatrice dell’esistenza umana, che sempre si rinnova mediante la
"procreazione" che è "autoriproduzione". Tale prospettiva è radicata nella
coscienza dell’umanità e anche nella particolare comprensione del significato
sponsale del corpo, con la sua mascolinità e femminilità. Uomo e donna, nel
mistero della creazione, sono un reciproco dono. L’innocenza originaria
manifesta e insieme determina l’ethos perfetto del dono.
Di ciò abbiamo parlato durante il
precedente incontro. Attraverso l’ethos del dono viene delineato in parte il
problema della "soggettività" dell’uomo, il quale è un soggetto fatto ad
immagine e somiglianza di Dio. Nel racconto della creazione (cf. Gen 2,23-25)
"la donna" certamente non è soltanto "un oggetto" per l’uomo, pur rimanendo
ambedue l’uno di fronte all’altra in tutta la pienezza della loro oggettività di
creature come "osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne", come maschio e
femmina, entrambi nudi. Solo la nudità che rende "oggetto" la donna per l’uomo,
o viceversa, è fonte di vergogna. Il fatto che "non provavano vergogna" vuol
dire che la donna non era per l’uomo un "oggetto" né lui per lei. L’innocenza
interiore come "purezza di cuore", in certo modo, rendeva impossibile che l’uno
venisse comunque ridotto dall’altro al livello di mero oggetto. Se "non
provavano vergogna", vuol dire che erano uniti dalla coscienza del dono, avevano
reciproca consapevolezza del significato sponsale dei loro corpi, in cui
si esprime la libertà del dono e si manifesta tutta l’interiore ricchezza
della persona come soggetto. Tale reciproca compenetrazione dell’"io" delle
persone umane, dell’uomo e della donna, sembra escludere soggettivamente
qualsiasi "riduzione ad oggetto". Si rivela in ciò il profilo soggettivo di
quell’amore, di cui peraltro si può dire che "è oggettivo" fino in fondo, in
quanto si nutre della stessa reciproca "oggettività del dono".
2. L’uomo e la donna, dopo
il peccato originale, perderanno la grazia dell’innocenza originaria. La
scoperta del significato sponsale del corpo cesserà di essere per loro una
semplice realtà della rivelazione e della grazia. Tuttavia, tale significato
resterà come impegno dato all’uomo dall’ethos del dono, iscritto nel
profondo del cuore umano, quasi lontana eco dell’innocenza originaria. Da quel
significato sponsale si formerà l’amore umano nella sua interiore verità e nella
sua soggettiva autenticità. E l’uomo - anche attraverso il velo della vergogna -
vi riscoprirà continuamente se stesso come custode del mistero del soggetto,
cioè della libertà del dono, così da difenderla da qualsiasi riduzione a
posizioni di puro oggetto.
3. Per ora, tuttavia, ci
troviamo dinanzi alla soglia della storia terrena dell’uomo. L’uomo e la donna
non l’hanno ancora varcata verso la conoscenza del bene e del male. Sono immersi
nel mistero stesso della creazione, e la profondità di questo mistero nascosto
nel loro cuore è l’innocenza, la grazia, l’amore e la giustizia: "E Dio vide
quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona" (Gen
1,31). L’uomo appare nel mondo visibile come
la più alta espressione del dono divino, perché porta in sé l’interiore
dimensione del dono. E con essa porta nel mondo la sua particolare somiglianza
con Dio, con la quale egli trascende e domina anche la sua "visibilità" nel
mondo, la sua corporeità, la sua mascolinità o femminilità, la sua nudità. Un
riflesso di questa somiglianza è anche la consapevolezza primordiale del
significato sponsale del corpo, pervasa dal mistero dell’innocenza originaria.
4. Così, in questa
dimensione, si costituisce un primordiale sacramento, inteso quale segno
che trasmette efficacemente nel mondo visibile il mistero invisibile nascosto
in Dio dall’eternità. E questo è il mistero della Verità e dell’Amore, il
mistero della vita divina, alla quale l’uomo partecipa realmente. Nella storia
dell’uomo, è l’innocenza originaria che inizia questa partecipazione ed è anche
sorgente della originaria felicità. Il sacramento, come segno visibile, si
costituisce con l’uomo, in quanto "corpo", mediante la sua "visibile"
mascolinità e femminilità. Il corpo, infatti, e soltanto esso, è capace di
rendere visibile ciò che è invisibile: lo spirituale e il divino. Esso è stato
creato per trasferire nella realtà visibile del mondo il mistero nascosto
dall’eternità in Dio, e così esserne segno.
5. Dunque, nell’uomo
creato ad immagine di Dio è stata rivelata, in certo senso, la sacramentalità
stessa della creazione, la sacramentalità del mondo. L’uomo, infatti, mediante
la sua corporeità, la sua mascolinità e femminilità, diventa segno visibile
dell’economia della Verità e dell’Amore, che ha la sorgente in Dio stesso e che
fu rivelata già nel mistero della creazione. Su questo vasto sfondo comprendiamo
pienamente le parole costitutive del sacramento del matrimonio, presenti in
Genesi 2,24 ("l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua
moglie e i due saranno una sola carne"). Su questo vasto sfondo, comprendiamo
inoltre, che le parole di Genesi 2,25 ("tutti e due erano nudi, l’uomo e
sua moglie, ma non ne provavano vergogna"), attraverso tutta la profondità del
loro significato antropologico, esprimono il fatto che insieme con l’uomo è
entrata la santità nel mondo visibile, creato per lui. Il sacramento del
mondo, e il sacramento dell’uomo nel mondo, proviene dalla sorgente divina della
santità, e contemporaneamente è istituito per la santità. L’innocenza
originaria, collegata all’esperienza del significato sponsale del corpo, è la
stessa santità che permette all’uomo di esprimersi profondamente col proprio
corpo, e ciò, appunto, mediante il ff dono sincero" di se stesso. La coscienza
del dono condiziona, in questo caso, "il sacramento del corpo": l’uomo si sente,
nel suo corpo di maschio o di femmina, soggetto di santità.
6. Con tale coscienza del
significato del proprio corpo, l’uomo, quale maschio e femmina, entra nel mondo
come soggetto di verità e di amore. Si può dire che Genesi 2, 23-25 narra
quasi la prima festa dell’umanità in tutta la pienezza originaria
dell’esperienza del significato sponsale del corpo: ed è una festa
dell’umanità, che trae origine dalle fonti divine della Verità e dell’Amore
nel mistero stesso della creazione. E sebbene, ben presto, su quella festa
originaria si estenda l’orizzonte del peccato e della morte (Gen
3), tuttavia già fin dal mistero della
creazione attingiamo una prima speranza: che, cioè, il frutto della economia
divina della verità e dell’amore, che si è rivelata "al principio", sia non la
Morte, ma la Vita, e non tanto la distruzione del corpo di Dio", quanto
piuttosto la "chiamata alla gloria" (cf. Rm 8,30).
Mercoledì, 5 marzo 1980
Il significato biblico della conoscenza nella convivenza
matrimoniale
1. All’insieme delle
nostre analisi, dedicate al "principio" biblico, desideriamo aggiungere ancora
un breve passo, tratto dal capitolo IV del libro della Genesi. A tal fine,
tuttavia, prima bisogna sempre rifarsi alle parole pronunciate da Gesù Cristo
nel colloquio con i farisei (cf.
Mt 19 et Mc 10).
Bisogna tener conto del fatto che, nel colloquio con i farisei [Mt
19,7-9; Mc 10,4-6],
Cristo prende posizione riguardo alla prassi della legge mosaica circa il
cosiddetto "libello di ripudio". Le parole "per la durezza del vostro cuore",
pronunziate da Cristo rispecchiano non soltanto "la storia dei cuori", ma anche
tutta la complessità della legge positiva dell’Antico Testamento, che sempre
cercava il "compromesso umano" in questo campo tanto delicato), nell’ambito
delle quali si svolgono le nostre riflessioni; esse riguardano il contesto
dell’esistenza umana, secondo cui la morte e la connessa distruzione del corpo
(stando a quel: "in polvere tornerai", di Genesi 3,19) sono diventate
sorte comune dell’uomo. Cristo si riferisce al "principio", alla dimensione
originaria del mistero della creazione, allorquando questa dimensione già era
stata infranta dal mysterium iniquitatis, cioè dal peccato e, insieme ad
esso, anche dalla morte: mysterium mortis. Il peccato e la morte sono
entrati nella storia dell’uomo, in certo modo attraverso il cuore stesso di
quell’unità, che dal "principio" era formata dall’uomo e dalla donna, creati
e chiamati a diventare "una sola carne" (Gen 2,24). Già
all’inizio delle nostre meditazioni abbiamo costatato che Cristo, richiamandosi
al "principio", ci conduce, in un certo senso, oltre il limite della
peccaminosità ereditaria dell’uomo fino alla sua innocenza originaria; egli ci
permette, così, di trovare la continuità ed il legame esistente tra queste due
situazioni, mediante le quali si è prodotto il dramma delle origini e anche la
rivelazione del mistero dell’uomo all’uomo storico.
Questo, per così dire, ci autorizza
a passare, dopo le analisi riguardanti lo stato dell’innocenza originaria,
all’ultima di esse, cioè all’analisi della "conoscenza e della generazione".
Tematicamente, essa è strettamente legata alla benedizione della fecondità,
inserita nel primo racconto della creazione dell’uomo come maschio e femmina (Gen
1,27-28). Storicamente, invece, è già
inserita in quell’orizzonte di peccato e di morte che, come insegna il libro
della Genesi (Gen 3), ha gravato
sulla coscienza del significato del corpo umano, insieme all’infrazione della
prima alleanza col Creatore.
2. In Genesi 4, e
quindi ancora nell’ambito del testo jahvista, leggiamo: "Adamo si unì a Eva, sua
moglie, la quale concepì e partorì Caino e disse: "Ho acquistato un uomo dal
Signore". Poi partorì ancora suo fratello Abele" (Gen
4,1-2). Se connettiamo alla "conoscenza"
quel primo fatto della nascita di un uomo sulla terra, lo facciamo in base alla
traduzione letterale del testo, secondo cui l’"unione" coniugale viene definita
appunto come "conoscenza". Difatti, la traduzione citata suona così: "Adamo
si unì a Eva sua moglie", mentre alla lettera si dovrebbe tradurre: "conobbe
sua moglie", il che sembra corrispondere più adeguatamente al termine semitico
jadac (1).
Si può vedere in ciò un segno di povertà della lingua arcaica, alla quale
mancavano varie espressioni per definire fatti differenziati. Nondimeno, resta
significativo che la situazione, in cui marito e moglie si uniscono così
intimamente tra loro da formare "una sola carne", sia stata definita una
"conoscenza". In questo modo, infatti, dalla stessa povertà del linguaggio
sembra emergere una specifica profondità di significato, derivante appunto da
tutti i significati finora analizzati.
3. Evidentemente, ciò è
pure importante quanto all’"archetipo" del nostro modo di pensare l’uomo
corporeo, la sua mascolinità e la sua femminilità, e quindi il suo sesso. Così,
infatti, attraverso il termine "conoscenza" usato in Genesi 4,1-2 e
spesso nella Bibbia, il rapporto coniugale dell’uomo e della donna, cioè il
fatto che essi diventano, attraverso la dualità del sesso, una "sola carne",
è stato elevato e introdotto nella dimensione specifica delle persone.
Genesi 4,1-2 parla soltanto della "conoscenza" della donna da parte
dell’uomo, quasi per sottolineare soprattutto l’attività di quest’ultimo. Si
può, però, anche parlare della reciprocità di questa "conoscenza", a cui uomo e
donna partecipano mediante il loro corpo e il loro sesso. Aggiungiamo che una
serie di successivi testi biblici, come, del resto, lo stesso capitolo della
Genesi (cf. ex. gr. Gen
4,17.25),
parlano con lo stesso linguaggio. E ciò fino alle parole pronunziate da Maria di
Nazaret nell’annunciazione: "Come è possibile? Non conosco uomo" (Lc
1,34).
4. Così, con quel biblico
"conobbe", che per la prima volta appare in Genesi 4,1-2, da una parte ci
troviamo di fronte alla diretta espressione dell’intenzionalità umana (perché
essa è propria della conoscenza) e, dall’altra, a tutta la realtà della
convivenza e dell’unione coniugale, in cui uomo e donna diventano "una sola
carne".
Parlando qui di "conoscenza", sia
pur a causa della povertà della lingua, la Bibbia indica l’essenza più profonda
della realtà della convivenza matrimoniale. Questa essenza appare come una
componente ed insieme un risultato di quei significati, la cui traccia cerchiamo
di seguire fin dall’inizio del nostro studio; essa infatti fa parte della
coscienza del significato del proprio corpo. In Genesi 4,1, diventando "una sola
carne", l’uomo e la donna sperimentano in modo particolare il significato del
proprio corpo. Insieme, essi diventano, così, quasi l’unico soggetto di
quell’atto e di quell’esperienza, pur rimanendo, in quest’unità, due soggetti
realmente diversi. Il che ci autorizza, in certo senso, ad affermare che "il
marito conosce la moglie" oppure che entrambi "si conoscono" reciprocamente.
Allora essi si rivelano l’uno all’altra, con quella specifica profondità del
proprio "io" umano, che appunto si rivela anche mediante il loro sesso, la
loro mascolinità e femminilità. Ed allora, in maniera singolare, la donna "è
data" in modo conoscitivo all’uomo, e lui a lei.
5. Se dobbiamo mantenere
la continuità rispetto alle analisi finora fatte (particolarmente riguardo alle
ultime, che interpretano l’uomo nella dimensione di dono), bisogna osservare
che, secondo il libro della Genesi, datum e donum si equivalgono.
Tuttavia, Genesi 4,1-2
accentua soprattutto il datum. Nella "conoscenza" coniugale, la donna "è
data" all’uomo e lui a lei, poiché il corpo e il sesso entrano direttamente
nella struttura e nel contenuto stesso di questa "conoscenza". Così, dunque, la
realtà dell’unione coniugale, in cui l’uomo e la donna diventano "una sola
carne", contiene in sé una scoperta nuova e, in certo senso, definitiva del
significato del corpo umano nella sua mascolinità e femminilità. Ma, a proposito
di tale scoperta, è giusto parlare soltanto di "convivenza sessuale"? Bisogna
tener conto che ciascuno di loro, uomo e donna, non è soltanto un oggetto
passivo, definito dal proprio corpo e sesso, e in questo modo determinato "dalla
natura". Al contrario, proprio per il fatto di essere uomo e donna, ognuno di
essi è "dato" all’altro come soggetto unico e irripetibile, come "io", come
persona. Il sesso decide non soltanto della individualità somatica dell’uomo, ma
definisce nello stesso tempo la sua personale identità e concretezza. E proprio
in questa personale identità e concretezza, come irripetibile "io"
femminile-maschile, l’uomo viene "conosciuto" quando si verificano le parole di
Genesi 2,24: "l’uomo... si unirà a sua moglie e i due saranno una sola
carne". La "conoscenza", di cui parlano Genesi 4,1-2 e tutti i successivi
testi biblici, arriva alle più intime radici di questa identità e concretezza,
che l’uomo e la donna debbono al loro sesso. Tale concretezza significa tanto
l’unicità quanto l’irripetibilità della persona.
Valeva, dunque, la pena di
riflettere sull’eloquenza del testo biblico citato e della parola "conobbe";
nonostante l’apparente mancanza di precisione terminologica, essa ci permette di
soffermarci sulla profondità e sulla dimensione di un concetto, di cui il nostro
linguaggio contemporaneo, pur molto preciso, spesso ci priva.
(1) "Conoscere" [jadac],
nel linguaggio biblico, non significa soltanto una conoscenza meramente
intellettuale, ma anche esperienza concreta, come ad esempio l’esperienza della
sofferenza [cf. Is 53,3],
del peccato [Sap 3,13],
della guerra e della pace [Gdc
3,1; Is 59,8].
Da questa esperienza scaturisce anche il giudizio morale: "conoscenza del bene e
del male" [Gen 2,9-17].
La "conoscenza" entra nel campo dei rapporti interpersonali, quando riguarda la
solidarietà di famiglia [Dt
33,9] e specialmente i rapporti coniugali.
Proprio in riferimento all’atto coniugale, il termine sottolinea la paternità di
illustri personaggi e l’origine della loro prole [cf. Gen 4,1.25.17;
1Sam 1,19],
come dati validi per la genealogia, a cui la tradizione dei sacerdoti [ereditari
in Israele] dava grande importanza. La "conoscenza" poteva però significare
anche tutti gli altri rapporti sessuali, persino quelli illeciti [cf. Nm 31,17;
Gen 19,5;
Gdc 19,22].
Nella forma negativa, il verbo denota l’astensione dai rapporti sessuali,
specialmente se si tratta di vergini [cf. ad es Re 2,4;
Gdc 11,39].
In questo campo, il Nuovo Testamento usa due ebraismi, parlando di Giuseppe [Mt
1,25] e di Maria [Lc
1,34]. Un significato particolare acquista
l’aspetto della relazione esistenziale della "conoscenza", quando suo soggetto o
oggetto è Dio stesso [ad es Sal
139; Ger 31,34;
Os 2,22;
e anche Gv 14,7-9;
17,3].
Mercoledì, 12 marzo 1980
Il mistero della donna si rivela nella maternità
1. Nella meditazione
precedente, abbiamo sottoposto ad analisi la frase di Genesi 4, 1 e, in
particolare, il termine "conobbe", usato nel testo originale per definire
l’unione coniugale. Abbiamo anche rilevato che questa "conoscenza" biblica
stabilisce una specie di archetipo (1) personale della corporeità e sessualità
umana. Ciò sembra assolutamente fondamentale per comprendere l’uomo, che fin dal
"principio" è alla ricerca del significato del proprio corpo. Questo significato
sta alla base della stessa teologia del corpo. Il termine "conobbe" - "si unì" (Gen
4,1-2) sintetizza tutta la densità del testo
biblico finora analizzato. L’"uomo" che, secondo Genesi 4,1 per la prima
volta, "conosce" la donna, sua moglie, nell’atto dell’unione coniugale, è
infatti quello stesso che, imponendo i nomi, cioè anche "conoscendo", si è
"differenziato" da tutto il mondo degli esseri viventi o animalia,
affermando se stesso come persona e soggetto. La "conoscenza", di cui parla
Genesi 4,1, non lo allontana né può allontanarlo dal livello di quella
primordiale e fondamentale autocoscienza. Quindi - qualsiasi cosa ne affermasse
una mentalità unilateralmente "naturalistica" - in Genesi 4,1 non può
trattarsi di un’accettazione passiva della propria determinazione da parte del
corpo e del sesso, proprio perché si tratta di "conoscenza"!
È, invece, una ulteriore
scoperta del significato del proprio corpo, scoperta comune e reciproca,
così come comune e reciproca è dall’inizio l’esistenza dell’uomo, che "Dio creò
maschio e femmina". La conoscenza, che stava alla base della solitudine
originaria dell’uomo, sta ora alla base di quest’unità dell’uomo e della donna,
la cui chiara prospettiva è stata racchiusa dal Creatore nel mistero stesso
della creazione (Gen 1,27;
2,23).
In questa "conoscenza", l’uomo conferma il significato del nome "Eva", dato a
sua moglie, "perché essa fu madre di tutti i viventi" (Gen
3,20).
2. Secondo Genesi
4,1 colui che conosce è l’uomo e colei che è conosciuta è la donna-moglie, come
se la specifica determinazione della donna, attraverso il proprio corpo e sesso,
nascondesse ciò che costituisce la profondità stessa della sua femminilità.
L’uomo, invece, è colui che - dopo il peccato - ha sentito per primo la vergogna
della sua nudità, e per primo ha detto: "Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi
sono nascosto" (Gen 3,10).
Occorrerà ancora tornare separatamente allo stato d’animo di entrambi dopo la
perdita dell’innocenza originaria. Già fin d’ora, però, bisogna costatare che
nella Genesi 4,1, il mistero della femminilità si manifesta e si
rivela fino in fondo mediante la maternità, come dice il testo: "la quale
concepì e partorì". La donna sta davanti all’uomo come madre, soggetto della
nuova vita umana che in essa è concepita e si sviluppa, e da essa nasce al
mondo. Così si rivela anche fino in fondo il mistero della mascolinità
dell’uomo, cioè il significato generatore e "paterno" del suo corpo (2).
3. La teologia del corpo,
contenuta nel Libro della Genesi, è concisa e parca di parole. Nello stesso
tempo, vi trovano espressione contenuti fondamentali, in un certo senso primari
e definitivi. Tutti si ritrovano a loro modo, in quella biblica "conoscenza".
Differente, rispetto all’uomo, è la costituzione della donna; anzi, oggi
sappiamo che è differente fino alle determinanti biofisiologiche più profonde.
Essa si manifesta al di fuori soltanto in una certa misura, nella costruzione e
nella forma del suo corpo. La maternità manifesta tale costituzione al di
dentro, come particolare potenzialità dell’organismo femminile, che con
peculiarità creatrice serve al concepimento e alla generazione dell’essere
umano, col concorso dell’uomo. La "conoscenza" condiziona la generazione.
La generazione è una prospettiva,
che uomo e donna inseriscono nella loro reciproca "conoscenza". Questa, perciò,
oltrepassa i limiti di soggetto-oggetto, quali uomo e donna sembrano essere a
vicenda, dato che la "conoscenza" indica da una parte colui che "conosce" e
dall’altra colei che "è conosciuta" (o viceversa). In questa "conoscenza" si
racchiude anche la consumazione del matrimonio, lo specifico consummatum;
così si ottiene il raggiungimento della "oggettività" del corpo, nascosta nelle
potenzialità somatiche dell’uomo e della donna, ed insieme il raggiungimento
della oggettività dell’uomo che "è" questo corpo. Mediante il corpo, la persona
umana è "marito" e "moglie"; in pari tempo, in questo particolare atto di
"conoscenza", mediato dalla femminilità e mascolinità personali, sembra
raggiungersi anche la scoperta della "pura" soggettività del dono: cioè, la
mutua realizzazione di sé nel dono.
4. La procreazione fa sì
che "l’uomo e la donna (sua moglie)" si conoscano reciprocamente nel "terzo",
originato da ambedue. perciò, questa "conoscenza" diventa una scoperta, in
certo senso una rivelazione del nuovo uomo, nel quale entrambi, uomo e donna,
riconoscono ancora se stessi, la loro umanità, la loro viva immagine. In tutto
ciò che viene determinato da entrambi attraverso il corpo ed il sesso, la
"conoscenza" iscrive un contenuto vivo e reale. Pertanto, la "conoscenza" in
senso biblico significa che la determinazione "biologica" dell’uomo, da parte
del suo corpo e sesso, cessa di essere qualcosa di passivo, e raggiunge un
livello e un contenuto specifici alle persone autocoscienti e autodeterminanti;
quindi essa comporta una particolare coscienza del significato del corpo umano
legata alla paternità e alla maternità.
5. Tutta la costituzione
esteriore del corpo della donna, il sua particolare aspetto, le qualità che con
la forza di una perenne attrattiva stanno all’inizio della "conoscenza", di cui
parla Genesi 4,1-2 ("Adamo si unì a Eva sua moglie"), sono in stretta
unione con la maternità. La Bibbia (e in seguito la liturgia), con la
semplicità che le è propria, onora e loda lungo i secoli "il grembo che ti ha
portato e il seno da cui hai preso il latte" (Lc
11,27). Queste parole costituiscono un
elogio della maternità, della femminilità, del corpo femminile nella sua tipica
espressione dell’amore creatore. E sono parole riferite nel Vangelo alla Madre
di Cristo, Maria, seconda Eva. La prima donna, invece, nel momento in cui per la
prima volta si rivelò la maturità materna del suo corpo, quando "concepì e
partorì", disse: "Ho acquistato un uomo dal Signore" (Gen
4,1).
6. Queste parole esprimono
tutta la profondità teologica della funzione di generare-procreare. Il corpo
della donna diventa luogo del concepimento del nuovo uomo (3). Nel suo grembo,
l’uomo concepito assume il suo aspetto umano proprio, prima di essere messo al
mondo. L’omogeneità somatica dell’uomo e della donna, che ha trovato la sua
prima espressione nelle parole: "È carne della mia carne e osso delle mie ossa"
(Gen 2,23),
è confermata a sua volta dalle parole della prima donna-madre: "Ho acquistato un
uomo!". La prima donna partoriente ha piena consapevolezza del mistero della
creazione, che si rinnova nella generazione umana. Ha anche piena
consapevolezza della partecipazione creativa che Dio ha nella generazione umana,
opera sua e di suo marito, poiché dice: "Ho acquistato un uomo dal Signore".
Non può esservi alcuna confusione
tra le sfere d’azione delle cause. I primi genitori trasmettono a tutti i
genitori umani - anche dopo il peccato, insieme al frutto dell’albero della
conoscenza del bene e del male e quasi alla soglia di tutte le esperienze
"storiche" - la verità fondamentale circa la nascita dell’uomo a immagine di
Dio, secondo le leggi naturali. In questo nuovo uomo - nato dalla
donna-genitrice per opera dell’uomo-genitore - si riproduce ogni volta la stessa
"immagine di Dio", di quel Dio che ha costituito l’umanità del primo uomo: "Dio
creò l’uomo a sua immagine; ...maschio e femmina li creò" (Gen
1,27).
7. Sebbene esistano
profonde differenze tra lo stato d’innocenza originaria e lo stato di
peccaminosità ereditaria dell’uomo, quella "immagine di Dio" costituisce una
base di continuità e di unità. La "conoscenza", di cui parla Genesi
4,1, è l’atto che origina l’essere, ossia in unione col Creatore
stabilisce un nuovo uomo nella sua esistenza. Il primo uomo, nella sua
solitudine trascendentale, ha preso possesso del mondo visibile, creato per lui,
conoscendo e imponendo i nomi agli esseri viventi (animalia). Lo stesso
"uomo", come maschio e femmina, conoscendosi reciprocamente in questa specifica
comunità-comunione di persone, nella quale l’uomo e la donna si uniscono così
strettamente tra loro da diventare "una sola carne", costituisce l’umanità, cioè
conferma e rinnova l’esistenza dell’uomo quale immagine di Dio. Ogni volta
entrambi, uomo e donna, riprendono, per così dire, questa immagine dal mistero
della creazione e la trasmettono "con l’aiuto di Dio-Jahvè".
Le parole del Libro della Genesi,
che sono una testimonianza della prima nascita dell’uomo sulla terra,
racchiudono contemporaneamente in sé tutto ciò che si può e si deve dire della
dignità della generazione umana.
Mercoledì, 26 marzo 1980
Il ciclo della conoscenza-generazione e la prospettiva della morte
1. Si avvia verso la fine
il ciclo di riflessioni con cui abbiamo cercato di seguire il richiamo di Cristo
trasmessoci da Matteo (Mt
19,3-9) e da Marco (Mc
10,1-12): "Non avete letto che il Creatore
da principio li creò maschio e femmina e disse: "Per questo l’uomo lascerà suo
padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola?"" (Mt
19,4-5). L’unione coniugale, nel Libro della
Genesi, è definita come "conoscenza": "Adamo si unì a Eva, sua moglie, la quale
concepì e partorì... e disse: "Ho acquistato un uomo dal Signore"" (Gen
4,1). Abbiamo cercato già nelle nostre
precedenti meditazioni di far luce sul contenuto di quella "conoscenza" biblica.
Con essa l’uomo, maschio-femmina, non soltanto impone il proprio nome, come ha
fatto imponendo i nomi agli altri esseri viventi (animalia) prendendone
così possesso, ma "conosce" nel senso di Genesi 4,1 (e di altri passi della
Bibbia), e cioè realizza ciò che il nome "uomo" esprime: realizza
l’umanità nel nuovo uomo generato. In certo senso, quindi, realizza se stesso,
cioè l’uomo-persona.
2.
In questo modo, si chiude il ciclo
biblico della "conoscenza-generazione". Tale ciclo della "conoscenza" è
costituito dall’unione delle persone nell’amore, che permette loro di unirsi
così strettamente tra loro, da diventare un’unica carne. Il Libro della Genesi
ci rivela pienamente la verità di questo ciclo. L’uomo, maschio e femmina, che,
mediante la "conoscenza" di cui parla la Bibbia, concepisce e genera un essere
nuovo, simile a lui, al quale può imporre il nome di "uomo" ("ho acquistato un
uomo"), prende, per così dire, possesso della stessa umanità, o meglio la
riprende in possesso. Tuttavia, ciò avviene in modo diverso da come aveva preso
possesso di tutti gli altri esseri viventi (animalia), quando aveva
imposto loro il nome. Infatti, allora, egli era diventato il loro signore, aveva
cominciato ad attuare il contenuto del mandato del Creatore: "Soggiogate la
terra e dominatela" (cf. Gen
1,28).
3. La prima parte, invece,
dello stesso mandato: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra" (Gen
1,28) nasconde un altro contenuto e indica
un’altra componente. L’uomo e la donna in questa "conoscenza", in cui danno
inizio ad un essere simile a loro, del quale possono insieme dire che "è carne
della mia carne e osso delle mie ossa" (Gen 2,24), vengono
quasi insieme "rapiti", insieme presi ambedue in possesso dall’umanità
che essi, nell’unione e nella "conoscenza" reciproca, vogliono esprimere
nuovamente, prendere nuovamente in possesso, ricavandola da loro stessi, dalla
propria umanità, dalla mirabile maturità maschile e femminile dei loro corpi e
in fine - attraverso tutta la sequenza dei concepimenti e delle generazioni
umane fin dal principio - dal mistero stesso della Creazione.
4. In questo senso, si
può spiegare la "conoscenza" biblica come "possesso". È possibile vedere in
essa qualche equivalente biblico dell’"eros"? Si tratta qui di due ambiti
concettuali, di due linguaggi: biblico e platonico; soltanto con grande cautela
essi possono essere interpretati l’uno con l’altro
[1]. Sembra, invece, che nella rivelazione originaria non sia presente
l’idea del possesso della donna da parte dell’uomo, o viceversa, come di un
oggetto. D’altronde, è però noto che, in base alla peccaminosità contratta dopo
il peccato originale, uomo e donna debbono ricostruire, con fatica, il
significato del reciproco dono disinteressato. Questo sarà il tema delle nostre
ulteriori analisi.
5. La rivelazione del
corpo, racchiusa nel Libro della Genesi, particolarmente nel capitolo 3,
dimostra con impressionante evidenza che il ciclo della
"conoscenza-generazione", così profondamente radicato nella potenzialità del
corpo umano, è stato sottoposto, dopo il peccato, alla legge della sofferenza e
della morte. Dio-Jahvé dice alla donna: "Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue
gravidanze, con dolore partorirai figli" (Gen
3,16). L’orizzonte della morte si
apre dinanzi all’uomo, insieme alla rivelazione del significato generatore
del corpo nell’atto della reciproca "conoscenza" dei coniugi. Ed ecco che il
primo uomo, maschio, impone a sua moglie il nome di Eva, "perché essa fu la
madre di tutti i viventi" (Gen
3,20), quando già egli aveva sentito le
parole della sentenza, che determinava tutta la prospettiva dell’esistenza umana
"al di dentro" della conoscenza del bene e del male. Questa prospettiva è
confermata dalle parole: "Tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto:
polvere tu sei e polvere tornerai!" (Gen
3,19).
Il carattere radicale di tale
sentenza è confermato dall’evidenza delle esperienze di tutta la storia terrena
dell’uomo. L’orizzonte della morte si estende su tutta la prospettiva della vita
umana sulla terra, vita che è stata inserita in quell’originario ciclo biblico
della "conoscenza-generazione". L’uomo che ha infranto l’alleanza col suo
Creatore, cogliendo il frutto dall’albero della conoscenza del bene e del male,
viene da Dio-Jahvé staccato dall’albero della vita: "Ora egli non stenda più la
mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre" (Gen
3,21). In questo modo, la vita data all’uomo
nel mistero della creazione non è stata tolta, ma ristretta dal limite dei
concepimenti, delle nascite e della morte, e inoltre aggravata dalla prospettiva
della peccaminosità ereditaria; però gli viene, in certo senso, nuovamente data
come compito nello stesso ciclo sempre ricorrente. La frase: "Adamo si unì a
("conobbe") Eva sua moglie, la quale concepì e partorì" (Gen
4,1), è come un sigillo impresso nella
rivelazione originaria del corpo al "principio" stesso della storia dell’uomo
sulla terra. Questa storia si forma sempre di nuovo nella sua dimensione più
fondamentale quasi dal "principio", mediante la stessa "conoscenza-generazione",
di cui parla il Libro della Genesi.
6. E così, ciascun uomo
porta in sé il mistero del suo "principio" strettamente legato alla coscienza
del significato generatore del corpo. Genesi 4,1-2 sembra tacere sul tema
del rapporto che intercorre tra il significato generatore e quello sponsale del
corpo. Forse non è ancora né il tempo né il luogo per chiarire questo rapporto,
anche se nell’ulteriore analisi ciò sembra indispensabile Occorrerà, allora,
porre nuovamente le domande legate all’apparire della vergogna nell’uomo,
vergogna della sua mascolinità e della sua femminilità, prima non sperimentata.
In questo momento, tuttavia, ciò passa in secondo ordine. In primo piano resta,
invece, il fatto che "Adamo si unì a ("conobbe") Eva sua moglie, la quale
concepì e partorì". Questa è appunto la soglia della storia dell’uomo. È
il suo "principio" sulla terra. Su questa soglia l’uomo, come maschio e
femmina, sta con la coscienza del significato generatore del proprio corpo: la
mascolinità nasconde in sé il significato della paternità e la femminilità
quello della maternità. Nel nome di questo significato, Cristo darà un
giorno la categorica risposta alla domanda rivoltagli dai farisei (Mt
19; Mc 10).
Noi, invece, penetrando il semplice contenuto di questa risposta, cerchiamo in
pari tempo di mettere in luce il contesto di quel "principio", al quale Cristo
si è riferito. In esso affonda le radici la teologia del corpo.
7. La coscienza del
significato del corpo e la coscienza del significato generatore di esso vengono
a contatto, nell’uomo, con la coscienza della morte, di cui portano in sé, per
così dire, l’inevitabile orizzonte. Eppure, sempre ritorna nella storia
dell’uomo il ciclo conoscenza generazione", in cui la vita lotta, sempre di
nuovo, con la inesorabile prospettiva della morte, e sempre la supera. È come
se la ragione di questa inarrendevolezza della vita, che si manifesta nella
"generazione", fosse sempre la stessa "conoscenza", con la quale l’uomo
oltrepassa la solitudine del proprio essere e, anzi, di nuovo si decide ad
affermare tale essere in un "altro". Ed ambedue, uomo e donna, lo affermano nel
nuovo uomo generato. In questa affermazione, la "conoscenza" biblica sembra
acquistare una dimensione ancor maggiore. Sembra, cioè, inserirsi in quella
"visione" di Dio stesso, con la quale finisce il primo racconto della creazione
dell’uomo circa il "maschio" e la "femmina" fatti "ad immagine di Dio": "Dio
vide quanto aveva fatto ed... era cosa molto buona" (Gen
1,31). L’uomo, nonostante tutte le
esperienze della propria vita, nonostante le sofferenze, le delusioni di se
stesso, la sua peccaminosità, e nonostante, infine, la prospettiva inevitabile
della morte, mette tuttavia sempre di nuovo la "conoscenza" all’"inizio" della
"generazione"; egli, così, sembra partecipare a quella prima "visione" di Dio
stesso: Dio Creatore "vide..., ed ecco era cosa buona". E, sempre di nuovo, egli
conferma la verità di queste parole.
[1] Secondo Platone, 1’"eros" è l’amore assetato del Bello trascendente ed
esprime l’insaziabilità tendente al suo eterno oggetto; esso, quindi, eleva
sempre tutto ciò che è umano verso il divino, che solo è in grado di appagare la
nostalgia dell’anima imprigionata nella materia, è un amore che non indietreggia
davanti al più grande sforzo, per raggiungere l’estasi dell’unione; quindi è un
amore egocentrico, è bramosia, sebbene diretta verso valori sublimi [cf. A.
Nygren, Erôs et Agapé, Paris 1951, vol. II, pp. 9-10]. Lungo i secoli,
attraverso molte trasformazioni, il significato dell’"eros" è stato abbassato
alle connotazioni meramente sessuali. Caratteristico è qui il testo di P.
Chauchard, che sembra perfino negare all’"eros" le caratteristiche dell’amore
umano. "La cérébralisation de la sexualité ne réside pas dans les trucs
techniques ennuyeux, mais dans la pleine reconnaissance de sa spiritualità, du
fait qu’Erôs n’est humain qu’animé par Agapé et qu’Agapé exige l’incarnation
dans Erôs" [P. Chauchard, Vices des vertus, vertus des vices, Paris 1963,
p. 147]. Il paragone della "conoscenza" biblica con 1’"eros" platonico rivela la
divergenza di queste due concezioni. La concezione platonica si basa sulla
nostalgia del Bello trascendente e sulla fuga dalla materia; la concezione
biblica, invece, è diretta verso la realtà concreta, e le è alieno il dualismo
dello spirito e della materia come pure la specifica ostilità verso la materia
["E Dio vide che era cosa buona":
Gen 1,10.12.18.21.25].
In quanto il concetto platonico di "eros" oltrepassa la portata biblica
della "conoscenza" umana, il concetto contemporaneo sembra troppo
ristretto La "conoscenza" biblica non si limita a soddisfare l’istinto o il
godimento edonistico, ma è un atto pienamente umano, diretto consapevolmente
verso la procreazione, ed è anche l’espressione dell’amore interpersonale [cf. Gen 29,20;
1 Sam 1,8;
2 Sam 12,24].
Mercoledì, 2 aprile 1980
Gli interrogativi sul matrimonio nella visione integrale
dell’uomo
Il nostro incontro odierno si
svolge nel cuore della Settimana Santa, nell’immediata vigilia di quel
"Triduo pasquale", nel quale culmina e s’illumina l’intero Anno
liturgico.
Stiamo per rivivere i giorni decisivi e solenni, nei quali si compì
l’opera
della redenzione umana: in essi Cristo, morendo, distrusse la nostra
morte e,
risorgendo, ci ridonò la vita.
È necessario che ciascuno si senta
personalmente coinvolto nel mistero che la Liturgia, anche quest’anno, rinnova
per noi. Vi esorto, pertanto, cordialmente a partecipare con fede alle funzioni
sacre dei prossimi giorni e ad impegnarvi nella volontà di morire al peccato e
di risorgere sempre più pienamente alla vita nuova, che Cristo ci ha portato.
Riprendiamo, ora, la trattazione
del tema che ci occupa ormai da qualche tempo.
1. Il Vangelo secondo
Matteo e quello secondo Marco ci riportano la risposta data da Cristo ai
farisei, quando lo interrogarono circa l’indissolubilità del matrimonio,
richiamandosi alla legge di Mosè, che ammetteva, in certi casi, la pratica del
cosiddetto libello di ripudio. Ricordando loro i primi capitoli del Libro della
Genesi, Cristo rispose: "Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e
disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e
i due saranno una carne sola? Così che non sono più due, ma una carne sola.
Quello, dunque, che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi". Poi, rifacendosi
alla loro domanda sulla legge di Mosè, Cristo aggiunse: "Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le
vostre mogli, ma da principio non fu così" (Mt
19,3; Mc 12,2ss).
Nella sua risposta, Cristo si richiamò due volte al "principio", e perciò anche noi, nel corso delle nostre analisi, abbiamo
cercato di chiarire nel modo più profondo possibile il significato di questo
"principio", che è la prima eredità di ogni essere umano nel mondo, uomo e
donna, prima attestazione dell’identità umana secondo la parola rivelata, prima
sorgente della certezza della sua vocazione come persona creata a immagine di
Dio stesso.
2. La risposta di Cristo
ha un significato storico, ma non soltanto storico. Gli uomini di tutti i tempi
pongono il quesito sullo stesso tema. Lo fanno anche i nostri contemporanei, i
quali però nelle loro domande non si richiamano alla legge di Mosè, che
ammetteva il libello di ripudio, ma ad altre circostanze e ad altre leggi.
Questi loro quesiti sono carichi di problemi sconosciuti agli interlocutori
contemporanei di Cristo. Sappiamo quali domande concernenti il matrimonio e la
famiglia siano state rivolte all’ultimo Concilio, al Papa Paolo VI, e vengano
continuamente formulate nel periodo post-conciliare, giorno per giorno, nelle
più varie circostanze. Le rivolgono persone singole, coniugi, fidanzati,
giovani, ma anche scrittori, pubblicisti, politici, economisti, demografi,
insomma, la cultura e la civiltà contemporanea.
Penso che fra le risposte, che
Cristo darebbe agli uomini dei nostri tempi e ai loro interrogativi,
spesso tanto impazienti, fondamentale sarebbe ancora quella da lui data
ai farisei. Rispondendo a quegli interrogativi, Cristo si richiamerebbe
innanzitutto al "principio".
Lo farebbe forse in modo tanto più deciso ed essenziale, in quanto la situazione
interiore e insieme culturale dell’uomo d’oggi sembra allontanarsi da quel
"principio" ed assumere forme e dimensioni, che divergono
dall’immagine biblica del "principio" in punti evidentemente sempre più distanti.
Tuttavia, Cristo non sarebbe "sorpreso" da nessuna di queste situazioni, e suppongo che
continuerebbe a far riferimento soprattutto al "principio".
3. È per questo che la
risposta di Cristo esigeva una analisi particolarmente approfondita. Infatti, in
quella risposta sono state richiamate verità fondamentali ed elementari
sull’essere umano, come uomo e donna. E la risposta, attraverso la quale
intravvediamo la struttura stessa della identità umana nelle dimensioni del
mistero della creazione e, ad un tempo, nella prospettiva del mistero della
redenzione. Senza di ciò non c’è modo di costruire un’antropologia teologica e,
nel suo contesto, una "teologia del corpo", da cui tragga origine anche la visione, pienamente
cristiana, del matrimonio e della famiglia. Lo ha rilevato Paolo VI quando nella
sua enciclica dedicata ai problemi del matrimonio e della procreazione, nel suo
significato umanamente e cristianamente responsabile, si è richiamato alla
"visione integrale dell’uomo" (Paolo VI,
Humanae Vitae, 7). Si può dire che, nella risposta ai farisei, Cristo ha
prospettato agli interlocutori anche questa "visione integrale dell’uomo", senza la quale non può essere data alcuna
risposta adeguata agli interrogativi connessi con il matrimonio e la
procreazione. Proprio questa visione integrale dell’uomo deve essere costruita
dal "principio".
Ciò è parimenti valido per la
mentalità contemporanea, così come lo era, anche se in modo diverso, per gli
interlocutori di Cristo. Siamo, infatti, figli di un’epoca, in cui per lo
sviluppo di varie discipline, questa visione integrale dell’uomo può essere
facilmente rigettata e sostituita da molteplici concezioni parziali, le
quali, soffermandosi sull’uno o sull’altro aspetto del compositum humanum,
non raggiungono l’integrum dell’uomo, o lo lasciano al di fuori del
proprio campo visivo. Vi si inseriscono, poi, diverse tendenze culturali, che -
in base a queste verità parziali - formulano le loro proposte e indicazioni
pratiche sul comportamento umano e, ancor più spesso, su come comportarsi con
l’"uomo". L’uomo diviene allora più un oggetto di determinate
tecniche che non il soggetto responsabile della propria azione. La risposta data
da Cristo ai farisei vuole anche che l’uomo, maschio e femmina, sia tale
soggetto, cioè un soggetto che decida delle proprie azioni alla luce
dell’integrale verità su se stesso, in. quanto verità originaria, ossia
fondamento delle esperienze autenticamente umane. È questa la verità che Cristo
ci fa cercare dal "principio". Così ci rivolgiamo ai primi capitoli del Libro della Genesi.
4. Lo studio di questi
capitoli, forse più che di altri, ci rende coscienti del significato e della
necessità della "teologia del corpo". Il "principio"
ci dice relativamente poco sul corpo umano, nel senso naturalistico e
contemporaneo della parola. Da questo punto di vista, nel presente studio, ci
troviamo ad un livello del tutto prescientifico. Non sappiamo quasi nulla sulle
strutture interiori e sulle regolarità che regnano nell’organismo umano.
Tuttavia, al tempo stesso - forse proprio a motivo dell’antichità del testo - la
verità importante per la visione integrale dell’uomo si rivela in modo più
semplice e pieno. Questa verità riguarda il significato del corpo umano nella
struttura del soggetto personale. Successivamente, la riflessione su quei
testi arcaici ci permette di estendere tale significato a tutta la sfera dell’intersoggettività
umana, specie nel perenne rapporto uomo-donna. Grazie a ciò, acquistiamo nei
confronti di questo rapporto un’ottica, che dobbiamo necessariamente porre alla
base di tutta la scienza contemporanea circa la sessualità umana, in senso
biofisiologico, Ciò non vuol dire che dobbiamo rinunciare a questa scienza o
privarci dei suoi risultati. Al contrario: se questi devono servire a insegnarci
qualcosa sull’educazione dell’uomo, nella sua mascolinità e femminilità, e circa
la sfera del matrimonio e della procreazione, occorre - attraverso tutti i
singoli elementi della scienza contemporanea - giungere sempre a ciò che è
fondamentale ed essenzialmente personale, tanto in ogni individuo, uomo o donna,
quanto nei loro rapporti reciproci.
Ed è proprio a questo punto che la
riflessione sull’arcaico testo della Genesi si rivela insostituibile. Esso
costituisce realmente il principio" della teologia del corpo. Il fatto che la
teologia comprenda anche il corpo non deve meravigliare né sorprendere
nessuno che sia cosciente del mistero e della realtà dell’Incarnazione. Per il
fatto che il Verbo di Dio si è fatto carne, il corpo è entrato, direi,
attraverso la porta principale nella teologia, cioè nella scienza che ha per
oggetto la divinità. L’incarnazione - e la redenzione che ne scaturisce - è
divenuta anche la sorgente definitiva della sacramentalità del matrimonio, di
cui, al tempo opportuno, tratteremo più ampiamente.
5. Gli interrogativi posti
dall’uomo contemporaneo sono anche quelli dei cristiani: di coloro che si
preparano al Sacramento del Matrimonio o di coloro che vivono già nel
matrimonio, che è il sacramento della Chiesa. Queste non soltanto sono le
domande delle scienze, ma, ancor più, le domande della vita umana. Tanti uomini
e tanti cristiani nel matrimonio cercano il compimento della loro vocazione.
Tanti vogliono trovare in esso la via della salvezza e della santità.
Per loro è particolarmente
importante la risposta data da Cristo ai farisei, zelatori dell’Antico
Testamento. Coloro che cercano il compimento della propria vocazione umana e
cristiana nel matrimonio, prima di tutto sono chiamati a fare di questa "teologia del corpo", di cui troviamo il "principio"
nei primi capitoli del Libro della Genesi, il contenuto della loro vita e del
loro comportamento. Infatti, quanto è indispensabile, sulla strada di questa
vocazione, la coscienza approfondita del significato del corpo, nella sua
mascolinità e femminilità! quanto è necessaria una precisa coscienza del
significato sponsale del corpo, del suo significato generatore, dato che tutto
ciò, che forma il contenuto della vita degli sposi, deve costantemente trovare
la sua dimensione piena e personale nella convivenza, nel comportamento, nei
sentimenti! E ciò, tanto più sullo sfondo di una civiltà, che rimane sotto la
pressione di un modo di pensare e di valutare materialistico ed utilitario. La
biofisiologia contemporanea può fornire molte informazioni precise sulla
sessualità umana. Tuttavia, la conoscenza della dignità personale del corpo
umano e del sesso va attinta ancora ad altre fonti. Una fonte particolare è la
parola di Dio stesso, che contiene la rivelazione del corpo, quella risalente al "principio".
Quanto è significativo che Cristo,
nella risposta a tutte queste domande, ordini all’uomo di ritornare, in
certo
modo, alla soglia della sua storia teologica! Gli ordina di mettersi al
confine
tra l’innocenza-felicità originaria e l’eredità della prima caduta. Non
gli
vuole forse dire, in questo modo, che la via sulla quale Egli conduce
l’uomo,
maschio-femmina, nel Sacramento del Matrimonio, cioè la via della
"redenzione del corpo", deve consistere nel ricuperare questa dignità in
cui si compie, simultaneamente, il vero significato del corpo umano, il
suo
significato personale e "di
comunione"?
6. Per ora, terminiamo la
prima parte delle nostre meditazioni dedicate a questo tema tanto importante.
Per dare una risposta più esauriente alle nostre domande, talvolta ansiose, sul
matrimonio - o ancor più esattamente: sul significato del corpo - non possiamo
soffermarci soltanto su ciò che Cristo rispose ai farisei, facendo riferimento
al "principio" (cf. Mt
19,3ss; Mc 10,2ss).
Dobbiamo anche prendere in considerazione tutte le altre sue enunciazioni, tra
le quali ne emergono specialmente due, di carattere particolarmente sintetico:
la prima, dal discorso sulla montagna, a proposito delle possibilità del
cuore umano rispetto alla concupiscenza del corpo (cf. Mt 5,8), e la seconda, quando Gesù si richiamò alla futura risurrezione
(cf. Mt 22,24-30: Mc
12,18-27; Lc 20,27-36).
Queste due enunciazioni intendiamo
far oggetto delle nostre successive riflessioni.
SECONDO CICLO
La redenzione del cuore
(Teologia del corpo dell'uomo decaduto e
redento)
Mercoledì, 16 aprile 1980
Cristo fa appello al “cuore” dell’uomo
1. Come argomento delle nostre future
riflessioni - nell’ambito degli incontri del mercoledì - desidero sviluppare la
seguente affermazione di Cristo, che fa parte del discorso della montagna:
"Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma
io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio
con lei nel suo cuore (Mt 5,27-28). Sembra
che questo passo abbia per la teologia del corpo un significato-chiave, come
quello, in cui Cristo ha fatto riferimento al "principio",
e che ci è servito di base per le precedenti analisi. Allora abbiamo potuto
renderci conto di quanto ampio sia stato il contesto di una frase, anzi di
una parola pronunziata da Cristo. Si è trattato non soltanto del contesto
immediato, emerso nel corso del colloquio con i farisei, ma del contesto
globale, che non possiamo penetrare senza risalire ai primi capitoli del libro
della Genesi (tralasciando ciò che ivi si riferisce agli altri libri dell’Antico
Testamento). Le precedenti analisi hanno dimostrato quanto esteso sia il
contenuto che comporta il riferimento di Cristo al "principio".
L’enunciazione, alla quale ora ci rifacciamo, cioè
Mt 5,27-28,c’introdurrà con sicurezza - oltre che
nel contesto immediato in cui compare - anche nel suo contesto più ampio, nel
contesto globale, per il cui tramite ci si rivelerà gradualmente il
significato-chiave della teologia del corpo. Questa enunciazione costituisce uno
dei passi del discorso della montagna, in cui Gesù Cristo attua una revisione
fondamentale del modo di comprendere e compiere la legge morale dell’Antica
Alleanza. Ciò si riferisce, in ordine, ai seguenti comandamenti del
decalogo: al quinto "non uccidere" (cf.
Mt 5,21-26), al sesto "non commettere
adulterio" (cf. Mt 5,27-32) - è significativo che
alla fine di questo passo compaia anche la questione dell’"atto
di ripudio" (cf. Mt 5,31-32), accennata già nel
capitolo precedente - e all’ottavo comandamento secondo il testo del libro
dell’Esodo (cf. Es 20,7): "Non
spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi giuramenti" (cf.
Mt 5,33-37).
Significative sono soprattutto le parole che precedono questi
articoli - e i seguenti - del discorso della montagna, parole con le quali Gesù
dichiara: "Non pensate che io sia venuto ad abolire la
legge o i profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare compimento" (Mt
5,17). Nelle frasi che seguono, Gesù spiega il senso di tale
contrapposizione e la necessità del "compimento" della
legge al fine di realizzare il regno di Dio: "Chi...
osserverà (questi comandamenti) e li insegnerà agli uomini, sarà considerato
grande nel regno dei cieli" (Mt 5,19).
"Regno dei cieli" significa regno di Dio nella dimensione
escatologica. Il compimento della Legge condiziona, in modo fondamentale,
questo regno nella dimensione temporale dell’esistenza umana. Si tratta tuttavia
di un compimento che corrisponde pienamente al senso della legge, del decalogo,
dei singoli comandamenti. Soltanto tale compimento costruisce quella
giustizia che Dio-Legislatore ha voluto. Cristo-maestro ammonisce di non
dare una tale interpretazione umana di tutta la legge e dei singoli
comandamenti, in essa contenuti, che non costruisca la giustizia voluta da
Dio-legislatore: "Se la vostra giustizia non supererà
quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli" (Mt
5,20).
2. In tale contesto compare l’enunciazione
di Cristo secondo Mt 5,27-28, che intendiamo prendere come base per le
presenti analisi, considerandola, insieme con l’altra enunciazione secondo Mt
19,3-9 (cf. etiam Mc 10), come chiave della
teologia del corpo. Questa, al pari dell’altra, ha carattere esplicitamente
normativo. Conferma il principio della morale umana contenuta nel comandamento
"non commettere adulterio" e, al tempo stesso, determina
un’appropriata e piena comprensione di questo principio cioè una comprensione
del fondamento ed insieme della condizione per un suo adeguato "compimento";
questo va appunto considerato alla luce delle parole di Mt
5,17-20, già prima riferite, sulle quali abbiamo poco fa richiamato
l’attenzione. Si tratta qui, da un lato, di aderire al significato che
Dio-legislatore ha racchiuso nel comandamento "non
commettere adulterio", e dall’altro lato, di compiere quella
"giustizia" da parte dell’uomo, la quale deve "sovrabbondare"
nell’uomo stesso, cioè in lui deve giungere alla sua pienezza specifica. Questi
sono, per così dire, i due aspetti del "compimento" nel
senso evangelico.
3. Ci troviamo così nel pieno dell’ethos,
ossia in ciò che può esser definito la forma interiore, quasi l’anima della
morale umana. I pensatori contemporanei (Ex. gr. Scheler) vedono nel discorso
della montagna una grande svolta appunto nel campo dell’ethos (1). Una
morale viva, nel senso esistenziale, non viene formata soltanto dalle norme che
investono la forma dei comandamenti, dei precetti e dei divieti, come nel caso
del "non commettere adulterio". La morale in cui si
realizza il senso stesso dell’esser uomo - che e, in pari tempo, compimento
della legge mediante il "sovrabbondare" della giustizia
attraverso la vitalità soggettiva - si forma nella percezione interiore dei
valori da cui nasce il dovere come espressione della coscienza, come risposta
del proprio "io" personale. L’ethos ci fa
contemporaneamente entrare nella profondità della norma stessa e scendere
nell’interno dell’uomo-soggetto della morale. Il valore morale è connesso
con il processo dinamico dell’intimità dell’uomo. Per raggiungerlo, non basta
fermarsi "alla superficie" delle azioni umane, bisogna
penetrare proprio nell’interno.
4. Oltre al comandamento "non
commettere adulterio", il decalogo ha anche "non
desiderare la moglie del... prossimo" (cf. Es 20,17;
Dt 5,21). Nella enunciazione del discorso della
montagna, Cristo li collega, in certo senso, l’uno con l’altro: "Chiunque
guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio nel suo cuore".
Tuttavia, non si tratta tanto di distinguere la portata di quei due comandamenti
del decalogo, quanto di rilevare la dimensione dell’azione interiore, alla quale
si riferiscono anche le parole: "Non commettere
adulterio". Tale azione trova la sua espressione visibile nell’"atto
del corpo", atto al quale partecipano l’uomo e la donna contro la legge
dell’esclusività matrimoniale. La casistica dei libri dell’Antico Testamento,
intesa ad investigare ciò che, secondo criteri esteriori, costituiva tale
"atto del corpo" e, al tempo stesso, orientata a
combattere l’adulterio, apriva a questo varie "scappatoie"
legali (su ciò, cf. il seguito delle presenti meditazioni). In questo modo, in
base ai molteplici compromessi "per la durezza del...
cuore" (Mt 19,8), il senso del comandamento, voluto
dal legislatore, subiva una deformazione. Ci si atteneva all’osservanza
legalistica della formula, che non "sovrabbondava" nella
giustizia interiore dei cuori. Cristo sposta l’essenza del problema in
un’altra dimensione, quando dice: "Chiunque guarda una
donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Secondo
antiche traduzioni: "Già l’ha resa adultera nel suo
cuore", formula che sembra esser più esatta) (2).
Così, dunque, Cristo fa appello all’uomo interiore. Lo fa più
volte e in diverse circostanze. In questo caso ciò appare particolarmente
esplicito ed eloquente, non soltanto riguardo alla configurazione dell’ethos
evangelico, ma anche riguardo al modo di vedere l’uomo. Non è quindi solo la
ragione etica, ma anche quella antropologica a consigliare di soffermarsi più a
lungo sul testo di Mt 5,27-28, che contiene le
parole pronunziate da Cristo nel discorso della montagna.
Mercoledì, 23 aprile 1980
Il contenuto etico e antropologico del comandamento “non
commettere adulterio”
1. Ricordiamo le parole
del discorso della montagna, alle quali facciamo riferimento nel presente ciclo
delle nostre riflessioni del mercoledì: "Avete
inteso - dice il Signore - che fu detto: non commettere adulterio; ma io vi
dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con
lei nel suo cuore" (Mt
5,27-28).
L’uomo, al quale Gesù qui si
riferisce, è proprio l’uomo
"storico", quello di cui abbiamo
rintracciato il "principio"
e la "preistoria
teologica" nella precedente serie di analisi. Direttamente, è colui che ascolta
con le proprie orecchie il discorso della montagna. Ma insieme con lui, c’è
anche ogni altro uomo, posto di fronte a quel momento della storia, sia
nell’immenso spazio del passato, sia in quello, ugualmente vasto, del futuro. A
questo "futuro",
di fronte al discorso della montagna, appartiene anche il nostro presente, la
nostra contemporaneità. Quest’uomo è, in certo senso, "ciascun" uomo, "ognuno"
di noi. Sia l’uomo del passato, sia anche l’uomo del futuro può essere colui che
conosce il comandamento positivo "non
commettere adulterio" quale "contenuto
della legge" (cf. Rm 2,22-23),
ma può essere ugualmente colui che, secondo la lettera ai Romani, ha questo
comandamento soltanto "scritto
nel (suo) cuore" (Rm 2,15)(1).
Alla luce delle riflessioni precedentemente svolte, è l’uomo che dal suo
"principio"
ha acquistato un preciso senso del significato del corpo, già prima di
varcare "la
soglia" delle sue esperienze storiche, nel mistero stesso della creazione, dato
che ne emerse "come
uomo e donna" (Gen 1,27).
È l’uomo storico, che al "principio"
della sua vicenda terrena si è trovato "dentro" la conoscenza del bene e del male, rompendo l’alleanza con il suo
creatore. È l’uomo-maschio, che "conobbe
(la donna) sua moglie" e la "conobbe"
più volte, ed ella "concepì
e partorì" (cf. Gen 4,1-2)
in conformità con il disegno del Creatore, che risaliva allo stato
dell’innocenza originaria (cf.
Gen 1,28; 2,24).
2. Nel suo discorso della
montagna, Cristo si rivolge, in particolare con le parole di Mt 5,27-28,
proprio a quell’uomo. Si rivolge all’uomo di un determinato momento della storia
e, insieme, a tutti gli uomini, appartenenti alla stessa storia umana. Si
rivolge, come abbiamo già costatato, all’uomo "interiore".
Le parole di Cristo hanno un esplicito contenuto antropologico; esse
toccano quei significati perenni, per il tramite dei quali viene costituita
l’antropologia "adeguata".
Queste parole, mediante il loro contenuto etico, simultaneamente costituiscono
una tale antropologia, ed esigono, per così dire, che l’uomo entri nella sua
piena immagine. L’uomo che è "carne",
e che come maschio rimane in rapporto, attraverso il suo corpo e sesso, con la
donna (ciò infatti indica anche l’espressione "non commettere adulterio"), deve, alla luce di queste parole di Cristo,
ritrovarsi nel suo interno, nel suo "cuore"
(2).
Il
"cuore" è questa dimensione dell’umanità, con cui è legato
direttamente il senso del significato del corpo umano, e l’ordine di questo
senso. Si tratta, qui, sia di quel significato che, nelle precedenti
analisi, abbiamo chiamato "sponsale", sia di quello che abbiamo denominato "generatore". E di quale ordine si tratta?
3. Questa parte delle
nostre considerazioni deve dare una risposta appunto a tale domanda - una
risposta che arriva non soltanto alle ragioni etiche, ma anche a quelle
antropologiche; esse, infatti, rimangono in rapporto reciproco. Per ora,
preliminarmente, occorre stabilire il significato del testo di Mt 5,27-28,il
significato delle espressioni usate in esso e il loro rapporto reciproco.
L’adulterio, al quale si riferisce direttamente il citato comandamento,
significa l’infrazione dell’unità, mediante la quale l’uomo e la donna, soltanto
come coniugi, possono unirsi così strettamente da essere "una sola carne" (Gen
2,24). Commette adulterio l’uomo, se in tale
modo si unisce con una donna che non è sua moglie. Commette adulterio
anche la
donna, se in tale modo si unisce con un uomo che non è suo marito.
Bisogna
dedurne che "l’adulterio nel cuore", commesso dall’uomo quando "guarda
una donna per desiderarla", significa un atto interiore ben
definito. Si tratta di un desiderio che è diretto, in questo caso,
dall’uomo
verso una donna che non è sua moglie, al fine di unirsi con lei come se
lo
fosse, cioè - usando ancora una volta le parole di Gen 2,24 - così che "i due siano una sola carne". Tale desiderio, come atto interiore,
si esprime per mezzo del senso della vista, cioè con lo sguardo, come nel
caso di Davide e Betsabea, per servirci di un esempio tratto dalla Bibbia (cf. 2Sam 11,2;
Questo forse è il più noto, ma nella Bibbia si possono trovare altri esempi
simili [cf. Gen 34,2;
Gdc 14,1;
16,1]).
Il rapporto del desiderio col senso della vista è stato particolarmente messo in
rilievo nelle parole di Cristo.
4. Queste parole non
dicono chiaramente se la donna - oggetto del desiderio - sia moglie
altrui
oppure se semplicemente non sia moglie dell’uomo che in tal modo la
guarda. Può
essere moglie altrui, oppure anche non legata dal matrimonio. Bisogna
piuttosto
intuirlo, basandoci specialmente sulla espressione che appunto definisce
adulterio ciò che l’uomo ha commesso "nel suo cuore" con lo sguardo.
Occorre correttamente dedurne che un tale
sguardo di desiderio rivolto verso la propria moglie non è adulterio
"nel cuore", appunto perché il relativo atto interiore dell’uomo si
riferisce alla donna che è sua moglie, nei riguardi della quale
l’adulterio non
può verificarsi. Se l’atto coniugale come atto esteriore, in cui "i due si uniscono così da divenire una sola carne", è lecito nel
rapporto dell’uomo in questione con la donna che è sua moglie, analogamente è
conforme all’etica anche l’atto interiore nella stessa relazione.
5. Nondimeno, quel
desiderio, indicato dall’espressione circa "chiunque
guarda una donna per desiderarla", ha una propria dimensione biblica e
teologica, che qui non possiamo non chiarire. Anche se tale dimensione non
si manifesta direttamente in quest’unica concreta espressione di Mt 5,27-28,tuttavia
è profondamente radicata nel contesto globale, che si riferisce alla rivelazione
del corpo. A questo contesto dobbiamo risalire, affinché il richiamo di Cristo
"al cuore", all’uomo interiore, risuoni in tutta la pienezza della sua
verità. La citata enunciazione del discorso della montagna (Mt
5,27-28) ha fondamentalmente un carattere
indicativo. Che Cristo si rivolga direttamente all’uomo come a colui che
"guarda una donna per desiderarla", non vuol dire che le sue parole,
nel
loro senso etico, non si riferiscano anche alla donna. Cristo si esprime
così
per illustrare con un esempio concreto come occorra comprendere "il
compimento della legge", secondo il significato che le ha dato
Dio-legislatore, ed inoltre come occorra intendere quel "sovrabbondare
della giustizia" nell’uomo, che osserva il sesto
comandamento del decalogo. Parlando in questo modo, Cristo vuole che non
ci
soffermiamo sull’esempio in se stesso, ma anche penetriamo nel pieno
senso etico
ed antropologico dell’enunciato. Se esso ha carattere indicativo,
significa che,
seguendo le sue tracce, possiamo giungere a comprendere la verità
generale
sull’uomo "storico", valida anche per la teologia del corpo. Le
ulteriori tappe
delle nostre riflessioni avranno lo scopo di avvicinarsi a comprendere
questa
verità.
Mercoledì, 30 aprile 1980
La concupiscenza è il frutto della rottura dell’alleanza
con Dio
1. Durante l’ultima nostra
riflessione, abbiamo detto che le parole di Cristo nel Discorso della montagna
sono in diretto riferimento al "desiderio"
che nasce immediatamente nel cuore umano; indirettamente, invece, quelle parole
ci orientano a comprendere una verità sull’uomo, che è di importanza universale.
Questa verità sull’uomo "storico", di importanza universale, verso la quale ci indirizzano le
parole di Cristo tratte da Matteo 5,27-28, sembra essere espressa nella
dottrina biblica sulla triplice concupiscenza. Ci riferiamo qui al conciso
enunciato della prima Lettera di S. Giovanni: "Tutto
quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli
occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo
passa con la sua concupiscenza, ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno" (1Gv
2,16-17). È ovvio che per capire queste
parole, bisogna tenere gran conto del contesto, in cui sono inserite, cioè il
contesto di tutta la "teologia
giovannea", su cui si è tanto scritto (1). Tuttavia, le stesse parole
s’inseriscono, contemporaneamente, nel contesto di tutta la Bibbia: esse
appartengono al complesso della verità rivelata sull’uomo, e sono importanti per
la teologia del corpo. Non spiegano la concupiscenza stessa nella sua
triplice forma, poiché sembrano presupporre che "la concupiscenza del
corpo, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita", siano, in qualche
modo, un concetto chiaro e conosciuto. Spiegano, invece, la genesi della
triplice concupiscenza, indicando la sua provenienza non "dal Padre", ma "dal
mondo".
2. La concupiscenza della
carne e, insieme ad essa, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita,
è "nel mondo" e al tempo stesso "viene
dal mondo", non come frutto del mistero della creazione, ma come frutto
dell’albero della conoscenza del bene e del male" (cf. Gen 2,17)
nel cuore dell’uomo. Ciò che fruttifica nella triplice concupiscenza non è il
"mondo" creato da Dio per l’uomo, la cui "bontà"
fondamentale abbiamo più volte letto in Genesi 1: "Dio vide che era cosa buona... era cosa molto buona". Nella triplice
concupiscenza fruttifica invece la rottura della prima alleanza con il Creatore,
con Dio-Elohim, con Dio-Jahvè. Questa alleanza fu rotta nel cuore dell’uomo.
Bisognerebbe fare qui un’accurata analisi degli avvenimenti descritti in
Genesi 3,1-6. Tuttavia, ci riferiamo solo in generale al mistero del
peccato, agli inizi della storia umana. Infatti, solo come conseguenza del
peccato, come frutto della rottura dell’alleanza con Dio nel cuore umano -
nell’intimo dell’uomo - il "mondo"
del Libro della Genesi è divenuto il "mondo" delle parole giovannee (1Gv
2,15-16): luogo e sorgente di
concupiscenza.
Così, dunque, l’enunciato secondo
cui la concupiscenza "non
viene dal Padre, ma dal mondo", sembra indirizzarci, ancora una volta, verso il
biblico "principio".
La genesi della triplice concupiscenza, presentata da Giovanni, trova in questo
principio la sua prima e fondamentale delucidazione, una spiegazione, che è
essenziale per la teologia del corpo. Per intendere quella verità di importanza
universale sull’uomo "storico",
contenuta nella parole di Cristo durante il discorso della montagna (Mt
5,27-28), dobbiamo ancora una volta tornare
al Libro della Genesi, ancora una volta soffermarci
"alla soglia" della rivelazione dell’uomo "storico". Ciò è tanto più necessario, in quanto tale soglia della storia
della salvezza si dimostra al tempo stesso soglia di autentiche esperienze
umane, come costateremo nelle successive analisi. Vi rivivranno gli stessi
significati fondamentali, che abbiamo ricavato dalle precedenti analisi, quali
elementi costitutivi di una antropologia adeguata e profondo substrato della
teologia del corpo.
3. Può sorgere ancora la
domanda se sia lecito trasporre i contenuti tipici della "teologia giovannea",
racchiusi in tutta la prima lettera (1Gv
2,15-16), sul terreno del Discorso della
montagna secondo Matteo, e precisamente dell’affermazione di Cristo tratta da
Matteo 5,27-28: "Avete inteso che fu detto: Non commetterete adulterio; ma io vi dico:
chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel
suo cuore". Riprenderemo questo argomento più volte: ciò nonostante, facciamo
riferimento fin d’ora al contesto biblico generale, all’insieme della verità
sull’uomo, in essa rivelata ed espressa. Proprio nel nome di questa verità,
cerchiamo di capire fino in fondo l’uomo, che Cristo indica nel testo di
Matteo 5,27-28: cioè l’uomo che "guarda"
la donna "per
desiderarla". Un tale sguardo, in definitiva, non si spiega forse col fatto che
quell’uomo è appunto un "uomo
di desiderio", nel senso della prima Lettera di S. Giovanni, anzi che
entrambi, cioè l’uomo che guarda per desiderare e la donna che è oggetto di
tale sguardo, si trovano nella dimensione della triplice concupiscenza,
che "non viene dal Padre, ma dal mondo"? Occorre, dunque, intendere che
cosa
sia quella concupiscenza o piuttosto chi sia quel biblico "uomo di
desiderio", per scoprire la profondità delle parole di Cristo
secondo Matteo 5,27-28, e per spiegare che cosa significhi il loro
riferimento, tanto importante per la teologia del corpo, al "cuore" umano.
4. Torniamo di nuovo al
racconto jahvista, in cui lo stesso uomo, maschio e femmina, appare all’inizio
come uomo di innocenza originaria - prima del peccato originale - e poi come
colui che ha perduto questa innocenza, infrangendo l’originaria alleanza col suo
Creatore. Non intendiamo qui fare un’analisi completa della tentazione e del
peccato, secondo lo stesso testo di Genesi 3,1-5, la relativa dottrina
della Chiesa e la teologia. Conviene soltanto osservare che la stessa
descrizione biblica sembra mettere particolarmente in evidenza il momento
chiave, in cui nel cuore dell’uomo è posto in dubbio il Dono. L’uomo
che
coglie il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male" fa,
al tempo
stesso, una scelta fondamentale e la attua contro il volere del
Creatore, Dio
Jahvè, accettando la motivazione suggeritagli dal tentatore: "Non
morirete affatto! Anzi, Dio sa che, quando voi ne mangiaste, si
aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e
il
male"; secondo antiche traduzioni:
"Sarete come dèi, conoscenti del bene e del
male" (2). In questa motivazione si racchiude chiaramente la messa in
dubbio del
Dono e dell’Amore, da cui trae origine la creazione come donazione. Per
quanto
riguarda l’uomo, egli riceve in dono il "mondo" ed al tempo stesso la
"immagine
di Dio", cioè l’umanità stessa in tutta la verità della sua duplicità
maschile e
femminile. È sufficiente leggere accuratamente tutto il brano di Genesi
3,1-5, per individuarvi il mistero dell’uomo che volta le spalle al
"Padre" (anche se nel racconto non troviamo tale appellativo di
Dio). Mettendo in dubbio, nel suo cuore, il significato più profondo della
donazione, cioè l’amore come motivo specifico della creazione e dell’Alleanza
originaria (cf. Gen 3,5),
l’uomo volta le spalle al Dio-Amore, al "Padre". In certo senso lo rigetta dal suo cuore. Contemporaneamente,
quindi, distacca il suo cuore e quasi lo recide da ciò che "viene dal Padre": così, resta in lui ciò che "viene dal mondo".
5. "Allora si aprirono gli
occhi di tutte e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico
e se ne fecero cinture" (Gen
3,6). Questa è la prima frase del racconto
jahvista, che si riferisce alla "situazione" dell’uomo dopo il peccato e mostra il nuovo stato della
natura umana. Non suggerisce forse anche questa frase l’inizio della
"concupiscenza" nel cuore dell’uomo? Per dare una risposta più
approfondita a tale domanda, non possiamo soffermarci su quella prima frase, ma
occorre rileggere il testo per intero. Tuttavia, qui vale la pena di ricordare
ciò che nelle prime analisi è stato detto sul tema della vergogna come
esperienza "del limite".(cf. Giovanni Paolo II, Allocutio in Audientia Generali
habita, die 12 dec. 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 2
[1979] 1378ss) Il Libro della Genesi fa riferimento a questa esperienza per
dimostrare il "confine" esistente tra lo stato di innocenza originaria (cf. in
particolare Genesi 2,25, al quale abbiamo dedicato molta attenzione nelle
precedenti analisi) e lo stato di peccaminosità dell’uomo al "principio"
stesso. Mentre Genesi 2,25 sottolinea che "erano nudi... ma non ne provavano vergogna", Genesi 3,6 parla
esplicitamente della nascita della vergogna in connessione col peccato. Quella
vergogna è quasi la prima sorgente del manifestarsi nell’uomo - in entrambi,
uomo e donna - di ciò che "non
viene dal Padre, ma dal mondo".
Mercoledì, 14 maggio 1980
Non posso iniziare l’incontro odierno se non col manifestare la mia più
profonda gratitudine a Dio, che ha guidato i miei passi sulle vie
dell’Africa e mi ha permesso, nel corso di dieci giorni, di visitare sei diversi
Paesi del Continente Africano, concedendomi di vivere, insieme a tanti nostri
fratelli e sorelle nella fede, la gioia della comunione spirituale nell’unica
Chiesa di Cristo, e contemporaneamente condividere con tante nuove
società, che si aprono alla vita, la gioia della loro giovane indipendenza e
sovranità.
Per tutto ciò esprimo la più profonda riconoscenza a Dio e a Cristo,
Redentore dell’uomo e del mondo e, in pari tempo, Signore, Crocifisso e Risorto,
della storia dell’umanità. Esprimo anche vivo ringraziamento a tutti coloro
che nel continente africano mi hanno accolto come pastore e, ad un tempo, come
padre e fratello. Erano vescovi, sacerdoti, suore e fratelli religiosi; erano
laici: uomini e donne, giovani e bambini. Erano Capi di Stato e Autorità,
e anche rappresentanti delle antiche tradizioni tribali. Erano sposi e famiglie.
Erano cattolici e cristiani, come altresì musulmani e seguaci delle tradizionali
religioni africane, nelle quali pure si trova un nucleo della rivelazione
primitiva.
Grazie a questa visita ho potuto incontrare, anche se brevemente, quelle care
popolazioni, gioire della loro giovinezza spirituale, rendere omaggio alle loro
belle tradizioni culturali e nello stesso tempo ai molteplici successi
conseguiti.
Sull’argomento del pellegrinaggio in terra africana desidero ritornare la
prossima settimana e forse anche in altre occasioni. Questo di oggi è soltanto
una prima espressione, dettata da un impellente bisogno del cuore e da un
profondo senso di gratitudine.
Mercoledì, 14 maggio 1980
Radicale cambiamento del significato della nudità
originaria
1. Abbiamo già parlato della vergogna che
sorse nel cuore del primo uomo, maschio e femmina, insieme al peccato. La prima
frase del racconto biblico, al riguardo, suona così: "Allora si aprirono gli
occhi di tutti e due, e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di
fico e se ne fecero cinture" (Gen 3,7). Questo
passo, che parla della vergogna reciproca dell’uomo e della donna quale sintomo
della caduta (status naturae lapsae), va considerato nel suo contesto. La
vergogna in quel momento tocca il grado più profondo e sembra sconvolgere le
fondamenta stesse della loro esistenza. "Poi udirono il Signore Dio, che
passeggiava nel giardino alla brezza del giorno, e l’uomo con la sua moglie si
nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino" (Gen
3,8). La necessità di nascondersi indica che nel profondo della
vergogna avvertita reciprocamente, come frutto immediato dell’albero della
conoscenza del bene e del male, è maturato un senso di paura di fronte a Dio:
paura precedentemente ignota. "Il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse:
"Dove sei?"". Rispose: "Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura,
perché sono nudo, e mi sono nascosto"" (Gen 3,9-10).
Una certa paura appartiene sempre all’essenza stessa della vergogna; nondimeno
la vergogna originaria rivela in modo particolare il suo carattere: "Ho avuto
paura, perché sono nudo". Ci rendiamo conto che qui è in gioco qualche cosa di
più profondo della stessa vergogna corporale, legata ad una recente presa di
coscienza della propria nudità. L’uomo cerca di coprire con la vergogna della
propria nudità l’autentica origine della paura, indicandone piuttosto l’effetto,
per non chiamare per nome la sua causa. Ed è allora che Dio Jahvè lo fa in sua
vece: "Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero di
cui ti avevo comandato di non mangiare?" (Gen 3,11).
2. Sconvolgente è la precisione di quel
dialogo, sconvolgente è la precisione di tutto il racconto. Essa manifesta la
superficie delle emozioni dell’uomo nel vivere gli avvenimenti, in modo da
svelarne al tempo stesso la profondità. In tutto ciò la "nudità" non ha soltanto
un significato letterale, non si riferisce soltanto al corpo, non è origine di
una vergogna riferita solo al corpo. In realtà, attraverso "la nudità", si
manifesta l’uomo privo della partecipazione al Dono, l’uomo alienato da
quell’Amore che era stato la sorgente del dono originario, sorgente della
pienezza del bene destinato alla creatura. Quest’uomo, secondo le formule
dell’insegnamento teologico della Chiesa (1), fu privato dei doni soprannaturali
e preternaturali, che facevano parte della sua "dotazione" prima del peccato;
inoltre, subì un danno in ciò che appartiene alla natura stessa, all’umanità
nella pienezza originaria "dell’immagine di Dio". La triplice concupiscenza non
corrisponde alla pienezza di quell’immagine, ma appunto ai danni, alle
deficienze, alle limitazioni che apparvero col peccato. La concupiscenza si
spiega come carenza, la quale affonda però le radici nella profondità originaria
dello spirito umano. Se vogliamo studiare questo fenomeno alle sue origini, cioè
alla soglia delle esperienze dell’uomo "storico", dobbiamo prendere in
considerazione tutte le parole che Dio-Jahvè rivolse alla donna (Gen
3,16) e all’uomo (Gen 3,17-19), e inoltre
dobbiamo esaminare lo stato della coscienza di entrambi; ed è il testo jahvista
che espressamente ce lo facilita. Già prima abbiamo richiamato l’attenzione
sulla specificità letteraria del testo a tale riguardo.
3. Quale stato di coscienza può
manifestarsi nelle parole: "Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono
nascosto"? A quale verità interiore corrispondono esse? Quale significato del
corpo testimoniano? Certamente questo nuovo stato differisce grandemente quello
originario. Le parole di Genesi 3,10 attestano direttamente un radicale
cambiamento del significato della nudità originaria. Nello stato
dell’innocenza originaria, la nudità, come abbiamo osservato in precedenza, non
esprimeva carenza, ma rappresentava la piena accettazione del corpo in tutta la
sua verità umana e quindi personale. Il corpo, come espressione della persona,
era il primo segno della presenza dell’uomo nel mondo visibile. In quel mondo,
l’uomo era in grado, fin dall’inizio, di distinguere se stesso, quasi
individuarsi - cioè confermarsi come persona - anche attraverso il proprio
corpo. Esso, infatti, era stato, per così dire, contrassegnato come fattore
visibile della trascendenza, in virtù della quale l’uomo, in quanto persona,
supera il mondo visibile degli esseri viventi (animalia). In tale senso,
il corpo umano era dal principio un testimone fedele e una verifica sensibile
della "solitudine" originaria dell’uomo nel mondo, diventando al tempo stesso,
mediante la sua mascolinità e femminilità, una limpida componente della
reciproca donazione nella comunione delle persone. Così, il corpo umano portava
in sé, nel mistero della creazione, un indubbio segno dell’"immagine di Dio" e
costituiva anche la specifica fonte della certezza di quell’immagine, presente
in tutto l’essere umano. L’originaria accettazione del corpo era, in un certo
senso, la base dell’accettazione di tutto il mondo visibile. E, a sua volta, era
per l’uomo garanzia del suo dominio sul mondo, sulla terra, che avrebbe dovuto
assoggettare (cf. Gen 1,28).
4. Le parole "ho avuto paura, perché sono
nudo, e mi sono nascosto" (Gen 3,10) testimoniano
un radicale cambiamento di tale rapporto. L’uomo perde, in qualche modo, la
certezza originaria dell’"immagine di Dio", espressa nel suo corpo. Perde
anche in certo modo il senso del suo diritto a partecipare alla percezione
del mondo, di cui godeva nel mistero della creazione. Questo diritto trovava
il suo fondamento nell’intimo dell’uomo, nel fatto che egli stesso partecipava
alla visione divina del mondo e della propria umanità; il che gli dava profonda
pace e gioia nel vivere la verità e il valore del proprio corpo, in tutta la sua
semplicità, trasmessagli dal Creatore: "Dio vide (che) era cosa molto buona" (Gen
1,31). Le parole di Genesi 3,10: "Ho avuto paura, perché sono
nudo, e mi sono nascosto" confermano il crollo dell’originaria accettazione del
corpo come segno della persona nel mondo visibile. Insieme, sembra anche
vacillare l’accettazione del mondo materiale in rapporto all’uomo. Le parole di
Dio-Jahvè preannunciano quasi l’ostilità del mondo, la resistenza della natura
nei riguardi dell’uomo e dei suoi compiti, preannunciano la fatica che il corpo
umano avrebbe poi provato a contatto con la terra da lui soggiogata: "Maledetto
sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni
della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con
il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da
essa sei stato tratto" (Gen 3,17-19). Il termine di
tale fatica, di tale lotta dell’uomo con la terra, è la morte: "Polvere tu sei e
in polvere tornerai" (Gen 3,19).
In questo contesto, o piuttosto in questa prospettiva, le parole
di Adamo in Genesi 3,10: "Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono
nascosto", sembrano esprimere la consapevolezza di essere inerme, e il
senso di insicurezza della sua struttura somatica di fronte ai
processi della natura, operanti con un determinismo inevitabile. Forse, in
questa sconvolgente enunciazione si trova implicita una certa "vergogna
cosmica", in cui si esprime l’essere creato ad "immagine di Dio" e chiamato a
soggiogare la terra e a dominarla (cf. Gen 1,28),
proprio mentre, all’inizio delle sue esperienze storiche e in maniera così
esplicita, viene sottomesso alla terra, particolarmente nella "parte" della sua
costituzione trascendente rappresentata appunto dal corpo.
Occorre qui interrompere le nostre riflessioni sul significato
della vergogna originaria, nel Libro della Genesi. Le riprenderemo fra una
settimana.
Mercoledì, 28 maggio 1980
Il corpo, non sottomesso allo spirito minaccia l’unità
dell’uomo-persona
1. Stiamo leggendo di
nuovo i primi capitoli del libro della Genesi, per comprendere come - col
peccato originale - l’"uomo della concupiscenza" abbia preso il posto dell’"uomo
della innocenza" originaria. Le parole della Genesi 3,10: "Ho avuto
paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto", che abbiamo considerato due
settimane fa, documentano la prima esperienza di vergogna dell’uomo nei
confronti del suo Creatore: una vergogna che potrebbe essere anche chiamata
"cosmica".
Tuttavia, questa "vergogna cosmica"
- se è possibile scorgerne i tratti nella situazione totale dell’uomo dopo il
peccato originale - nel testo biblico fa posto ad un’altra forma di vergogna. È
la vergogna prodottasi nell’umanità stessa, causata cioè dall’intimo disordine
in ciò per cui l’uomo, nel mistero della creazione, era "l’immagine di Dio",
tanto nel suo "io" personale che nella relazione interpersonale, attraverso la
primordiale comunione delle persone, costituita insieme dall’uomo e dalla donna.
Quella vergogna, la cui causa si trova nell’umanità stessa, è immanente e
relativa insieme: si manifesta nella dimensione dell’interiorità umana e al
tempo stesso si riferisce all’"altro". Questa è la vergogna della donna "nei
riguardi" dell’uomo, e anche dell’uomo "nei riguardi" della donna: vergogna
reciproca, che li costringe a coprire la propria nudità, a nascondere i propri
corpi, a distogliere dalla vista dell’uomo ciò che costituisce il segno visibile
della femminilità, e dalla vista della donna ciò che costituisce il segno
visibile della mascolinità. In tale direzione, si è orientata la vergogna di
entrambi dopo il peccato originale, quando si accorsero di "essere nudi", come
attesta Genesi 3,7. Il testo jahvista sembra indicare esplicitamente il
carattere "sessuale" di tale vergogna: "Intrecciarono foglie di fico e se ne
fecero cinture". Tuttavia, possiamo chiederci se l’aspetto "sessuale" abbia
soltanto un carattere "relativo"; in altre parole: se si tratta di vergogna
della propria sessualità solo in riferimento alla persona dell’altro sesso.
2. Sebbene alla luce di
quell’unica frase determinante di Genesi 3,7 la risposta
all’interrogativo sembri sostenere soprattutto il carattere relativo della
vergogna originaria, nondimeno la riflessione sull’intero contesto immediato
consente di scoprire il suo sfondo più immanente. Quella vergogna, che senza
dubbio si manifesta nell’ordine "sessuale", rivela una specifica difficoltà
di avvertire l’essenzialità umana del proprio corpo: difficoltà che l’uomo
non aveva sperimentato nello stato di innocenza originaria. Così, infatti, si
possono intendere le parole: "Ho avuto paura, perché sono nudo", le quali
pongono in evidenza le conseguenze del frutto dell’albero della conoscenza del
bene e del male nell’intimo dell’uomo. Attraverso queste parole viene svelata
una certa costitutiva frattura nell’interno della persona umana, quasi una
rottura della originaria unità spirituale e somatica dell’uomo. Questi si
rende conto per la prima volta che il suo corpo ha cessato di attingere alla
forza dello spirito, che lo elevava al livello dell’immagine di Dio. La sua
vergogna originaria porta in sé i segni di una specifica umiliazione mediata dal
corpo. Si nasconde in essa il germe di quella contraddizione, che accompagnerà
l’uomo "storico"in tutto il suo cammino terrestre, come scrive san Paolo:
"Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo
un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente" (Rm
7,22-23).
3. Così, dunque, quella
vergogna è immanente. Essa contiene una tale acutezza conoscitiva da creare una
inquietudine di fondo in tutta l’esistenza umana, non solo di fronte alla
prospettiva della morte, ma anche di fronte a quella, da cui dipende il valore e
la dignità stessi della persona nel suo significato etico. In tal senso la
vergogna originaria del corpo ("sono nudo") è già paura ("ho avuto paura"), e
preannunzia l’inquietudine della coscienza connessa con la concupiscenza. Il
corpo che non è sottomesso allo spirito come nello stato della innocenza
originaria, porta in sé un costante focolaio di resistenza allo spirito, e
minaccia in qualche modo l’unità dell’uomo-persona, cioè della natura morale,
che affonda solidamente le radici nella stessa costituzione della persona. La
concupiscenza del corpo è una minaccia specifica alla struttura dell’autopossesso
e dell’autodominio, attraverso cui si forma la persona umana. E costituisce per
essa anche una specifica sfida. In ogni caso, l’uomo della concupiscenza non
domina il proprio corpo nello stesso modo, con uguale semplicità e
"naturalezza", come faceva l’uomo della innocenza originaria. La struttura
dell’autopossesso, essenziale per la persona, viene in lui, in certo modo,
scossa alle fondamenta stesse; egli di nuovo si identifica con essa in quanto è
continuamente pronto a conquistarla.
4. Con tale squilibrio
interiore è collegata la vergogna immanente. Ed essa ha un carattere "sessuale",
perché appunto la sfera della sessualità umana sembra porre in particolare
evidenza quello squilibrio, che scaturisce dalla concupiscenza e specialmente
dalla "concupiscenza del corpo". Da questo punto di vista, quel primo impulso,
di cui parla Genesi 3,7 ("si accorsero di essere nudi, intrecciarono
foglie di fico e se ne fecero cinture") è molto eloquente; è come se l’"uomo
della concupiscenza" (uomo e donna "nell’atto della conoscenza del bene e del
male") provasse di aver semplicemente cessato, anche attraverso il proprio corpo
e sesso, di stare al di sopra del mondo degli esseri viventi o "animalia". È
come se provasse una specifica frattura dell’integrità personale del proprio
corpo, particolarmente in ciò che ne determina la sessualità e che è
direttamente collegato con la chiamata a quell’unità, in cui l’uomo e la donna
"saranno una sola carne" (Gen
2,24). Perciò, quel pudore immanente ed
insieme sessuale è sempre, almeno indirettamente, relativo. È il pudore della
propria sessualità "nei riguardi" dell’altro essere umano. In tal modo il pudore
viene manifestato nel racconto di Genesi 3, per cui siamo, in certo
senso, testimoni della nascita della concupiscenza umana. È quindi
sufficientemente chiara anche la motivazione per risalire dalle parole di Cristo
sull’uomo (maschio), il quale "guarda una donna per desiderarla" (Mt 5,27-28), a
quel primo momento, in cui il pudore si spiega mediante la concupiscenza, e la
concupiscenza mediante il pudore. Così intendiamo meglio perché - e in quale
senso - Cristo parla del desiderio come "adulterio" commesso nel cuore, perché
si rivolge al "cuore" umano.
5. Il cuore umano serba in
sé contemporanearnente il desiderio e il pudore. La nascita del pudore ci
orienta verso quel momento, in cui l’uomo interiore, "il cuore", chiudendosi a
ciò che "viene dal Padre", si apre a ciò che "viene dal mondo". La nascita del
pudore nel cuore umano va di pari passo con l’inizio della concupiscenza: della
triplice concupiscenza secondo la teologia giovannea (cf. 1Gv 2,16),
e in particolare della concupiscenza del corpo. L’uomo ha pudore del corpo a
motivo della concupiscenza. Anzi, ha pudore non tanto del corpo, quanto proprio
della concupiscenza: ha pudore del corpo a motivo della concupiscenza. Ha pudore
del corpo a motivo di quello stato del suo spirito, a cui la teologia e la
psicologia danno la stessa denominazione sinonimica: desiderio ovvero
concupiscenza, sebbene con significato non del tutto uguale. Il significato
biblico e teologico del desiderio e della concupiscenza differisce da quello
usato nella psicologia. Per quest’ultima, il desiderio proviene dalla mancanza o
dalla necessità, che il valore desiderato deve appagare. La concupiscenza
biblica, come deduciamo da 1Gv 2,16, indica lo stato dello spirito
umano allontanato dalla semplicità originaria e dalla pienezza dei valori,
che l’uomo e il mondo posseggono "nelle dimensioni di Dio". Appunto tale
semplicità e pienezza del valore del corpo umano nella prima esperienza della
sua mascolinità-femminilità, di cui parla Genesi 2,23-25, ha subito
successivamente, "nelle dimensioni del mondo", una trasformazione radicale. E
allora, insieme con la concupiscenza del corpo, nacque il pudore.
6. Il pudore ha un duplice
significato: indica la minaccia del valore e al tempo stesso preserva
interiormente tale valore (cf. Karol Wojtyla, Amore e responsabilità,
Torino 19782, pp. 161-178). Il fatto che il cuore umano, dal momento in cui vi
nacque la concupiscenza del corpo, serbi in sé anche la vergogna, indica che si
può e si deve far appello ad esso, quando si tratta di garantire quei valori, ai
quali la concupiscenza toglie la loro originaria e piena dimensione. Se teniamo
ciò in mente, siamo in grado di comprendere meglio perché Cristo, parlando della
concupiscenza, fa appello al "cuore" umano.
Mercoledì, 4 giugno 1980
Significato della vergogna originale nei rapporti
interpersonali uomo-donna
All’inizio dell’udienza generale il Papa ricorda il suo
viaggio in Francia
1. Desidero oggi esprimere
la mia riconoscenza a Dio per la grazia del servizio, che recentemente mi
è stato dato di compiere a Parigi e a Lisieux.
Invitato dal Signor Direttore
Generale dell’UNESCO, ho avuto occasione di prendere la parola durante la CIX
sessione del Consiglio esecutivo, il 2 giugno scorso, e parlare dell’importanza
e dei compiti della cultura nella vita dell’uomo, delle Nazioni e dell’umanità.
Contemporaneamente, l’Arcivescovo di Parigi ha fatto di tutto perché quella mia
presenza diventasse un vero pellegrinaggio e un vero servizio pastorale
non soltanto verso la Chiesa a Parigi ma, per riflesso, verso tutta la Francia.
Ne ringrazio la Conferenza Episcopale, con a capo il suo Presidente. Ringrazio,
inoltre, il Signor Presidente della Repubblica Francese, i Rappresentanti del
Distretto per il loro atteggiamento benevolo nei confronti della mia visita; e,
per quanto riguarda il soggiorno a Parigi, ringrazio il Signor Sindaco di quella
stupenda capitale.
Sono grato al Vescovo di Bayeux e
Lisieux per l’invito al santuario di Santa Teresa di Gesù Bambino; sono grato
altresì alla comunità ed alle autorità per l’ospitalità a me dimostrata. In tal
modo il mio pellegrinaggio ha potuto avere una piena eloquenza
missionaria presso la tomba di colei che la Chiesa ha dichiarato Patrona delle
Missioni.
Bastino per oggi queste prime
parole di ringraziamento, che rivolgo nello stesso tempo a tutti coloro ai quali
devo vera gratitudine per la preparazione e lo svolgimento della visita. Sarebbe
tuttavia difficile non cercare una forma più piena per manifestare l’importanza
di tale avvenimento. Intendo farlo in una prossima occasione.
***
1. Parlando della nascita
della concupiscenza nell’uomo, in base al libro della Genesi, abbiamo analizzato
il significato originario della vergogna, che apparve col primo peccato.
L’analisi della vergogna, alla luce del racconto biblico, ci consente di
comprendere ancora più a fondo quale significato essa abbia per l’insieme dei
rapporti interpersonali uomo-donna. Il capitolo terzo della Genesi dimostra
senza alcun dubbio che quella vergogna apparve nel reciproco rapporto dell’uomo
con la donna e che tale rapporto, per causa della vergogna stessa subì una
radicale trasformazione. E poiché essa nacque nei loro cuori insieme con la
concupiscenza del corpo, l’analisi della vergogna originaria ci permette
contemporaneamente di esaminare in quale rapporto rimane tale concupiscenza
rispetto alla comunione delle persone, che dal principio è stata concessa e
assegnata come compito all’uomo e alla donna per il fatto di essere stati creati
"ad immagine di Dio". Quindi, l’ulteriore tappa dello studio sulla
concupiscenza, che "al principio" si era manifestata attraverso la vergogna
dell’uomo e della donna, secondo Genesi 3, è l’analisi dell’insaziabilità
dell’unione, cioè della comunione delle persone, che doveva essere espressa
anche dai loro corpi, secondo la propria specifica mascolinità e femminilità.
2. Soprattutto, dunque,
questa vergogna che, secondo la narrazione biblica, induce l’uomo e la donna a
nascondere reciprocamente i propri corpi ed in specie la loro differenziazione
sessuale, conferma che si è infranta quella capacità originaria di comunicare
reciprocamente se stessi, di cui parla Genesi 2,25. Il radicale
cambiamento del significato della nudità originaria ci lascia supporre
trasformazioni negative di tutto il rapporto interpersonale uomo-donna. Quella
reciproca comunione nell’umanità stessa mediante il corpo e mediante la
sua mascolinità e femminilità, che aveva una così forte risonanza nel passo
precedente della narrazione jahvista (cf. Gen 2,23-25),
viene in questo momento sconvolta: come se il corpo, nella sua
mascolinità e femminilità, cessasse di costituire l’"insospettabile" substrato
della comunione delle persone, come se la sua originaria funzione fosse "messa
in dubbio" nella coscienza dell’uomo e della donna. Spariscono la semplicità e
la "purezza" dell’esperienza originaria, che facilitava una singolare pienezza
nel reciproco comunicare se stessi. Ovviamente, i progenitori non cessarono di
comunicare a vicenda attraverso il corpo e i suoi movimenti, gesti,
espressioni; ma sparì la semplice e diretta comunione di sé connessa con
l’esperienza originaria della reciproca nudità. Quasi all’improvviso, apparve
nella loro coscienza una soglia invalicabile, che limitava l’originaria
"donazione di sé" all’altro, in pieno affidamento a tutto ciò che costituiva la
propria identità e, al tempo stesso, diversità, da un lato femminile, dall’altro
maschile. La diversità, ovvero la differenza del sesso maschile e femminile, fu
bruscamente sentita e compresa come elemento di reciproca contrapposizione di
persone. Ciò viene attestato dalla concisa espressione di Genesi 3,7: "Si
accorsero di essere nudi", e dal suo contesto immediato. Tutto ciò fa parte
anche dell’analisi della prima vergogna. Il libro della Genesi non soltanto ne
delinea l’origine nell’essere umano, ma consente anche di svelare i suoi gradi
in entrambi, nell’uomo e nella donna.
3. Il chiudersi della
capacità di una piena comunione reciproca, che si manifesta come pudore
sessuale, ci consente di meglio intendere l’originario valore del significato
unificante del corpo. Non si può infatti comprendere altrimenti quel rispettivo
chiudersi, ovvero la vergogna, se non in rapporto al significato che il corpo,
nella sua femminilità e mascolinità, aveva anteriormente per l’uomo nello stato
di innocenza originaria. Quel significato unificante va inteso non soltanto
riguardo all’unità, che l’uomo e la donna, come coniugi, dovevano costituire,
diventando "una sola carne" (Gen
2,24) attraverso l’atto coniugale, ma anche
in riferimento alla stessa "comunione delle persone", che era stata la
dimensione propria dell’esistenza dell’uomo e della donna nel mistero della
creazione. Il corpo nella sua mascolinità e femminilità costituiva il
"substrato" peculiare di tale comunione personale. Il pudore sessuale, di cui
tratta Genesi 3,7, attesta la perdita dell’originaria certezza che il
corpo umano, attraverso la sua mascolinità e femminilità, sia proprio quel
"substrato" della comunione delle persone, che "semplicemente" la esprima, che
serva alla sua realizzazione (e così anche al completamento dell’"immagine di
Dio" nel mondo visibile). Questo stato di coscienza di entrambi ha forti
ripercussioni nell’ulteriore contesto di Genesi 3, di cui tra breve ci
occuperemo. Se l’uomo, dopo il peccato originale, aveva perduto per così dire il
senso dell’immagine di Dio in sé, ciò si è manifestato con la vergogna del corpo
(cf. praesertim Gen 3,10-11).
Quella vergogna, invadendo la relazione uomo-donna nella sua totalità, si è
manifestata con lo squilibrio dell’originario significato dell’unità corporea,
cioè del corpo quale "substrato" peculiare della comunione delle persone.
Come se il profilo personale della mascolinità e femminilità, che prima metteva
in evidenza il significato del corpo per una piena comunione delle persone,
cedesse il posto soltanto alla sensazione della "sessualità" rispetto all’altro
essere umano. E come se la sessualità diventasse "ostacolo" nel rapporto
personale dell’uomo con la donna. Celandola reciprocamente, secondo Genesi
3,7, entrambi la esprimono quasi per istinto.
4. Questa è, ad un tempo,
come la "seconda" scoperta del sesso, che nella narrazione biblica differisce
radicalmente dalla prima. L’intero contesto del racconto comprova che questa
nuova scoperta distingue l’uomo "storico" della concupiscenza (anzi, della
triplice concupiscenza) dall’uomo dell’innocenza originaria. In quale rapporto
si pone la concupiscenza, ed in particolare la concupiscenza della carne,
rispetto alla comunione delle persone mediata dal corpo, dalla sua mascolinità e
femminilità, cioè rispetto alla comunione assegnata, "dal principio", all’uomo
dal Creatore? Ecco l’interrogativo che bisogna porsi, precisamente riguardo "al
principio", circa l’esperienza della vergogna, a cui si riferisce il racconto
biblico. La vergogna, come già abbiamo osservato, si manifesta nella narrazione
di Genesi 3 come sintomo del distacco dell’uomo dall’amore, di cui era
partecipe nel mistero della creazione secondo l’espressione giovannea: quello
che "viene dal Padre". "Quello che è nel mondo", cioè la concupiscenza,
porta con sé una quasi costitutiva difficoltà di immedesimazione col proprio
corpo; e non soltanto nell’ambito della propria soggettività, ma ancor più
riguardo alla soggettività dell’altro essere umano: della donna per
l’uomo, dell’uomo per la donna.
5. Di qui la necessità di
nascondersi davanti all’"altro" col proprio corpo, con ciò che determina la
propria femminilità/mascolinità. Questa necessità dimostra la fondamentale
mancanza di affidamento, il che di per sé indica il crollo dell’originario
rapporto "di comunione". Appunto il riguardo alla soggettività dell’altro, ed
insieme alla propria soggettività, ha suscitato in questa nuova situazione, cioè
nel contesto della concupiscenza, l’esigenza di nascondersi, di cui parla
Genesi 3,7.
E precisamente qui ci sembra di
riscoprire un significato più profondo del pudore "sessuale" ed anche il pieno
significato di quel fenomeno, a cui si richiama il testo biblico per rilevare il
confine tra l’uomo della innocenza originaria e l’uomo "storico" della
concupiscenza. Il testo integrale di Genesi 3 ci fornisce elementi per
definire la dimensione più profonda della vergogna; ma ciò esige un’analisi a
parte. La inizieremo nella prossima riflessione.
Mercoledì, 18 giugno 1980
Il dominio “su” l’altro nella relazione interpersonale
1. In Genesi 3 è descritto
con sorprendente precisione il fenomeno della vergogna, apparsa nel primo uomo
insieme al peccato originale. Una attenta riflessione su questo testo ci
consente di dedurne che la vergogna, subentrata all’assoluto affidamento
connesso con l’anteriore stato dell’innocenza originaria nel reciproco rapporto
tra l’uomo e la donna, ha una dimensione più profonda. Occorre al riguardo
rileggere sino alla fine il capitolo 3 della Genesi, e non limitarsi al
versetto 7 né al testo dei versetti 10-11, i quali contengono la testimonianza
circa la prima esperienza della vergogna. Ecco che, in seguito a questa
narrazione, si rompe il dialogo di Dio-Jahvè con l’uomo e la donna, ed inizia un
monologo. Jahvè si rivolge alla donna e parla prima dei dolori del parto, che
d’ora in poi l’accompagneranno: "Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue
gravidanze, con dolore partorirai figli..." (Gen
3,16).
A ciò fa seguito l’espressione che
caratterizza il futuro rapporto di entrambi, dell’uomo e della donna: "Verso tuo
marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà" (Gen
3,16).
2. Queste parole, al pari
di quelle di Genesi 2,24, hanno un carattere prospettico. L’incisiva
formulazione di Genesi 3,16 sembra riguardare il complesso dei fatti, che
in certo modo sono emersi già nell’originaria esperienza della vergogna, e che
successivamente si manifesteranno in tutta l’esperienza interiore dell’uomo
"storico". La storia delle coscienze e dei cuori umani avrà in sé la continua
conferma delle parole contenute in Genesi 3,16. Le parole pronunziate al
principio sembrano riferirsi ad una particolare "menomazione" della donna nei
confronti dell’uomo. Ma non vi è motivo per intenderla come una menomazione o
una disuguaglianza sociale. Immediatamente invece l’espressione: "Verso tuo
marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà" indica un’altra forma di
disuguaglianza, che la donna risentirà come mancanza di piena unità appunto
nel vasto contesto dell’unione con l’uomo, alla quale tutti e due sono stati
chiamati secondo Genesi 2,24.
3. Le parole di Dio-Jahvè:
"Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà" (Gen
3,16) non riguardano esclusivamente il
momento dell’unione dell’uomo e della donna, quando entrambi si uniscono così da
diventare una sola carne (cf.
Gen 2,24), ma si riferiscono all’ampio
contesto dei rapporti anche indiretti dell’unione coniugale nel suo insieme. Per
la prima volta l’uomo viene qui definito quale "marito". Nell’intero contesto
della narrazione jahvista tali parole intendono soprattutto una infrazione, una
fondamentale perdita della primitiva comunità-comunione di persone. Questa
avrebbe dovuto render vicendevolmente felici l’uomo e la donna mediante la
ricerca di una semplice e pura unione nell’umanità, mediante una reciproca
offerta di se stessi, cioè l’esperienza del dono della persona espresso con
l’anima e con il corpo, con la mascolinità e la femminilità - "carne dalla mia
carne"(Gen 2,23)
-, ed infine mediante la subordinazione di tale unione alla benedizione della
fecondità con la "procreazione".
4. Sembra quindi che nelle
parole rivolte da Dio-Jahvè alla donna, si trovi una risonanza più profonda
della vergogna, che entrambi cominciarono a sperimentare dopo la rottura
dell’originaria Alleanza con Dio. Vi troviamo, inoltre, una più piena
motivazione di tale vergogna. In modo molto discreto, e nondimeno abbastanza
decifrabile ed espressivo, Genesi 3,16 attesta come quella originaria
beatificante unione coniugale delle persone sarà deformata nel cuore dell’uomo
dalla concupiscenza. Queste parole sono direttamente rivolte alla donna, ma
si riferiscono all’uomo, o piuttosto a tutti e due insieme.
5. Già l’analisi di
Genesi 3,7, fatta in precedenza, ha dimostrato che nella nuova situazione,
dopo la rottura dell’originaria Alleanza con Dio, l’uomo e la donna si trovarono
fra loro, anziché uniti, maggiormente divisi o addirittura contrapposti a causa
della loro mascolinità e femminilità. Il racconto biblico, mettendo in rilievo
l’impulso istintivo che aveva spinto entrambi a coprire i loro corpi, descrive
al tempo stesso la situazione in cui l’uomo, come maschio o femmina - prima era
piuttosto maschio e femmina - si sente maggiormente estraniato dal corpo, come
dalla sorgente della originaria unione nell’umanità ("carne dalla mia carne"), e
più contrapposto all’altro proprio in base al corpo e al sesso. Tale
contrapposizione non distrugge né esclude l’unione coniugale voluta dal Creatore
(cf. Gen 2,24),
né i suoi effetti procreativi; ma conferisce all’attuazione di questa unione
un’altra direzione, che sarà propria dell’uomo della concupiscenza. Di ciò parla
appunto Genesi 3,16.
La donna, il cui "istinto sarà
verso il (proprio) marito" (Gen
3,16), e l’uomo che risponde a tale istinto,
come leggiamo: "ti dominerà", formano indubbiamente la stessa coppia umana, lo
stesso matrimonio di Genesi 2,24, anzi, la stessa comunità di persone:
tuttavia, sono ormai qualcosa di diverso. Essi non sono più soltanto chiamati
all’unione e unità, ma anche minacciati dall’insaziabilità di quell’unione e
unità, che non cessa di attrarre l’uomo e la donna proprio perché sono
persone, chiamate dall’eternità ad esistere "in comunione". Alla luce del
racconto biblico, il pudore sessuale ha il suo profondo significato, che è
collegato appunto con l’inappagamento dell’aspirazione a realizzare nell’"unione
coniugale del corpo" (cf. Gen
2,24) la reciproca comunione delle persone.
6. Tutto ciò sembra
confermare, sotto vari aspetti, che alla base della vergogna, di cui l’uomo
"storico" è divenuto partecipe, sta la triplice concupiscenza, di cui tratta la
prima Lettera di Giovanni 2,16: non solamente la concupiscenza della
carne, ma anche "la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita".
L’espressione relativa al "dominio" ("egli ti dominerà"), di cui leggiamo in
Genesi 3,16, non indica forse quest’ultima forma di concupiscenza? Il
dominio "su" l’altro - dell’uomo sulla donna - non cambia forse essenzialmente
la struttura di comunione nella relazione interpersonale? Non traspone forse
nella dimensione di tale struttura qualcosa che fa dell’essere umano un oggetto,
in certo senso concupiscibile dagli occhi?
Ecco gli interrogativi che nascono
dalla riflessione sulle parole di Dio-Jahvè secondo Genesi 3,16. Quelle
parole, pronunciate quasi alla soglia della storia umana dopo il peccato
originale, ci svelano non soltanto la situazione esteriore dell’uomo e della
donna, ma ci consentono anche di penetrare all’interno dei profondi misteri del
loro cuore.
Mercoledì, 25 giugno 1980
La triplice concupiscenza limita il significato sponsale
del corpo
1. L’analisi che abbiamo
fatta durante la precedente riflessione era incentrata sulle seguenti parole di
Genesi 3,16, rivolte da Dio-Jahvè alla prima donna dopo il peccato
originale: "Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà" (Gen
3,16). Siamo giunti a concludere che queste
parole contengono un adeguato chiarimento ed una profonda interpretazione
della vergogna originaria (cf.
Gen 3,7), divenuta parte dell’uomo e
della donna insieme alla concupiscenza. La spiegazione di questa vergogna non
va cercata nel corpo stesso, nella sessualità somatica di entrambi, ma
risale alle trasformazioni più profonde subite dallo spirito umano.
Proprio questo spirito è particolarmente conscio di quanto insaziabile esso sia
della mutua unità tra l’uomo e la donna. E tale coscienza, per così dire, ne fa
colpa al corpo, gli toglie la semplicità e purezza del significato connesso
all’innocenza originaria dell’essere umano. In rapporto a tale coscienza, la
vergogna è un’esperienza secondaria: se da un lato essa rivela il momento della
concupiscenza, al tempo stesso può premunire dalle conseguenze della triplice
componente della concupiscenza. Si può perfino dire che l’uomo e la donna,
attraverso la vergogna, quasi permangono nello stato dell’innocenza originaria.
Di continuo, infatti, prendono coscienza del significato sponsale del corpo e
tendono a tutelarlo, per così dire, dalla concupiscenza, così come cercano di
mantenere il valore della comunione, ossia dell’unione delle persone nell’"unità
del corpo".
2. Genesi 2,24
parla con discrezione ma anche con chiarezza dell’"unione dei corpi" nel senso
dell’autentica unione delle persone: "L’uomo... si unirà a sua moglie e i due
saranno una sola carne"; e dal contesto risulta che questa unione proviene da
una scelta, dato che l’uomo "abbandona" padre e madre per unirsi a sua moglie.
Una siffatta unione delle persone comporta che esse diventino "una sola carne".
Partendo da questa espressione "sacramentale", che corrisponde alla comunione
delle persone - dell’uomo e della donna - nella loro originaria chiamata
all’unione coniugale, possiamo meglio comprendere il messaggio proprio di
Genesi 3, 16; possiamo cioè stabilire e quasi ricostruire in che cosa
consista lo squilibrio, anzi la peculiare deformazione dell’originario
rapporto interpersonale di comunione, a cui alludono le parole
"sacramentali" di Genesi 2,24.
3. Si può quindi dire -
approfondendo Genesi 3,16 - che mentre da una parte il "corpo",
costituito nell’unità del soggetto personale, non cessa di stimolare i desideri
dell’unione personale, proprio a motivo della mascolinità e femminilità ("verso
tuo marito sarà il tuo istinto"), dall’altra e al tempo stesso la concupiscenza
indirizza a modo suo questi desideri; ciò viene confermato dalla espressione:
"Egli ti dominerà". La concupiscenza della carne indirizza però tali desideri
verso l’appagamento del corpo, spesso a prezzo di un’autentica e piena comunione
delle persone. In tal senso, si dovrebbe prestare attenzione alla maniera in cui
vengono distribuite le accentuazioni semantiche nei versetti di Genesi 3;
infatti, pur essendo sparse, rivelano coerenza interna. L’uomo è colui che
sembra provar vergogna del proprio corpo con particolare intensità: "Ho avuto
paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto" (Gen
3,10); queste parole pongono in rilievo il
carattere davvero metafisico della vergogna. Al tempo stesso, l’uomo è colui per
il quale la vergogna, unita alla concupiscenza, diventerà impulso a "dominare"
la donna ("egli dominerà"). In seguito, l’esperienza di tale dominio si
manifesta più direttamente nella donna come il desiderio insaziabile di
un’unione diversa. Dal momento in cui l’uomo la "domina", alla comunione
delle persone - fatta di unità spirituale dei due soggetti donatisi
reciprocamente - succede un diverso rapporto vicendevole, cioè un
rapporto di possesso dell’altro a modo di oggetto del proprio desiderio. Se tale
impulso prevale da parte dell’uomo, gli istinti che la donna volge verso di lui,
secondo l’espressione di Genesi 3,16, possono assumere - e assumono - un
carattere analogo. E forse talvolta prevengono il "desiderio" dell’uomo, o
tendono perfino a suscitarlo e a dargli impulso.
4. Il testo di Genesi
3,16 sembra indicare soprattutto l’uomo come colui che "desidera", analogamente
al testo di Matteo 5,27-28, che costituisce il punto di partenza per le
presenti meditazioni; nondimeno, sia l’uomo che la donna sono divenuti un
"essere umano" soggetto alla concupiscenza. E perciò entrambi hanno in sorte la
vergogna, che con la sua profonda risonanza tocca l’intimo sia della personalità
maschile che di quella femminile, anche se in diverso modo. Ciò che apprendiamo
da Genesi 3 ci consente appena di delineare questa duplicità, ma anche
solo gli accenni sono già molto significativi. Aggiungiamo che, trattandosi di
un testo così arcaico, esso è sorprendentemente eloquente e acuto.
5. Un’adeguata analisi di
Genesi 3 conduce quindi alla conclusione, secondo cui la triplice
concupiscenza, inclusa quella del corpo, porta con sé una limitazione del
significato sponsale del corpo stesso, di cui l’uomo e la donna erano partecipi
nello stato dell’innocenza originaria. Quando parliamo del significato del
corpo, facciamo anzitutto riferimento alla piena coscienza dell’essere umano, ma
includiamo anche ogni effettiva esperienza del corpo nella sua mascolinità e
femminilità, e, in ogni caso, la costante predisposizione a tale esperienza. Il
"significato" del corpo non è soltanto qualcosa di concettuale. Su ciò abbiamo
già sufficientemente richiamato l’attenzione delle precedenti analisi. Il
"significato del corpo" è ad un tempo ciò che determina l’atteggiamento: è il
mondo di vivere il corpo. È la misura che l’uomo interiore, cioè quel "cuore"
al quale si richiama Cristo nel discorso della montagna, applica al corpo umano
riguardo alla sua mascolinità/femminilità (dunque riguardo alla sua sessualità).
Quel "significato" non modifica la
realtà in se stessa, ciò che il corpo umano è e non cessa di essere nella
sessualità che gli è propria, indipendentemente dagli stati della nostra
coscienza e delle nostre esperienze. Tuttavia, tale significato puramente
oggettivo del corpo e del sesso, al di fuori del sistema dei reali concreti
rapporti interpersonali tra l’uomo e la donna, è in un certo senso "storico".
Noi, invece, nella presente analisi - in conformità con le fonti bibliche -
teniamo conto della storicità dell’uomo (anche per il fatto che prendiamo le
mosse dalla sua preistoria teologica). Si tratta qui, ovviamente, di una
dimensione interiore, che sfugge ai criteri esterni della storicità, ma che-
tuttavia può essere considerata "storica". Anzi, essa sta proprio alla base di
tutti i fatti, che costituiscono la storia dell’uomo - anche la storia del
peccato e della salvezza - e così rivelano la profondità e la radice stessa
della sua storicità.
6. Quando, in questo vasto
contesto, parliamo della concupiscenza come di limitazione, infrazione o
addirittura deformazione del significato sponsale del corpo, ci riportiamo
soprattutto alle precedenti analisi, che riguardavano lo stato della innocenza
originaria, cioè la preistoria teologica dell’uomo. Al tempo stesso, abbiamo in
mente la misura che l’uomo "storico", con il suo "cuore", applica al proprio
corpo riguardo alla sessualità maschile/femminile. Questa misura non è qualcosa
di esclusivamente concettuale: è ciò che determina gli atteggiamenti e decide in
linea di massima del modo di vivere del corpo.
Certamente, a ciò si riferisce il
Cristo nel Discorso della Montagna. Noi cerchiamo qui di accostare le parole
tratte da Matteo 5,27-28 alla soglia stessa della storia teologica
dell’uomo, prendendole quindi in considerazione già nel contesto di Genesi
3. La concupiscenza come limitazione, infrazione o addirittura deformazione del
significato sponsale del corpo, può esser verificata in maniera particolarmente
chiara (nonostante la concisione del racconto biblico) nei due progenitori,
Adamo e Eva; grazie a loro abbiamo potuto trovare il significato sponsale del
corpo e riscoprire in che cosa esso consista come misura del "cuore" umano, tale
da plasmare la forma originaria della comunione delle persone. Se nella loro
esperienza personale (che il testo biblico ci permette di seguire) quella forma
originaria ha subito squilibrio e deformazione - come abbiamo cercato di
dimostrare attraverso l’analisi della vergogna - doveva subire una
deformazione anche il significato sponsale del corpo, che nella situazione della
innocenza originaria costituiva la misura del cuore di entrambi, dell’uomo e
della donna. Se riusciremo a ricostruire in che cosa consista questa
deformazione, avremo pure la risposta alla nostra domanda: cioè in che cosa
consista la concupiscenza della carne e che cosa costituisca la sua specificità
teologica ed insieme antropologica. Sembra che una risposta teologicamente ed
antropologicamente adeguata, importante per quel che concerne il significato
delle parole di Cristo nel discorso della Montagna, possa già essere ricavata
dal contesto di Genesi 3 e dall’intero racconto jahvista, che in
precedenza ci ha permesso di chiarire il significato sponsale del corpo umano.
Mercoledì, 23 luglio 1980
La concupiscenza del corpo deforma i rapporti uomo-donna
1. Il corpo umano nella
sua originaria mascolinità e femminilità, secondo il mistero della creazione -
come sappiamo dall’analisi di Genesi 2,23-25 - non è soltanto fonte di
fecondità, cioè di procreazione, ma fin "dal principio" ha un carattere
sponsale: cioè, esso è capace di esprimere l’amore con cui l’uomo-persona
diventa dono avverando così il profondo senso del proprio essere e del proprio
esistere. In questa sua peculiarità, il corpo è l’espressione dello spirito ed è
chiamato, nel mistero stesso della creazione, ad esistere nella comunione delle
persone "ad immagine di Dio". Orbene, la concupiscenza "che viene dal mondo" -
si tratta qui direttamente della concupiscenza del corpo - limita e deforma
quell’oggettivo modo di esistere del corpo, di cui l’uomo è divenuto partecipe.
Il "cuore umano sperimenta il grado di questa limitazione o deformazione,
soprattutto nell’ambito dei rapporti reciproci uomo-donna. Proprio
nell’esperienza del "cuore" la femminilità e la mascolinità, nei loro
vicendevoli rapporti, sembrano non esser più l’espressione dello spirito che
tende alla comunione personale, e restano soltanto oggetto di attrazione, in
certo senso come avviene "nel mondo" degli esseri viventi che, al pari
dell’uomo, hanno ricevuto la benedizione della fecondità (cf. Gen 1).
2. Tale somiglianza è
certamente contenuta nell’opera della creazione; lo conferma anche Genesi
2 e particolarmente il versetto 24. Tuttavia, ciò che costituiva il substrato
"naturale", somatico e sessuale, di quella attrazione, già nel mistero della
creazione esprimeva pienamente la chiamata dell’uomo e della donna alla
comunione personale; invece, dopo il peccato, nella nuova situazione di cui
parla Genesi 3, tale espressione si indebolì e si offuscò: come se
venisse meno nel delinearsi dei rapporti reciproci, oppure come se fosse
respinta su un altro piano. Il substrato naturale e somatico della sessualità
umana si manifestò come una forza quasi autogena, contrassegnata da una certa
"costrizione del corpo", operante secondo una propria dinamica, che limita
l’espressione dello spirito e l’esperienza dello scambio del dono della persona.
Le parole di Genesi 3,15 rivolte alla prima donna sembrano indicarlo in
modo abbastanza chiaro ("verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti
dominerà").
3. Il corpo umano nella
sua mascolinità-femminilità ha quasi perduto la capacità di esprimere tale
amore, in cui l’uomo-persona diventa dono, conforme alla più profonda struttura
e finalità della sua esistenza personale, come abbiamo già osservato nelle
precedenti analisi. Se qui non formuliamo questo giudizio in modo assoluto e vi
aggiungiamo l’espressione avverbiale "quasi", lo facciamo perché la
dimensione del dono - cioè la capacità di esprimere l’amore con cui l’uomo,
mediante la sua femminilità o mascolinità, diventa dono per l’altro - in
qualche misura non ha cessato di permeare e di plasmare l’amore che nasce nel
cuore umano. Il significato sponsale del corpo non è diventato totalmente
estraneo a quel cuore: non vi è stato totalmente soffocato da parte della
concupiscenza, ma soltanto abitualmente minacciato. Il "cuore" è diventato
luogo di combattimento tra l’amore e la concupiscenza. Quanto più la
concupiscenza domina il cuore, tanto meno questo sperimenta il significato
sponsale del corpo, e tanto meno diviene sensibile al dono della persona, che
nei rapporti reciproci dell’uomo e della donna esprime appunto quel significato.
Certamente, anche quel "desiderio" di cui Cristo parla in Matteo 5,
27-28, appare nel cuore umano in forme molteplici: non sempre è evidente e
palese, talvolta è nascosto, così che si fa chiamare "amore", sebbene muti il
suo autentico profilo e oscuri la limpidezza del dono nel rapporto reciproco
delle persone. Vuol forse dire, questo, che abbiamo il dovere di diffidare del
cuore umano? No! Ciò vuol soltanto dire che dobbiamo mantenerne il controllo.
4. L’immagine della
concupiscenza del corpo, che emerge dalla presente analisi, ha un chiaro
riferimento all’immagine della persona, con la quale abbiamo collegato le nostre
precedenti riflessioni sul tema del significato sponsale del corpo. L’uomo
infatti come persona è in terra "la sola creatura che Iddio ha voluto per se
stessa" e, in pari tempo, colui che non può "ritrovarsi pienamente se non
attraverso un dono sincero di sé" (1). La concupiscenza in generale - e la
concupiscenza del corpo in particolare - colpisce appunto questo "dono sincero":
sottrae all’uomo, si potrebbe dire, la dignità del dono, che viene espressa
dal suo corpo mediante la femminilità e la mascolinità, e in certo senso
"depersonalizza" l’uomo facendolo oggetto "per l’altro". Invece di essere
"insieme con l’altro" - soggetto nell’unità, anzi nella sacramentale "unità del
corpo" - l’uomo diviene oggetto per l’uomo: la femmina per il maschio e
viceversa. Le parole di Genesi 3,16 - e, prima ancora, di Genesi
3,7 - lo attestano, con tutta la chiarezza del contrasto, rispetto a Genesi
2,23-25.
5. Infrangendo la
dimensione del dono reciproco dell’uomo e della donna, la concupiscenza mette
anche in dubbio il fatto che ognuno di essi è voluto dal Creatore "per se
stesso". La soggettività della persona cede, in un certo senso, all’oggettività
del corpo. A motivo del corpo l’uomo diviene oggetto per l’uomo: la femmina per
il maschio e viceversa. La concupiscenza significa, per così dire, che i
rapporti personali dell’uomo e della donna vengono unilateralmente e
riduttivamente vincolati al corpo e al sesso, nel senso che tali rapporti
divengono quasi inabili ad accogliere il dono reciproco della persona. Non
contengono né trattano la femminilità-mascolinità secondo la piena dimensione
della soggettività personale, non costituiscono l’espressione della comunione,
ma permangono unilateralmente determinati "dal sesso".
6. La concupiscenza
comporta la perdita della libertà interiore del dono. Il significato sponsale
del corpo umano è legato appunto a questa libertà. L’uomo può diventare dono -
ossia l’uomo e la donna possono esistere nel rapporto del reciproco dono di sé -
se ognuno di loro domina se stesso. La concupiscenza, che si manifesta
come una "costrizione "sui generis" del corpo", limita interiormente e
restringe l’autodominio di sé, e per ciò stesso, in certo senso, rende
impossibile la libertà interiore del dono. Insieme a ciò, subisce
offuscamento anche la bellezza, che il corpo umano possiede nel suo aspetto
maschile e femminile, come espressione dello spirito. Resta il corpo come
oggetto di concupiscenza e quindi come "terreno di appropriazione" dell’altro
essere umano. La concupiscenza, di per sé, non è capace di promuovere l’unione
come comunione di persone. Da sola, essa non unisce, ma si appropria. Il
rapporto del dono si muta nel rapporto di appropriazione.
A questo punto, interrompiamo oggi
le nostre riflessioni. L’ultimo problema qui trattato è di così grande
importanza, ed è inoltre tanto sottile, dal punto di vista della differenza tra
l’autentico amore (cioè tra la "comunione delle persone") e la concupiscenza,
che dovremo riprenderlo nel nostro prossimo incontro.
Mercoledì, 30 luglio 1980
Nella volontà del dono reciproco la comunione delle
persone
1. Le riflessioni che
andiamo svolgendo nell’attuale ciclo sono inerenti alle parole, che Cristo
pronunziò nel Discorso della montagna sul "desiderio" della donna da parte
dell’uomo. Nel tentativo di procedere a un esame di fondo su ciò che
caratterizza l’"uomo della concupiscenza", siamo nuovamente risaliti al Libro
della Genesi. Quivi, la situazione venutasi a creare nel rapporto reciproco
dell’uomo e della donna è delineata con grande finezza. Le singole frasi di
Genesi 3 sono molto eloquenti. Le parole di Dio-Jahvè rivolte alla donna in
Genesi 3,16: "Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà",
sembrano rivelare, ad un’analisi approfondita, in che modo il rapporto di
reciproco dono, che esisteva tra loro nello stato di innocenza originaria, si
sia mutato, dopo il peccato originale, in un rapporto di reciproca
appropriazione.
Se l’uomo si rapporta alla donna
così da considerarla soltanto come oggetto di cui appropriarsi e non come dono,
in pari tempo condanna se stesso a diventare anch’egli, per lei, soltanto
oggetto di appropriazione, e non dono. Pare che le parole di Genesi 3,16
trattino di tale rapporto bilaterale, sebbene direttamente sia detto soltanto:
"egli ti dominerà". Inoltre, nell’appropriazione unilaterale (che indirettamente
è bilaterale) scompare la struttura della comunione tra le persone; entrambi gli
esseri umani divengono quasi incapaci di attingere la misura interiore del
cuore, volta verso la libertà del dono e il significato sponsale del corpo, che
le è intrinseco. Le parole di Genesi 3,16 sembrano suggerire che ciò
avviene piuttosto a spese della donna, e che in ogni caso essa lo sente più
dell’uomo.
2. Almeno a questo
particolare vale la pena di volgere ora l’attenzione. Le parole di Dio-Jahvè
secondo Genesi 3,16: "Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti
dominerà", e quelle di Cristo secondo Matteo 5,27-28: "Chiunque
guarda una donna per desiderarla...", permettono di scorgere un certo
parallelismo. Forse, qui non si tratta del fatto che soprattutto la donna
diviene oggetto di "desiderio" da parte dell’uomo, ma piuttosto che - come già
in precedenza abbiamo messo in rilievo - l’uomo "dal principio" avrebbe
dovuto essere custode della reciprocità del dono e del suo autentico
equilibrio. L’analisi di quel "principio" (Gen
2,23-25) mostra appunto la responsabilità
dell’uomo nell’accogliere la femminilità quale dono e nel mutuarla in un
vicendevole, bilaterale contraccambio. Con ciò è in aperto contrasto il ritrarre
dalla donna il proprio dono mediante la concupiscenza. Sebbene il mantenimento
dell’equilibrio del dono sembri esser stato affidato ad entrambi, spetta
soprattutto all’uomo una speciale responsabilità, come se da lui maggiormente
dipendesse che l’equilibrio sia mantenuto oppure infranto o perfino - se già
infranto - eventualmente ristabilito. Certamente, la diversità dei ruoli secondo
questi enunciati, ai quali facciamo qui riferimento come a testi-chiave, era
anche dettata dall’emarginazione sociale della donna nelle condizioni di allora
(e la S. Scrittura dell’Antico e del Nuovo Testamento ne fornisce sufficienti
prove); nondimeno, vi è racchiusa una verità, che ha il suo peso
indipendentemente da specifici condizionamenti dovuti agli usi di quella
determinata situazione storica.
3. La concupiscenza fa sì
che il corpo divenga quasi "terreno" di appropriazione dell’altra persona. Com’è
facile intendere, ciò comporta la perdita del significato sponsale del corpo. Ed
insieme a ciò acquista un altro significato anche la reciproca "appartenenza"
delle persone, che unendosi così da essere a "una sola carne" (Gen 2,24)
vengono in pari tempo chiamate ad appartenere l’una all’altra. La particolare
dimensione dell’unione personale dell’uomo e della donna attraverso l’amore si
esprime nelle parole "mio... mia". Questi pronomi, che da sempre appartengono al
linguaggio dell’amore umano, ricorrono, spesso nelle strofe del Cantico dei
Cantici e anche in altri testi biblici.(cf. ex. gr. Ct 1,9.13.14.15.16;
Ct 2,2.3.8.9.10.13.14.16.17;
Ct 3,2.4.5;
Ct 4,1.10;
Ct 5,1.2.4;
Ct 6,2.3.4.9;
Ct 7,11;
Ct 8,12.14;
cf. ex. gr. Ez 16,8;
Os 2,18;
Tb 8,7).
Sono pronomi che nel loro significato "materiale" denotano un rapporto di
possesso, ma nel nostro caso indicano l’analogia personale di tale
rapporto. L’appartenenza reciproca dell’uomo e della donna,
specialmente quando si appartengono come coniugi "nell’unità del corpo", si
forma secondo questa analogia personale. L’analogia - come è noto - indica
ad un tempo la somiglianza ed anche la carenza di identità (cioè una sostanziale
dissomiglianza). Possiamo parlare dell’appartenenza reciproca delle persone
soltanto se prendiamo in considerazione una tale analogia. Infatti, nel suo
significato originario e specifico, l’appartenenza presuppone il rapporto del
soggetto all’oggetto: rapporto di possesso e di proprietà. È un rapporto non
soltanto oggettivo, ma soprattutto "materiale": appartenenza di qualcosa, quindi
di un oggetto a qualcuno.
4. I termini "mio... mia",
nell’eterno linguaggio dell’amore umano, non hanno - certamente - tale
significato. Essi indicano la reciprocità della donazione, esprimono
l’equilibrio del dono - forse proprio questo in primo luogo - cioè
quell’equilibrio del dono, in cui si instaura la reciproca communio
personarum. E se questa viene instaurata mediante il dono reciproco della
mascolinità e della femminilità, si conserva in essa anche il significato
sponsale del corpo. Invero, le parole "mio... mia" nel linguaggio d’amore
sembrano una radicale negazione di appartenenza nel senso in cui un oggetto-cosa
materiale appartiene al soggetto-persona. L’analogia conserva la sua funzione
finché non cade nel significato suesposto. La triplice concupiscenza, ed in
particolare la concupiscenza della carne, toglie alla reciproca appartenenza
dell’uomo e della donna la dimensione che è propria dell’analogia personale, in
cui i termini "mio... mia" conservano il loro significato essenziale. Tale
significato essenziale sta al di fuori della "legge di proprietà", al di fuori
del significato dell’"oggetto di possesso"; la concupiscenza, invece, è
orientata verso quest’ultimo significato. Dal possedere, l’ulteriore passo va
verso il "godimento": l’oggetto che posseggo acquista per me un certo
significato in quanto ne dispongo e me ne servo, lo uso. È evidente che
l’analogia personale dell’appartenenza si contrappone decisamente a tale
significato. E questa opposizione è un segno che ciò che nel rapporto reciproco
dell’uomo e della donna "viene dal Padre" conserva la sua persistenza e
continuità nei confronti di ciò che viene "dal mondo". Tuttavia, la
concupiscenza di per sé spinge l’uomo verso il possesso dell’altro come oggetto,
lo spinge verso il "godimento", che porta con sé la negazione del significato
sponsale del corpo. Nella sua essenza, il dono disinteressato viene escluso dal
"godimento" egoistico. Non ne parlano forse già le parole di Dio-Jahvè rivolte
alla donna in Genesi 3,16?
5. Secondo la prima
lettera di Giovanni 2,16, la concupiscenza mostra soprattutto lo stato dello
spirito umano. Anche la concupiscenza della carne attesta in primo luogo lo
stato dello spirito umano. A questo problema converrà dedicare un’ulteriore
analisi.
Applicando la teologia giovannea al
terreno delle esperienze descritte in Genesi 3, come pure alle parole
pronunziate da Cristo nel Discorso della montagna (Mt
5,27-28), ritroviamo, per così dire, una
dimensione concreta di quella opposizione che - insieme al peccato - nacque nel
cuore umano tra lo spirito e il corpo. Le sue conseguenze si fanno sentire nel
rapporto reciproco delle persone, la cui unità nell’umanità è determinata fin
dal principio dal fatto che sono uomo e donna. Da quando nell’uomo si è
installata "un’altra legge, che muove guerra alla legge della mente" (Rm
7,23), esiste quasi un costante pericolo di
tale modo di vedere, di valutare, di amare, così che "il desiderio del corpo" si
manifesta più potente del "desiderio della mente". Ed è proprio questa verità
circa l’uomo, questa componente antropologica che dobbiamo tener sempre
presente, se vogliamo comprendere sino in fondo l’appello rivolto da Cristo al
cuore umano nel Discorso della montagna.
Mercoledì, 6 agosto 1980
Il discorso della Montagna agli uomini del nostro tempo
1. Proseguendo il nostro
ciclo, riprendiamo oggi il Discorso della montagna, e precisamente l’enunciato:
"Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei
nel suo cuore" (Mt 5,28).
Nel suo colloquio con i farisei,
Gesù, facendo riferimento al "principio", (cf. le analisi precedenti.) pronunciò
le seguenti parole riguardo al libello di ripudio: "Per la durezza del vostro
cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu
così" (Mt 19,8).
Questa frase comprende indubbiamente un’accusa. "La durezza di cuore" (Il
termine greco sklerokardia è stato foggiato dai Settanta per esprimere ciè che
nell’ebraico significava: "incirconcisione di cuore" [cf. ex. gr Dt 10,16;
Ger 4,4;
Sir 3,26ss.]
e che, nella traduzione letterale del Nuovo Testamento, appare una sola volta [At
7,51]. La "incirconcisione" significava il
paganesimo", l’"impudicizia", la "distanza dall’Alleanza con Dio"; la
"incirconcisione di cuore" esprimeva l’indomita ostinazione nell’opporsi a Dio.
Lo conferma l’apostrofe del diacono Stefano: "O gente testarda e pagana nel
cuore [letteralmente: non circoncisa di cuore]... voi sempre opponete resistenza
allo Spirito Santo: come i vostri padri, così anche voi" [At
7,51]. Occorre dunque intendere la "durezza
di cuore" in tale contesto filologico) indica ciò che, secondo l’ethos
del popolo dell’Antico Testamento, aveva fondato la situazione contraria
all’originario disegno di Dio-Jahvè secondo Genesi 2,24. Ed è là che
bisogna cercare la chiave per interpretare tutta la legislazione di Israele
nell’ambito del matrimonio e, in senso più lato, nell’insieme dei rapporti tra
uomo e donna. Parlando della "durezza di cuore", Cristo accusa, per così dire,
l’intero "soggetto interiore" che è responsabile della deformazione della Legge.
Nel Discorso della montagna (Mt
5,27-28), egli fa anche un richiamo al
"cuore", ma le parole qui pronunciate non sembrano soltanto di accusa.
2. Dobbiamo riflettere
ancora una volta su di esse, inserendole il più possibile nella loro dimensione
"storica". L’analisi finora fatta, mirante a mettere a fuoco "l’uomo della
concupiscenza" nel suo momento genetico, quasi nel punto iniziale della sua
storia intrecciata con la teologia, costituisce un’ampia introduzione
soprattutto antropologica, al lavoro che ancora occorre intraprendere. La
successiva tappa della nostra analisi dovrà essere di carattere etico. Il
Discorso della montagna, ed in particolare quel passo che abbiamo scelto come
centro delle nostre analisi, fa parte della proclamazione del nuovo ethos:
l’ethos del Vangelo. Nell’insegnamento di Cristo, esso è profondamente
connesso con la coscienza del "principio", quindi con il mistero della creazione
nella sua originaria semplicità e ricchezza; e, al tempo stesso, l’ethos,
che Cristo proclama nel Discorso della montagna, è realisticamente indirizzato
all’"uomo storico", divenuto l’uomo della concupiscenza. La triplice
concupiscenza, infatti, è retaggio di tutta l’umanità, e il "cuore" umano
realmente ne partecipa. Cristo, che sa "quello che c’è in ogni uomo" (Gv
2,25; cf. Ap 2,23;
At 1,24),
non può parlare altrimenti, se non con una simile consapevolezza. Da questo
punto di vista, nelle parole di Matteo 5,27-28 non prevale l’accusa ma il
giudizio: un giudizio realistico sul cuore umano, un giudizio che da una parte
ha un fondamento antropologico, e, dall’altra, un carattere direttamente etico.
Per l’ethos del Vangelo è un giudizio costitutivo.
3. Nel Discorso della
montagna, Cristo si rivolge direttamente all’uomo che appartiene ad una società
ben definita. Anche il Maestro appartiene a quella società, a quel popolo.
Quindi bisogna cercare nelle parole di Cristo un riferimento ai fatti, alle
situazioni, alle istituzioni, alle quali era quotidianamente familiarizzato.
Bisogna che sottoponiamo tali riferimenti ad un’analisi almeno sommaria,
affinché emerga più chiaramente il significato etico delle parole di Matteo
5,27-28. Tuttavia, con queste parole, Cristo si rivolge anche, in modo indiretto
ma reale, ad ogni uomo "storico" (intendendo questo aggettivo soprattutto
in funzione teologica). E quest’uomo è proprio l’"uomo della concupiscenza", il
cui mistero e il cui cuore è noto a Cristo ("egli infatti sapeva quello che c’è
in ogni uomo") (Gv 2,25).
Le parole del Discorso della montagna ci consentono di stabilire un contatto
con l’esperienza interiore di quest’uomo quasi ad ogni latitudine e
longitudine geografica, nelle varie epoche, nei diversi condizionamenti sociali
e culturali. L’uomo del nostro tempo si sente chiamato per nome da questo
enunciato di Cristo, non meno dell’uomo di "allora", a cui il Maestro
direttamente si rivolgeva.
4. In ciò risiede
l’universalità del Vangelo, che non è affatto una generalizzazione. Forse
proprio in questo enunciato di Cristo, che qui sottoponiamo ad analisi, ciò si
manifesta con particolare chiarezza. In virtù di questo enunciato, l’uomo di
ogni tempo e di ogni luogo si sente chiamato, in modo adeguato, concreto,
irripetibile: perché appunto Cristo fa appello al "cuore" umano, che non può
essere soggetto ad alcuna generalizzazione. Con la categoria del "cuore",
ognuno è individuato singolarmente ancor più che per nome, viene raggiunto
in ciò che lo determina in modo unico e irripetibile, è definito nella sua
umanità "dall’interno".
5. L’immagine dell’uomo
della concupiscenza concerne anzitutto il suo intimo (Mt
15,19-20). La storia del "cuore" umano dopo
il peccato originale è scritta sotto la pressione della triplice concupiscenza,
a cui si collega anche la più profonda immagine dell’ethos nei suoi vari
documenti storici. Tuttavia, quell’intimo è pure la forza che decide del
comportamento umano "esteriore", ed anche della forma di molteplici strutture e
istituzioni a livello di vita sociale. Se da queste strutture ed istituzioni
deduciamo i contenuti dell’ethos, nelle sue varie formulazioni storiche,
sempre incontriamo questo aspetto intimo, proprio dell’immagine interiore
dell’uomo. Questa infatti è la componente più essenziale. Le parole di Cristo
nel Discorso della montagna, e specialmente quelle di Matteo 5,27-28, lo
indicano in modo inequivocabile. Nessuno studio sull’ethos umano può
passarvi accanto con indifferenza.
Perciò, nelle nostre successive
riflessioni, cercheremo di sottoporre ad un’analisi più particolareggiata
quell’enunciato di Cristo, che dice: "Avete inteso che fu detto: Non
commetterete adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per
desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (oppure: "già l’ha
resa adultera nel suo cuore").
Per comprendere meglio questo
testo, analizzeremo prima le sue singole parti, al fine di ottenere poi
una più approfondita visione globale. Prenderemo in considerazione non
soltanto i destinatari di allora che hanno ascoltato con i propri orecchi il
Discorso della montagna, ma anche, per quanto possibile, quelli contemporanei,
gli uomini del nostro tempo.
Mercoledì, 13 agosto 1980
Il contenuto del comandamento “non commettere adulterio”
1. L’analisi
dell’affermazione di Cristo durante il Discorso della montagna, affermazione che
si riferisce all’"adulterio", e al "desiderio" che egli chiama "adulterio
commesso nel cuore", bisogna svolgerla iniziando dalle prime parole. Cristo
dice: "Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio..." (Mt
5,27). Egli ha in mente il comandamento di
Dio, quello che nel Decalogo si trova al sesto posto, e fa parte della
cosiddetta seconda Tavola della Legge, che Mosè aveva ottenuto da Dio-Jahvè.
Poniamoci dapprima dal punto di
vista dei diretti ascoltatori del Discorso della montagna, di quelli che hanno
sentito le parole di Cristo. Essi sono figli e figlie del popolo eletto - popolo
che da Dio-Jahvè stesso - aveva ricevuto la "Legge", aveva ricevuto anche i
"Profeti" i quali ripetutamente, lungo i secoli, avevano biasimato proprio il
rapporto mantenuto con quella Legge, le molteplici trasgressioni di essa. Anche
Cristo parla di simili trasgressioni. Ma ancor più Egli parla di una tale
interpretazione umana della Legge, in cui si cancella e sparisce il giusto
significato del bene e del male, specificamente voluto dal Divino
Legislatore. La legge infatti è soprattutto un mezzo, mezzo indispensabile
affinché "sovrabbondi la giustizia" (parole di Matteo 5,20, nell’antica
traduzione). Cristo vuole che tale giustizia "superi quella degli scribi e dei
farisei". Egli non accetta l’interpretazione che lungo i secoli essi hanno dato
all’autentico contenuto della Legge, in quanto hanno sottoposto in certa misura
tale contenuto, ossia il disegno e la volontà del Legislatore, alle svariate
debolezze ad ai limiti della volontà umana, derivanti appunto dalla triplice
concupiscenza. Era questa una interpretazione casistica, che si era sovrapposta
all’originaria visione del bene e del male, collegata con la Legge del Decalogo.
Se Cristo tende alla trasformazione dell’ethos, lo fa soprattutto per
recuperare la fondamentale chiarezza dell’interpretazione: "Non pensate che io
sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire ma per
dare compimento" (Mt 5,17).
Condizione del compimento è la giusta comprensione. È questo si applica, tra
l’altro, al comandamento: "non commettere adulterio".
2. Chi segue nelle pagine
dell’Antico Testamento la storia del popolo eletto dai tempi di Abramo, vi
troverà abbondanti fatti che attestano come questo comandamento era messo in
pratica e come, in seguito a tale pratica veniva elaborata l’interpretazione
casistica della legge. Prima di tutto è noto che la storia dell’Antico
Testamento è teatro della sistematica defezione dalla monogamia: il che per la
comprensione del divieto: "non commettere adulterio", doveva avere un
significato fondamentale. L’abbandono della monogamia, specialmente al tempo dei
Patriarchi, era stato dettato dal desiderio della prole, di una numerosa prole.
Questo desiderio era così profondo, e la procreazione, quale fine essenziale del
matrimonio, era così evidente, che le mogli, le quali amavano i mariti, quando
non erano in grado di dare loro la prole, chiedevano di loro iniziativa ai
mariti, dai quali erano amate, di poter prendere "sulle proprie ginocchia",
ossia di accogliere la prole data alla vita da un’altra donna, ad esempio dalla
serva, cioè dalla schiava. Così fu nel caso di Sara riguardo ad Abramo (cf. Gen 16,2),
oppure nel caso di Rachele riguardo a Giacobbe (cf. Gen 30,3).
Queste due narrazioni rispecchiano
il clima morale in cui veniva praticato il Decalogo. Illustrano il modo in cui
l’ethos israelitico era preparato ad accogliere il comandamento "non
commettere adulterio", e quale applicazione trovava tale comandamento nella
più antica tradizione di questo popolo. L’autorità dei patriarchi era, di fatto,
la più alta in Israele e possedeva un carattere religioso. Era strettamente
legata all’Alleanza ed alla Promessa.
3. Il comandamento "non
commettere adulterio" non cambiò questa tradizione. Tutto indica che l’ulteriore
suo sviluppo non si limitava ai motivi (piuttosto eccezionali) che avevano
guidato il comportamento di Abramo e Sara, o di Giacobbe e Rachele. Se prendiamo
come esempio i rappresentanti più illustri di Israele dopo Mosè, i re di Israele
Davide e Salomone, la descrizione della loro vita attesta lo stabilirsi della
poligamia effettiva, e ciò indubbiamente per motivi di concupiscenza.
Nella storia di Davide, il quale
pure aveva più mogli, deve colpire non soltanto il fatto che avesse preso la
moglie di un suo suddito, ma anche la chiara coscienza d’aver commesso
adulterio. Questo fatto, così come la penitenza del re, sono descritti in modo
dettagliato e suggestivo (cf.
2Sam 11,2-27). Per adulterio si
intende soltanto il possesso della moglie altrui, mentre non lo è il
possesso di altre donne come mogli accanto alla prima. Tutta la tradizione
dell’Antica Alleanza indica che alla coscienza delle generazioni susseguitesi
nel popolo eletto, al loro ethos non è giunta mai l’esigenza effettiva
della monogamia, quale implicazione essenziale ed indispensabile del
comandamento "non commettere adulterio".
4. Su questo sfondo
bisogna anche intendere tutti gli sforzi che mirano ad introdurre il contenuto
specifico del comandamento "non commettere adulterio" nel quadro della
legislazione promulgata. Lo confermano i Libri della Bibbia, nei quali si trova
ampiamente registrato l’insieme della legislazione antico-testamentaria.
Se si prende in considerazione la lettera di tale legislazione, risulta che essa
lotta con l’adulterio in modo deciso e senza riguardi, usando mezzi radicali,
compresa la pena di morte (cf.
Lv 20,10; Dt 22,22).
Lo fa però sostenendo l’effettiva poligamia, anzi legalizzandola pienamente,
almeno in modo indiretto. Così dunque l’adulterio è combattuto solo nei limiti
determinati e nell’ambito delle premesse definitive, che compongono l’essenziale
forma dell’ethos antico-testamentario.
Per adulterio vi si intende
soprattutto (e forse esclusivamente) l’infrazione del diritto di proprietà
dell’uomo nei riguardi di ogni donna che sia la propria moglie legale (di
solito: una tra tante); non si intende invece l’adulterio come appare dal punto
di vita della monogamia stabilita dal Creatore. Sappiamo, ormai, che Cristo fece
riferimento al "principio" proprio riguardo a questo argomento (cf. Mt 19,8).
5. Molto significativa è,
inoltre, la circostanza in cui Cristo prende le parti della donna sorpresa in
adulterio e la difende dalla lapidazione. Egli dice agli accusatori: "Chi di voi
è senza peccato scagli la prima pietra contro di lei" (Gv
8,7). Quando essi lasciano le pietre e si
allontanano, dice alla donna: "Va’ e d’ora in poi non peccare più" (Gv
8,11). Cristo identifica dunque chiaramente
l’adulterio con il peccato. Quando invece si rivolge a coloro che volevano
lapidare la donna adultera, non fa richiamo alle prescrizioni della legge
israelitica, ma esclusivamente alla coscienza. Il discernimento del bene e del
male inscritto nelle coscienze umane può mostrarsi più profondo e più corretto
che non il contenuto di una norma legale.
Come abbiamo visto, la storia del
Popolo di Dio nell’Antica Alleanza (che abbiamo cercato di illustrare soltanto
attraverso alcuni esempi) si svolgeva, in notevole misura, al di fuori del
contenuto normativo racchiuso da Dio nel comandamento "non commettere
adulterio"; passava, per così dire, accanto ad esso. Cristo desidera raddrizzare
queste storture. Di qui le parole da Lui pronunciate nel Discorso della
montagna.
Mercoledì, 20 agosto 1980
L’adulterio secondo la legge e nel linguaggio dei profeti
1. Quando Cristo, nel
discorso della montagna, dice: "Avete inteso che fu detto: Non commetterete
adulterio" (Mt 5,27),
Egli fa riferimento a ciò che ognuno dei suoi ascoltatori sapeva perfettamente
ed a cui si sentiva obbligato in virtù del comandamento di Dio-Jahvè. Tuttavia,
la storia dell’Antico Testamento fa vedere che sia la vita del popolo - unito a
Dio-Jahvè da una particolare alleanza - sia la vita dei singoli uomini, si
discosta spesso da questo comandamento. Lo mostra anche un sommario sguardo
gettato sulla legislazione, di cui vi è una ricca documentazione nei Libri
dell’Antico Testamento.
Le prescrizioni della legge
antico-testamentaria erano molto severe. Esse erano anche molto
particolareggiate, e penetravano nei più minuziosi dettagli concreti della vita
(cf. ex. gr Dt 21,10-13;
Nm 30,7-16;
Dt 24,1-4;
22,13-21;
Lv 20,10-21 ecc.).
Si può presumere che quanto più la legalizzazione della poligamia effettiva si
faceva evidente in questa legge, tanto più cresceva l’esigenza di sostenere le
sue dimensioni giuridiche e di premunire i suoi limiti legali. Di qui il grande
numero di prescrizioni, ed anche la severità delle pene previste dal legislatore
per l’infrazione di tali norme. Sulla base delle analisi, che abbiamo
precedentemente svolto circa il riferimento che Cristo fa al "principio", nel
suo discorso sulla dissolubilità del matrimonio e sull’"atto di ripudio", è
evidente che Egli vede con chiarezza la fondamentale contraddizione che il
diritto matrimoniale dell’Antico Testamento nascondeva in sé, accogliendo
l’effettiva poligamia, cioè l’istituzione delle concubine accanto alle mogli
legali, oppure il diritto della convivenza con la schiava. (Sebbene il Libro
della Genesi presenti il matrimonio monogamico di Adamo, di Set e di Noè come
modello da imitare, e sembri condannare la bigamia che compare solamente tra i
discendenti di Caino [cf. Gen
4,19], nondimeno la vita dei Patriarchi
fornisce altri esempi contrari. Abramo osserva le prescrizioni della legge di
Hammurabi, che consentiva di sposare la seconda moglie nel caso di sterilità
della prima; e Giacobbe aveva due mogli e due concubine [cf. Gen 30,1-19].
Il Libro del Deuteronomio ammette l’esistenza legale della bigamia [cf. Dt 21,15-17]
e perfino della poligamia, ammonendo il re di non aver troppe mogli [cf. Dt 17,17];
conferma anche l’istituzione delle concubine: prigioniere di guerra [cf. Dt 21,10-14]
oppure schiave [cf. Es 21,7,11].
[cf. R. De Vaux, Ancient Israel. Its Life and Institutions, London 19763,
Darton, Longman, Todd; pp. 24-25, 83]. Non vi è nell’Antico Testamento alcuna
esplicita menzione sull’obbligo della monogamia, sebbene l’immagine presentata
dai libri posteriori mostri che essa prevaleva nella pratica sociale [cf. ad es.
i Libri sapienziali,eccetto Sir
37,11;Tob.]) Si può dire che tale
diritto, mentre combatteva il peccato, al tempo stesso conteneva in sé, e
anzi proteggeva le "strutture sociali del peccato", ne costituiva la
legalizzazione. In queste circostanze s’imponeva la necessità che il senso etico
essenziale del comandamento "non commettere adulterio" subisse anche una
rivalutazione fondamentale. Nel discorso della montagna Cristo svela nuovamente
quel senso, oltrepassandone cioè le ristrettezze tradizionali e legali.
2. Vale forse la pena di
aggiungere che nell’interpretazione antico-testamentaria, quanto la proibizione
dell’adulterio è contrassegnata - si potrebbe dire - dal compromesso con la
concupiscenza del corpo, tanto è chiaramente determinata la posizione nei
confronti delle deviazioni sessuali. Il che è confermato dalle relative
prescrizioni, le quali prevedono la pena capitale per l’omosessualità e per la
bestialità. In quanto al comportamento di Onan, figlio di Giuda (da cui ha preso
origine la moderna denominazione di "onanismo"), la Sacra Scrittura dice che
"... non fu gradito al Signore, il quale fece morire anche lui" (Gen 38,10).
Il diritto matrimoniale dell’Antico
Testamento, nella sua più ampia globalità, pone in primo piano la finalità
procreativa del matrimonio, e in alcuni casi cerca di dimostrare un trattamento
giuridico paritario della donna e dell’uomo - per esempio, riguardo alla pena
per l’adulterio è esplicitamente detto: "Se uno commette adulterio con la moglie
del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno essere messi a morte" (Lv
20,10) - ma nel complesso pregiudica la
donna trattandola con maggiore severità.
3. Occorrerebbe forse
porre in rilievo il linguaggio di questa legislazione, il quale, come
sempre in tal caso, è un linguaggio oggettivizzante della sessuologia di quel
tempo. E anche un linguaggio importante per l’insieme delle
riflessioni sulla teologia del corpo. Vi incontriamo la specifica conferma
del carattere di pudore che circonda ciò che, nell’uomo, appartiene al sesso.
Anzi, ciò che è sessuale, viene in certo senso considerato come "impuro",
specialmente quando si tratta delle manifestazioni fisiologiche della sessualità
umana. Lo "scoprire la nudità" (cf. ex. gr. Lv 20,11.17-21) è stigmatizzato come
l’equivalente di un illecito atto sessuale compiuto; già la stessa espressione
sembra qui abbastanza eloquente. Non vi è dubbio che il legislatore ha cercato
di servirsi della terminologia corrispondente alla coscienza e ai costumi della
società contemporanea. Così dunque il linguaggio della legislazione
antico-testamentaria ci deve confermare nella convinzione che non soltanto sono
note al legislatore e alla società la fisiologia del sesso e le manifestazioni
somatiche della vita sessuale, ma anche che queste sono valutate in modo
determinato. È difficile sottrarsi all’impressione che tale valutazione avesse
carattere negativo. Ciò non annulla certamente le verità che conosciamo dal
Libro della Genesi, né si può incolpare l’Antico Testamento - e, fra l’altro,
anche i Libri legislativi - d’esser come precursori di un manicheismo. Il
giudizio ivi espresso riguardo al corpo e al sesso non è tanto "negativo"
e nemmeno tanto severo, ma piuttosto contrassegnato da un oggettivismo
motivato dall’intento di mettere ordine in questa sfera della vita umana. Non si
tratta direttamente dell’ordine del "cuore", ma dell’ordine dell’intera vita
sociale, alla cui base stanno, da sempre, il matrimonio e la famiglia.
4. Se si prende in
considerazione la problematica "sessuale" nel suo insieme, conviene forse ancora
volgere brevemente l’attenzione su di un altro aspetto, e cioè sul legame
esistente fra la moralità, la legge e la medicina, messo in evidenza nei
rispettivi Libri dell’Antico Testamento. Questi contengono non poche
prescrizioni pratiche riguardanti l’ambito dell’igiene, oppure quello
della medicina, contrassegnato più dall’esperienza che dalla scienza, secondo il
livello allora raggiunto (cf. ex. gr. Lv 12,1-6;
Lv 15,1-28;
Dt 21,12-13).
E, del resto, il legame esperienza-scienza è, notoriamente, ancora attuale. In
questa vasta sfera di problemi, la medicina accompagna sempre da vicino l’etica;
e l’etica, come anche la teologia, ne cerca la collaborazione.
5. Quando Cristo nel
discorso della montagna pronunzia le parole: "Avete inteso che fu detto: Non
commettere adulterio", e immediatamente aggiunge: "Ma io vi dico...", è chiaro
che Egli vuole ricostruire nella coscienza dei suoi ascoltatori il significato
etico proprio di questo comandamento, distaccandosi dall’interpretazione dei
"dottori", esperti ufficiali della legge. Ma, oltre all’interpretazione
proveniente dalla tradizione, l’Antico Testamento ci offre ancora un’altra
tradizione per comprendere il comandamento "non commettere adulterio". Ed è la
tradizione dei Profeti. Questi, facendo riferimento all’"adulterio", volevano
ricordare "ad Israele e a Giuda" che il loro peccato più grande era l’abbandono
dell’unico e vero Dio in favore del culto a vari idoli, che il popolo eletto, a
contatto con gli altri popoli, aveva fatto propri facilmente e in modo
sconsiderato. Così dunque è caratteristica propria del linguaggio dei Profeti
piuttosto l’analogia con l’adulterio anziché l’adulterio stesso; e
tuttavia tale analogia serve a comprendere anche il comandamento "non commettere
adulterio" e la relativa interpretazione, la cui carenza è avvertita nei
documenti legislativi. Negli oracoli dei Profeti, e particolarmente di Isaia,
Osea ed Ezechiele, il Dio dell’Alleanza-Jahvè viene rappresentato spesso come
Sposo, e l’amore con cui egli si è congiunto ad Israele può e deve immedesimarsi
con l’amore sponsale dei coniugi. Ed ecco che Israele, a causa della sua
idolatria e dell’abbandono del Dio-Sposo, commette davanti a lui un tradimento
che si può paragonare a quello della donna nei riguardi del marito: commette,
appunto, "adulterio".
6. I Profeti con parole
eloquenti e, sovente, mediante immagini e similitudini straordinariamente
plastiche, presentano sia l’amore di Jahvè-Sposo, sia il tradimento di
Israele-Sposa che si abbandona all’adulterio. È un tema, questo, che dovrà
essere ancora ripreso nelle nostre riflessioni, quando cioè sottoporremo ad
analisi il problema del "Sacramento"; nondimeno già ora occorre sfiorarlo, in
quanto è necessario per intendere le parole di Cristo, secondo Matteo
5,27-28, e capire quel rinnovamento dell’ethos, che queste parole
implicano: "Ma io vi dico...". Se, da una parte, Isaia (cf. Is 54;
62,1-5)
nei suoi testi si presenta nell’atto di porre in risalto soprattutto l’amore di
Jahvè-Sposo, che, in ogni circostanza, va incontro alla Sposa, oltrepassando
tutte le sue infedeltà, dall’altra parte Osea e Ezechiele abbondano di paragoni,
che chiariscono soprattutto la bruttezza e il male morale dell’adulterio
commesso dalla Sposa-Israele.
Nella successiva meditazione
cercheremo di penetrare ancor più profondamente nei testi dei Profeti, per
chiarire ulteriormente il contenuto che, nella coscienza degli ascoltatori del
discorso della montagna, corrispondeva al comandamento: "non commettere
adulterio".
Mercoledì, 27 agosto 1980
L’adulterio secondo Cristo: falsificazione del segno e
rottura dell’alleanza personale
1. Nel discorso della
montagna Cristo dice: "Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i
Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento" (Mt 5,17). Per
chiarire in che cosa consista tale compimento, Egli passa poi ai singoli
comandamenti, riferendosi anche a quello che dice: "Non commettere adulterio".
La nostra precedente meditazione mirava a far vedere in qual modo il contenuto
adeguato di questo comandamento, voluto da Dio, fosse offuscato da numerosi
compromessi nella particolare legislazione di Israele. I Profeti, che nel loro
insegnamento denunciano sovente l’abbandono del vero Dio Jahvè da parte del
popolo, paragonandolo all’"adulterio", pongono in rilievo, nel modo più
autentico, tale contenuto.
Osea non soltanto con le
parole, ma (a quanto sembra) anche col comportamento, si preoccupa di rivelarci
(cf. Os 1-3)
che il tradimento del popolo è simile a quello coniugale, anzi, ancor più,
all’adulterio esercitato come prostituzione: "Va’, prenditi in moglie una
prostituta e abbi figli di prostituzione, poiché il paese non fa che
prostituirsi allontanandosi dal Signore" (Os 1,2). Il Profeta
avverte in sé questo ordine e lo accetta come proveniente da Dio-Jahvè: "Il
Signore mi disse ancora: ""Va’, ama una donna che è amata da un altro ed è
adultera"" (Os 3,1).
Infatti, sebbene Israele sia così infedele nei confronti del suo Dio, come la
sposa che "seguiva i suoi amanti mentre dimenticava me" (Os
2,15), tuttavia Jahvè non cessa di
cercare la sua sposa, non si stanca di attendere la sua conversione e il suo
ritorno, confermando questo atteggiamento con le parole e con le azioni del
Profeta: "E avverrà in quel giorno - oracolo del Signore - mi chiamerai: "Marito
mio, e non mi chiamerai più: Mio padrone"... Ti farò mia sposa per sempre, ti
farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti
fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore" (Os
2,18.21-22).
Questo caldo richiamo alla conversione della infedele sposa-coniuge va di pari
passo con la seguente minaccia: "Si tolga dalla faccia i segni delle sue
prostituzioni e i segni del suo adulterio dal suo petto; altrimenti la spoglierò
tutta nuda e la renderò come quando nacque" (Os 2,4-5).
2. Tale immagine della
umiliante nudità della nascita, è stata ricordata ad Israele-sposa infedele
dal profeta Ezechiele, ed in misura ancor più ampia: "... come oggetto
ripugnante fosti gettata via in piena campagna, il giorno della tua nascita.
Passai vicino a te e ti vidi mentre ti dibattevi nel sangue e ti dissi: Vivi nel
tuo sangue e cresci come l’età del campo. Crescesti e ti facesti grande e
giungesti al fiore della giovinezza: il tuo petto divenne fiorente ed eri giunta
ormai alla pubertà; ma eri nuda e scoperta. Passai vicino a te e ti vidi; ecco,
la tua età era l’età dell’amore; io stesi il lembo del mio mantello su di te e
coprii la tua nudità; giurai alleanza con te, dice il Signore Dio, e divenisti
mia... misi al tuo naso un anello, orecchini agli orecchi e una splendida corona
sul tuo capo. Così fosti adorna d’oro e d’argento; le tue vesti eran di bisso,
di seta e ricami... La tua fama si diffuse fra le genti per la tua bellezza, che
era perfetta, per la gloria che io avevo posto in te... Tu però, infatuata per
la tua bellezza e approfittando della tua fama, ti sei prostituita concedendo i
tuoi favori ad ogni passante... Come è stato abbietto il tuo cuore - dice il
Signore Dio - facendo tutte queste azioni degne di una spudorata sgualdrina!
Quando ti facevi un’altura in ogni
piazza, tu non eri come una prostituta in cerca di guadagno, ma come un’adultera
che, invece del marito, accoglie gli stranieri!" (cf. Ez 16,5-8.12-15.30-32).
3. La citazione è un po’
lunga, ma il testo è però così rilevante che era necessario rievocarlo.
L’analogia tra l’adulterio e l’idolatria vi è espressa in modo
particolarmente forte ed esauriente. Il momento similare tra le due
componenti dell’analogia consiste nell’alleanza accompagnata dall’amore.
Dio-Jahvè conclude per amore l’alleanza con Israele, - senza suo merito -
diviene per lui come lo sposo e coniuge più affettuoso, più premuroso e più
generoso verso la propria sposa. Per questo amore, che dagli albori della storia
accompagna il popolo eletto, Jahvè-Sposo riceve in cambio numerosi tradimenti:
"le alture", ecco i luoghi del culto idolatrico, nei quali viene commesso
"l’adulterio" di Israele-sposa. Nell’analisi che qui stiamo svolgendo,
l’essenziale è il concetto di adulterio, di cui Ezechiele si serve. Si può dire
tuttavia che l’insieme della situazione, nella quale questo concetto è stato
inserito (nell’ambito dell’analogia), non è tipico. Si tratta qui non tanto
della scelta vicendevole fatta dagli sposi, che nasce dall’amore reciproco, ma
della scelta della sposa (e ciò già dal momento della sua nascita), una scelta
proveniente dall’amore dello sposo, amore che, da parte dello sposo stesso, è un
atto di pura misericordia. In tal senso si delinea questa scelta: essa
corrisponde a quella parte dell’analogia che qualifica l’alleanza di Jahvè con
Israele; invece corrisponde meno alla seconda parte di essa, che qualifica la
natura del matrimonio. Certamente, la mentalità di quel tempo non era molto
sensibile a questa realtà - secondo gli Israeliti il matrimonio era piuttosto il
risultato di una scelta unilaterale, spesso fatta dai genitori - tuttavia tale
situazione difficilmente rientra nell’ambito delle nostre concezioni.
4. A prescindere da tale
dettaglio è impossibile non accorgersi che nei testi dei Profeti si rileva un
significato dell’adulterio diverso da quello che ne dà la tradizione
legislativa. L’adulterio è peccato perché costituisce la rottura
dell’alleanza personale dell’uomo e della donna. Nei testi legislativi viene
rilevata la violazione del diritto di proprietà e, in primo luogo, del diritto
di proprietà dell’uomo nei riguardi di quella donna, che è stata la sua moglie
legale: una delle tante. Nei testi dei Profeti lo sfondo dell’effettiva e
legalizzata poligamia non altera il significato etico dell’adulterio. In molti
testi la monogamia appare l’unica e giusta analogia del monoteismo inteso nelle
categorie dell’Alleanza, cioè della fedeltà e dell’affidamento all’unico e vero
Dio-Jahvè: Sposo di Israele. L’adulterio è l’antitesi di quella relazione
sponsale, è l’antinomia del matrimonio (anche come istituzione) in quanto il
matrimonio monogamico attua in sé l’alleanza interpersonale dell’uomo e della
donna, realizza l’alleanza nata dall’amore e accolta dalle due rispettive parti
appunto come matrimonio (e, come tale, riconosciuto dalla società). Questo
genere di alleanza tra due persone costituisce il fondamento di quell’unione per
cui "l’uomo... si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne" (Gen 2,24). Nel
contesto, sopra citato, si può dire che tale unità corporea è loro "diritto"
(bilaterale), ma soprattutto che è il segno regolare della comunione
delle persone, unità costituita tra l’uomo e la donna in qualità di coniugi.
L’adulterio commesso da parte di ciascuno di essi non soltanto è la
violazione di questo diritto, che è esclusivo dell’altro coniuge, ma al
tempo stesso è una radicale falsificazione del segno. Sembra che negli
oracoli dei Profeti appunto questo aspetto dell’adulterio trovi espressione
sufficientemente chiara.
5. Nel costatare che
l’adulterio è una falsificazione di quel segno, che trova non tanto la sua "normatività",
ma, piuttosto, la sua semplice verità interiore nel matrimonio - cioè nella
convivenza dell’uomo e della donna, che sono diventati coniugi - allora, in
certo senso, ci riferiamo di nuovo alle affermazioni fondamentali, fatte in
precedenza, considerandole essenziali ed importanti per la teologia del corpo,
dal punto di vista sia antropologico che etico. L’adulterio è "peccato del
corpo". Lo attesta tutta la tradizione dell’Antico Testamento, e lo conferma
Cristo. L’analisi comparata delle sue parole, pronunziate nel discorso della
montagna (cf. Mt 5,27-28),
come anche delle diverse, relative enunciazioni contenute nei Vangeli e negli
altri passi del Nuovo Testamento, ci consente di stabilire la ragione propria
della peccaminosità dell’adulterio. Ed è ovvio che determiniamo tale ragione di
peccaminosità, ossia del male morale, fondandoci sul principio della
contrapposizione nei riguardi di quel bene morale che è la fedeltà coniugale,
quel bene che può essere realizzato adeguatamente soltanto nel rapporto
esclusivo di entrambe le parti (cioè nel rapporto coniugale di un uomo con una
donna). L’esigenza di un tale rapporto è propria dell’amore sponsale, la cui
struttura interpersonale (come già abbiamo rilevato) è retta dall’interiore
normatività della "comunione delle persone".È proprio essa a conferire
significato essenziale all’Alleanza (sia nel rapporto uomo-donna, come pure, per
analogia, nel rapporto Jahvè-Israele). Dell’adulterio, della sua
peccaminosità, del male morale che esso contiene, si può sentenziare in
base al principio della contrapposizione col patto coniugale così inteso.
6. Occorre tener presente
tutto ciò, quando diciamo che l’adulterio è un "peccato del corpo"; il "corpo"
viene qui considerato nel legame concettuale con le parole di Genesi,
2,24, le quali infatti parlano dell’uomo e della donna, che, quale marito e
moglie, si uniscono così strettamente fra loro da formare "una sola carne".
L’adulterio indica l’atto mediante cui un uomo e una donna, che non sono marito
e moglie, formano "una sola carne" (cioè, quelli che non sono marito e moglie
nel senso della monogamia quale fu stabilita all’origine, anziché nel senso
della casistica legale dell’Antico Testamento). Il "peccato" del corpo può
essere identificato soltanto rispetto al rapporto delle persone. Si può parlare
di bene o di male morale a seconda che questo rapporto renda vera tale a unità
del corpo" e le conferisca o no il carattere di segno veritiero. In
questo caso, possiamo quindi giudicare l’adulterio quale peccato, conformemente
all’oggettivo contenuto dell’atto.
E questo è il contenuto che Cristo
ha in mente, quando, nel discorso della montagna, ricorda: "Avete inteso che fu
detto: Non commettere adulterio". Cristo però non si arresta su tale prospettiva
del problema.
Mercoledì, 3 settembre 1980
Il significato dell’adulterio trasferito dal corpo al
cuore
1. Nel discorso della
montagna Cristo si limita a rievocare il comandamento: "Non commettere
adulterio", senza valutare il relativo comportamento dei suoi ascoltatori. Ciò
che abbiamo detto in precedenza riguardo a questo tema proviene da altre fonti
(soprattutto dal discorso di Cristo con i farisei, in cui Egli si richiamava al
"principio") (cf. Mt 19,8;
Mc 10,6).
Nel Discorso della montagna Cristo omette tale valutazione o, piuttosto, la
presuppone. Ciò che dirà nella seconda parte dell’enunciato, che inizia con le
parole: "Ma io vi dico...", sarà qualcosa di più della polemica con i
"dottori della Legge", ossia con i moralisti della Tora. E sarà anche
qualcosa di più rispetto alla valutazione dell’ethos anticotestamentario.
Sarà un diretto passaggio all’ethos nuovo. Cristo sembra lasciare da
parte tutte le dispute circa il significato etico dell’adulterio sul piano della
legislazione e della casistica, in cui l’essenziale rapporto interpersonale del
marito e della moglie era stato notevolmente offuscato dal rapporto oggettivo di
proprietà, ed acquista altra dimensione. Cristo dice: "Ma io vi dico: chiunque
guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo
cuore" (Mt 5,28)
(dinanzi a questo passo viene sempre in mente l’antica traduzione: "l’ha già
resa adultera nel cuore suo", versione che, forse meglio del testo attuale,
esprime il fatto che qui si tratta di un puro atto interiore ed unilaterale).
Così, dunque, "l’adulterio commesso nel cuore" viene in certo senso contrapposto
all’"adulterio commesso nel corpo".
Dobbiamo interrogarci sulle ragioni
per cui viene spostato il punto di gravità del peccato, e chiederci inoltre
quale sia l’autentico significato dell’analogia: se infatti l’"adulterio",
secondo il suo fondamentale significato, può essere solamente un "peccato
commesso nel corpo", in qual senso ciò che l’uomo commette nel cuore merita
anche di esser denominato adulterio? Le parole, con le quali Cristo pone il
fondamento del nuovo ethos, esigono dal canto loro un profondo radicarsi
nell’antropologia. Prima di soddisfare questi quesiti, soffermiamoci alquanto
sull’espressione che, secondo Matteo 5,27-28, effettua in certo modo il
trasferimento ovvero lo spostamento del significato dell’adulterio dal
"corpo" al "cuore". Sono parole che riguardano il desiderio.
2. Cristo parla della
concupiscenza: "Chiunque guarda per desiderare". Appunto questa espressione
richiede un’analisi particolare per comprendere l’enunciato nella sua interezza.
Occorre qui riportarsi alla precedente analisi, che mirava, direi, a ricostruire
l’immagine a dell’uomo della concupiscenza" già agli inizi della storia (cf. Gen 3).
Quell’uomo di cui Cristo parla nel Discorso della montagna - l’uomo che guarda
"per desiderare" - è indubbiamente uomo di concupiscenza. Proprio per questo
motivo, perché partecipa della concupiscenza del corpo, egli "desidera" e
"guarda per desiderare". L’immagine dell’uomo di concupiscenza, ricostruita
nella fase precedente, ci aiuterà ora ad interpretare il "desiderio", di cui
Cristo parla secondo Matteo 5,27-28. Si tratta qui non soltanto di una
interpretazione psicologica, ma, in pari tempo, di un’interpretazione
teologica. Cristo parla nel contesto dell’esperienza umana e
contemporaneamente nel contesto dell’opera della salvezza. Questi due contesti
in certo modo si sovrappongono e si compenetrano vicendevolmente: e ciò ha un
significato essenziale e costitutivo per tutto l’ethos del Vangelo ed in
particolare per il contenuto del verbo "desiderare" o "guardare per desiderare".
3. Servendosi di tali
espressioni, il Maestro prima si richiama all’esperienza di quelli che lo
stavano ad ascoltare direttamente, quindi si richiama anche all’esperienza e
alla coscienza dell’uomo di ogni tempo e luogo. Difatti, sebbene il linguaggio
evangelico abbia una comunicativa universale, tuttavia per un ascoltatore
diretto, la cui coscienza era stata formata sulla Bibbia, il "desiderio" doveva
collegarsi a numerosi precetti e moniti, presenti anzitutto nei Libri di
carattere "sapienziale", nei quali apparivano ripetuti avvertimenti sulla
concupiscenza del corpo e anche consigli dati al fine di preservarsene.
4. Com’è noto, la
tradizione sapienziale aveva un particolare interesse per l’etica e il buon
costume della società israelitica. Ciò che in questi avvertimenti e
consigli, presenti ad esempio nel Libro dei Proverbi (cf. ex. gr.,
Pr 5,3-6.15-20; 6,24-27 ,27; 21,9.19;
22,14;
30,20)
o del Siracide (cf. ex. gr., Sir
7,19.24-26; 9,1-9;
23,22-27;
25,13-26.18;
36,21-25;
42,6.9-14)
o perfino di Qoèlet (cf. ex. gr.,
Qo 7,26-28; 9,9), ci colpisce in modo immediato è una certa loro unilateralità, in
quanto gli ammonimenti sono soprattutto indirizzati agli uomini. Questo può
significare che siano ad essi particolarmente necessari. Quanto alla donna, è
vero che in questi avvertimenti e consigli essa appare più frequentemente come
occasione di peccato o addirittura come seduttrice da cui guardarsi. Occorre,
tuttavia, riconoscere che tanto il Libro dei Proverbi quanto il Libro del
Siracide, oltre all’avvertimento di guardarsi dalla donna e dalla seduzione del
suo fascino che trascinano l’uomo a peccare (cf. Pr 5,1-6;
6,24-29; Sir 26,9-12),
fanno anche l’elogio della donna che è "perfetta" compagna di vita del proprio
marito (cf. Pr 31,10ss),
ed altresì elogiano la bellezza e la grazia di una buona moglie, che sa render
felice il marito.
"Grazia su grazia è una donna
pudica, non si può valutare il pregio di un’anima modesta. Il sole risplende
sulle montagne del Signore, la bellezza di una donna virtuosa adorna la sua
casa. Lampada che arde sul candelabro santo, così la bellezza del volto su
giusta statura. Colonne d’oro su base d’argento, tali sono gambe graziose su
solidi piedi... La grazia di una donna allieta il marito, la sua scienza gli
rinvigorisce le ossa" (Sir
26,15-18.13).
5. Nella tradizione
sapienziale un frequente monito contrasta col suddetto elogio della
donna-moglie, ed è quello che si riferisce alla bellezza ed alla grazia
della donna, che non è la propria moglie, ed è fomite di tentazione ed occasione
di adulterio: "Non desiderare in cuor tuo la sua bellezza..." (Pr
6,25). Nel Siracide (cf. Sir 9,1-9)
il medesimo avvertimento viene espresso in modo più perentorio:
"Distogli l’occhio da una donna
bella, non fissare una bellezza che non ti appartiene. Per la bellezza di una
donna molti sono periti; per essa l’amore brucia come fuoco" (Sir
9,8-9).
Il senso dei testi sapienziali ha
prevalente significato pedagogico. Essi insegnano la virtù e cercano di
proteggere l’ordine morale, riportandosi alla legge di Dio e all’esperienza
largamente intesa. Inoltre, si distinguono per la particolare conoscenza del
"cuore" umano. Diremmo che sviluppano una specifica psicologia morale,
pur senza cadere nello psicologismo. In certo senso, sono vicini a quel richiamo
di Cristo al "cuore" che Matteo ci ha tramandato (cf. Mt 5,27-28),
sebbene non si possa affermare che rivelino tendenza a trasformare l’ethos
in modo fondamentale. Gli autori di questi Libri utilizzano la conoscenza
dell’interiorità umana per insegnare la morale piuttosto nell’ambito dell’ethos
storicamente in atto e da loro sostanzialmente confermato. Talvolta qualcuno di
essi, come per esempio Qoèlet, sintetizza tale conferma con la propria
"filosofia" dell’esistenza umana, il che però, se influisce sul metodo con cui
formula avvertimenti e consigli, non cambia la fondamentale struttura portante
della valutazione etica.
6. Per tale trasformazione
dell’ethos occorrerà attendere fino al Discorso della montagna.
Nondimeno, quella conoscenza molto perspicace della psicologia umana presente
nella tradizione "sapienziale" non era certamente priva di significato per la
cerchia di coloro, i quali ascoltavano di persona ed immediatamente questo
discorso. Se, in virtù della tradizione profetica, questi ascoltatori erano in
certo senso preparati a comprendere in modo adeguato il concetto di "adulterio",
altresì in virtù della tradizione "sapienziale" erano preparati a comprendere le
parole che si riferiscono allo "sguardo concupiscente" ovvero all’"adulterio
commesso nel cuore".
All’analisi della concupiscenza,
nel Discorso della montagna, ci converrà tornare ulteriormente.
Mercoledì, 10 settembre 1980
La concupiscenza come distacco dal significato sponsale
del corpo
1. Riflettiamo sulle seguenti parole di
Gesù tratte dal Discorso della montagna: "Chiunque guarda una donna per
desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" ("l’ha già resa
adultera nel suo cuore") (Mt 5,28). Cristo
pronunzia questa frase davanti ad ascoltatori, i quali, in base ai libri
dell’Antico Testamento, erano, in un certo senso, preparati a comprendere il
significato dello sguardo che nasce dalla concupiscenza. Già mercoledì scorso
abbiamo fatto riferimento ai testi tratti dai cosiddetti Libri Sapienziali.
Ecco, ad esempio, un altro passo, in cui l’autore biblico
analizza lo stato d’animo dell’uomo dominato dalla concupiscenza della carne:
"...una passione ardente come fuoco acceso / non si calmerà
finché non sarà consumata; / un uomo impudico nel suo corpo / non smetterà
finché non lo divori il fuoco; / per l’uomo impuro ogni pane è appetitoso, / non
si stancherà finché non muoia. / L’uomo infedele al proprio letto / dice fra sé:
"Chi mi vede? / Tenebra intorno a me e le mura mi nascondono; / nessuno mi vede,
che devo temere? / Dei miei peccati non si ricorderà l’Altissimo". / Il suo
timore riguarda solo gli occhi degli uomini; / non sa che gli occhi del Signore
/ sono miriadi di volte più luminosi del sole; / essi vedono tutte le azioni
degli uomini / e penetrano fin nei luoghi più segreti. / ... / Così della donna
che abbandona suo marito, / e gli presenta eredi avuti da un estraneo..." (Sir
23,17-22).
2. Analoghe descrizioni non mancano nella
letteratura mondiale (1). Certo, molte di esse si distinguono per una più
penetrante perspicacia di analisi psicologica e per una più intensa suggestività
e forza espressiva. Tuttavia, la descrizione biblica del Siracide (Sir
23,17-22) comprende alcuni elementi che possono essere ritenuti
"classici" nell’analisi della concupiscenza carnale. Un elemento del genere è,
ad esempio, il paragone tra la concupiscenza della carne e il fuoco:
questo, divampando nell’uomo, ne invade i sensi, eccita il corpo, coinvolge i
sentimenti e in certo senso s’impossessa del "cuore". Tale passione, originata
dalla concupiscenza carnale, soffoca nel "cuore" la voce più profonda della
coscienza, il senso di responsabilità davanti a Dio; ed appunto ciò è
particolarmente posto in evidenza nel testo biblico or ora citato. Persiste,
d’altra parte, il pudore esteriore rispetto agli uomini - o piuttosto una
parvenza di pudicizia - che si manifesta come timore delle conseguenze anziché
del male in se stesso. Soffocando la voce della coscienza, la passione porta con
sé inquietudine di corpo e di sensi: è l’inquietudine dell’"uomo esteriore".
Quando l’uomo interiore è stato ridotto al silenzio, la passione, dopo aver
ottenuto, per così dire, libertà d’azione, si manifesta come insistente tendenza
alla soddisfazione dei sensi e del corpo.
Tale appagamento, secondo il criterio dell’uomo dominato dalla
passione, dovrebbe estinguere il fuoco; ma, al contrario, esso non raggiunge le
sorgenti della pace interiore e si limita a toccare il livello più esteriore
dell’individuo umano. E qui l’autore biblico giustamente constata che l’uomo,
la cui volontà è impegnata nel soddisfare i sensi, non trova quiete né
ritrova se stesso, ma, al contrario, "si consuma". La passione mira al
soddisfacimento; perciò ottunde l’attività riflessiva e disattende la voce della
coscienza; così, senza avere in sé alcun principio di indistruttibilità, essa
"si logora". Le è connaturale il dinamismo dell’uso, che tende ad esaurirsi. È
vero che, ove la passione sia inserita nell’insieme delle più profonde energie
dello spirito, essa può anche divenire forza creatrice; in tal caso, però, deve
subire una trasformazione radicale. Se, invece, soffoca le forze più profonde
del cuore e della coscienza (come avviene nel racconto del Siracide) (Sir
23,17-22), "si consuma" e, in modo indiretto, in essa si consuma l’uomo
che ne è preda.
3. Quando Cristo nel Discorso della
montagna parla dell’uomo che "desidera", che "guarda con desiderio", si può
presumere che abbia davanti agli occhi anche le immagini note ai suoi
ascoltatori attraverso la tradizione "sapienziale". Tuttavia,
contemporaneamente, si riferisce ad ogni uomo che, in base alla propria
esperienza interiore, sappia che cosa voglia dire "desiderare", "guardare
con desiderio". Il Maestro non analizza tale esperienza né la descrive, come
aveva fatto, per esempio, il Siracide (Sir 23,17-22);
egli sembra presupporre, direi, una sufficiente conoscenza di quel fatto
interiore, verso cui richiama l’attenzione degli ascoltatori, presenti e
potenziali. È possibile che taluno di essi non sappia di che cosa si tratti? Se
davvero non ne sapesse nulla, il contenuto delle parole di Cristo non lo
riguarderebbe, né alcuna analisi o descrizione sarebbe in grado di
spiegarglielo. Se invece sa - si tratta infatti in tal caso di una scienza
del tutto interiore, intrinseca al cuore e alla coscienza - capirà subito
quando le suddette parole si riferiscono a lui.
4. Cristo, quindi, non descrive né
analizza ciò che costituisce l’esperienza del "desiderare", l’esperienza della
concupiscenza della carne. Si ha perfino l’impressione che Egli non penetri
questa esperienza in tutta l’ampiezza del suo interiore dinamismo, come accade,
ad esempio, nel testo citato del Siracide, ma piuttosto si arresti alla sua
soglia. Il "desiderio" non si è ancora trasformato in un’azione esteriore,
ancora non è divenuto l’"atto del corpo"; è finora l’atto interiore del cuore:
si esprime nello sguardo, nel modo di "guardare la donna". Tuttavia, già lascia
intendere, svela il suo contenuto e la sua qualità essenziali.
Occorre che facciamo ora tale analisi. Lo sguardo esprime ciò
che è nel cuore. Lo sguardo esprime, direi, l’uomo intero. Se in generale si
ritiene che l’uomo "agisce conformemente a ciò che è" (operari sequitur esse),
Cristo in questo caso vuol mettere in evidenza che l’uomo "guarda" conformemente
a ciò che è: intueri sequitur esse. In un certo senso, l’uomo attraverso
lo sguardo si rivela all’esterno e agli altri; soprattutto rivela ciò che
percepisce all’"interno" (2).
5. Cristo insegna, dunque, a considerare
lo sguardo quasi come soglia della verità interiore. Già nello sguardo, "nel
modo in cui si guarda", è possibile individuare pienamente che cosa sia la
concupiscenza. Cerchiamo di spiegarla. "Desiderare", "guardare con desiderio"
indica un’esperienza del valore del corpo, in cui il suo significato sponsale
cessa di essere tale proprio a motivo della concupiscenza. Cessa, altresì, il
suo significato procreativo, di cui abbiamo parlato nelle nostre precedenti
considerazioni, il quale - quando riguarda l’unione coniugale dell’uomo e della
donna - è radicato nel significato sponsale del corpo e quasi organicamente ne
emerge. Orbene, l’uomo, "desiderando", "guardando per desiderare" (Mt
5,27-28), sperimenta in modo più o meno esplicito il distacco
da quel significato del corpo, che (come abbiamo già osservato nelle nostre
riflessioni) sta alla base della comunione delle persone: sia fuori del
matrimonio, sia - in modo particolare - quando l’uomo e la donna sono chiamati a
costruire l’unione "nel corpo" (come proclama il "vangelo del principio" nel
classico testo di Genesi 2,24). L’esperienza del significato sponsale del
corpo è subordinata in modo particolare alla chiamata sacramentale, ma non si
limita ad essa. Tale significato qualifica la libertà del dono, che - come
vedremo con più precisione nelle ulteriori analisi - può realizzarsi non solo
nel matrimonio, ma anche in modo diverso.
Cristo dice: "Chiunque guarda la donna per desiderarla (cioè chi
guarda con concupiscenza) ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore"
("l’ha resa adultera nel cuore") (Mt 5,28). Non
vuole forse egli dire con ciò che proprio la concupiscenza - come l’adulterio -
è un distacco interiore dal significato sponsale del corpo? Non vuole rimandare
i suoi ascoltatori alle loro esperienze interiori di tale distacco? Non è forse
per questo che lo definisce "adulterio commesso nel cuore"?
Mercoledì, 17 settembre 1980
Il desiderio, riduzione intenzionale dell’orizzonte della
mente e del cuore
1. Durante l’ultima
riflessione, ci siamo chiesti che cosa è il "desiderio", di cui parlava Cristo
nel Discorso della montagna (Mt
5,27-28). Ricordiamo che egli ne parlava in
rapporto al comandamento: "Non commettere adulterio". Lo stesso "desiderare"
(precisamente: "guardare per desiderare") è definito un "adulterio commesso nel
cuore". Ciò fa molto pensare. Nelle precedenti riflessioni abbiamo detto che
Cristo, nell’esprimersi in quel modo, voleva indicare ai suoi ascoltatori il
distacco dal significato sponsale del corpo, sperimentato dall’uomo (nel caso,
il maschio), quando asseconda la concupiscenza della carne con l’atto interiore
del "desiderio". Il distacco dal significato sponsale del corpo comporta al
tempo stesso un conflitto con la sua dignità di persona: un autentico conflitto
di coscienza.
A questo punto appare che il
significato biblico (quindi anche teologico del "desiderio" è diverso da quello
puramente psicologico. Lo psicologo descriverà il "desiderio" come un intenso
orientamento verso l’oggetto, a causa del suo peculiare valore: nel caso qui
considerato, per il suo valore "sessuale". A quanto sembra, troveremo tale
definizione nella maggior parte delle opere dedicate a simili temi. Tuttavia, la
descrizione biblica, pur senza sottovalutare l’aspetto psicologico, pone in
rilievo soprattutto quello etico, dato che c’è un valore che viene leso. Il
"desiderio" è, direi, l’inganno del cuore umano nei confronti della perenne
chiamata dell’uomo e della donna - una chiamata che è stata rivelata nel mistero
stesso della creazione - alla comunione attraverso un dono reciproco. Così,
dunque, quando Cristo nel Discorso della montagna (Mt
5,27-28) fa riferimento "al cuore" o
all’uomo interiore, le sue parole non cessano di esser cariche di quella verità
circa il "principio", alla quale, rispondendo ai farisei (cf. Mt 19,8),
egli aveva riportato tutto il problema dell’uomo, della donna e del matrimonio.
2. La perenne chiamata, di
cui abbiamo cercato di fare l’analisi seguendo il Libro della Genesi (Gen 2,23-25) e, in
certo senso, la perenne attrazione reciproca da parte dell’uomo verso la
femminilità e da parte della donna verso la mascolinità, è un invito mediato dal
corpo, ma non è il desiderio nel senso delle parole di Matteo
5,27-28. Il "desiderio", come attuazione della concupiscenza della carne (anche
e soprattutto nell’atto puramente interiore), sminuisce il significato di ciò
che erano - e che sostanzialmente non cessano di essere - quell’invito e quella
reciproca attrazione. L’eterno "femminino" (das ewig weibliche), così
come, del resto, l’eterno "mascolino", anche sul piano della storicità tende a
liberarsi dalla pura concupiscenza, e cerca un posto di affermazione sul livello
proprio del mondo delle persone. Ne dà testimonianza quella vergogna originaria,
di cui parla Genesi 3. La dimensione dell’intenzionalità dei pensieri e
dei cuori costituisce uno dei principali filoni della universale cultura umana.
Le parole di Cristo nel Discorso della montagna confermano appunto tale
dimensione.
3. Nondimeno, queste
parole esprimono chiaramente che il "desiderio" fa parte della realtà del cuore
umano. Quando affermiamo che il "desiderio", nei confronti della
originaria attrazione reciproca della mascolinità e della femminilità,
rappresenta una "riduzione", abbiamo in mente una "riduzione" intenzionale,
quasi una restrizione o chiusura dell’orizzonte della mente e del cuore. Una
cosa, infatti, è aver coscienza che il valore del sesso fa parte di tutta la
ricchezza di valori, con cui al maschio appare l’essere femminile; e un’altra
cosa è "ridurre" tutta la ricchezza personale della femminilità a quell’unico
valore, cioè al sesso, come oggetto idoneo all’appagamento della propria
sessualità. Lo stesso ragionamento si può fare nei riguardi di ciò che è la
mascolinità per la donna, sebbene le parole di Matteo 5,27-28 si
riferiscano direttamente soltanto all’altro rapporto. La "riduzione"
intenzionale è, come si vede, di natura soprattutto assiologica. Da una parte
l’eterna attrazione dell’uomo verso la femminilità (cf. Gen 2,23)
libera in lui - o forse dovrebbe liberare - una gamma di desideri
spirituali-carnali di natura soprattutto personale e "di comunione" (cf.
l’analisi del "principio"), ai quali corrisponde una proporzionale gerarchia di
valori. Dall’altra, il "desiderio" limita tale gamma, offuscando
la gerarchia dei valori che contrassegna l’attrazione perenne della mascolinità
e della femminilità.
4. Il desiderio fa sì che
all’interno, cioè nel "cuore", nell’orizzonte interiore dell’uomo e della donna,
si offuschi il significato del corpo, proprio della persona. La femminilità
cessa così di essere per la mascolinità soprattutto soggetto; cessa di essere
uno specifico linguaggio dello spirito; perde il carattere di segno. Cessa,
direi, di portare su di sé lo stupendo significato sponsale del corpo. Cessa di
essere collocato nel contesto della coscienza e della esperienza di tale
significato. Il "desiderio" che nasce dalla stessa concupiscenza della carne,
dal primo momento dell’esistenza all’interno dell’uomo - dell’esistenza nel suo
"cuore" - passa in un certo senso accanto a tale contesto (si potrebbe dire, con
una immagine, che passa sulle macerie del significato sponsale del corpo e di
tutte le sue componenti soggettive), e in virtù della propria intenzionalità
assiologica tende direttamente verso un fine esclusivo: a soddisfare solo il
bisogno sessuale del corpo, come proprio oggetto.
5. Tale riduzione
intenzionale ed assiologica può verificarsi, secondo le parole di Cristo (Mt 5,27-28), già
nell’ambito dello "sguardo" (del "guardare") o piuttosto nell’ambito di un atto
puramente interiore espresso dallo sguardo. Lo sguardo (o piuttosto il
"guardare"), in se stesso, è un atto conoscitivo. Quando nella sua struttura
interiore entra la concupiscenza, lo sguardo assume un carattere di "conoscenza
desiderosa". L’espressione biblica "guarda per desiderare" può indicare sia un
atto conoscitivo, di cui "si serve" l’uomo desiderando (cioè conferendogli il
carattere proprio del desiderio teso verso un oggetto), sia un atto conoscitivo
che suscita il desiderio nell’altro soggetto e soprattutto nella sua volontà e
nel suo "cuore". Come si vede, è possibile attribuire una interpretazione
intenzionale ad un atto interiore, avendo presente l’uno o l’altro polo della
psicologia dell’uomo: la conoscenza o il desiderio inteso come appetitus.
L’appetitus è qualcosa di più ampio del "desiderio", poiché indica tutto ciò che
si manifesta nel soggetto come "aspirazione", e come tale si orienta sempre
verso un fine, cioè verso un oggetto conosciuto sotto l’aspetto del valore).
Tuttavia, un’adeguata interpretazione delle parole di Matteo 5,27-28
richiede che - attraverso l’intenzionalità propria della conoscenza o
dell’"appetitus" - scorgiamo qualcosa di più, cioè l’intenzionalità
dell’esistenza stessa dell’uomo in rapporto con l’altro uomo; nel nostro
caso: dell’uomo in rapporto alla donna e della donna in rapporto all’uomo.
Su questo argomento ci converrà
ritornare. Concludendo l’odierna riflessione, bisogna ancora aggiungere che in
quel "desiderio", nel "guardare per desiderare", di cui tratta il Discorso della
montagna, la donna, per l’uomo che "guarda" così, cessa di esistere come
soggetto dell’eterna attrazione e comincia ad essere solo oggetto di
concupiscenza carnale. A ciò è collegato il profondo distacco interno dal
significato sponsale del corpo, di cui abbiamo parlato già nella precedente
riflessione.
Mercoledì, 24 settembre 1980
La concupiscenza allontana l’uomo e la donna dalle
prospettive personali e “di comunione”
1. Nel discorso della
montagna Cristo dice: "Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma
io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio
con lei nel suo cuore" (Mt
5,27-28). Da qualche tempo cerchiamo di
penetrare nel significato di questa enunciazione, analizzandone le singole
componenti per comprendere meglio l’insieme del testo.
Quando Cristo parla dell’uomo, che
"guarda per desiderare", non indica soltanto la dimensione dell’intenzionalità
del "guardare", quindi della conoscenza concupiscente, la dimensione
"psicologica", ma indica anche la dimensione della intenzionalità della
esistenza stessa dell’uomo. Dimostra, cioè, chi "è" o piuttosto chi "diventa",
per l’uomo, la donna che egli "guarda con concupiscenza". In questo caso,
l’intenzionalità della conoscenza determina e definisce l’intenzionalità stessa
dell’esistenza. Nella situazione descritta da Cristo quella dimensione
intercorre unilateralmente dall’uomo, che è soggetto, verso la donna, che è
divenuta oggetto (ciò però non vuol dire che tale dimensione sia soltanto
unilaterale); per ora non capovolgiamo la situazione analizzata, né la
estendiamo ad entrambe le parti, ad ambedue i soggetti. Soffermiamoci sulla
situazione tracciata da Cristo, sottolineando che si tratta di un atto
"puramente interiore", nascosto nel cuore e fermo alla soglia dello sguardo.
Basta costatare che in tal caso la
donna - la quale, a motivo della soggettività personale esiste perennemente "per
l’uomo" attendendo che anche lui, per lo stesso motivo, esista "per lei" - resta
privata del significato della sua attrazione in quanto persona, la quale, pur
essendo propria dell’"eterno femminino", nello stesso tempo per l’uomo diviene
solo oggetto: comincia, cioè, ad esistere intenzionalmente come oggetto di
potenziale appagamento del bisogno sessuale inerente alla sua mascolinità.
Sebbene l’atto sia del tutto interiore, nascosto nel "cuore" ed espresso solo
dallo "sguardo", in lui avviene già un cambiamento (soggettivamente unilaterale)
dell’esistenza. Se non fosse così, se non si trattasse di un cambiamento così
profondo, non avrebbero senso le seguenti parole della stessa frase: "Ha già
commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt
5,28).
2. Quel cambiamento della
intenzionalità della esistenza, mediante cui una certa donna comincia ad
esistere per un certo uomo non come soggetto di chiamata e di attrazione
personale o soggetto "di comunione", ma esclusivamente come oggetto di
potenziale appagamento del bisogno sessuale, si attua nel "cuore" in quanto
si è attuato nella volontà. La stessa intenzionalità conoscitiva non vuol
dire ancora asservimento del "cuore". Solo quando la riduzione intenzionale,
illustrata in precedenza, trascina la volontà nel suo ristretto orizzonte,
quando ne suscita la decisione di un rapporto con un altro essere umano (nel
nostro caso: con la donna) secondo la scala dei valori propria della
"concupiscenza" solo allora si può dire che il "desiderio" si è anche
impadronito del "cuore". Solo quando la "concupiscenza" si è impadronita della
volontà, è possibile dire che essa domina sulla soggettività della persona e che
sta alla base della volontà e della possibilità di scegliere e decidere,
attraverso cui - in virtù dell’autodecisione o autodeterminazione - viene
stabilito il modo stesso di esistere nei riguardi di un’altra persona.
L’intenzionalità di siffatta esistenza acquista allora una piena dimensione
soggettiva.
3. Solo allora - cioè da
quel momento soggettivo e sul suo prolungamento soggettivo - è possibile
confermare ciò che abbiamo letto, per esempio, nel Siracide (Sir
23,17-22) circa l’uomo dominato dalla
concupiscenza, e che leggiamo in descrizioni ancor più eloquenti nella
letteratura mondiale. Allora possiamo anche parlare di quella "costrizione"
più o meno completa, che altrove viene chiamata "costrizione del corpo" e
che porta con sé la perdita della "libertà del dono", connaturale alla
profonda coscienza del significato sponsale del corpo, di cui abbiamo anche
parlato nelle precedenti analisi.
4. Quando parliamo del
"desiderio" come trasformazione dell’intenzionalità di una concreta esistenza,
per es. dell’uomo, per il quale secondo Matteo 5,27-28, una certa donna
diviene solo oggetto di potenziale appagamento del "bisogno sessuale" inerente
alla sua mascolinità, non si tratta in alcun modo di mettere in questione quel
bisogno, quale dimensione oggettiva della natura umana con la finalità
procreativa che le è propria. Le parole di Cristo nel Discorso della montagna
(in tutto il suo ampio contesto) sono lontane dal manicheismo, come lo è anche
l’autentica tradizione cristiana. In questo caso, non possono quindi sorgere
obiezioni del genere. Si tratta, invece, del modo di esistere dell’uomo e della
donna come persone, ossia di quell’esistere in un reciproco "per", il quale -
anche in base a ciò che secondo l’oggettiva dimensione della natura umana
è definibile come "bisogno sessuale" - può e deve servire alla
costruzione dell’unità "di comunione" nei loro reciproci rapporti. Tale,
infatti, è il fondamentale significato proprio della perenne e reciproca
attrazione della mascolinità e della femminilità, contenuta nella realtà stessa
della costituzione dell’uomo come persona, corpo e sesso insieme.
5. All’unione o
"comunione" personale, cui l’uomo e la donna sono reciprocamente chiamati "dal
principio", non corrisponde, anzi è in contrasto la eventuale circostanza che
una delle due persone esista solo come soggetto di appagamento del bisogno
sessuale, e l’altra divenga esclusivamente oggetto di tale soddisfazione.
Inoltre, non corrisponde a tale unità di "comunione" - anzi la contrasta - il
caso che entrambi, l’uomo e la donna, esistano vicendevolmente quale oggetto di
appagamento del bisogno sessuale, e ciascuna da parte sua sia soltanto soggetto
di quell’appagamento. Tale "riduzione" di un così ricco contenuto della
reciproca e perenne attrazione delle persone umane, nella loro mascolinità o
femminilità, non corrisponde appunto alla "natura" dell’attrazione in questione.
Tale "riduzione", infatti, spegne il significato personale e "di comunione",
proprio dell’uomo e della donna, attraverso cui, secondo Genesi 2,24,
"l’uomo... si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne". La
"concupiscenza" allontana la dimensione intenzionale della reciproca
esistenza dell’uomo e della donna dalle prospettive personali e "di
comunione", proprie della loro perenne e reciproca attrazione, riducendola
e, per così dire, sospingendola verso dimensioni utilitaristiche, nel cui ambito
l’essere umano "si serve" dell’altro essere umano, "usandolo" soltanto
per appagare i propri "bisogni".
6. Sembra di poter appunto
ritrovare tale contenuto, carico di esperienza interiore umana propria di epoche
ed ambienti diversi, nella concisa affermazione di Cristo nel Discorso della
montagna. Al tempo stesso, non si può in alcun caso perdere di vista il
significato che tale affermazione attribuisce all’"interiorità" dell’uomo,
all’integrale dimensione del "cuore" come dimensione dell’uomo interiore. Qui
sta il nucleo stesso della trasformazione dell’ethos, verso cui tendono le
parole di Cristo secondo Matteo 5,27-28, espresse con potente forza ed
insieme con mirabile semplicità.
Mercoledì, 1° ottobre 1980
Costruire il nuovo senso etico attraverso la riscoperta
dei valori
1. Arriviamo nella nostra
analisi alla terza parte dell’enunciato di Cristo nel Discorso della Montagna (Mt
5,27-28). La prima parte era: "Avete inteso
che fu detto: non commetterete adulterio". La seconda: "Ma io vi dico, chiunque
guarda una donna per desiderarla", è grammaticalmente connessa alla terza: "ha
già commesso adulterio con lei nel suo cuore".
Il metodo qui applicato, che è
quello di dividere, di "spezzare" l’enunciato di Cristo in tre parti, che
si susseguono, può sembrare artificioso. Tuttavia, quando cerchiamo il senso
etico dell’intero enunciato, nella sua globalità, può esser utile appunto la
divisione del testo da noi usata, a patto che non venga applicata solo in modo
disgiuntivo ma congiuntivo. Ed è quello che intendiamo fare. Ognuna delle
distinte parti ha un proprio contenuto e connotazioni che le sono specifiche, ed
è appunto quanto vogliamo mettere in rilievo, mediante la divisione del testo;
ma al tempo stesso va segnalato che ognuna delle parti si spiega nel rapporto
diretto con le altre. Ciò si riferisce in primo luogo ai principali elementi
semantici, mediante i quali l’enunciato costituisce un insieme. Ecco questi
elementi: commettere adulterio, desiderare, commettere adulterio nel corpo,
commettere adulterio nel cuore. Sarebbe particolarmente difficile stabilire il
senso etico del "desiderare" senza l’elemento indicato qui per ultimo, cioè
l’"adulterio nel cuore". Già l’analisi precedente ha in un certo grado preso in
considerazione questo elemento; tuttavia una più piena comprensione della
componente: "commettere adulterio nel cuore" è possibile solo dopo un’apposita
analisi.
2. Come già abbiamo
accennato all’inizio, si tratta qui di stabilire il senso etico. L’enunciato di
Cristo, in Matteo 5,27-28, prende inizio dal comandamento: "non
commettere adulterio", per mostrare come occorra intenderlo e metterlo in
pratica, affinché abbondi in esso la "giustizia" che Dio Jahvè come Legislatore
ha voluto: affinché essa abbondi in misura maggiore di quanto risultasse
dall’interpretazione e dalla casistica dei dottori dell’Antico Testamento. Se le
parole di Cristo in tale senso tendono a costruire il nuovo ethos (e in
base allo stesso comandamento), la via a ciò passa attraverso la riscoperta
dei valori, che - nella comprensione generale anticotestamentaria e
nell’applicazione di questo comandamento - sono andate perdute.
3. Da questo punto di
vista è significativa anche la formulazione del testo di Matteo 5,27-28.
Il comandamento "non commettere adulterio" è formulato come una interdizione che
esclude in modo categorico un determinato male morale. È noto che la stessa
Legge (Decalogo), oltre alla interdizione "non commettere adulterio" comprende
anche l’interdizione "non desiderare la moglie del tuo prossimo" (Es 20,14.17; Dt 5,18.21).
Cristo non vanifica un divieto rispetto all’altro. Sebbene parli del
"desiderio", tende ad una chiarificazione più profonda dell’"adulterio". È
significativo che dopo aver citato il divieto "non commettere adulterio", come
noto agli ascoltatori, in seguito, nel corso del suo enunciato cambia il suo
stile e la struttura logica da normativa in quella narrativo-affermativa. Quando
dice: "Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con
lei nel suo cuore", descrive un fatto interiore, la cui realtà può essere
facilmente compresa dagli ascoltatori. Al tempo stesso, attraverso il fatto così
descritto e qualificato, egli indica come occorre intendere e mettere in pratica
il comandamento: "non commettere adulterio", affinché conduca alla "giustizia"
voluta dal Legislatore.
4. In tal modo siamo
giunti all’espressione "ha commesso adulterio nel cuore", espressione-chiave,
come pare, per intendere il suo giusto senso etico. Questa espressione è in pari
tempo la fonte principale per rivelare i valori essenziali del nuovo ethos:
dell’ethos del Discorso della Montagna. Come accade spesso nel Vangelo,
anche qui riscontriamo un certo paradosso. Come, infatti, può aver luogo
l’"adulterio" senza "commettere adulterio", cioè senza l’atto esteriore, che
consente di individuare l’atto vietato dalla Legge? Abbiamo visto quanto si
impegnasse la casistica dei "dottori della Legge" nel precisare questo problema.
Ma anche indipendentemente dalla casistica, sembra evidente che l’adulterio
possa essere individuato solo "nella carne" (cf. Gen 2,24),
cioè quando i due: l’uomo e la donna, che si uniscono fra loro così: da
diventare una sola carne, non sono coniugi legali: marito e moglie. Quale
significato può quindi avere l’"adulterio commesso nel cuore"? Non è questa
forse una espressione soltanto metaforica, adoperata dal Maestro per mettere in
risalto la peccaminosità della concupiscenza?
5. Se ammettessimo tale
lettura semantica dell’enunciato di Cristo (Mt
5,27-28) occorrerebbe riflettere
profondamente sulle conseguenze etiche che ne deriverebbero, cioè sulle
conclusioni circa la regolarità etica del comportamento. L’adulterio avviene
quando l’uomo e la donna, che si uniscono fra loro così da diventare una sola
carne (cf. Gen 2,24),
cioè nel modo proprio dei coniugi, non sono coniugi legali. L’individuazione
dell’adulterio come peccato commesso "nel corpo" è strettamente ed
esclusivamente unita all’atto "esteriore", alla convivenza coniugale che si
riferisce anche allo stato delle persone agenti, riconosciuto dalla società. Nel
caso in questione questo stato è improprio e non autorizza a tale atto (di qui,
appunto, la denominazione: "adulterio").
6. Passando alla seconda
parte dell’enunciato di Cristo (cioè a quello in cui inizia a configurarsi il
nuovo ethos) bisognerebbe intendere l’espressione: "chiunque guarda una
donna per desiderare", nel riferimento esclusivo alle persone secondo il loro
stato civile, riconosciuto cioè dalla società, siano o no coniugi. Qui
cominciano a moltiplicarsi gli interrogativi. Siccome non può creare dubbi il
fatto che Cristo indichi la peccaminosità dell’atto interiore della
concupiscenza espressa attraverso lo sguardo rivolto ad ogni donna che non sia
la moglie di colui che la guardi in tal modo, pertanto possiamo e perfino
dobbiamo chiederci se con la stessa espressione Cristo ammetta e comprovi tale
sguardo, tale atto interiore della concupiscenza, diretto verso la donna che è
moglie dell’uomo, che così la guarda. In favore della risposta affermativa a
tale domanda sembra essere la seguente premessa logica: (nel caso in questione)
può commettere l’"adulterio nel cuore" soltanto l’uomo che è soggetto potenziale
dell’"adulterio nella carne". Dato che questo soggetto non può essere
l’uomo-marito nei riguardi della propria legittima moglie, dunque l’"adulterio
nel cuore" non può riferirsi a lui, ma può addebitarsi a colpa di ogni altro
uomo. Se marito, egli non può commetterlo nei riguardi della propria moglie.
Egli soltanto ha il diritto esclusivo di "desiderare", di "guardare con
concupiscenza" la donna che è sua moglie, e mai si potrà dire che a motivo di un
tale atto interiore meriti d’esser accusato dell’"adulterio commesso nel cuore".
Se in virtù del matrimonio ha il diritto di "unirsi con sua moglie", così che "i
due saranno una sola carne", questo atto non può mai essere chiamato
"adulterio"; analogamente non può essere definito "adulterio commesso nel cuore"
l’atto interiore del "desiderio" di cui tratta il Discorso della Montagna.
7. Tale interpretazione
delle parole di Cristo in Matteo 5,27-28, sembra corrispondere alla
logica del Decalogo, in cui, oltre al comandamento "non commettere adulterio" (VI),
c’è anche il comandamento "non desiderare la moglie del tuo prossimo" (IX).
Inoltre il ragionamento che è stato fatto a suo sostegno ha tutte le
caratteristiche della correttezza obiettiva e dell’esattezza. Nondimeno, resta
fondatamente in dubbio se questo ragionamento tiene conto di tutti gli aspetti
della rivelazione nonché della teologia del corpo che debbono essere
considerati, soprattutto quando vogliamo comprendere le parole di Cristo.
Abbiamo già visto in precedenza qual è il "peso specifico" di questa locuzione,
quanto ricche sono le implicazioni antropologiche e teologiche dell’unica frase
in cui Cristo si riporta "all’origine" (cf. Mt 19,8).
Le implicazioni antropologiche e teologiche dell’enunciato del Discorso della
Montagna, in cui Cristo si richiama al cuore umano conferiscono all’enunciato
stesso anche un "peso specifico" proprio, e in pari tempo ne determinano la
coerenza con l’insieme dell’insegnamento evangelico. E perciò dobbiamo ammettere
che l’interpretazione sopra presentata, con tutta la sua oggettiva correttezza e
precisione logica, richiede un certo ampliamento e, soprattutto, un
approfondimento. Dobbiamo ricordare che il richiamo al cuore umano, espresso
forse in modo paradossale (cf.
Mt 5,27-28), proviene da Colui che
"sapeva quel che c’è in ogni uomo" (Gv
2,25). E se le sue parole confermano i
comandamenti del Decalogo (non soltanto il sesto, ma anche il nono), al tempo
stesso esprimono quella scienza sull’uomo, che - come abbiamo altrove
rilevato - ci consente di unire la consapevolezza della peccaminosità umana
con la prospettiva della "redenzione del corpo" (cf. Rm 8,23).
Appunto tale "scienza sta alle basi del nuovo ethos" che emerge dalle parole del
Discorso della Montagna.
Prendendo in considerazione tutto
ciò, concludiamo che, come nell’intendere l’"adulterio nella carne" Cristo
sottopone a critica l’interpretazione erronea e unilaterale dell’adulterio che
deriva dalla mancata osservanza della monogamia (cioè del matrimonio inteso come
l’alleanza indefettibile delle persone), così anche nell’intendere
l’"adulterio nel cuore" Cristo prende in considerazione non soltanto il reale
stato giuridico dell’uomo e della donna in questione. Cristo fa dipendere la
valutazione morale del "desiderio" soprattutto dalla stessa dignità personale
dell’uomo e della donna; e questo ha la sua importanza sia quando si tratta
di persone non sposate, sia - e forse ancor più - quando sono coniugi, moglie e
marito. Da questo punto di vista ci converrà completare l’analisi delle parole
del Discorso della Montagna, e lo faremo la prossima volta.
Mercoledì, 8 ottobre 1980
Interpretazione psicologica e teologica del concetto di
concupiscenza
1. Desidero oggi portare a
termine l’analisi delle parole pronunziate da Cristo, nel discorso della
montagna, sull’"adulterio" e sulla "concupiscenza", e in particolare dell’ultima
componente dell’enunciato, in cui si definisce specificamente la "concupiscenza
dello sguardo", come "adulterio commesso nel cuore".
Già in precedenza abbiamo
constatato che le suddette parole vengono di solito intese come desiderio della
moglie altrui (cioè secondo lo spirito del IX comandamento del Decalogo). Sembra
però che questa interpretazione - più restrittiva - possa e debba essere
allargata alla luce del contesto globale. Sembra che la valutazione morale della
concupiscenza (del "guardare per desiderare") che Cristo chiama "adulterio
commesso nel cuore", dipenda soprattutto dalla stessa dignità personale
dell’uomo e della donna; ciò vale sia per coloro che non sono congiunti in
matrimonio, sia - e forse ancor più - per quelli che sono marito e moglie.
2. L’analisi, che finora
abbiamo fatto dell’enunciato di Matteo 5,27-28: "Avete inteso che fu
detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per
desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore", indica la
necessità di ampliare e soprattutto di approfondire l’interpretazione
anteriormente presentata, riguardo al senso etico che tale enunciato contiene.
Ci soffermiamo sulla situazione descritta dal Maestro, situazione nella quale
colui che "commette adulterio nel cuore", mediante un atto interiore di
concupiscenza (espresso dallo sguardo), è l’uomo. È significativo che Cristo,
parlando dell’oggetto di tale atto, non sottolinea che è "la moglie altrui", o
la donna che non è la propria moglie, ma dice genericamente: la donna.
L’adulterio commesso "nel cuore" non è circoscritto nei limiti del rapporto
interpersonale, i quali consentono di individuare l’adulterio commesso "nel
corpo". Non sono tali limiti a decidere esclusivamente ed essenzialmente
dell’adulterio commesso "nel cuore", ma la natura stessa della concupiscenza,
espressa in questo caso attraverso lo sguardo, cioè per il fatto che quell’uomo
- di cui, a titolo di esempio, parla Cristo - "guarda per desiderare".
L’adulterio "nel cuore" viene commesso non soltanto perché l’uomo "guarda" in
tal modo la donna che non è sua moglie, ma appunto perché guarda così una
donna. Anche se guardasse in questo modo la donna che è sua moglie
commetterebbe lo stesso adulterio "nel cuore".
3. Questa interpretazione
sembra prendere in considerazione, in modo più ampio, ciò che nell’insieme delle
presenti analisi è stato detto sulla concupiscenza, e in primo luogo sulla
concupiscenza della carne, quale elemento permanente della peccaminosità
dell’uomo (status naturae lapsae). La concupiscenza che, come atto
interiore, nasce da questa base (come abbiamo cercato di indicare nella
precedente analisi), muta l’intenzionalità stessa dell’esistere della donna
"per" l’uomo, riducendo la ricchezza della perenne chiamata alla comunione delle
persone, la ricchezza della profonda attrattiva della mascolinità e della
femminilità, al solo appagamento del "bisogno" sessuale del corpo (a cui sembra
collegarsi più da vicino il concetto di "istinto"). Una tale riduzione fa sì che
la persona (in questo caso, la donna) diventa per l’altra persona (per l’uomo)
soprattutto l’oggetto dell’appagamento potenziale del proprio "bisogno"
sessuale. Si deforma così quel reciproco "per", che perde il suo carattere di
comunione delle persone a favore della funzione utilitaristica. L’uomo che
"guarda" in tal modo, come scrive Matteo 5,27-28, "si serve" della donna,
della sua femminilità, per appagare il proprio "istinto". Sebbene non lo faccia
con un atto esteriore, già nel suo intimo ha assunto tale atteggiamento,
interiormente così decidendo rispetto ad una determinata donna. In ciò consiste
appunto l’adulterio "commesso nel cuore". Tale adulterio "nel cuore" può
commettere l’uomo anche nei riguardi della propria moglie, se la tratta soltanto
come oggetto di appagamento dell’istinto.
4. Non è possibile
giungere alla seconda interpretazione delle parole di Matteo 5,27-28, se
ci limitiamo all’interpretazione puramente psicologica della concupiscenza,
senza tener conto di ciò che costituisce il suo specifico carattere teologico,
cioè il rapporto organico tra la concupiscenza (come atto) e la concupiscenza
della carne, come, per così dire, disposizione permanente che deriva dalla
peccaminosità dell’uomo. Sembra che l’interpretazione puramente psicologica
(ovvero "sessuologica") della "concupiscenza" non costituisca una base
sufficiente per comprendere il relativo testo del discorso della montagna. Se
invece ci riferiamo all’interpretazione teologica, - senza sottovalutare ciò
che nella prima interpretazione (quella psicologica) resta immutabile
- essa, cioè la seconda interpretazione (quella teologica) ci appare come
più completa. Grazie ad essa, infatti, diviene più chiaro anche il significato
etico dell’enunciato-chiave del discorso della montagna a cui dobbiamo
l’adeguata dimensione dell’ethos del Vangelo.
5. Nel delineare questa
dimensione, Cristo resta fedele alla Legge: "Non pensate che io sia venuto ad
abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare
compimento" (Mt 5,17).
Di conseguenza dimostra quanto ci sia bisogno di scendere in profondità, quanto
ci sia bisogno di svelare a fondo le latebre del cuore umano, affinché questo
cuore possa diventare un luogo di "adempimento" alla Legge. L’enunciato di
Matteo 5,27-28, che rende manifesta la prospettiva interiore dell’adulterio
commesso "nel cuore" - e in questa prospettiva addita le giuste vie per
adempiere il comandamento: "Non commettere adulterio" - ne è un singolare
argomento. Questo enunciato (Mt
5,27-28) si riferisce infatti, alla sfera in
cui si tratta in modo particolare della "purezza del cuore" (cf. Mt 5,8)
(espressione che nella Bibbia - come è noto - ha un significato ampio). Anche
altrove avremo occasione di considerare in che modo il comandamento "Non
commettere adulterio" - il quale, quanto al modo in cui viene espresso ed al
contenuto, è un divieto univoco e severo (come il comandamento "Non desiderare
la moglie del tuo prossimo") (Es
20,17) - si compie appunto mediante la
"purezza di cuore". Della severità e forza della proibizione testimoniano
indirettamente le successive parole del testo del discorso della montagna, in
cui Cristo parla figuratamente del "cavare l’occhio" e del "tagliare la mano",
allorché queste membra fossero causa di peccato (cf. Mt 5,29-30).
Abbiamo constatato in precedenza che la legislazione dell’Antico Testamento, pur
abbondando di punizioni improntate a severità tuttavia essa non contribuiva "a
dare compimento alla Legge", perché la sua casistica era contrassegnata da
molteplici compromessi con la concupiscenza della carne. Cristo invece insegna
che il comandamento si adempie attraverso la "purezza di cuore", la quale
non viene partecipata all’uomo se non a prezzo di fermezza nei confronti
di tutto ciò che ha origine dalla concupiscenza della carne. Acquista la
"purezza di cuore" chi sa esigere coerentemente dal suo "cuore": dal suo
"cuore" e dal suo "corpo".
6. Il comandamento "Non
commettere adulterio" trova la sua giusta motivazione nell’indissolubilità del
matrimonio, in cui l’uomo e la donna, in virtù dell’originario disegno del
Creatore, si uniscono in modo che "i due diventano una sola carne" (cf. Gen 2,24).
L’adulterio, per sua essenza, contrasta con tale unità, nel senso in cui questa
unità corrisponde alla dignità delle persone. Cristo non soltanto conferma
questo essenziale significato etico del comandamento, ma tende a consolidarlo
nella stessa profondità della persona umana. La nuova dimensione dell’ethos è
collegata sempre con la rivelazione di quel profondo, che viene chiamato "cuore"
e con la liberazione di esso dalla "concupiscenza", in modo che in quel cuore
possa risplendere più pienamente l’uomo: maschio e femmina in tutta la
verità interiore del reciproco "per". Liberato dalla costrizione e dalla
menomazione dello spirito che porta con sé la concupiscenza della carne,
l’essere umano: maschio e femmina, si ritrova reciprocamente nella libertà del
dono che è la condizione di ogni convivenza nella verità, ed, in particolare,
nella libertà del reciproco donarsi, poiché entrambi, come marito e moglie,
debbono formare l’unità sacramentale voluta, come dice Genesi 2,24, dallo
stesso Creatore.
7. Come è evidente,
l’esigenza, che nel discorso della montagna Cristo pone a tutti i suoi
ascoltatori attuali e potenziali, appartiene allo spazio interiore in cui l’uomo
- proprio colui che lo ascolta - deve scorgere di nuovo la pienezza perduta
della sua umanità, e volerla riacquistare. Quella pienezza nel rapporto
reciproco delle persone: dell’uomo e della donna, il Maestro la rivendica in
Matteo 5,27-28, avendo in mente soprattutto l’indissolubilità del
matrimonio, ma anche ogni altra forma di convivenza degli uomini e delle donne,
di quella convivenza che costituisce la pura e semplice trama dell’esistenza. La
vita umana, per sua natura, è "coeducativa", e la sua dignità, il suo equilibrio
dipendono, ogni momento della storia e in ogni punto di longitudine e latitudine
geografica, da "chi" sarà lei per lui, e lui per lei.
Le parole pronunziate da Cristo nel
discorso della montagna hanno indubbiamente tale portata universale e insieme
profonda. Solo così possono essere intese nella bocca di Colui, che sino in
fondo "sapeva quello che c’è in ogni uomo" (Gv 2,25), e che,
nello stesso tempo, portava in sé il mistero della "redenzione del corpo" come
si esprimerà S. Paolo. Dobbiamo temere la severità di queste parole, o
piuttosto aver fiducia nel loro contenuto salvifico, nella loro potenza?
In ogni caso, l’analisi compiuta
delle parole pronunziate da Cristo nel discorso della montagna apre la strada ad
ulteriori riflessioni indispensabili per avere piena consapevolezza dell’uomo
"storico", e soprattutto dell’uomo contemporaneo: della sua coscienza e del suo
"cuore".
Mercoledì, 15 ottobre 1980
Valori evangelici e doveri del cuore umano
1. Durante i nostri
numerosi incontri del mercoledì abbiamo fatto una particolareggiata analisi
delle parole del discorso della montagna, in cui Cristo fa riferimento al
"cuore" umano. Come ormai sappiamo, le sue parole sono impegnative. Cristo dice:
"Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque
guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo
cuore" (Mt 5,27-28).
Tale richiamo al cuore mette in luce la dimensione dell’interiorità umana, la
dimensione dell’uomo interiore, propria dell’etica, e ancor più della teologia
del corpo. Il desiderio, che sorge nell’ambito della concupiscenza della carne,
è al tempo stesso una realtà interiore e teologica, la quale, in certo modo,
viene sperimentata da ogni uomo "storico". Ed è appunto quest’uomo - anche se
non conosce le parole di Cristo - a porsi di continuo la domanda circa il
proprio "cuore". Le parole di Cristo rendono tale domanda particolarmente
esplicita: il cuore è accusato oppure è chiamato al bene? E questa domanda
intendiamo ora prendere in considerazione, verso la fine delle nostre
riflessioni ed analisi, collegate con la frase così concisa ed insieme
categorica del Vangelo, così carica di contenuto teologico, antropologico ed
etico.
Di pari passo va una seconda
domanda, più "pratica": come "può" e "deve" agire l’uomo, che accoglie le parole
di Cristo nel discorso della montagna, l’uomo che accetta l’"ethos" del
Vangelo, e, in particolare, lo accetta in questo campo?
2. Quest’uomo trova nelle
considerazioni finora fatte la risposta, almeno indiretta, alle due domande:
come "può" agire, cioè su che cosa può contare nel suo "intimo, alla sorgente
dei suoi atti "interiori" o "esteriori"? E inoltre: come "dovrebbe" agire, cioè
in che modo i valori conosciuti secondo la "scala" rivelata nel discorso della
montagna costituiscono un dovere della sua volontà e del suo "cuore", dei suoi
desideri e delle sue scelte? In che modo lo "obbligano" nell’azione, nel
comportamento, se, accolte mediante la conoscenza, lo "impegnano" già nel
pensare e, in certa qual maniera, nel "sentire"? Queste domande sono
significative per la "praxis" umana, ed indicano un legame organico della
"praxis" stessa con l’"ethos". La morale viva è sempre "ethos"
della prassi umana.
3. Alle suddette domande
si può rispondere in vario modo. Infatti, sia nel passato, sia oggi vengono date
risposte diverse. Ciò è confermato da un’ampia letteratura. Oltre alle risposte
che troviamo in essa, occorre prendere in considerazione l’infinito numero di
risposte, che l’uomo concreto dà a queste domande da se stesso, quelle che,
nella vita di ciascuno, dà ripetutamente la sua coscienza, la sua consapevolezza
e sensibilità morale. Proprio in questo ambito si attua continuamente una
compenetrazione dell’"ethos" e della "praxis". Qui vivono la propria vita
(non esclusivamente "teorica") i singoli principi, cioè le norme della morale
con le loro motivazioni, elaborate e divulgate da moralisti, ma anche quelle che
elaborano - sicuramente non senza un legame col lavoro dei moralisti e degli
scienziati - i singoli uomini, come autori e soggetti diretti della morale
reale, come co-autori della sua storia, dai quali dipende anche il livello della
morale stessa, il suo progresso o la sua decadenza. In tutto ciò si riconferma
dappertutto e sempre, quell’"uomo storico" al quale una volta Cristo ha parlato,
annunziando la buona novella evangelica con il discorso della montagna, ove tra
l’altro ha detto la frase che leggiamo in Matteo 5,27-28: "Avete inteso
che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna
per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore".
4. L’enunciato di Matteo
si presenta stupendamente conciso riguardo a tutto ciò che su questo tema è
stato scritto nella letteratura mondiale. E forse appunto in questo consiste la
sua forza nella storia dell’"ethos". Occorre nello stesso tempo rendersi
conto del fatto che la storia dell’"ethos" scorre in un alveo multiforme,
in cui le singole correnti si avvicinano o allontanano vicendevolmente. L’uomo
"storico" valuta sempre, a modo suo, il proprio "cuore", così come giudica anche
il proprio "corpo": e così trapassa dal polo del pessimismo al polo
dell’ottimismo, dalla severità puritana al permissivismo contemporaneo. È
necessario rendersene conto, affinché l’"ethos" del discorso della
montagna possa sempre avere una debita trasparenza nei confronti delle azioni e
dei comportamenti dell’uomo. A tale fine occorre fare ancora alcune analisi.
5. Le nostre riflessioni
sul significato delle parole di Cristo secondo Matteo 5,27-28 non
sarebbero complete, se non ci soffermassimo - almeno brevemente - su ciò che si
può chiamare la risonanza di queste parole nella storia del pensiero umano e
della valutazione dell’"ethos". La risonanza è sempre una
trasformazione della voce e delle parole che la voce esprime. Sappiamo
dall’esperienza che tale trasformazione è talvolta piena di misterioso fascino.
Nel caso in questione, è accaduto piuttosto qualcosa di contrario. Infatti, alle
parole di Cristo è stata piuttosto tolta la loro semplicità e profondità ed è
stato conferito un significato lontano da quello in esse espresso, un
significato in fin dei conti persino contrastante con esse. Abbiamo qui in mente
tutto ciò che è apparso al margine del cristianesimo sotto il nome di
manicheismo (1) e che ha anche cercato di entrare nel terreno del
cristianesimo per quanto riguarda appunto la teologia e l’"ethos" del
corpo. È noto che, nella forma originaria, il manicheismo, sorto nell’oriente al
di fuori dell’ambiente biblico è scaturito dal dualismo mazdeista, individuava
la sorgente del male nella materia, nel corpo e proclamava quindi la
condanna di tutto ciò che nell’uomo è corporeo. E poiché nell’uomo la corporeità
si manifesta soprattutto attraverso il sesso, allora la condanna veniva estesa
al matrimonio e alla convivenza coniugale, oltre che alle altre sfere
dell’essere e dell’agire, in cui si esprime la corporeità.
6. Ad un orecchio non
adusato, l’evidente severità di quel sistema poteva sembrare in sintonia con le
severe parole di Matteo 5,29-30, in cui Cristo parla del "cavare
l’occhio" o del "tagliare la mano", se queste membra fossero la causa dello
scandalo. Attraverso l’interpretazione puramente "materiale" di queste
locuzioni, era anche possibile ottenere un’ottica manichea dell’enunciato di
Cristo, in cui si parla dell’uomo che ha "commesso adulterio nel cuore...
guardando la donna per desiderarla". Anche in questo caso, l’interpretazione
manichea tende alla condanna del corpo, come reale sorgente del male, dato che
in esso, secondo il manicheismo, si cela e insieme si manifesta il principio
"ontologico" del male. Si cercava dunque di scorgere e talvolta si percepiva
tale condanna nel Vangelo, trovandola ove è invece stata espressa
esclusivamente una esigenza particolare indirizzata allo spirito umano.
Si noti che la condanna poteva - e
può sempre essere - una scappatoia per sottrarsi alle esigenze poste nel Vangelo
da colui che "sapeva quello che c’è in ogni uomo" (Gv
2,25). Non ne mancano prove nella storia.
Abbiamo già avuto in parte l’occasione (e certamente l’avremo ancora) per
dimostrare in quale misura tale esigenza possa sorgere unicamente da una
affermazione - e non da una negazione o da una condanna - se deve portare ad
un’affermazione ancor più matura ed approfondita oggettivamente e
soggettivamente. E a una tale affermazione della femminilità e mascolinità
dell’essere umano, come dimensione personale dell’"essere corpo", debbono
condurre le parole di Cristo secondo Matteo 5,27-28. Tale è il giusto
significato etico di queste parole. Esse imprimono, sulle pagine del Vangelo,
una peculiare dimensione dell’"ethos" al fine di imprimerla
successivamente nella vita umana.
Cercheremo di riprendere questo
tema nelle nostre ulteriori riflessioni.
Mercoledì, 22 ottobre 1980
Realizzazione del valore del corpo secondo il disegno del
Creatore
1. Al centro delle nostre
riflessioni, negli incontri del mercoledì, sta ormai da lungo tempo ii seguente
enunciato di Cristo nel discorso della montagna: "Avete inteso che fu detto: Non
commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla,
ha già commesso adulterio con lei (verso di lei) nel suo cuore" (Mt
5,27-28). Queste parole hanno un significato
essenziale per tutta la teologia del corpo contenuta nell’insegnamento di
Cristo. Pertanto, attribuiamo giustamente grande importanza alla loro corretta
comprensione ed interpretazione. Già nella nostra precedente riflessione abbiamo
constatato che la dottrina manichea, nelle sue espressioni sia primitive sia
posteriori, è in contrasto con queste parole.
Non è infatti possibile cogliere
nella frase del discorso della montagna, qui analizzata, una "condanna" oppure
un’accusa del corpo. Semmai, vi si potrebbe intravedere una condanna del cuore
umano. Tuttavia, le nostre riflessioni finora fatte manifestano che, se le
parole di Matteo 5,27-28 contengono un’accusa, oggetto di questa è
soprattutto l’uomo della concupiscenza. Con quelle parole il cuore viene non
tanto accusato quanto sottoposto ad un giudizio o, meglio, chiamato ad un esame
critico, anzi, autocritico: se soccomba o no alla concupiscenza della carne.
Penetrando nel significato profondo della enunciazione di Matteo 5,27-28,
dobbiamo tuttavia costatare che il giudizio ivi racchiuso circa il "desiderio",
come atto di concupiscenza della carne, contiene in sé non la negazione, ma
piuttosto l’affermazione del corpo, come elemento che insieme allo spirito
determina la soggettività ontologica dell’uomo e partecipa alla sua dignità di
persona. Così dunque, il giudizio sulla concupiscenza della carne ha un
significato essenzialmente diverso da quello che può presupporre l’ontologia
manichea del corpo e che necessariamente ne scaturisce.
2. Il corpo, nella sua
mascolinità e femminilità, è "dal principio" chiamato a diventare la
manifestazione dello spirito. Lo diviene anche mediante l’unione coniugale
dell’uomo e della donna, quando si uniscono in modo da formare "una sola carne".
Altrove (cf. Mt 19,5-6)
Cristo difende i diritti inviolabili di tale unità, mediante la quale il corpo,
nella sua mascolinità e femminilità, assume il valore di segno - segno in certo
qual senso - sacramentale; e inoltre, mettendo in guardia contro la
concupiscenza della carne, esprime la stessa verità circa la dimensione
ontologica del corpo e ne conferma il significato etico, coerente con l’insieme
del suo insegnamento. Questo significato etico non ha nulla in comune con la
condanna manichea, ed è invece profondamente compenetrato del mistero della
"redenzione del corpo", di cui san Paolo scriverà nella lettera ai Romani (cf.
Rm 8,23).
La "redenzione del corpo" non indica, tuttavia, il male ontologico come
attributo costitutivo del corpo umano, ma addita soltanto la peccaminosità
dell’uomo, per cui questi ha, tra l’altro, perduto il senso
limpido del significato sponsale del corpo, in cui si esprime il dominio
interiore e la libertà dello spirito. Si tratta qui - come già abbiamo rilevato
in precedenza - di una perdita "parziale", potenziale, dove il senso del
significato sponsale del corpo si confonde, in certo qual modo, con la
concupiscenza e consente facilmente di esserne assorbito.
3. L’interpretazione
appropriata delle parole di Cristo secondo Matteo 5, 27-28, come pure la
"praxis" in cui si attuerà successivamente l’autentico "ethos" del
discorso della montagna, debbono essere assolutamente liberati da elementi
manichei nel pensiero e nell’atteggiamento. Un atteggiamento manicheo dovrebbe
portare ad un "annientamento", se non reale, almeno intenzionale del corpo, ad
una negazione del valore del sesso umano, della mascolinità e femminilità della
persona umana, o perlomeno soltanto alla loro "tolleranza" nei limiti del
"bisogno" delimitato dalla necessità della procreazione. Invece, in base alle
parole di Cristo nel discorso della montagna, l’"ethos" cristiano è
caratterizzato da una trasformazione della coscienza e degli atteggiamenti
della persona umana, sia dell’uomo sia della donna, tale da manifestare e
realizzare il valore del corpo e del sesso, secondo il disegno originario
del Creatore, posti al servizio della "comunione delle persone" che è il
substrato più profondo dell’etica e della cultura umana. Mentre per la mentalità
manichea il corpo e la sessualità costituiscono, per così dire, un
"anti-valore", per il cristianesimo, invece, essi rimangono sempre un "valore
non abbastanza apprezzato", come meglio spiegherò oltre. Il secondo
atteggiamento indica quale debba essere la forma dell’"ethos", in cui il mistero
della "redenzione del corpo" si radica, per così dire, nel suolo "storico" della
peccaminosità dell’uomo. Ciò viene espresso dalla formula teologica, che
definisce lo "stato" dell’uomo "storico" come "status naturae lapsae simul ac
redemptae".
4. Bisogna interpretare le
parole di Cristo nel discorso della montagna (Mt
5,27-28) alla luce di questa complessa
verità sull’uomo. Se esse contengono una certa "accusa" al cuore umano, tanto
maggiormente gli rivolgono un appello. L’accusa del male morale, che il
"desiderio" nato dalla concupiscenza carnale intemperante cela in sé, è al tempo
stesso una chiamata a vincere questo male. E se la vittoria sul male deve
consistere nel distacco da esso (di qui le severe parole nel contesto di
Matteo 5,27-28), tuttavia si tratta soltanto di distaccarsi dal male
dell’atto (nel caso in questione, dell’atto interiore della
"concupiscenza"), e non mai di trasferire la negatività di tale atto sul suo
oggetto. Un simile trasferimento significherebbe una certa accettazione -
forse non pienamente cosciente - dell’"anti-valore" manicheo. Esso non
costituirebbe una vera e profonda vittoria sul male dell’atto, che è male per
essenza morale, quindi male di natura spirituale; anzi, vi si nasconderebbe il
grande pericolo di giustificare l’atto a scapito dell’oggetto (ciò in cui
consiste propriamente l’errore essenziale dell’"ethos" manicheo). È evidente che
Cristo in Matteo 5,27-28 esige un distacco dal male della "concupiscenza"
(o dello sguardo di desiderio disordinato), ma il suo enunciato non lascia in
alcun modo supporre che sia un male l’oggetto di quel desiderio, cioè la donna
che si "guarda per desiderarla" (Questa precisazione sembra talvolta mancare in
alcuni testi "sapienziali").
5. Dobbiamo, dunque,
precisare la differenza tra l’"accusa" e l’"appello". Dato che l’accusa rivolta
al male della concupiscenza è al tempo stesso un appello a vincerlo, di
conseguenza questa vittoria deve unirsi ad uno sforzo per scoprire l’autentico
valore dell’oggetto, affinché nell’uomo, nella sua coscienza e nella sua
volontà, non attecchisca l’"anti-valore" manicheo. Infatti, il male della
"concupiscenza", cioè dell’atto di cui parla Cristo in Matteo 5,27-28, fa
sì che l’oggetto, al quale esso si rivolge, costituisca per il soggetto umano un
"valore non abbastanza apprezzato". Se nelle parole analizzate del discorso
della montagna (Mt 5,27-28)
il cuore umano è "accusato" di concupiscenza (oppure se è messo in guardia
contro quella concupiscenza), in pari tempo mediante le stesse parole esso è
chiamato a scoprire il pieno senso di ciò che nell’atto di concupiscenza
costituisce per lui un "valore non abbastanza apprezzato". Come sappiamo,
Cristo disse: "Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso
adulterio con lei nel suo cuore". L’"adulterio commesso nel cuore" si può e si
deve intendere come "devalorizzazione", ovvero come depauperamento di un valore
autentico, come intenzionale privazione di quella dignità, a cui nella persona
in questione risponde il valore integrale della sua femminilità. Le parole di
Matteo 5,27-28 contengono un richiamo a scoprire tale valore e tale dignità,
e a riaffermarli. Sembra che soltanto intendendo così le citate parole di Matteo
si rispetti la loro portata semantica.
Per concludere queste concise
considerazioni, occorre ancora una volta costatare che il modo manicheo di
intendere e di valutare il corpo e la sessualità dell’uomo è essenzialmente
estraneo al Vangelo, non conforme al significato esatto delle parole del
discorso della montagna, pronunziate da Cristo. Il richiamo a dominare la
concupiscenza della carne scaturisce appunto dall’affermazione della dignità
personale del corpo e del sesso, ed a tale dignità unicamente serve.
Commetterebbe un errore essenziale colui che volesse cogliere in queste parole
una prospettiva manichea.
Mercoledì, 29 ottobre 1980
La forza originaria della creazione diventi per l’uomo
forza di redenzione
1. Già da lungo tempo,
ormai, le nostre riflessioni del mercoledì s’incentrano sul seguente enunciato
di Gesù Cristo nel Discorso della montagna: "Avete inteso che fu detto: Non
commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla,
ha già commesso adulterio con lei (nei suoi confronti) nel suo cuore" (Mt
5,27-28). Ultimamente abbiamo chiarito che
le suddette parole non possono essere intese né interpretate in chiave manichea.
Esse non contengono, in alcun modo, la condanna del corpo e della sessualità.
Racchiudono soltanto un richiamo a vincere la triplice concupiscenza, ed in
particolare la concupiscenza della carne: ciò che appunto scaturisce
dall’affermazione della dignità personale del corpo e della sessualità, e
unicamente convalida tale affermazione.
Precisare tale formulazione, ossia
determinare il significato proprio delle parole del Discorso della montagna, in
cui Cristo fa richiamo al cuore umano (cf. Mt 5,27-28),
è importante non soltanto a motivo di "abitudini inveterate", sorte dal
manicheismo, nel modo di pensare e di valutare le cose, ma anche a motivo di
alcune posizioni contemporanee che interpretano il senso dell’uomo e della
morale. Ricceur ha qualificato Freud, Marx e Nietzsche come "maestri del
sospetto"(1) ("maitres du soupcon"), avendo in mente l’insieme dei sistemi che
ciascuno di essi rappresenta, e forse soprattutto la base nascosta e
l’orientamento di ciascuno di essi nell’intendere ed interpretare l’humanum
stesso.
Sembra necessario accennare, almeno
brevemente, a questa base e a questo orientamento. Occorre farlo per scoprire da
una parte una significativa convergenza, e dall’altra anche una
divergenza fondamentale con l’ermeneutica, che ha la sua sorgente nella
Bibbia, a cui tentiamo di dare espressione nelle nostre analisi. In che cosa
consiste la convergenza? Consiste nel fatto che i pensatori sopra menzionati, i
quali hanno esercitato ed esercitano grande influsso sul modo di pensare e di
valutare degli uomini del nostro tempo, sembrano in sostanza anche giudicare ed
accusare il "cuore" dell’uomo. Ancor più, sembrano giudicarlo ed accusarlo a
motivo di ciò che nel linguaggio biblico, soprattutto giovanneo, viene
chiamato concupiscenza, la triplice concupiscenza.
2. Si potrebbe far qui una
certa distribuzione delle parti. Nell’ermeneutica nietzschiana il giudizio e
l’accusa del cuore umano corrispondono, in certo modo, a ciò che nel linguaggio
biblico è chiamato "superbia della vita"; nell’ermeneutica marxista, a ciò che è
stato chiamato "concupiscenza degli occhi"; nell’ermeneutica freudiana, invece,
a ciò che viene chiamato "concupiscenza della carne". La convergenza di queste
concezioni con l’ermeneutica dell’uomo fondata sulla Bibbia consiste nel fatto
che, scoprendo nel cuore umano la triplice concupiscenza, avremmo potuto anche
noi limitarci a porre quel cuore in stato di continuo sospetto. Tuttavia, la
Bibbia non ci permette di fermarci qui. Le parole di Cristo secondo Matteo
5,27-28, sono tali che, pur manifestando tutta la realtà del desiderio e della
concupiscenza, non consentono che si faccia di tale concupiscenza il criterio
assoluto dell’antropologia e dell’etica, ossia il nucleo stesso dell’ermeneutica
dell’uomo. Nella Bibbia, la triplice concupiscenza non costituisce il
criterio fondamentale e magari unico ed assoluto dell’antropologia e
dell’etica, sebbene sia indubbiamente un coefficiente importante per
comprendere l’uomo, le sue azioni e il loro valore morale. Anche
l’analisi finora da noi fatta lo mostra.
3. Pur volendo arrivare ad
una completa interpretazione delle parole di Cristo sull’uomo che "guarda con
concupiscenza" (cf. Mt
5,27-28), noi non possiamo accontentarci di
qualunque concezione della "concupiscenza", anche nel caso che si raggiungesse
la pienezza della verità "psicologica" a noi accessibile; dobbiamo, invece,
attingere alla Prima Lettera di Giovanni 2,15-16 ed alla "teologia della
concupiscenza" che vi è racchiusa. L’uomo che "guarda per desiderare"; è infatti
l’uomo della triplice concupiscenza, è l’uomo della concupiscenza della carne.
Perciò egli "può" guardare in tal modo e perfino deve esser conscio che,
abbandonando questo atto interiore in balia delle forze della natura, non può
evitare l’influsso della concupiscenza della carne. In Matteo 5,27-28
Cristo tratta anche di questo e vi richiama l’attenzione. Le sue parole si
riferiscono non soltanto all’atto concreto di "concupiscenza", ma,
indirettamente, anche all’"uomo di concupiscenza".
4. Perché queste parole
del Discorso della montagna, malgrado la convergenza di ciò che dicono riguardo
al cuore umano (cf. Mt
5,19-20) con ciò che è stato espresso
nell’ermeneutica dei "maestri del sospetto", non possono essere considerate come
base nella suddetta ermeneutica o di una analoga? E perché costituiscono, esse,
una espressione, una configurazione di un ethos totalmente diverso? - diverso
non soltanto da quello manicheo, ma anche da quello freudiano? Penso che
l’insieme delle analisi e riflessioni, finora fatte, dia risposta a questo
interrogativo. Riassumendo, si può dire brevemente che le parole di Cristo
secondo Matteo 5,27-28 non consentono di arrestarci all’accusa del cuore
umano e metterlo in stato di continuo sospetto, ma debbono essere intese ed
interpretate soprattutto come un richiamo rivolto al cuore. Ciò deriva dalla
natura stessa dell’ethos della redenzione. Sul fondamento di questo mistero,
che San Paolo (Rm 8,23)
definisce "redenzione del corpo", sul fondamento della realtà denominata
"redenzione" e, di conseguenza, sul fondamento dell’ethos della redenzione del
corpo, non possiamo fermarci soltanto all’accusa del cuore umano in base al
desiderio e alla concupiscenza della carne. L’uomo non può fermarsi a porre
il "cuore" in stato di continuo ed irreversibile sospetto a causa
delle manifestazioni della concupiscenza della carne e della libido, che,
fra l’altro, uno psicanalista rileva mediante le analisi dell’inconscio(2). La
redenzione è una verità, una realtà, nel cui nome l’uomo deve sentirsi chiamato,
e "chiamato con efficacia". Deve rendersi conto di tale chiamata anche mediante
le parole di Cristo secondo Matteo 5,27-28, riflette nel pieno contesto
della rivelazione del corpo. L’uomo deve sentirsi chiamato a riscoprire,
anzi, a realizzare il significato sponsale del corpo e ad esprimere in tal modo
la libertà interiore del dono, cioè di quello stato e di quella forza
spirituali, che derivano dal dominio della concupiscenza della carne.
5. L’uomo è chiamato a
questo dalla parola del Vangelo, quindi dall’"esterno", ma contemporaneamente è
chiamato dall’"interno". Le parole di Cristo, il quale nel Discorso della
Montagna si richiama al "cuore", inducono, in certo senso, l’ascoltatore a tale
chiamata interiore. Se egli consentirà a che esse agiscano in lui, potrà udire
al tempo stesso nel suo intimo quasi l’eco di quel "principio", di quel buon
"principio" al quale Cristo fece riferimento un’altra volta, per ricordare ai
propri ascoltatori chi sia l’uomo, chi sia la donna e chi siano reciprocamente
l’uno per l’altro nell’opera della creazione. Le parole di Cristo pronunziate
nel Discorso della Montagna non sono un richiamo lanciato nel vuoto. Non sono
rivolte all’uomo del tutto impegnato nella concupiscenza della carne, incapace
di cercare un’altra forma di rapporti reciproci nell’ambito della perenne
attrattiva, che accompagna la storia dell’uomo e della donna appunto "dal
principio". Le parole di Cristo testimoniano che la forza originaria
(quindi anche la grazia)- del mistero della creazione diventa per ognuno
di loro forza (cioè grazia) del mistero della redenzione. Ciò
riguarda la stessa "natura", lo stesso substrato dell’umanità della persona, i
più profondi impulsi del "cuore". Non sente forse l’uomo, insieme alla
concupiscenza, un profondo bisogno di conservare la dignità dei rapporti
reciproci, che trovano la loro espressione nel corpo, grazie alla sua
mascolinità e femminilità? Non sente forse il bisogno di impregnarli di tutto
ciò che è nobile e bello? Non sente forse il bisogno di conferire loro il
supremo valore che è l’amore?
6. A rileggerlo, questo
appello racchiuso nelle parole di Cristo nel Discorso della Montagna non può
essere un atto staccato dal contesto dell’esistenza concreta. Esso significa
sempre - sebbene soltanto nella dimensione dell’atto a cui si riferisce - la
riscoperta del significato di tutta l’esistenza, del significato della vita, in
cui è compreso anche quel significato del corpo, che qui chiamiamo a sponsale".
Il significato del corpo è, in certo senso, l’antitesi della libido
freudiana. Il significato della vita è l’antitesi dell’ermeneutica "del
sospetto". Tale ermeneutica è molto differente, è radicalmente
differente da quella che riscopriamo nelle parole di Cristo nel
Discorso della Montagna. Queste parole svelano non solamente un altro ethos, ma
pure un’altra visione delle possibilità dell’uomo. È importante che egli,
proprio nel suo "cuore", non si senta soltanto irrevocabilmente accusato e dato
in preda alla concupiscenza della carne, ma che nello stesso cuore si senta
chiamato con energia. Chiamato appunto a quel supremo valore che è l’amore.
Chiamato come persona nella verità della sua umanità, dunque anche nella verità
della sua mascolinità e femminilità, nella verità del suo corpo. Chiamato in
quella verità che è patrimonio "del principio", patrimonio del suo cuore, più
profondo della peccaminosità ereditata, più profondo della triplice
concupiscenza. Le parole di Cristo, inquadrate nell’intera realtà della
creazione e della redenzione, riattualizzano quella eredità più profonda e le
donano una reale forza nella vita dell’uomo.
Mercoledì, 5 novembre 1980
“Eros” ed “Ethos” si incontrano e fruttificano nel cuore
umano
1. Nel corso delle nostre
riflessioni settimanali sull’enunciato di Cristo nel Discorso della Montagna, in
cui Egli, in riferimento al comandamento "Non commettere adulterio", paragona la
"concupiscenza" ("lo sguardo concupiscente") all’"adulterio commesso nel cuore",
cerchiamo di rispondere alla domanda: queste parole accusano soltanto il "cuore"
umano oppure sono innanzitutto un appello che gli viene rivolto? Un appello,
s’intende, di carattere etico; un appello importante ed essenziale per lo stesso
ethos del Vangelo. Rispondiamo che le suddette parole sono soprattutto un
appello.
Al tempo stesso, cerchiamo di
avvicinare le nostre riflessioni agli "itinerari" che percorre, nel suo ambito,
la coscienza degli uomini contemporanei. Già nel precedente ciclo delle
nostre considerazioni abbiamo accennato all’"eros". Questo termine greco, che
dalla mitologia è passato alla filosofia, poi alla lingua letteraria e infine
alla lingua parlata, contrariamente alla parola "ethos" è estraneo e sconosciuto
al linguaggio biblico. Se nelle presenti analisi dei testi biblici adoperiamo il
termine "ethos", sconosciuto ai Settanta e al Nuovo Testamento, lo facciamo a
motivo del significato generale che esso ha acquistato nella filosofia e nella
teologia, abbracciando nel suo contenuto le complesse sfere del bene e del male,
dipendenti dalla volontà umana e sottoposte alle leggi della coscienza e della
sensibilità del "cuore" umano. Il termine "eros", oltre ad essere nome
proprio del personaggio mitologico, ha negli scritti di Platone un significato
filosofico(1), che sembra esser differente dal significato comune ed anche da
quello che, di solito, gli viene attribuito nella letteratura. Ovviamente,
dobbiamo qui prendere in considerazione la vasta gamma di significati, che si
differenziano tra loro in modo sfumato, per quanto riguarda sia il personaggio
mitologico, sia il contenuto filosofico, sia soprattutto il punto di vista
"somatico" o "sessuale". Tenendo conto di una gamma così vasta di significati,
conviene valutare, in modo altrettanto differenziato, ciò che si pone in
rapporto con l’"eros" (cf. p. es. C. S. Lewis, Eros, in "The Four Loves",
Harcourt, Brace, New York 1960, pp. 131-133. 152. 159-160; P. Chauchard,
Vices des vertus, vertus des vices, Mame, Paris 1965, p. 147.) e viene
definito come "erotico".
2. Secondo Platone,
l’"eros" rappresenta la forza interiore, che trascina l’uomo verso tutto ciò che
è buono, vero e bello. Questa "attrazione" indica, in tal caso, l’intensità
di un atto soggettivo dello spirito umano. Nel significato comune, invece -
come anche nella letteratura - questa "attrazione" sembra essere anzitutto di
natura sensuale. Esso suscita il reciproco tendere di entrambi, dell’uomo e
della donna, all’avvicinamento, all’unione dei corpi, a quell’unione di cui
parla Genesi 2,24. Si tratta qui di rispondere alla domanda sé l’"eros"
connoti lo stesso significato che c’è nella narrazione biblica (Gen
2,23-25), la quale indubbiamente attesta la
reciproca attrattiva e la perenne chiamata della persona umana - attraverso la
mascolinità e la femminilità - a quella "unità della carne" che, ad un tempo,
deve realizzare l’unione-comunione delle persone. È proprio per questa
interpretazione dell’"eros" (ed insieme del suo rapporto con l’ethos) che
acquista importanza fondamentale anche il modo in cui intendiamo la
"concupiscenza", di cui si parla nel Discorso della Montagna.
3. A quanto sembra, il
linguaggio comune prende soprattutto in considerazione quel significato della
"concupiscenza", che precedentemente abbiamo definito come "psicologico" e che
potrebbe anche essere denominato "sessuologico": e ciò in base a premesse, che
si limitano anzitutto all’interpretazione naturalistica, "somatica" e
sensualistica dell’erotismo umano. (Non si tratta qui, in alcun modo, di
diminuire il valore delle ricerche scientifiche in questo campo, ma si vuol
richiamare l’attenzione sul pericolo del riduttivismo e dell’esclusivismo).
Orbene, in senso psicologico e sessuologico, la concupiscenza indica la
soggettiva intensità del tendere all’oggetto a motivo del suo carattere sessuale
(valore sessuale). Quel tendere ha la sua soggettiva intensità a causa della
specifica "attrazione" che estende il suo dominio sulla sfera emotiva dell’uomo
e coinvolge la sua "corporeità" (la sua mascolinità o femminilità somatica).
Quando nel Discorso della Montagna sentiamo parlare della "concupiscenza"
dell’uomo che "guarda la donna per desiderarla", queste parole - intese in senso
"psicologico" (sessuologico) - si riferiscono alla sfera dei fenomeni, che nel
linguaggio comune vengono appunto qualificati "erotici". Nei limiti
dell’enunciato di Matteo 5,27-28 si tratta soltanto dell’atto interiore,
mentre "erotici" vengono definiti soprattutto quei modi di agire e di reciproco
comportamento dell’uomo e della donna, che sono manifestazione esterna propria
di tali atti interiori. Nondimeno, sembra essere fuori dubbio che - ragionando
così - si debba mettere quasi il segno di uguaglianza tra "erotico" e ciò che
"deriva dal desiderio" (e serve ad appagare la concupiscenza stessa della
carne). Se fosse così, allora, le parole di Cristo secondo Matteo 5,27-28
esprimerebbero un giudizio negativo su ciò che è "erotico" e, rivolte al cuore
umano, costituirebbero ad un tempo un severo avvertimento contro l’"eros".
4. Tuttavia, abbiamo già
accennato che il termine "eros" ha molte sfumature semantiche. E perciò,
volendo definire il rapporto dell’enunciato del Discorso della montagna (Mt 5,27-28) con
l’ampia sfera dei fenomeni "erotici", cioè di quelle azioni e di quei
comportamenti reciproci mediante i quali l’uomo e la donna si avvicinano e si
uniscono così da essere "una sola carne" (cf. Gen 2,24),
occorre tener conto della molteplicità delle sfumature semantiche dell’"eros".
Sembra possibile, infatti, che nell’ambito del concetto di "eros" - tenendo
conto del suo significato platonico - si trovi il posto per quell’ethos, per
quei contenuti etici e indirettamente anche teologici, i quali, nel corso delle
nostre analisi, sono stati rilevati dall’appello di Cristo al "cuore" umano nel
Discorso della montagna. Anche la conoscenza delle molteplici sfumature
semantiche dell’"eros" e di ciò che, nell’esperienza e descrizione differenziata
dell’uomo, in varie epoche e in vari punti di longitudine e di latitudine
geografica e culturale, viene definito come "erotico", può aiutare a capire
la specifica e complessa ricchezza del "cuore", a cui Cristo si richiamò nel
suo enunciato di Matteo 5,27-28.
5. Se ammettiamo che
l’"eros" significa la forza interiore che "attira" l’uomo verso il vero, il
buono e il bello, allora, nell’ambito di questo concetto si vede anche aprirsi
la via verso ciò che Cristo ha voluto esprimere nel Discorso della montagna. Le
parole di Matteo 5,27-28, se sono "accusa" del cuore umano, al tempo
stesso sono ancor più un appello ad esso rivolto. Tale appello è la categoria
propria dell’ethos della redenzione. La chiamata a ciò che è vero, buono e bello
significa contemporaneamente, nell’ethos della redenzione, la necessità di
vincere ciò che deriva dalla triplice concupiscenza. Significa pure la
possibilità e la necessità di trasformare ciò che è stato appesantito dalla
concupiscenza della carne. Inoltre, se le parole di Matteo 5,27-28
rappresentano tale chiamata allora significano che, nell’ambito erotico,
l’"eros" e l’"ethos" non divergono tra di loro, non si contrappongono a vicenda,
ma sono chiamati ad incontrarsi nel cuore umano, ed, in questo incontro, a
fruttificare. Ben degno del "cuore" umano è che la forma di ciò che è
"erotico" sia contemporaneamente forma dell’ethos, cioè di ciò che è "etico".
6. Tale affermazione è
molto importante per l’ethos ed insieme per l’etica. Infatti, con questo ultimo
concetto viene molto spesso collegato un significato "negativo", perché l’etica
porta con sé norme, comandamenti ed anche divieti. Noi siamo comunemente
propensi a considerare le parole del Discorso della montagna sulla
"concupiscenza" (sul "guardare per desiderare") esclusivamente come un divieto,
un divieto nella sfera dell’"eros" cioè nella sfera "erotica". E molto spesso ci
contentiamo soltanto di tale comprensione, senza cercare di svelare i valori
veramente profondi ed essenziali che questo divieto copre, cioè assicura.
Esso non soltanto li protegge, ma li rende anche accessibili e li libera, se noi
impariamo ad aprire il nostro "cuore" verso di essi.
Nel Discorso della montagna Cristo
ce lo insegna e verso tali valori dirige il cuore dell’uomo.
Mercoledì, 12 novembre 1980
La spontaneità è veramente umana quando è il frutto maturo
della coscienza
1. Oggi riprendiamo la
nostra analisi, iniziata una settimana fa, sul rapporto reciproco tra ciò che è
"etico" e ciò che è "erotico". Le nostre riflessioni si svolgono sulla trama
delle parole pronunziate da Cristo nel Discorso della Montagna, con le quali
Egli si riallacciò al comandamento "Non commettere adulterio" e, in pari tempo,
definì la "concupiscenza" (lo "sguardo concupiscente") come "adulterio commesso
nel cuore". Da queste riflessioni risulta che l’"ethos" è collegato con la
scoperta di un nuovo ordine di valori. Occorre ritrovare continuamente in ciò
che è a erotico" il significato sponsale del corpo e l’autentica dignità del
dono. Questo è il compito dello spirito umano, compito di natura etica. Se non
si assume tale compito, la stessa attrazione dei sensi e la passione del corpo
possono fermarsi alla pura concupiscenza priva di valore etico, e l’uomo,
maschio e femmina, non sperimenta quella pienezza dell’"eros", che significa lo
slancio dello spirito umano verso ciò che è vero, buono e bello, per cui anche
ciò che è "erotico" diventa vero, buono e bello. È indispensabile, dunque, che
l’ethos diventi la forma costitutiva dell’eros.
2. Le suddette riflessioni
sono strettamente connesse col problema della spontaneità. Assai spesso si
ritiene che sia proprio l’ethos a sottrarre spontaneità a ciò che è erotico
nella vita e nel comportamento dell’uomo; e per questo motivo si esige il
distacco dall’ethos "a vantaggio" dell’eros. Anche le parole del Discorso della
montagna sembrerebbero ostacolare questo "bene". Sennonché, tale opinione è
erronea e, in ogni caso, superficiale. Accettandola e sostenendola con
ostinazione, non giungeremo mai alle piene dimensioni dell’eros, e ciò
inevitabilmente si ripercuote nell’ambito della relativa "praxis", cioè nel
nostro comportamento ed anche nella concreta esperienza dei valori. Infatti,
colui che accetta l’ethos dell’enunciato di Matteo 5,27-28 deve sapere
che è anche chiamato alla piena e matura spontaneità dei rapporti, che
nascono dalla perenne attrattiva della mascolinità e della femminilità. Appunto
una tale spontaneità è il graduale frutto del discernimento degli impulsi del
proprio cuore.
3. Le parole di Cristo
sono rigorose. Esigono dall’uomo che egli, nell’ambito in cui si formano i
rapporti con le persone dell’altro sesso, abbia piena e profonda coscienza dei
propri atti e soprattutto degli atti interiori; che egli abbia coscienza degli
impulsi interni del suo "cuore", così da essere capace di individuarli e di
qualificarli in modo maturo. Le parole di Cristo esigono che in questa sfera,
che sembra appartenere esclusivamente al corpo e ai sensi, cioè all’uomo
esteriore, egli sappia essere veramente uomo interiore; sappia obbedire alla
retta coscienza; sappia essere l’autentico padrone dei propri intimi impulsi,
come un custode che sorveglia una sorgente nascosta; e sappia infine trarre da
tutti quegli impulsi ciò che è conveniente alla "purezza del cuore", costruendo
con coscienza e coerenza quel senso personale del significato sponsale del
corpo, che apre lo spazio interiore della libertà del dono.
4. Orbene, se l’uomo vuole
rispondere alla chiamata espressa da Matteo 5,27-28, deve con
perseveranza e coerenza imparare che cosa è il significato del corpo, il
significato della femminilità e della mascolinità. Deve impararlo non soltanto
attraverso un’astrazione oggettivizzante (sebbene anche ciò sia necessario), ma
soprattutto nella sfera delle reazioni interiori del proprio "cuore". Questa è
una "scienza", che non può essere veramente appresa dai soli libri, perché si
tratta qui in primo luogo della profonda "conoscenza" dell’interiorità umana.
Nell’ambito di questa conoscenza,
l’uomo impara a discernere tra ciò che, da una parte, compone la multiforme
ricchezza della mascolinità e della femminilità nei segni che provengono dalla
loro perenne chiamata e attrattiva creatrice, e ciò che, dall’altra, porta solo
il segno della concupiscenza. E sebbene queste varianti e sfumature degli
interni moti del "cuore" entro un certo limite si confondano tra loro, va
tuttavia detto che l’uomo interiore è stato chiamato da Cristo ad acquisire
una valutazione matura e compiuta, che lo porti a discernere e giudicare i vari
moti del suo stesso cuore. Ed occorre aggiungere che questo compito si può
realizzare ed è davvero degno dell’uomo.
Infatti, il discernimento di cui
stiamo parlando è in rapporto essenziale con la spontaneità. La struttura
soggettiva dell’uomo dimostra, in questo campo, una specifica ricchezza e una
chiara differenziazione. Di conseguenza, una cosa è, ad esempio, un nobile
compiacimento, un’altra invece il desiderio sessuale; quando il desiderio
sessuale è collegato con un nobile compiacimento, è diverso da un desiderio puro
e semplice. Analogamente, per quanto riguarda la sfera delle reazioni immediate
del "cuore", l’eccitazione sensuale è ben diversa dalla emozione profonda, con
cui non soltanto la sensibilità interiore, ma la stessa sessualità reagisce
all’integrale espressione della femminilità e della mascolinità. Non si può qui
sviluppare più ampiamente questo argomento. Ma è certo che, se affermiamo che le
parole di Cristo secondo Matteo 5,27-28 sono rigorose, esse lo sono anche
nel senso che contengono in sé le esigenze profonde riguardanti l’umana
spontaneità.
5. Non vi può essere una
tale spontaneità in tutti i moti ed impulsi che nascono dalla pura concupiscenza
carnale, priva com’è di una scelta e di una gerarchia adeguata. È proprio a
prezzo del dominio su di essi che l’uomo raggiunge quella spontaneità più
profonda e matura, con cui il suo "cuore", padroneggiando gli istinti,
riscopre la bellezza spirituale del segno costituito dal corpo umano nella sua
mascolinità e femminilità. In quanto questa scoperta si consolida nella
coscienza come convinzione e nella volontà come orientamento sia delle possibili
scelte che dei semplici desideri, il cuore umano diviene partecipe, per così
dire, di un’altra spontaneità, di cui nulla o pochissimo sa l’"uomo carnale".
Non vi è alcun dubbio che mediante le parole di Cristo secondo Matteo
5,27-28, siamo chiamati appunto ad una tale spontaneità. E forse la più
importante sfera della "praxis" - relativa agli atti più "interiori" - è appunto
quella che traccia gradualmente la strada verso siffatta spontaneità.
Questo è un argomento vasto che ci
converrà riprendere ancora una volta in avvenire, quando ci dedicheremo a
dimostrare quale sia la vera natura della evangelica "purezza di cuore". Per ora
terminiamo dicendo che le parole del Discorso della montagna, con cui Cristo
richiama l’attenzione dei suoi ascoltatori - di allora e di oggi - sulla
"concupiscenza" ("sguardo concupiscente"), indicano indirettamente la via verso
una matura spontaneità del "cuore" umano, che non soffoca i suoi nobili desideri
ed aspirazioni, anzi, al contrario, li libera e, in certo senso, li agevola.
Basti per ora quello che abbiamo
detto sul reciproco rapporto tra ciò che è "etico" e ciò che è "erotico",
secondo l’ethos del Discorso della montagna.
Mercoledì, 3 dicembre 1980
Cristo ci chiama a ritrovare le forze vive dell’uomo nuovo
1. All’inizio delle nostre
considerazioni sulle parole di Cristo nel Discorso della montagna (Mt 5,27-28),
abbiamo costatato che esse contengono un profondo significato etico ed
antropologico. Si tratta qui del passo in cui Cristo ricorda il comandamento:
"Non commettere adulterio", e aggiunge: "Chiunque guarda una donna per
desiderarla, ha già commesso adulterio con lei (o verso di lei) nel suo cuore".
Parliamo di significato etico ed antropologico di tali parole, perché esse
alludono alle due dimensioni strettamente connesse dell’ethos e dell’uomo
"storico". Abbiamo cercato, nel corso delle precedenti analisi, di seguire
queste due dimensioni, avendo sempre in mente che le parole di Cristo sono
rivolte al "cuore", cioè all’uomo interiore. L’uomo interiore è il soggetto
specifico dell’ethos del corpo, e di questo il Cristo vuole impregnare la
coscienza e la volontà dei suoi ascoltatori e discepoli. È indubbiamente un
ethos "nuovo". È "nuovo", in confronto all’ethos degli uomini dell’Antico
Testamento, come abbiamo già cercato di mostrare in analisi più
particolareggiate. Esso è "nuovo" anche rispetto allo stato dell’uomo "storico",
posteriore al peccato originale, cioè rispetto all’"uomo della concupiscenza".
È quindi un ethos "nuovo" in un
senso e in una portata universali. È "nuovo" rispetto ad ogni uomo,
indipendentemente da qualsiasi longitudine e latitudine geografica e storica.
2. Questo "nuovo" ethos,
che emerge dalla prospettiva delle parole di Cristo pronunziate nel Discorso
de]la montagna, lo abbiamo più volte chiamato "ethos della redenzione" e, più
precisamente, ethos della redenzione del corpo. Abbiamo qui seguito san Paolo,
che nella lettera ai Romani contrappone "la schiavitù della corruzione" (Rm 8,21) e la
sottomissione "alla caducità" (Rm
8,20) - di cui è divenuta partecipe tutta la
creazione a causa del peccato - al desiderio della "redenzione del nostro corpo"
(Rm 8,23). In
questo contesto, l’apostolo parla dei gemiti di "tutta la creazione", che "nutre
la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per
entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio" (Rm
8,20-21). In tal modo S. Paolo svela la
situazione di tutto il creato e in particolare quella dell’uomo dopo il peccato.
Significativa per questa situazione è l’aspirazione che - insieme con la nuova
"adozione a figli" (Rm 8,23)
- tende proprio alla "redenzione del corpo", presentata come il fine,
come il frutto escatologico e maturo del mistero della redenzione dell’uomo e
del mondo, compiuta da Cristo.
3. In che senso, dunque,
possiamo parlare dell’ethos della redenzione e specialmente dell’ethos della
redenzione del corpo? Dobbiamo riconoscere che nel contesto delle parole del
Discorso della montagna (Mt
5,27-28), da noi analizzate, questo
significato non appare ancora in tutta la sua pienezza. Esso si manifesterà più
completamente quando esamineremo altre parole di Cristo, quelle cioè in cui Egli
fa riferimento alla risurrezione (cf. Mt 22,30;
Mc 12,25;
Lc 20,35-36).
Tuttavia non vi è dubbio alcuno che
anche nel Discorso della montagna Cristo parla nella prospettiva della
redenzione dell’uomo e del mondo (e quindi appunto della "redenzione del
corpo"). È questa, di fatto, la prospettiva dell’intero Vangelo, di tutto
l’insegnamento, anzi di tutta la missione di Cristo. E sebbene il contesto
immediato del Discorso della montagna indichi la Legge e i Profeti come il punto
di riferimento storico, proprio del popolo di Dio dell’Antica Alleanza, tuttavia
non possiamo dimenticare che nell’insegnamento di Cristo, il fondamentale
riferimento alla questione del matrimonio e al problema delle relazioni tra
l’uomo e la donna, si richiama al "principio". Un tale richiamo può essere
giustificato soltanto dalla realtà della Redenzione; al di fuori di essa,
infatti, rimarrebbe unicamente la triplice concupiscenza oppure quella
"schiavitù della corruzione", di cui scrive l’apostolo Paolo (Rm
8,21). Soltanto la prospettiva della
Redenzione giustifica il richiamo al "principio", ossia la prospettiva del
mistero della creazione nella totalità dell’insegnamento di Cristo circa i
problemi del matrimonio, dell’uomo e della donna e del loro rapporto reciproco.
Le parole di Matteo 5,27-28 si pongono, in definitiva, nella stessa
prospettiva teologica.
4. Nel Discorso della
montagna Cristo non invita l’uomo a ritornare allo stato dell’innocenza
originaria, perché l’umanità l’ha irrevocabilmente lasciato dietro di sé, ma
lo chiama a ritrovare - sul fondamento dei significati perenni e, per così
dire, indistruttibili di ciò che è "umano" - le forme vive dell’"uomo nuovo".
In tal modo si allaccia un legame, anzi, una continuità fra il "principio" e la
prospettiva della Redenzione. Nell’ethos della redenzione del corpo dovrà esser
nuovamente ripreso l’originario ethos della creazione. Cristo non cambia la
Legge, ma conferma il comandamento: "Non commettere adulterio"; però, al tempo
stesso, conduce l’intelletto e il cuore degli ascoltatori verso quella "pienezza
della giustizia" voluta da Dio creatore e legislatore, che questo comandamento
racchiude in sé. Tale pienezza va scoperta: prima con una interiore visione "del
cuore", e poi con un adeguato modo di essere e di agire. La forma dell’"uomo
nuovo" può emergere da questo modo di essere e di agire, nella misura in cui
l’ethos della redenzione del corpo domina la concupiscenza della carne e tutto
l’uomo della concupiscenza. Cristo indica con chiarezza che la via per giungervi
deve essere via di temperanza e di padronanza dei desideri, e ciò alla radice
stessa, già nella sfera puramente interiore ("chiunque guarda per desiderare").
L’ethos della redenzione contiene in ogni ambito - e direttamente nella sfera
della concupiscenza della carne - l’imperativo del dominio di sé, la necessità
di un’immediata continenza e di un’abituale temperanza.
5. Tuttavia, la
temperanza e la continenza non significano - se così è possibile esprimersi
- una sospensione nel vuoto: né nel vuoto dei valori né nel vuoto del
soggetto. L’ethos della redenzione si realizza nella padronanza di sé,
mediante la temperanza, cioè la continenza dei desideri. In questo comportamento
il cuore umano resta vincolato al valore dal quale, attraverso il desiderio, si
sarebbe altrimenti allontanato, orientandosi verso la pura concupiscenza priva
di valore etico (come abbiamo detto nella precedente analisi). Sul terreno
dell’ethos della redenzione l’unione con quel valore, mediante un atto di
dominio, viene confermata oppure ristabilita con una forza ed una fermezza ancor
più profonde. E si tratta qui del valore del significato sponsale del corpo, del
valore di un segno trasparente, mediante il quale il Creatore - insieme con la
perenne attrattiva reciproca dell’uomo e della donna attraverso la mascolinità e
la femminilità - ha scritto nel cuore di entrambi il dono della comunione, cioè
la misteriosa realtà della sua immagine e somiglianza. Di tale valore si tratta
nell’atto del dominio di sé e della temperanza, a cui richiama Cristo nel
Discorso della montagna (Mt
5,27-28).
6. Questo atto può dare
l’impressione della sospensione "nel vuoto del soggetto". Esso può dare tale
impressione particolarmente quando è necessario decidersi a compierlo per la
prima volta, oppure, ancor più, quando si è creata l’abitudine contraria, quando
l’uomo si è abituato a cedere alla concupiscenza della carne. Tuttavia, perfino
già la prima volta, e tanto più se ne acquista poi la capacità, l’uomo fa la
graduale esperienza della propria dignità e, mediante la temperanza, attesta il
proprio autodominio e dimostra di compiere ciò che in lui è essenzialmente
personale. E, inoltre, sperimenta gradualmente la libertà del dono, che per
un verso è la condizione, e per altro verso è la risposta del soggetto al valore
sponsale del corpo umano, nella sua femminilità e nella sua mascolinità. Così,
dunque, l’ethos della redenzione del corpo si realizza attraverso il dominio di
sé, attraverso la temperanza dei "desideri", quando il cuore umano stringe
alleanza con tale ethos, o piuttosto la conferma mediante la propria
soggettività integrale: quando si manifestano le possibilità e le
disposizioni più profonde e nondimeno più reali della persona, quando acquistano
voce gli strati più profondi della sua potenzialità, ai quali la concupiscenza
della carne, per così dire, non consentirebbe di manifestarsi. Questi strati non
possono emergere nemmeno quando il cuore umano è fermo in un permanente
sospetto, come risulta dall’ermeneutica freudiana. Non possono manifestarsi
neppure quando nella coscienza domina l’"antivalore" manicheo. Invece l’ethos
della redenzione si basa sulla stretta alleanza con quegli strati.
7. Ulteriori riflessioni
ce ne daranno altre prove. Terminando le nostre analisi sull’enunciazione così
significativa di Cristo secondo Matteo 5,27-28, vediamo che in essa il
"cuore" umano è soprattutto oggetto di una chiamata e non di un’accusa. In pari
tempo, dobbiamo ammettere che la coscienza della peccaminosità è
nell’uomo "storico" non soltanto un necessario punto di partenza, ma anche una
indispensabile condizione della sua aspirazione alla virtù, alla "purezza
di cuore", alla perfezione. L’ethos della redenzione del corpo rimane
profondamente radicato nel realismo antropologico ed assiologico della
rivelazione. Richiamandosi, in questo caso, al "cuore", Cristo formula le sue
parole nel più concreto dei modi: l’uomo, infatti, è unico ed irripetibile
soprattutto a motivo del suo "cuore", che decide di lui "dall’interno". La
categoria del "cuore" è, in certo senso, l’equivalente della soggettività
personale. La via del richiamo alla purezza del cuore, così come è stato
espresso nel Discorso della montagna, è in ogni caso reminiscenza della
solitudine originaria, da cui l’uomo-maschio fu liberato mediante l’apertura
all’altro essere umano, alla donna. La purezza di cuore si spiega, in fin dei
conti, con il riguardo verso l’altro soggetto, che è originariamente e
perennemente "con-chiamato".
La purezza è esigenza dell’amore. È
la dimensione della sua verità interiore nel "cuore" dell’uomo.
Mercoledì, 10 dicembre 1980
Tradizione anticotestamentaria e nuovo significato di
“purezza”
1. Un indispensabile
completamento delle parole pronunziate da Cristo nel Discorso della montagna
sulle quali abbiamo centrato il ciclo delle nostre presenti riflessioni, dovrà
essere l’analisi della purezza. Quando Cristo, spiegando il giusto significato
del comandamento "Non commettere adulterio", fece richiamo all’uomo interiore,
specificò al tempo stesso la dimensione fondamentale della purezza, con cui
vanno contrassegnati i reciproci rapporti tra l’uomo e la donna nel matrimonio e
fuori del matrimonio. Le parole: "Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per
desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt 5,27-28) esprimono
ciò che contrasta con la purezza. Ad un tempo, queste parole esigono la purezza
che nel Discorso della montagna è compresa nell’enunciato delle beatitudini: "Beati
i puri di cuore, perché vedranno Dio" (Mt
5,8). In tal modo Cristo rivolge al cuore
umano un appello: lo invita, non lo accusa, come già abbiamo precedentemente
chiarito.
2. Cristo vede nel cuore,
nell’intimo dell’uomo la sorgente della purezza - ma anche dell’impurità morale
- nel significato fondamentale e più generico della parola. Ciò è confermato, ad
esempio, dalla risposta data ai farisei, scandalizzati per il fatto che i suoi
discepoli "trasgrediscono la tradizione degli antichi, poiché non si lavano le
mani quando prendono cibo" (Mt
15,2). Gesù disse allora ai presenti: "Non
quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo, ma quello che esce dalla bocca
rende impuro l’uomo" (Mt
15,11). Ai suoi discepoli, invece,
rispondendo alla domanda di Pietro, così spiegò queste parole: "...ciò che esce
dalla bocca proviene dal cuore. Questo rende immondo l’uomo. Dal cuore, infatti,
provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adulteri, le prostituzioni, i
furti, le false testimonianze, le bestemmie. Queste sono le cose che rendono
immondo l’uomo, ma il mangiare senza lavarsi le mani non rende immondo l’uomo"
(cf. Mt 15,18-20;
cf. Mc 7,20-23).
Quando diciamo "purezza", "puro",
nel significato primo di questi termini, indichiamo ciò che contrasta con lo
sporco. "Sporcare" significa "rendete immondo", "inquinare". Ciò si
riferisce ai diversi ambiti del mondo fisico. Si parla, ad esempio, di una
"strada sporca", di una "stanza sporca", si parla anche dell’"aria inquinata". È
così pure, anche l’uomo può essere "immondo", quando il suo corpo non è pulito.
Per togliere le lordure del corpo, bisogna lavarlo. Nella tradizione dell’Antico
Testamento si attribuiva una grande importanza alle abluzioni rituali, ad
esempio il lavarsi le mani prima di mangiare, di cui parla il testo citato.
Numerose e particolareggiate prescrizioni riguardavano le abluzioni del corpo in
rapporto all’impurità sessuale, intesa in senso esclusivamente fisiologico, a
cui abbiamo accennato in precedenza (cf. Lv 15).
Secondo lo stato della scienza medica del tempo, le varie abluzioni potevano
corrispondere a prescrizioni igieniche. In quanto erano imposte in nome di Dio e
contenute nei Libri Sacri della legislazione anticotestamentaria, l’osservanza
di esse acquistava, indirettamente, un significato religioso; erano abluzioni
rituali e, nella vita dell’uomo dell’Antica Alleanza, servivano alla "purezza"
rituale.
3. In rapporto alla
suddetta tradizione giuridico-religiosa dell’Antica Alleanza si è formato un
modo erroneo di intendere la purezza morale(1). La si capiva spesso in modo
esclusivamente esteriore e "materiale". In ogni caso, si diffuse una tendenza
esplicita ad una tale interpretazione. Cristo vi si oppone in modo radicale:
nulla rende l’uomo immondo "dall’esterno", nessuna sporcizia "materiale" rende
l’uomo impuro in senso morale, ossia interiore. Nessuna abluzione, neppure
rituale, è idonea di per sé a produrre la purezza morale. Questa ha la sua
sorgente esclusiva nell’interno dell’uomo: essa proviene dal cuore. È probabile
che le rispettive prescrizioni dell’Antico Testamento (quelle, ad esempio, che
si trovano nel Levitico) (Lv
15,16-24; 18,1ss;
12,1-5)
servissero, oltre che a fini igienici, anche ad attribuire una certa dimensione
di interiorità a ciò che nella persona umana è corporeo e sessuale. In ogni caso
Cristo si è ben guardato dal collegare la purezza in senso morale (etico) con la
fisiologia e con i relativi processi organici. Alla luce delle parole di
Matteo 15,18-20, sopra citate, nessuno degli aspetti dell’"immondezza"
sessuale, nel senso strettamente somatico, biofisiologico, entra di per sé nella
definizione della purezza o della impurità in senso morale (etico).
4. Il suddetto enunciato (Mt
15,18-20) è soprattutto importante per
ragioni semantiche. Parlando della purezza in senso morale, cioè della
virtù della purezza, ci serviamo di un’analogia, secondo la quale il male
morale viene paragonato appunto alla immondezza. Certamente tale analogia è
entrata a far parte, fin dai tempi più remoti, dell’ambito dei concetti etici.
Cristo la riprende e la conferma in tutta la sua estensione: "Ciò che esce dalla
bocca proviene dal cuore. Questo rende immondo l’uomo". Qui Cristo parla di
ogni male morale, di ogni peccato, cioè di trasgressioni dei vari
comandamenti, ed enumera "i propositi malvagi, gli omicidi, gli adulteri, le
prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie", senza
limitarsi ad uno specifico genere di peccato. Ne deriva che il concetto di
"purezza" e di "impurità" in senso morale è anzitutto un concetto generale, non
specifico: per cui ogni bene morale è manifestazione di purezza, ed ogni male
morale è manifestazione di impurità. L’enunciato di Matteo 15,18-20 non
restringe la purezza ad un unico settore della morale, ossia a quello connesso
al comandamento "Non commettere adulterio" e "Non desiderare la moglie del tuo
prossimo", cioè a quello che riguarda i rapporti reciproci tra l’uomo e la
donna, legati al corpo e alla relativa concupiscenza. Analogamente possiamo
anche intendere la beatitudine del Discorso della montagna, rivolta agli uomini
"puri di cuore", sia in senso generico, sia in quello più specifico. Soltanto
gli eventuali contesti permetteranno di delimitare e di precisare tale
significato.
5. Il significato più
ampio e generale della purezza è presente anche nelle lettere di San Paolo, in
cui gradualmente individueremo i contesti che, in modo esplicito, restringono il
significato della purezza all’ambito "somatico" e "sessuale", cioè a quel
significato che possiamo cogliere dalle parole pronunziate da Cristo nel
Discorso della montagna sulla concupiscenza, che si esprime già nel
"guardare la donna", e viene equiparata ad un "adulterio commesso nel cuore" (cf.
Mt 5,27-28).
Non è San Paolo l’autore delle
parole sulla triplice concupiscenza. Esse, come sappiamo, si trovano nella prima
lettera di Giovanni. Si può, tuttavia, dire che analogamente a quella che per
Giovanni (1Gv 2,16-17)
è contrapposizione all’interno dell’uomo tra Dio e il mondo (tra ciò che viene
"dal Padre" e ciò che viene "dal mondo") - contrapposizione che nasce nel cuore
e penetra nelle azioni dell’uomo come"concupiscenza degli occhi, concupiscenza
della carne e superbia della vita" - San Paolo rileva nel cristiano un’altra
contraddizione: l’opposizione e insieme la tensione tra la "carne" e lo
"Spirito" (scritto con la maiuscola, cioè lo Spirito Santo): "Vi dico
dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i
desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo
Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda,
sicché voi non fate quello che vorreste" (Gal 5,16-17). Ne
consegue che la vita "secondo la carne" è in opposizione alla vita "secondo lo
Spirito". "Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della
carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito" (Rm 8,5).
Nelle successive analisi cercheremo
di mostrare che la purezza - la purezza di cuore, di cui ha parlato Cristo nel
Discorso della montagna - si realizza propriamente nella vita "secondo lo
Spirito".
Mercoledì, 17 dicembre 1980
Vita secondo la carne e giustificazione in Cristo
1. "La carne... ha
desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne".
Vogliamo oggi approfondire queste parole di San Paolo nella lettera ai Galati (Gal
5,17), con cui la settimana scorsa abbiamo
terminato le nostre riflessioni sul tema del giusto significato della purezza.
Paolo ha in mente la tensione esistente nell’intimo dell’uomo, appunto nel suo
"cuore". Non si tratta qui soltanto del corpo (la materia) e dello spirito
(l’anima), come di due componenti antropologiche essenzialmente diverse, che
costituiscono dal "principio" l’essenza stessa dell’uomo. Però viene presupposta
quella disposizione di forze formatasi nell’uomo col peccato originale e a cui
partecipa ogni uomo "storico". In tale disposizione, formatasi nell’intimo
dell’uomo, il corpo si contrappone allo spirito e facilmente prende il
sopravvento su di esso(1). La terminologia paolina, tuttavia, significa qualcosa
di più: qui il predominio della "carne" sembra quasi coincidere con quella che,
secondo la terminologia giovannea, è la triplice concupiscenza che "viene dal
mondo". La "carne", nel linguaggio delle lettere di San Paolo(2), indica non
soltanto l’uomo "esteriore", ma anche l’uomo "interiormente" assoggettato al
"mondo" (3), in certo senso chiuso nell’ambito di quei valori che appartengono
solo al mondo e di quei fini che esso è capace di imporre all’uomo: valori,
pertanto, ai quali l’uomo in quanto "carne" è appunto sensibile. Così il
linguaggio di Paolo sembra allacciarsi ai contenuti essenziali di Giovanni, ed
il linguaggio di entrambi denota ciò che viene definito da vari termini
dell’etica e dell’antropologia contemporanee, come ad esempio: "Autarchia
umanistica", "secolarismo" o anche, con significato generale, "sensualismo".
L’uomo che vive "secondo la carne" è l’uomo disposto soltanto a ciò che viene
"dal mondo": è l’uomo dei "sensi", l’uomo della triplice concupiscenza. Lo
confermano le sue azioni, come diremo fra poco.
2. Tale uomo vive quasi al
polo opposto rispetto a ciò che "vuole lo Spirito". Lo Spirito di Dio vuole una
realtà diversa da quella voluta dalla carne, ambisce una realtà diversa da
quella che la carne ambisce e ciò già all’interno dell’uomo, già alla sorgente
interiore delle aspirazioni e delle azioni dell’uomo: "Sicché voi non fate
quello che vorreste" (Gal
5,17).
Paolo esprime ciò in modo ancor più
esplicito, scrivendo altrove del male che fa, sebbene non lo voglia, e
dell’impossibilità - o piuttosto della possibilità limitata - nel compiere il
bene che "vuole" (cf. Rm
7,19). Senza entrare nei problemi di una
esegesi particolareggiata di questo testo, si potrebbe dire che la tensione tra
la "carne" e lo "spirito" è, prima, immanente, anche se non si riduce a questo
livello. Essa si manifesta nel suo cuore quale "combattimento" tra il bene e il
male. Quel desiderio, di cui Cristo parla nel discorso della montagna (cf. Mt 5,27-28),
sebbene sia un atto "interiore", rimane certamente - secondo il linguaggio
paolino - una manifestazione della vita "secondo la carne". Nello stesso tempo,
quel desiderio ci consente di costatare come all’interno dell’uomo la vita
"secondo la carne" si opponga alla vita "secondo lo Spirito", e come
quest’ultima, nello stato attuale dell’uomo, data la sua peccaminosità
ereditaria, sia costantemente esposta alla debolezza ed insufficienza della
prima, alla quale spesso cede, se non viene interiormente rafforzata per fare
appunto ciò "che vuole lo Spirito". Possiamo dedurne che le parole di Paolo, che
trattano della vita "secondo la carne" e "secondo lo Spirito", siano al tempo
stesso una sintesi ed un programma; ed occorre intenderle in questa chiave.
3. Troviamo la medesima
contrapposizione della vita a secondo la carne" alla vita "secondo lo Spirito"
nella Lettera ai Romani. Anche qui (come del resto nella lettera ai Galati) essa
viene collocata nel contesto della dottrina paolina circa la giustificazione
mediante la fede, cioè mediante la potenza di Cristo stesso operante
nell’intimo dell’uomo per mezzo dello Spirito Santo. In tale contesto Paolo
porta quella contrapposizione alle sue conseguenze estreme quando scrive:
"Quelli... che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli
invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito. Ma i desideri
della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla
vita e alla pace. Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio,
perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero. Quelli
che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio. Voi però non siete sotto
il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio
abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. E se
Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è
vita a causa della giustificazione" (Rm
8,5-10).
4. Si vedono con chiarezza
gli orizzonti che Paolo delinea in questo testo: egli risale al
"principio" - cioè, in questo caso, al primo peccato da cui ebbe origine la
vita "secondo la carne" e che ha creato nell’uomo il retaggio di una
predisposizione a vivere unicamente siffatta vita, insieme all’eredità della
morte. Al tempo stesso Paolo prospetta la vittoria finale sul peccato e sulla
morte, di cui è segno e preannunzio la risurrezione di Cristo: "Colui che ha
risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per
mezzo del suo Spirito che abita in voi" (Rm
8,11). E in questa prospettiva escatologica,
San Paolo pone in rilievo la "giustificazione in Cristo, destinata già
all’uomo "storico"", ad ogni uomo di "ieri, oggi e domani" della storia del
mondo ed anche della storia della salvezza: giustificazione che è essenziale per
l’uomo interiore, ed è destinata appunto a quel "cuore" al quale Cristo si è
richiamato, parlando della "purezza" e dell’"impurità" in senso morale. Questa
"giustificazione" per fede non costituisce semplicemente una dimensione del
piano divino della salvezza e della santificazione dell’uomo, ma è, secondo San
Paolo, un’autentica forza che opera nell’uomo e che si rivela ed afferma
nelle sue azioni.
5. Ecco, di nuovo, le
parole della lettera ai Galati: "Del resto le opere della carne sono ben note:
fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie,
discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e
cose del genere..." (Gal
5,19-21). "Il frutto dello Spirito invece è
amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di
sé..." (Gal 5,22-23).
Nella dottrina paolina, la vita "secondo la carne" si oppone alla vita "secondo
lo Spirito" non soltanto all’interno dell’uomo, nel suo "cuore", ma, come si
vede, trova un ampio e differenziato campo per tradursi in opere. Paolo
parla, da un lato, delle "opere" che nascono dalla "carne" - si potrebbe dire:
dalle opere in cui si manifesta l’uomo che vive "secondo la carne" - e, d’altro
lato, egli parla del "frutto dello Spirito", cioè delle azioni(4), dei
modi di comportarsi, delle virtù, in cui si manifesta l’uomo che vive "secondo
lo Spirito". Mentre nel primo caso abbiamo a che fare con l’uomo abbandonato
alla triplice concupiscenza, della quale Giovanni dice che viene "dal mondo",
nel secondo caso siamo di fronte a ciò, che già prima abbiamo chiamato l’ethos
della Redenzione. Ora soltanto siamo in grado di chiarire pienamente la
natura e la struttura di quell’ethos. Esso si esprime e si afferma
attraverso ciò che nell’uomo, in tutto il suo "operare", nelle azioni e nel
comportamento, è frutto del dominio sulla triplice concupiscenza: della carne,
degli occhi e della superbia della vita (di tutto ciò di cui può essere
giustamente "accusato" il cuore umano e di cui possono essere continuamente
"sospettati" l’uomo e la sua interiorità).
6. Se la padronanza nella
sfera dell’ethos si manifesta e realizza come "amore, gioia, pace, pazienza,
benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé" - come leggiamo nella
lettera ai Galati - allora dietro a ciascuna di queste realizzazioni, di questi
comportamenti, di queste virtù morali sta una specifica scelta, cioè uno
sforzo della volontà, frutto dello spirito umano permeato dallo Spirito
di Dio, che si manifesta nello scegliere il bene. Parlando col linguaggio di
Paolo: "Lo Spirito ha desideri contrari alla carne" (Gal
5,17) e in questi suoi "desideri" si
dimostra più forte della "carne" e dei desideri generati dalla triplice
concupiscenza. In questa lotta tra il bene e il male, l’uomo si dimostra più
forte grazie alla potenza dello Spirito Santo, che operando dentro lo
spirito umano fa sì che i suoi desideri fruttifichino in bene. Queste
sono quindi non soltanto - e non tanto - "opere" dell’uomo, quanto "frutto",
cioè effetto dell’azione dello "Spirito" nell’uomo. E perciò Paolo parla del
"frutto dello "Spirito"", intendendo questa parola con la maiuscola.
Senza penetrare nelle strutture
dell’interiorità umana mediante le sottili differenziazioni forniteci dalla
teologia sistematica (specialmente a partire da Tommaso d’Aquino) ci limitiamo
all’esposizione sintetica della dottrina biblica, che ci consente di
comprendere, in modo essenziale e sufficiente, la distinzione e la
contrapposizione della "carne" e dello "Spirito".
Abbiamo osservato che tra i frutti
dello Spirito l’apostolo pone anche il "dominio di sé". Occorre non
dimenticarlo, perché nelle ulteriori nostre riflessioni riprenderemo questo tema
per trattarlo in modo più particolareggiato.
Mercoledì, 7 gennaio 1981
La contrapposizione tra carne e spirito e la
“giustificazione” nella fede
Carissimi fratelli nell’Episcopato, nel sacerdozio,
Fratelli e sorelle di vita religiosa, Carissimi fratelli e sorelle,
Fratelli e sorelle di vita religiosa, Carissimi fratelli e sorelle,
Dopo la pausa dovuta alle recenti festività ricominciamo oggi i
nostri incontri del mercoledì portando ancora nel cuore la serena letizia del
mistero della nascita del Cristo, che la liturgia della Chiesa in questo periodo
ci ha fatto celebrare ed attualizzare nella nostra vita. Gesù di Nazaret, il
Bimbo che vagisce nella mangiatoia di Betlemme, è il Verbo eterno di Dio che si
è incarnato per amore dell’uomo (Gv
1,14). Questa è la grande verità alla quale il cristiano aderisce con
profonda fede. Con la fede di Maria Santissima che, nella gloria della sua
intatta verginità, concepì e generò il Figlio di Dio fatto uomo. Con la fede di
San Giuseppe che lo custodì e lo protesse con immensa dedizione d’amore. Con la
fede dei pastori che accorsero subito alla grotta della natività. Con la fede
dei Magi che lo intravidero nel segno della stella e, dopo lunghe ricerche,
poterono contemplarlo e adorarlo nelle braccia della Vergine Madre.
Che il nuovo anno sia vissuto da tutti sotto il segno di questa
grande gioia interiore, frutto della certezza che Dio ha tanto amato il mondo da
dare il suo Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la
vita eterna.
È l’augurio che rivolgo a tutti voi che siete presenti a questa
prima udienza generale del 1981 ed a tutti i vostri cari.
1. Che cosa significa l’affermazione: "La
carne... ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari
alla carne"? (Gal
5,17) Questa domanda sembra importante, anzi fondamentale nel
contesto delle nostre riflessioni sulla purezza di cuore, di cui parla il
Vangelo. Tuttavia, l’Autore della lettera ai Galati apre davanti a noi, a questo
riguardo, orizzonti ancor più vasti. In questa contrapposizione della "carne"
allo Spirito (Spirito di Dio), e della vita "secondo la carne" alla vita
"secondo lo Spirito" è contenuta la teologia paolina circa la giustificazione,
cioè l’espressione della fede nel realismo antropologico ed etico della
redenzione compiuta da Cristo, che Paolo, nel contesto a noi già noto,
chiama anche "redenzione del corpo". Secondo la Lettera ai Romani (Rm
8,23), la "redenzione del corpo" ha anche una dimensione "cosmica"
(riferita a tutta la creazione), ma al centro di essa vi è l’uomo: l’uomo
costituito nell’unità personale dello spirito e del corpo. E appunto in questo
uomo, nel suo "cuore", e conseguentemente in tutto il suo comportamento,
fruttifica la redenzione di Cristo, grazie a quelle forze dello Spirito che
attuano la "giustificazione", cioè fanno sì che la giustizia "abbondi" nell’uomo
come è inculcato nel discorso della montagna: Matteo (Mt
5,20), cioè "abbondi" nella misura che Dio stesso ha voluto e che
Egli attende.
2. È significativo che Paolo, parlando
delle "opere della carne" (cf.
Gal 5,11-21),
menziona non soltanto "fornicazione, impurità, libertinaggio... ubriachezza,
orge" – quindi, tutto ciò che, secondo un modo di comprendere oggettivo, riveste
il carattere dei "peccati carnali" e del godimento sensuale collegato con la
carne – ma nomina anche altri peccati, ai quali non saremmo portati ad
attribuire un carattere anche "carnale" e "sensuale": "idolatria, stregonerie,
inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie..." (Gal
5,20-21). Secondo le nostre categorie antropologiche (ed etiche) noi
saremmo propensi piuttosto a chiamare tutte le "opere" qui elencate
"peccati dello spirito" umano, anziché peccati della "carne". Non senza
motivo avremmo potuto intravedere in esse piuttosto gli effetti della
"concupiscenza degli occhi" o della "superbia della vita" che non gli effetti
della "concupiscenza della carne". Tuttavia, Paolo le qualifica tutte come
"opere della carne". Ciò s’intende esclusivamente sullo sfondo di quel
significato più ampio (in certo senso metonimico), che nelle lettere paoline
assume il termine "carne", contrapposto non soltanto e non tanto allo "spirito"
umano quanto allo Spirito Santo che opera nell’anima (nello spirito) dell’uomo.
3. Esiste, dunque, una significativa
analogia tra ciò che Paolo definisce come "opere della carne" e le parole con
cui Cristo spiega ai suoi discepoli ciò che prima aveva detto ai farisei circa
la "purezza" e l’"impurità" rituale (cf.
Mt 15,2-20).
Secondo le parole di Cristo, la vera "purezza" (come anche l’"impurità") in
senso morale sta nel "cuore" e proviene "dal cuore" umano. Come "opere impure"
nello stesso senso, sono definiti non soltanto gli "adulteri" e le
"prostituzioni", quindi i "peccati della carne" in senso stretto, ma anche i
"propositi malvagi... i furti, le false testimonianze, le bestemmie". Cristo,
come abbiamo già potuto costatare, si serve qui del significato tanto
generale quanto specifico dell’"impurità" (e quindi indirettamente anche
della "purezza"). San Paolo si esprime in maniera analoga: le opere
"della carne" sono intese nel testo paolino in senso tanto generale quanto
specifico. Tutti i peccati sono espressione della "vita secondo la carne",
che è in contrasto con la "vita secondo lo Spirito". Quello che, conformemente
alla nostra convenzione linguistica (del resto parzialmente giustificata), viene
considerato come "peccato della carne", nell’elenco paolino è una delle tante
manifestazioni (o specie) di ciò che egli denomina "opere della carne", e, in
questo senso, uno dei sintomi, cioè delle attualizzazioni della vita "secondo la
carne" e non "secondo lo Spirito".
4. Le parole di Paolo scritte ai Romani:
"Così dunque, fratelli, noi siamo debitori, ma non verso la carne per vivere
secondo la carne; poiché se vivete secondo la carne, voi morirete; se invece con
l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete" (Rm
8,12-13), c’introducono nuovamente nella ricca e differenziata sfera
dei significati, che i termini "corpo" e "spirito" hanno per lui. Tuttavia, il
significato definitivo di quell’enunciato è parenetico, esortativo, quindi
valido per l’ethos evangelico. Paolo, quando parla della necessità di far morire
le opere del corpo con l’aiuto dello Spirito, esprime appunto ciò di cui Cristo
ha parlato nel Discorso della Montagna, facendo richiamo al cuore umano ed
esortandolo al dominio dei desideri, anche di quelli che si esprimono nello
"sguardo" dell’uomo rivolto verso la donna al fine di appagare la concupiscenza
della carne. Tale superamento, ossia, come scrive Paolo, il "far
morire le opere del corpo con l’aiuto dello Spirito", è condizione
indispensabile della "vita secondo lo Spirito", cioè della "vita" che è
antitesi della "morte" di cui si parla nello stesso contesto. La vita "secondo
la carne" fruttifica infatti la "morte", cioè comporta come effetto la "morte"
dello Spirito.
Dunque, il termine "morte" non significa soltanto morte
corporale, ma anche il peccato, che la teologia morale chiamerà mortale. Nelle
Lettere ai Romani e ai Galati l’Apostolo allarga continuamente l’orizzonte del
"peccato-morte", sia verso il "principio" della storia dell’uomo, sia verso il
suo termine. E perciò, dopo aver elencato le multiformi "opere della carne",
afferma che "chi le compie non erediterà il regno di Dio" (Gal
5,21). Altrove scriverà con simile fermezza: "Sappiatelo bene, nessun
fornicatore, o impuro, o avaro – che è roba da idolatri – avrà parte al regno di
Cristo e di Dio" (Ef
5,5). Anche in questo caso, le opere che escludono dall’aver
"parte al regno di Cristo e di Dio" – cioè le "opere della carne" – vengono
elencate come esempio e con valore generale, sebbene al primo posto stiano qui i
peccati contro la "purezza" nel senso specifico (cf.
Ef 5,3-7).
5. Per completare il quadro della
contrapposizione tra il "corpo" e il "frutto dello Spirito" bisogna osservare
che in tutto ciò che è manifestazione della vita e del comportamento secondo lo
Spirito, Paolo vede ad un tempo la manifestazione di quella libertà, per la
quale Cristo "ci ha liberati" (Gal
5,1). Così egli scrive appunto: "Voi infatti, fratelli, siete stati
chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere
secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri.
Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il
prossimo tuo come te stesso" (Gal
5,13-14). Come già in precedenza abbiamo rilevato, la
contrapposizione "corpo-Spirito", vita "secondo la carne", vita "secondo lo
Spirito", permea profondamente tutta la dottrina paolina sulla giustificazione.
L’Apostolo delle Genti, con eccezionale forza di convinzione, proclama che la
giustificazione dell’uomo si compie in Cristo e per Cristo. L’uomo consegue
la giustificazione nella "fede che opera per mezzo della carità" (Gal
5,6), e non solo mediante l’osservanza delle singole prescrizioni
della Legge anticotestamentaria (in particolare, della circoncisione). La
giustificazione viene quindi "dallo Spirito" (di Dio) e non "dalla
carne". Egli esorta, perciò, i destinatari della sua lettera a liberarsi
dalla erronea concezione "carnale" della giustificazione, per seguire quella
vera, cioè, quella "spirituale", in questo senso li esorta a ritenersi liberi
dalla Legge, e ancor più ad esser liberi della libertà, per la quale Cristo "ci
ha liberati".
Così, dunque, seguendo il pensiero dell’Apostolo, ci conviene
considerare e soprattutto realizzare la purezza evangelica, cioè la purezza di
cuore, secondo la misura di quella libertà per la quale Cristo "ci ha liberati".
Mercoledì, 14 gennaio 1981
La vita secondo lo spirito, fondata nella vera libertà
1. San Paolo scrive nella Lettera ai
Galati: "Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa
libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la
carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge, infatti, trova la
sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso" (Gal
5,13-14). Già una settimana fa ci siamo soffermati su questo
enunciato; tuttavia lo riprendiamo oggi, in rapporto all’argomento principale
delle nostre riflessioni.
Sebbene il passo citato si riferisca anzitutto al tema della
giustificazione, tuttavia l’Apostolo tende qui esplicitamente a far capire la
dimensione etica della contrapposizione "corpo-spirito", cioè tra la vita
secondo la carne e la vita secondo lo Spirito. Anzi, proprio qui egli tocca il
punto essenziale, svelando quasi le stesse radici antropologiche dell’ethos
evangelico. Se, infatti, "tutta la Legge" (legge morale dell’Antico Testamento)
"trova la sua pienezza" nel comandamento della carità, la dimensione del
nuovo ethos evangelico non è nient’altro che un appello rivolto alla
libertà umana, un appello alla sua più piena attuazione e, in certo senso,
alla più piena "utilizzazione" della potenzialità dello spirito umano.
2. Potrebbe sembrare che Paolo
contrapponga solamente la libertà alla Legge e la Legge alla libertà. Tuttavia
un’analisi approfondita del testo dimostra che San Paolo nella Lettera ai Galati
sottolinea anzitutto la subordinazione etica della libertà a quell’elemento in
cui si compie tutta la Legge, ossia all’amore, che è il contenuto del più grande
comandamento del Vangelo. "Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi",
proprio nel senso che Egli ci ha manifestato la subordinazione etica (e
teologica) della libertà alla carità e che ha collegato la libertà con il
comandamento dell’amore. Intendere così la vocazione alla libertà ("Voi,...
fratelli, siete stati chiamati alla libertà" (Gal
5,13) significa configurare l’ethos, in cui si realizza la vita
"secondo lo Spirito". Esiste infatti anche il pericolo di intendere la libertà
in modo erroneo, e Paolo lo addita con chiarezza, scrivendo nello stesso
contesto: "Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la
carne, ma, mediante la carità, siate a servizio gli uni degli altri" (Gal
5,13).
3. In altre parole: Paolo ci mette in
guardia dalla possibilità di fare uso cattivo della libertà, un uso che
contrasti con la liberazione dello spirito umano compiuta da Cristo e che
contraddica quella libertà con cui "Cristo ci ha liberati". Difatti, Cristo ha
realizzato e manifestato la libertà che trova la pienezza nella carità, la
libertà grazie alla quale siamo "a servizio gli uni degli altri"; in altre
parole: la libertà che diviene sorgente di "opere" nuove e di "vita" secondo
lo Spirito. L’antitesi e, in certo qual modo, la negazione di tale uso della
libertà ha luogo quando essa diventa per l’uomo "un pretesto per vivere secondo
la carne". La libertà diventa allora una sorgente di "opere" e di "vita" secondo
la carne. Cessa di essere l’autentica libertà, per la quale "Cristo ci ha
liberati" e diviene "un pretesto per vivere secondo la carne", sorgente (oppure
strumento) di uno specifico "giogo" da parte della superbia della vita, della
concupiscenza degli occhi e della concupiscenza della carne. Chi in questo modo
vive "secondo la carne", cioè si assoggetta – sebbene in modo non del
tutto cosciente, ma nondimeno effettivo – alla triplice concupiscenza, e in
particolare alla concupiscenza della carne, cessa di essere capace di quella
libertà per cui "Cristo ci ha liberati"; cessa anche di essere idoneo al
vero dono di sé, che è frutto ed espressione di tale libertà. Cessa,
inoltre, di essere capace di quel dono, che è organicamente connesso col
significato sponsale del corpo umano, di cui abbiamo trattato nelle precedenti
analisi del Libro della Genesi (cf.
Gen 2,23-25)
4. In questo modo, la dottrina paolina
circa la purezza, dottrina in cui troviamo la fedele ed autentica eco del
Discorso della Montagna, ci consente di vedere la "purezza di cuore" evangelica
e cristiana, in una prospettiva più ampia, e soprattutto ci permette di
collegarla con la carità in cui tutta "la legge trova la sua pienezza". Paolo,
in modo analogo a Cristo, conosce un duplice significato della "purezza" e
dell’"impurità": un senso generico ed uno specifico. Nel primo caso è "puro"
tutto ciò che è moralmente buono, "impuro" invece ciò che è moralmente cattivo.
Lo affermano con chiarezza le parole di Cristo secondo
Matteo 15,
18-20, citate in precedenza. Negli enunciati di Paolo circa le "opere della
carne", che egli contrappone al "frutto dello Spirito", troviamo la base per un
analogo modo di intendere questo problema. Tra le "opere della carne" Paolo
colloca ciò che è moralmente cattivo, mentre ogni bene morale
viene collegato con la vita "secondo lo Spirito". Così, una delle manifestazioni
della vita "secondo lo Spirito" è il comportamento conforme a quella virtù, che
Paolo, nella Lettera ai Galati, sembra definire piuttosto indirettamente, ma di
cui parla in modo diretto nella prima Lettera ai Tessalonicesi.
5. Nei brani della Lettera ai Galati, che
già anteriormente abbiamo sottoposto ad analisi dettagliata, l’Apostolo elenca
al primo posto fra le "opere della carne": "fornicazione, impurità,
libertinaggio"; tuttavia, in seguito, quando a queste opere contrappone il
"frutto dello Spirito", non parla direttamente della "purezza", ma nomina solo
il "dominio di sé", la enkráteia. Questo "dominio" si può
riconoscere come virtù che riguarda la continenza nell’ambito di tutti i
desideri dei sensi, soprattutto nella sfera sessuale; è quindi in
contrapposizione alla "fornicazione, all’impurità, al libertinaggio", e anche
all’"ubriachezza", alle "orge". Si potrebbe quindi ammettere che il paolino
"dominio di sé" contiene ciò che viene espresso nel termine "continenza" o
"temperanza", che corrisponde al termine latino temperantia. In tal caso,
ci troveremmo di fronte al noto sistema delle virtù, che la teologia posteriore,
specie la scolastica, prenderà in prestito, in certo senso, dall’etica di
Aristotele. Tuttavia, Paolo certamente non si serve, nel suo testo, di questo
sistema. Dato che per "purezza" si deve intendere il giusto modo di trattare la
sfera sessuale a seconda dello stato personale (e non necessariamente un
astenersi assoluto dalla vita sessuale), allora indubbiamente tale "purezza" è
compresa nel concetto paolino di "dominio" o enkráteia. Perciò,
nell’ambito del testo paolino troviamo solo una generica ed indiretta menzione
della purezza, in tanto in quanto a tali "opere della carne", come
"fornicazione, impurità, libertinaggio", l’autore contrappone il "frutto dello
Spirito", cioè opere nuove, in cui si manifesta "la vita secondo lo Spirito". Si
può dedurre che una di queste opere nuove sia proprio la "purezza": quella,
cioè, che si contrappone all’"impurità" e anche alla "fornicazione" e al
"libertinaggio".
6. Ma già nella prima Lettera ai
Tessalonicesi, Paolo scrive su questo argomento in modo esplicito e inequivoco.
Vi leggiamo: "Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi
asteniate dalla impudicizia, che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo
[Senza entrare nelle discussioni particolareggiate degli esegeti, occorre
tuttavia segnalare che l’espressione greca tò heautoû skeûos può
riferirsi anche alla moglie (cf. 1Pt 3,7)] con
santità e rispetto, non come oggetto di passioni e libidine, come i pagani che
non conoscono Dio" (1Ts
4,3-5). E poi: "Dio non ci ha chiamati all’impurità, ma alla
santificazione. Perciò chi disprezza queste norme non disprezza un uomo, ma Dio
stesso che vi dona il suo Santo Spirito" (1Ts
4,7-8). Sebbene anche in questo testo abbiamo a che fare col
significato generico della "purezza", identificata in questo caso con la
"santificazione" (in quanto si nomina l’"impurità" come antitesi della
"santificazione"), nondimeno tutto il contesto indica chiaramente di quale
"purezza" o di quale "impurità" si tratti, cioè in che cosa consista ciò che
Paolo chiama qui "impurità", e in qual modo la "purezza" contribuisca alla
"santificazione" dell’uomo.
E perciò, nelle successive riflessioni, converrà riprendere il
testo della prima lettera ai Tessalonicesi, or ora citato.
Mercoledì, 28 gennaio 1981
Santità e rispetto del corpo nella dottrina di san Paolo
1. Scrive san Paolo nella I Lettera ai
Tessalonicesi: "... questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi
asteniate dalla impudicizia, che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con
santità e rispetto, non come oggetto di passioni libidinose, come i pagani che
non conoscono Dio" (1Ts
4,3-5). E dopo qualche versetto, continua: "Dio non ci ha chiamati
all’impurità, ma alla santificazione. Perciò chi disprezza queste norme non
disprezza un uomo, ma Dio stesso, che vi dona il suo Santo Spirito" (1Ts
4,7-8). A queste frasi dell’Apostolo abbiamo fatto riferimento
durante il nostro incontro del 14 gennaio scorso. Tuttavia oggi le riprendiamo
perché sono particolarmente importanti per il tema delle nostre meditazioni.
2. La purezza, di cui parla Paolo nella I
Lettera ai Tessalonicesi (cf.
1Ts
4,3-5.7-8), si manifesta nel fatto che l’uomo
"sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto, non come oggetto di
passioni libidinose". In questa formulazione ogni parola ha un significato
particolare e merita pertanto un commento adeguato.
In primo luogo, la purezza è una "capacità", ossia, nel
tradizionale linguaggio dell’antropologia e dell’etica: un’attitudine. Ed in
questo senso, è virtù. Se questa abilità, cioè virtù, porta ad astenersi "dalla
impudicizia", ciò avviene perché l’uomo che la possiede sa "mantenere il proprio
corpo con santità e rispetto e non come oggetto di passioni libidinose". Si
tratta qui di una capacità pratica, che rende l’uomo atto ad agire in un
determinato modo e nello stesso tempo a non agire nel modo contrario. La
purezza, per essere una tale capacità o attitudine, deve ovviamente essere
radicata nella volontà, nel fondamento stesso del volere e dell’agire cosciente
dell’uomo. Tommaso d’Aquino, nella sua dottrina sulle virtù, vede in modo ancor
più diretto l’oggetto della purezza nella facoltà del desiderio sensibile, che
egli chiama "appetitus concupiscibilis". Appunto questa facoltà deve
essere particolarmente "dominata", ordinata e resa capace di agire in modo
conforme alla virtù, affinché la "purezza" possa essere attribuita all’uomo.
Secondo tale concezione, la purezza consiste anzitutto nel contenere gli impulsi
del desiderio sensibile, che ha come oggetto ciò che nell’uomo è corporale e
sessuale. La purezza è una variante della virtù della temperanza.
3. Il testo della I Lettera ai
Tessalonicesi (cf.
1Ts 4,3-5)
dimostra che la virtù della purezza, nella concezione di Paolo, consiste anche
nel dominio e nel superamento di "passioni libidinose"; ciò vuol dire che alla
sua natura appartiene necessariamente la capacità di contenere gli impulsi del
desiderio sensibile, cioè la virtù della temperanza. Contemporaneamente,
però, lo stesso testo paolino rivolge la nostra attenzione verso un’altra
funzione della virtù della purezza, verso un’altra sua dimensione – si potrebbe
dire – più positiva che negativa.
Ecco, il compito della purezza, che l’Autore della lettera
sembra porre soprattutto in risalto, è non solo (e non tanto) l’astensione dalla
"impudicizia" e da ciò che vi conduce, quindi l’astensione da "passioni
libidinose", ma, in pari tempo, il mantenimento del proprio corpo e,
indirettamente anche di quello altrui in "santità e rispetto".
Queste due funzioni, l’"astensione" e il
"mantenimento", sono strettamente connesse e reciprocamente dipendenti.
Poiché, infatti, non si può "mantenere il corpo con santità e rispetto", se
manchi quell’astensione "dalla impudicizia" e da ciò a cui essa conduce, di
conseguenza si può ammettere che il mantenimento del corpo (proprio e,
indirettamente, altrui) "con santità e rispetto" conferisce adeguato significato
e valore a quell’astensione. Questa richiede di per sé il superamento di qualche
cosa che è nell’uomo e che nasce spontaneamente in lui come inclinazione, come
attrattiva e anche come valore che agisce soprattutto nell’ambito dei sensi, ma
molto spesso non senza ripercussioni sulle altre dimensioni della soggettività
umana, e particolarmente sulla dimensione affettivo-emotiva.
4. Considerando tutto ciò, sembra che
l’immagine paolina della virtù della purezza – immagine che emerge dal confronto
molto eloquente della funzione dell’"astensione" (cioè della temperanza) con
quella del "mantenimento del corpo con santità e rispetto" – sia profondamente
giusta, completa e adeguata. Dobbiamo forse questa completezza non ad
altro se non al fatto che Paolo considera la purezza non soltanto come capacità
(cioè attitudine) delle facoltà soggettive dell’uomo, ma, nello stesso tempo,
come una concreta manifestazione della vita "secondo lo Spirito", in cui la
capacità umana viene interiormente fecondata ed arricchita da ciò che Paolo,
nella Lettera ai Galati (Gal
5,22), chiama "frutto dello Spirito". Il rispetto, che nasce
nell’uomo verso tutto ciò che è corporeo e sessuale, sia in lui sia in ogni
altro uomo, maschio e femmina, si dimostra la forza più essenziale per mantenere
il corpo "con santità". Per comprendere la dottrina paolina sulla purezza,
bisogna entrare a fondo nel significato del termine "rispetto", ovviamente qui
inteso quale forza di ordine spirituale. È appunto questa forza interiore che
conferisce piena dimensione alla purezza come virtù, cioè come capacità di agire
in tutto quel campo in cui l’uomo scopre, nel proprio intimo, i molteplici
impulsi di "passioni libidinose", e talvolta, per vari motivi, si arrende ad
essi.
5. Per intendere meglio il pensiero
dell’Autore della prima Lettera ai Tessalonicesi sarà bene avere presente ancora
un altro testo, che troviamo nella prima Lettera ai Corinzi. Paolo vi espone la
sua grande dottrina ecclesiologica, secondo cui la Chiesa è Corpo di
Cristo; egli coglie l’occasione per formulare la seguente argomentazione circa
il corpo umano: "... Dio ha disposto le membra in modo distinto nel corpo, come
egli ha voluto" (1Cor
12,18); e più oltre: "Anzi, quelle membra del corpo che sembrano più
deboli sono più necessarie; e quelle parti del corpo che riteniamo meno
onorevoli le circondiamo di maggior rispetto, e quelle indecorose sono trattate
con maggior decenza, mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha
composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi
fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle
altre" (1Cor
12,22-25).
6. Sebbene l’argomento proprio del testo
in questione sia la teologia della Chiesa quale Corpo di Cristo, tuttavia in
margine a questo passo si può dire che Paolo, mediante la sua grande analogia
ecclesiologica (che ricorre in altre lettere, e che riprenderemo a suo tempo),
contribuisce, al tempo stesso, ad approfondire la teologia del corpo.
Mentre nella prima Lettera ai Tessalonicesi egli scrive circa il mantenimento
del corpo "con santità e rispetto", nel passo ora citato dalla prima Lettera ai
Corinzi vuole mostrare questo corpo umano come appunto degno di rispetto; si
potrebbe anche dire che vuole insegnare ai destinatari della sua lettera la
giusta concezione del corpo umano.
Perciò questa descrizione paolina del corpo umano nella prima
Lettera ai Corinzi sembra essere strettamente connessa alle raccomandazioni
della prima Lettera ai Tessalonicesi: "Che ciascuno sappia mantenere il proprio
corpo con santità e rispetto" (1Ts
4,4). Questo è un filo importante, forse quello essenziale, della
dottrina paolina sulla purezza.
Mercoledì, 4 febbraio 1981
Descrizione paolina del corpo e dottrina sulla purezza
1. Nelle nostre
considerazioni di mercoledì scorso sulla purezza secondo l’insegnamento di san
Paolo, abbiamo richiamato l’attenzione sul testo della prima Lettera ai Corinzi.
L’Apostolo vi presenta la Chiesa come Corpo di Cristo, e ciò gli offre
l’opportunità di fare il seguente ragionamento circa il corpo umano: "... Dio ha
disposto le membra in modo distinto nel corpo, come egli ha voluto... Anzi
quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie; e quelle
parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggior rispetto,
e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza, mentre quelle decenti non
ne hanno bisogno. Ma Dio ha composto il corpo, conferendo maggior onore a ciò
che ne mancava, perché non vi fosse disunione nel corpo, ma anzi le varie membra
avessero cura le une delle altre" (1Cor
12,18.22-25).
2. La "descrizione"
paolina del corpo umano corrisponde alla realtà che lo costituisce: è quindi una
descrizione "realistica". Nel realismo di tale descrizione viene intrecciato, al
tempo stesso, un sottilissimo filo di valutazione che le conferisce un valore
profondamente evangelico, cristiano. Certo è possibile "descrivere" il corpo
umano, esprimere la sua verità con l’oggettività propria delle scienze naturali;
ma siffatta descrizione – con tutta la sua precisione – non può essere adeguata
(cioè commensurabile con il suo oggetto), dato che non si tratta soltanto del
corpo (inteso come organismo, nel senso "somatico"), bensì dell’uomo, che
esprime se stesso per mezzo di quel corpo e in tal senso è, direi, quel
corpo. Così dunque quel filo di valutazione, considerato che si tratta
dell’uomo come persona, è indispensabile nel descrivere il corpo umano. Inoltre
va detto quanto giusta sia tale valutazione. Questo è uno dei compiti e dei temi
perenni di tutta la cultura: della letteratura, scultura, pittura e anche della
danza, delle opere teatrali e infine della cultura della vita quotidiana,
privata o sociale. Argomento che varrebbe la pena di trattare separatamente.
3. La descrizione paolina
della prima Lettera ai Corinzi (1Cor
12,18-25) non ha certamente un significato
"scientifico": non presenta uno studio biologico sull’organismo umano oppure
sulla "somatica" umana; da questo punto di vista è una semplice
descrizione "prescientifica", peraltro concisa, fatta appena di poche frasi.
Essa ha tutte le caratteristiche del realismo comune ed è, senza dubbio,
sufficientemente "realistica". Tuttavia, ciò che determina il suo carattere
specifico, ciò che in modo particolare giustifica la sua presenza nella Sacra
Scrittura, è appunto quella valutazione intrecciata nella descrizione ed
espressa nella sua stessa trama "narrativo-realistica". Si può dire con certezza
che tale descrizione non sarebbe possibile senza tutta la verità della
creazione e anche senza tutta la verità della "redenzione del corpo",
che Paolo professa e proclama. Si può anche affermare che la descrizione paolina
del corpo corrisponde proprio all’atteggiamento spirituale di
"rispetto" verso il corpo umano, dovuto a motivo della "santità" (cf. 1Ts 4,3-5.7-8)
che scaturisce dai misteri della creazione e della redenzione. La descrizione
paolina è ugualmente lontana sia dal disprezzo manicheo del corpo, sia dalle
varie manifestazioni di un naturalistico "culto del corpo".
4. L’Autore della prima
Lettera ai Corinzi (1Cor
12,18-25) ha davanti agli occhi il corpo
umano in tutta la sua verità; dunque, il corpo permeato anzitutto (se così ci si
può esprimere) da tutta la realtà della persona e dalla sua dignità. Esso è, al
tempo stesso, il corpo dell’uomo "storico", maschio e femmina, cioè di
quell’uomo che, dopo il peccato, fu concepito, per così dire, entro e dalla
realtà dell’uomo che aveva fatto l’esperienza della innocenza originaria. Nelle
espressioni di Paolo circa le "membra indecorose" del corpo umano, come anche
circa quelle che "sembrano più deboli" oppure quelle "che riteniamo meno
onorevoli", ci pare di ritrovare la testimonianza della stessa vergogna
che i primi esseri umani, maschio e femmina, avevano sperimentato dopo il
peccato originale. Questa vergogna si è impressa in loro e in tutte le
generazioni dell’uomo "storico" come frutto della triplice concupiscenza (con
particolare riferimento alla concupiscenza della carne). E contemporaneamente in
questa vergogna – come fu già posto in rilievo nelle precedenti analisi – si è
impressa una certa "eco" della stessa innocenza originaria dell’uomo: quasi un
"negativo" dell’immagine, il cui "positivo" era stata appunto l’innocenza
originaria.
5. La "descrizione"
paolina del corpo umano sembra confermare perfettamente le nostre anteriori
analisi. Vi sono, nel corpo umano, le "membra indecorose" non a motivo della
loro natura "somatica" (giacché una descrizione scientifica e fisiologica tratta
tutte le membra e gli organi del corpo umano in modo "neutrale", con la stessa
oggettività), ma soltanto ed esclusivamente perché nell’uomo stesso esiste
quella vergogna che percepisce alcune membra del corpo come
"indecorose" e induce a considerarle tali. La stessa vergogna sembra, in
pari tempo, essere alla base di ciò che scrive l’Apostolo nella prima Lettera ai
Corinzi: "Quelle parti del corpo che riteniamo meno onorevoli, le circondiamo di
maggior rispetto e quelle indecorose sono trattate con maggior decenza" (1Cor
12,23). Così, dunque, si può dire che
dalla vergogna nasce appunto il "rispetto" per il proprio corpo:
rispetto, il cui mantenimento Paolo sollecita nella prima Lettera ai
Tessalonicesi (1Ts 4,4).
Appunto tale mantenimento del corpo "con santità e rispetto" va ritenuto come
essenziale per la virtù della purezza.
6. Ritornando ancora alla
"descrizione" paolina del corpo nella prima Lettera ai Corinzi (1Cor 12,18-25),
vogliamo richiamare l’attenzione sul fatto che, secondo l’Autore della Lettera,
quel particolare sforzo che tende a rispettare il corpo umano e specialmente le
sue membra più "deboli" o "indecorose", corrisponde al disegno originario del
Creatore ovvero a quella visione, di cui parla il Libro della Genesi: "Dio vide
quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona" (Gen
1,31). Paolo scrive: "Dio ha composto il
corpo, conferendo maggior onore a ciò che ne mancava, perché non vi fosse
disunione nel corpo, ma anzi le varie membra avessero cura le une delle altre" (1Cor
12,24-25). La "disunione nel corpo",
il cui risultato è che alcune membra sono ritenute "più deboli", "meno
onorevoli", quindi "indecorose", è una ulteriore espressione della visione
dello stato interiore dell’uomo dopo il peccato originale, cioè dell’uomo
"storico". L’uomo dell’innocenza originaria, maschio e femmina, di cui
leggiamo in Genesi 2, 25 che "erano nudi... ma non ne provavano
vergogna", non provava nemmeno quella "disunione nel corpo". All’oggettiva
armonia, di cui il Creatore ha dotato il corpo e che Paolo precisa come
reciproca cura delle varie membra (1Cor
12,25), corrispondeva un’analoga armonia
nell’intimo dell’uomo: l’armonia del "cuore". Quest’armonia, ossia precisamente
la "purezza di cuore", consentiva all’uomo e alla donna nello stato
dell’innocenza originaria di sperimentare semplicemente (e in un modo che
originariamente li rendeva felici entrambi) la forza unitiva dei loro corpi, che
era, per così dire, l’"insospettabile" substrato della loro unione personale o
"communio personarum".
7. Come si vede,
l’Apostolo nella prima Lettera ai Corinzi (cf. 1Cor 12,18-25)
collega la sua descrizione del corpo umano allo stato dell’uomo "storico". Alla
soglia della storia di quest’uomo sta l’esperienza della vergogna connessa con
la "disunione nel corpo", col senso di pudore per quel corpo (e in specie per
quelle sue membra che somaticamente determinano la mascolinità e la
femminilità). Tuttavia, nella stessa "descrizione", Paolo indica anche la via
che (appunto sulla base del senso di vergogna) conduce alla trasformazione di
tale stato fino alla graduale vittoria su quella "disunione nel corpo",
vittoria che può e deve attuarsi nel cuore dell’uomo. Questa è appunto la via
della purezza, ossia del "mantenere il proprio corpo con santità e rispetto". Al
"rispetto", di cui tratta la prima Lettera ai Tessalonicesi (cf. 1Ts 4,3-5),
Paolo si riallaccia nella prima Lettera ai Corinzi (cf. 1Cor 12,18-25)
usando alcune locuzioni equivalenti, quando parla del "rispetto" ossia della
stima verso le membra "meno onorevoli", "più deboli" del corpo, e quando
raccomanda maggior "decenza" nei riguardi di ciò che nell’uomo è ritenuto
"indecoroso". Queste locuzioni caratterizzano più da vicino quel "rispetto"
soprattutto nell’ambito dei rapporti e comportamenti umani nei confronti del
corpo; il che è importante sia riguardo al "proprio" corpo, sia evidentemente
anche nei rapporti reciproci (specialmente tra l’uomo e la donna, sebbene non
limitatamente ad essi).
Non abbiamo alcun dubbio che la
"descrizione" del corpo umano nella prima Lettera ai Corinzi abbia un
significato fondamentale per l’insieme della dottrina paolina sulla purezza.
Mercoledì, 11 febbraio 1981
La virtù della purezza attua la vita secondo lo spirito
1. Durante i nostri ultimi
incontri del mercoledì abbiamo analizzato due passi tratti dalla prima Lettera
ai Tessalonicesi (1Ts 4,3-5)
e dalla prima Lettera ai Corinzi (1Cor
12,18-25), al fine di mostrare ciò che
sembra essere essenziale nella dottrina di san Paolo sulla purezza, intesa in
senso morale, ossia come virtù. Se nel testo citato della prima Lettera ai
Tessalonicesi si può costatare che la purezza consiste nella temperanza,
tuttavia in questo testo, come pure nella prima Lettera ai Corinzi, è anche
posto in rilievo il momento del "rispetto". Mediante tale rispetto dovuto al
corpo umano (e aggiungiamo che, secondo la prima Lettera ai Corinzi, il rispetto
è appunto visto in relazione alla sua componente di pudore), la purezza, come
virtù cristiana, si rivela nelle Lettere paoline una via efficace per
distaccarsi da ciò che nel cuore umano è frutto della concupiscenza della carne.
L’astensione "dalla impudicizia", che implica il mantenimento del corpo "con
santità e rispetto", permette di dedurre che, secondo la dottrina dell’Apostolo,
la purezza è una "capacità" incentrata sulla dignità del corpo, cioè
sulla dignità della persona in relazione al proprio corpo, alla
femminilità o mascolinità che in questo corpo si manifesta. La purezza, intesa
come "capacità", è appunto espressione e frutto della vita "secondo lo Spirito"
nel pieno significato dell’espressione, cioè come nuova capacità dell’essere
umano, in cui porta frutto il dono dello Spirito Santo. Queste due dimensioni
della purezza – la dimensione morale, ossia la virtù, e la dimensione
carismatica, ossia il dono dello Spirito Santo – sono presenti e
strettamente connesse nel messaggio di Paolo. Ciò viene posto in particolare
rilievo dall’Apostolo nella prima Lettera ai Corinzi, in cui egli chiama il
corpo "tempio (quindi: dimora e santuario) dello Spirito Santo".
2. "O non sapete che il
vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio e non
appartenete a voi stessi?" – chiede Paolo ai Corinzi (1Cor
6,19), dopo averli prima istruiti con molta
severità circa le esigenze morali della purezza. "Fuggite la prostituzione!
Qualsiasi peccato l’uomo commetta è fuori del suo corpo (1Cor
6,8) ma chi si dà all’impudicizia, pecca
contro il proprio corpo". La nota peculiare del peccato che l’Apostolo qui
stigmatizza sta nel fatto che tale peccato, diversamente da tutti gli
altri, è "contro il corpo" (mentre gli altri peccati sono "fuori del
corpo"). Così, dunque, nella terminologia paolina troviamo la motivazione per le
espressioni: "i peccati del corpo" o i "peccati carnali". Peccati che sono in
contrapposizione appunto con quella virtù, in forza della quale l’uomo mantiene
"il proprio corpo con santità e rispetto" (cf. 1Ts 4,3-5).
3. Tali peccati portano
con sé la "profanazione" del corpo: privano il corpo della donna o
dell’uomo del rispetto ad esso dovuto a motivo della dignità della persona.
Tuttavia, l’Apostolo va oltre: secondo lui il peccato contro il corpo è pure
"profanazione del tempio". Della dignità del corpo umano, agli occhi di
Paolo, decide non soltanto lo spirito umano, grazie a cui l’uomo si costituisce
come soggetto personale, ma ancor più la realtà soprannaturale che è la dimora e
la continua presenza dello Spirito Santo nell’uomo – nella sua anima e nel suo
corpo – come frutto della redenzione compiuta da Cristo. Ne consegue che il
"corpo" dell’uomo ormai non è più soltanto "proprio". E non soltanto per il
motivo che è corpo della persona, esso merita quel rispetto, la cui
manifestazione nella condotta reciproca degli uomini, maschi e femmine,
costituisce la virtù della purezza. Quando l’Apostolo scrive: "Il vostro corpo è
tempio dello Spirito che è in voi e che avete da Dio" (1Cor
6,19), intende indicare ancora un’altra
fonte della dignità del corpo, appunto lo Spirito Santo, che è anche fonte
del dovere morale derivante da tale dignità.
4. È la realtà della
redenzione, che è pure "redenzione del corpo", a costituire questa fonte. Per
Paolo, questo mistero della fede è una realtà viva, orientata direttamente ad
ogni uomo. Per mezzo della redenzione, ogni uomo ha ricevuto da Dio quasi
nuovamente se stesso e il proprio corpo. Cristo ha iscritto nel corpo umano –
nel corpo di ogni uomo e di ogni donna – una nuova dignità, dato che in lui
stesso il corpo umano è stato ammesso, insieme all’anima, all’unione con la
Persona del Figlio-Verbo. Con questa nuova dignità, mediante la "redenzione del
corpo" nacque al tempo stesso anche un nuovo obbligo, di cui scrive Paolo in
modo conciso, ma quanto mai toccante: "Siete stati comprati a caro prezzo" (1Cor 6,20).
Il frutto della redenzione è infatti lo Spirito Santo, che abita
nell’uomo e nel suo corpo come in un tempio. In questo Dono, che santifica ogni
uomo, il cristiano riceve nuovamente se stesso in dono da Dio. E questo nuovo,
duplice dono obbliga. L’Apostolo fa riferimento a questa dimensione dell’obbligo
quando scrive ai credenti, consapevoli del Dono, per convincerli che non si deve
commettere l’"impudicizia", non si deve "peccare contro il proprio corpo" (1Cor
6,18). Egli scrive: "Il corpo... non è per
l’impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo" (1Cor
6,13). È difficile esprimere in modo più
conciso Ciò che porta con sé per ogni credente il mistero dell’Incarnazione. Il
fatto che il corpo umano divenga in Gesù Cristo corpo di Dio-Uomo ottiene per
tale motivo, in ciascun uomo, una nuova soprannaturale elevazione, di cui ogni
cristiano deve tener conto nel suo comportamento nei riguardi del "proprio"
corpo e, evidentemente, nei riguardi del corpo altrui: l’uomo verso la donna e
la donna verso l’uomo. La redenzione del corpo comporta l’istituzione in
Cristo e per Cristo di una nuova misura della santità del corpo. Proprio
a questa "santità" fa richiamo Paolo nella prima Lettera ai Tessalonicesi (1Ts
4,3-5), quando scrive di "mantenere il
proprio corpo con santità e rispetto".
5. Nel capitolo 6 della
prima Lettera ai Corinzi, Paolo precisa invece la verità sulla santità del
corpo, stigmatizzando con parole perfino drastiche l’"impudicizia", cioè il
peccato contro la santità del corpo, il peccato dell’impurità: "Non sapete che i
vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne
farò membra di una prostituta? Non sia mai! O non sapete voi che chi si unisce
alla prostituta forma con essa un corpo solo? I due saranno, è detto, un corpo
solo. Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito" (1Cor 6,15-17). Se la
purezza è, secondo l’insegnamento paolino, un aspetto della "vita secondo lo
Spirito", ciò vuol dire che fruttifica in essa il mistero della redenzione
del corpo come parte del mistero di Cristo, iniziato nell’Incarnazione e già
attraverso di essa rivolto ad ogni uomo. Questo mistero fruttifica anche
nella purezza, intesa come un particolare impegno fondato sull’etica. Il
fatto che siamo "stati comprati a caro prezzo" (1Cor
6,20), cioè a prezzo della redenzione di
Cristo, fa scaturire appunto un impegno speciale, ossia il dovere di "mantenere
il proprio corpo con santità e rispetto". La consapevolezza della redenzione del
corpo opera nella volontà umana in favore dell’astensione dalla "impudicizia",
anzi, agisce al fine di far acquisire un’appropriata abilità o capacità, detta
virtù della purezza.
Ciò che risulta dalle parole della
prima Lettera ai Corinzi (1Cor
6,15-17) circa l’insegnamento di Paolo sulla
virtù cristiana della purezza come attuazione della vita "secondo lo Spirito", è
di una particolare profondità e ha la forza del realismo soprannaturale della
fede. È necessario che ritorniamo a riflettere su questo tema più di una volta.
Mercoledì, 18 marzo 1981
Dottrina paolina della purezza come “vita secondo lo
spirito”
Alcune migliaia di giovani provenienti da diverse diocesi
italiane accolgono il Papa nella Basilica di S. Pietro per la prima parte
dell’udienza generale:
Carissimi giovani,
1. Sono molto lieto di
incontrarvi stamane nella Basilica Vaticana, in questa udienza riservata solo
per voi, che con la vostra vivacità e la vostra gioia portate il dono della
speranza e della fiducia.
Perciò con grande affetto tutti vi
saluto: i ragazzi e le fanciulle delle scuole elementari e delle medie, i
giovani e le giovani dei corsi superiori; rivolgo poi il mio saluto ai presidi e
ai direttori, agli insegnanti, ai professori, ai genitori, agli accompagnatori.
Vi esprimo il mio cordiale
ringraziamento per questa vostra visita, ispirata da sentimenti di fede, e
desidero assicurarvi del mio affetto e del mio ricordo nella preghiera.
Siete venuti a Roma da tante parti
d’Italia, e vorrei che questo pellegrinaggio si imprimesse nella vostra memoria,
in modo da esservi di aiuto e di ispirazione per tutta la vostra vita
specialmente nei momenti di difficoltà.
2. Il periodo della
Quaresima, che stiamo trascorrendo per prepararci degnamente alla commemorazione
della Pasqua, mi suggerisce due pensieri che vi lascio come ricordo e come
programma.
Voi sapete che Gesù, prima di
iniziare la vita pubblica, si ritiro in preghiera per quaranta giorni nel
deserto. Ebbene, carissimi giovani, cercate di fare anche voi un po’ di silenzio
nella vostra vita, per poter pensare, riflettere, pregare con maggior fervore e
fare propositi con maggior decisione. È difficile oggi creare delle "zone di
deserto e di silenzio", perché si è continuamente travolti dall’ingranaggio
delle occupazioni, dal frastuono degli avvenimenti, dell’attrattiva dei mezzi di
comunicazione, in modo che viene compromessa la pace interiore e vengono
ostacolati i pensieri supremi che devono qualificare l’esistenza dell’uomo. È
difficile, ma è possibile ed importante saperlo fare.
Santa Teresa di Gesù Bambino
racconta nella sua autobiografia che da bambina ogni tanto si rendeva
irreperibile, nascondendosi per pregare. "Che cosa pensi?" le chiedevano i
familiari; ed essa, con innocente semplicità rispondeva: "Penso al buon Dio,
alla vita, all’Eternità" (cf. cap. IV). Riservate anche voi un po’ di tempo,
specialmente alla sera, per pregare, per meditare, per leggere una pagina del
Vangelo o un episodio della biografia di qualche santo; createvi una zona di
deserto e di silenzio, così necessario per la vita spirituale. E se vi e
possibile, partecipate anche ai ritiri e ai corsi di esercizi spirituali,
organizzati nelle vostre diocesi e parrocchie.
3. Insieme con la validità
del raccoglimento, Gesù inculca anche la necessità dell’impegno per vincere il
male. Dal racconto degli Evangelisti sappiamo che Gesù stesso volle sottostare
alla tentazione. Egli lo fece per sottolinearne la realtà e per insegnare la
strategia del combattimento e della vittoria. Anche voi, nella vostra
fanciullezza e nella vostra giovinezza, avete le vostre tentazioni: essere
cristiani significa accettare la realtà della vita ed ingaggiare la lotta
necessaria contro il male, secondo il metodo insegnato dal Divin Maestro. Vi
esorto ad essere ora e sempre coraggiosi, senza stupirvi delle difficoltà,
confidando sempre in Colui che è vostro Amico e vostro Redentore, e vegliando e
pregando, per mantenere salda la vostra fede, viva la vostra "grazia".
Vi protegga la Vergine Maria e vi
accompagni la mia benedizione.
Mercoledì, 1° aprile 1981
La funzione positiva della purezza di cuore
1. Prima di concludere il ciclo di considerazioni concernenti le
parole pronunziate da Gesù Cristo nel Discorso della Montagna, occorre ricordare
queste parole ancora una volta e riprendere sommariamente il filo delle idee,
del quale esse costituirono la base. Ecco il tenore delle parole di Gesù: "Avete
inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda
una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt
5, 27-28) Sono parole sintetiche, che esigono una approfondita
riflessione, analogamente alle parole, in cui Cristo si richiamò al
"principio". Ai Farisei, i quali – rifacendosi alla legge di Mosè che
ammetteva il cosiddetto atto di ripudio – gli avevano chiesto: "È lecito ad un
uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?", egli rispose: "Non
avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina?... Per
questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due
saranno una carne sola... Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo
separi" (Mt
19, 3-6). Anche queste parole hanno richiesto una riflessione
approfondita, per trarne tutta la ricchezza in esse racchiusa. Una riflessione
di questo genere ci ha consentito di delineare l’autentica teologia del corpo.
2. Seguendo il richiamo fatto da Cristo al "principio", abbiamo
dedicato una serie di riflessioni ai relativi testi del Libro della Genesi, che
trattano appunto di quel "principio". Dalle analisi fatte è emersa non soltanto
una immagine della situazione dell’uomo – maschio e femmina – nello stato di
innocenza originaria, ma anche la base teologica della verità dell’uomo e
sulla sua particolare vocazione che scaturisce dall’eterno mistero della
persona: immagine di Dio, incarnata nel fatto visibile e corporeo della
mascolinità o femminilità della persona umana. Questa verità sta alla base
della risposta data da Cristo in rapporto al carattere del matrimonio, e in
particolare alla sua indissolubilità. È verità sull’uomo, verità che affonda le
radici nello stato di innocenza originaria, verità che bisogna quindi intendere
nel contesto di quella situazione anteriore al peccato, così come abbiamo
cercato di fare nel ciclo precedente delle nostre riflessioni.
3. Contemporaneamente, tuttavia, occorre considerare, intendere
ed interpretare la medesima verità fondamentale sull’uomo il suo esser maschio e
femmina, nel prisma di un’altra situazione: cioè, di quella che si è formata
mediante la rottura della prima alleanza col Creatore, ossia mediante il peccato
originale. Conviene vedere tale verità sull’uomo – maschio e femmina – nel
contesto della sua peccaminosità ereditaria. Ed è proprio qui che
c’incontriamo con l’enunciato di Cristo nel Discorso della Montagna. È ovvio
che nella Sacra Scrittura dell’Antica e della Nuova Alleanza vi sono molte
narrazioni, frasi e parole che confermano la stessa verità, cioè che l’uomo
"storico" porta in sé l’eredità del peccato originale; nondimeno, le parole di
Cristo, pronunziate nel Discorso della Montagna, sembrano avere – con tutta la
loro concisa enunciazione – un’eloquenza particolarmente densa. Lo dimostrano le
analisi fatte in precedenza che hanno svelato gradualmente ciò che si racchiude
in quelle parole. Per chiarire le affermazioni concernenti la concupiscenza,
occorre cogliere il significato biblico della concupiscenza stessa – della
triplice concupiscenza – e principalmente di quella della carne. Allora, poco a
poco, si giunge a capire perché Gesù definisce quella concupiscenza
(precisamente: il "guardare per desiderare") come "adulterio commesso nel
cuore". Compiendo le relative analisi abbiamo cercato, al tempo stesso, di
comprendere quale significato avevano le parole di Cristo per i suoi
immediati ascoltatori, educati nella tradizione dell’Antico Testamento, cioè
nella tradizione dei testi legislativi, come pure profetici e "sapienziali"; e
inoltre, quale significato possono avere le parole di Cristo per l’uomo di ogni
altra epoca, e in particolare per l’uomo contemporaneo, considerando i
suoi vari condizionamenti culturali. Siamo persuasi, infatti, che queste parole,
nel loro contenuto essenziale, si riferiscono all’uomo di ogni luogo e di ogni
tempo. In ciò consiste anche il loro valore sintetico: a ciascuno annunziano la
verità che è per lui valida e sostanziale.
4. Qual è questa verità? Indubbiamente, è una verità di
carattere etico e quindi, in definitiva, una verità di carattere normativo,
così come normativa è la verità contenuta nel comandamento: "Non commettere
adulterio". L’interpretazione di questo comandamento, fatto da Cristo, indica il
male che bisogna evitare e vincere – appunto il male della concupiscenza della
carne – e in pari tempo addita il bene al quale il superamento dei desideri apre
la strada. Questo bene è la "purezza di cuore", di cui parla Cristo nello stesso
contesto del Discorso della Montagna. Dal punto di vista biblico, la "purezza
del cuore" significa la libertà da ogni genere di peccato o di colpa e
non soltanto dai peccati che riguardano la "concupiscenza della carne".
Tuttavia, qui ci occupiamo in modo particolare di uno degli aspetti di quella
"purezza", il quale costituisce il contrario dell’adulterio "commesso nel
cuore". Se quella "purezza di cuore", di cui trattiamo, va intesa secondo
il pensiero di san Paolo come "vita secondo lo Spirito", allora il
contesto paolino ci offre una completa immagine del contenuto racchiuso nelle
parole pronunziate da Cristo nel Discorso della Montagna. Esse contengono una
verità di natura etica, mettono in guardia contro il male ed indicano il bene
morale della condotta umana, anzi, indirizzano gli ascoltatori ad evitare il
male della concupiscenza e ad acquisire la purezza di cuore. Queste parole hanno
quindi un significato normativo ed insieme indicatore. Indirizzando verso il
bene della "purezza di cuore" esse indicano, al tempo stesso, i valori a cui il
cuore umano può e deve aspirare.
5. Di qui la domanda: quale verità, valida per ogni uomo, e
contenuta nelle parole di Cristo? Dobbiamo rispondere che vi è racchiusa non
soltanto una verità etica, ma anche la verità essenziale sull’uomo, la
verità antropologica. Perciò, appunto, risaliamo a queste parole nel
formulare qui la teologia del corpo, in stretto rapporto e, per così dire, nella
prospettiva delle parole precedenti, in cui Cristo si era riferito al
"principio". Si può affermare che, con la loro espressiva eloquenza evangelica,
alla coscienza dell’uomo della concupiscenza viene in un certo senso richiamato
l’uomo della innocenza originaria. Ma le parole di Cristo sono realistiche. Non
cercano di far tornare il cuore umano allo stato di innocenza originaria, che
l’uomo ha ormai lasciato dietro di sé nel momento in cui ha commesso il peccato
originale; invece, esse gli indicano la strada verso una purezza di cuore,
che gli è possibile ed accessibile anche nello stato della peccaminosità
ereditaria. È questa, purezza dell’"uomo della concupiscenza", che tuttavia è
ispirato dalla parola del Vangelo ed aperto alla "vita secondo lo Spirito" (in
conformità alle parole di san Paolo), cioè la purezza dell’uomo della
concupiscenza che è avvolto interamente dalla "redenzione del corpo" compiuta da
Cristo. Proprio per questo nelle parole del Discorso della Montagna troviamo il
richiamo al "cuore", cioè all’uomo interiore. L’uomo interiore deve aprirsi alla
vita secondo lo Spirito, affinché la purezza di cuore evangelica venga da lui
partecipata: affinché egli ritrovi e realizzi il valore del corpo, liberato
mediante la redenzione dai vincoli della concupiscenza.
Il significato normativo delle parole di Cristo è profondamente
radicato nel loro significato antropologico, nella dimensione della interiorità
umana.
6. Secondo la dottrina evangelica, sviluppata in modo così
stupendo nelle Lettere paoline, la purezza non è soltanto l’astenersi dalla
impudicizia (cf. 1Ts 4,3) ossia la temperanza, ma
essa, al tempo stesso, apre anche la strada ad una scoperta sempre più perfetta
della dignità del corpo umano; il che è organicamente connesso con la libertà
del dono della persona nell’autenticità integrale della sua soggettività
personale, maschile o femminile. In tal modo la purezza, nel senso della
temperanza, matura nel cuore dell’uomo che la coltiva e tende a scoprire
e ad affermare il senso sponsale del corpo nella sua verità integrale.
Proprio questa verità deve essere conosciuta interiormente; essa deve, in certo
senso, essere "sentita col cuore", affinché i rapporti reciproci dell’uomo e
della donna – e perfino il semplice sguardo – riacquistino quel contenuto
autenticamente sponsale dei loro significati. Ed è proprio questo contenuto che
nel Vangelo viene indicato dalla "purezza di cuore".
7. Se nell’esperienza interiore dell’uomo (cioè dell’uomo della
concupiscenza) la "temperanza" si delinea, per così dire, come funzione
negativa, l’analisi delle parole di Cristo pronunziate nel Discorso della
Montagna e collegate con i testi di san Paolo ci consente di spostare tale
significato verso la funzione positiva della purezza di cuore. Nella
purezza matura l’uomo gode dei frutti della vittoria riportata sulla
concupiscenza, vittoria di cui scrive san Paolo, esortando a "mantenere il
proprio corpo con santità e rispetto" (1
Ts 4,4). Anzi, proprio in una purezza così matura si manifesta in
parte l’efficacia del dono dello Spirito Santo, di cui il corpo umano "è tempio"
(cf.
1 Cor 6,19). Questo dono è soprattutto quello della pietà ("donum
pietatis"), che restituisce all’esperienza del corpo – specialmente quando
si tratta della sfera dei reciproci rapporti dell’uomo e della donna – tutta
la sua semplicità, la sua limpidezza e anche la sua gioia interiore.
Questo è, come si vede, un clima spirituale, assai diverso dalla "passione e
libidine", di cui scrive Paolo, e che d’altronde conosciamo dalle precedenti
analisi; basti ricordare il Siracide (Sir
26, 13.15-18). Una cosa è, infatti,
l’appagamento delle passioni, altra la gioia che l’uomo trova nel possedere più
pienamente se stesso, potendo in questo modo diventare anche più pienamente un
vero dono per un’altra persona.
Le parole pronunziate da Cristo nel Discorso della Montagna
dirigono il cuore umano appunto verso una tale gioia. Ad esse occorre affidare
se stessi, i propri pensieri e le proprie azioni, per trovare la gioia e per
donarla agli altri.
Mercoledì, 8 aprile 1981
Pedagogia del corpo, ordine morale, manifestazioni
affettive
1. Ci conviene ormai
concludere le riflessioni e le analisi basate sulle parole pronunziate da Cristo
nel Discorso della Montagna, con le quali Egli si richiamò al cuore umano,
esortandolo alla purezza: "Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio;
ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso
adulterio con lei nel suo cuore" (Mt
5,27-28). Abbiamo detto a più riprese che
queste parole, pronunziate una volta ai delimitati ascoltatori di quel Discorso,
si riferiscono all’uomo di tutti i tempi e luoghi, e fanno appello al cuore
umano, in cui si iscrive la più interiore e, in certo senso, la più
essenziale trama della storia. È la storia del bene e del male (il cui
inizio è collegato, nel Libro della Genesi, col misterioso albero della
conoscenza del bene e del male) e, ad un tempo, è la storia della salvezza, la
cui parola è il Vangelo, e la cui forza è lo Spirito Santo, dato a coloro che
accolgono il Vangelo con cuore sincero.
2. Se l’appello di Cristo
al "cuore" umano e, ancor prima, il suo richiamo al "principio" ci consente di
costruire o almeno di delineare un’antropologia, che possiamo chiamare "teologia
del corpo", una tale teologia è, nello stesso tempo, pedagogia. La
pedagogia tende ad educare l’uomo, ponendo davanti a lui le esigenze,
motivandole, ed indicando le vie che conducono alla loro realizzazione. Gli
enunciati di Cristo hanno anche questo fine; sono enunciati "pedagogici". Essi
contengono una pedagogia del corpo, espressa in modo conciso e, in pari tempo,
quanto mai completo. Sia la risposta data ai Farisei in merito
all’indissolubilità del matrimonio, sia le parole del Discorso della Montagna
riguardanti il dominio della concupiscenza, dimostrano – almeno indirettamente –
che il Creatore ha assegnato come compito all’uomo il corpo, la sua
mascolinità e femminilità; e che nella mascolinità e femminilità gli ha
assegnato in certo senso come compito la sua umanità, la dignità della persona,
e anche il segno trasparente della "comunione" interpersonale, in cui l’uomo
realizza se stesso attraverso l’autentico dono di sé. Ponendo davanti all’uomo
le esigenze conformi ai compiti affidatigli, il Creatore indica nello stesso
tempo all’uomo, maschio e femmina, le vie che portano ad assumerli e ad
eseguirli.
3. Analizzando questi
testi-chiave della Bibbia, fino alla radice stessa dei significati che
racchiudono, scopriamo appunto quell’antropologia che può essere denominata
"teologia del corpo". Ed è questa teologia del corpo che fonda poi il più
appropriato metodo della pedagogia del corpo, cioè dell’educazione (anzi
dell’autoeducazione) dell’uomo. Ciò acquista una particolare attualità per
l’uomo contemporaneo, la cui scienza nel campo della biofisiologia e della
biomedicina è molto progredita. Tuttavia questa scienza tratta l’uomo sotto un
determinato "aspetto" e quindi è piuttosto parziale, anziché globale. Conosciamo
bene le funzioni del corpo come organismo, le funzioni collegate alla
mascolinità e alla femminilità della persona umana. Ma tale scienza, di per
sé, non sviluppa ancora la coscienza del corpo come segno della persona,
come manifestazione dello spirito. Tutto lo sviluppo della scienza
contemporanea, riguardante il corpo come organismo, ha piuttosto il carattere
della conoscenza biologica, perché è basato sulla disgiunzione, nell’uomo, di
ciò che in lui è corporeo da ciò che è spirituale. Servendosi di una conoscenza
così unilaterale delle funzioni del corpo come organismo, non è difficile
giungere a trattare il corpo, in modo più o meno sistematico, come oggetto di
manipolazioni; in tal caso l’uomo cessa, per così dire, di identificarsi
soggettivamente col proprio corpo, perché privato del significato e della
dignità derivanti dal fatto che questo corpo è proprio della persona. Ci
troviamo qui al limite di problemi, che spesso esigono soluzioni fondamentali,
le quali sono impossibili senza una visione integrale dell’uomo.
4. Proprio qui appare
chiaro che la teologia del corpo, quale ricaviamo da quei testi-chiave delle
parole di Cristo, diventa il metodo fondamentale della pedagogia, ossia
dell’educazione dell’uomo dal punto di vista del corpo, nella piena
considerazione della sua mascolinità e femminilità. Quella pedagogia può
essere intesa sotto l’aspetto di una specifica "spiritualità del corpo";
il corpo, infatti, nella sua mascolinità o femminilità è dato come compito allo
spirito umano (ciò che in modo stupendo è stato espresso da San Paolo nel
linguaggio che gli è proprio) e per mezzo di una adeguata maturità dello spirito
diventa anch’esso segno della persona, di cui la persona è conscia, ed autentica
"materia" nella comunione delle persone. In altri termini: l’uomo, attraverso la
sua maturità spirituale, scopre il significato sponsale proprio del corpo.
Le parole di Cristo nel Discorso
della Montagna indicano che la concupiscenza di per sé non svela all’uomo quel
significato, anzi, al contrario, lo offusca ed oscura. La conoscenza puramente
"biologica" delle funzioni del corpo come organismo, connesse con la mascolinità
e femminilità della persona umana, è capace di aiutare a scoprire l’autentico
significato sponsale del corpo, soltanto se va di pari passo con un’adeguata
maturità spirituale della persona umana. Senza di ciò, tale conoscenza può
avere effetti addirittura opposti; e ciò viene confermato da molteplici
esperienze del nostro tempo.
5. Da questo punto di
vista bisogna considerare con perspicacia le enunciazioni della Chiesa
contemporanea. Una loro adeguata comprensione ed interpretazione, come pure la
loro applicazione pratica (cioè, appunto, la pedagogia) richiede quella
approfondita teologia del corpo che, in definitiva, rileviamo soprattutto dalle
parole-chiave di Cristo. Quanto alle enunciazioni contemporanee della Chiesa,
bisogna prendere conoscenza del capitolo intitolato "Dignità del matrimonio e
della famiglia e sua valorizzazione", della Costituzione pastorale del Concilio
Vaticano Secondo (Gaudium
et Spes, pars. II, cap. I) e, successivamente, dell’Enciclica
Humanae Vitae di Paolo VI. Senza alcun dubbio, le parole di Cristo,
all’analisi delle quali abbiamo dedicato molto spazio, non avevano altro fine
che la valorizzazione della dignità del matrimonio e della famiglia;
donde la fondamentale convergenza tra esse e il contenuto di entrambe le
enunciazioni menzionate della Chiesa contemporanea. Cristo parlava all’uomo di
tutti i tempi e luoghi; le enunciazioni della Chiesa tendono ad attualizzare le
parole di Cristo, e perciò debbono essere rilette secondo la chiave di quella
teologia e di quella pedagogia, che nelle parole di Cristo trovano radice e
sostegno.
È difficile compiere qui un’analisi
globale delle citate enunciazioni del magistero supremo della Chiesa. Ci
limiteremo a riportarne alcuni passi. Ecco in qual modo il Vaticano Secondo –
ponendo tra i più urgenti problemi della Chiesa nel mondo contemporaneo "la
valorizzazione della dignità del matrimonio e della famiglia" – caratterizza
la situazione esistente in questo ambito: "Non dappertutto la dignità di
questa istituzione (cioè del matrimonio e della famiglia) brilla con identica
chiarezza poiché è oscurata dalla poligamia, dalla piaga del divorzio, dal
cosiddetto libero amore e da altre deformazioni. Per di più l’amore coniugale è
molto spesso profanato dall’egoismo, dall’edonismo e da usi illeciti contro la
generazione" (Ivi, 47). Paolo VI, esponendo nella enciclica
Humanae Vitae quest’ultimo problema, scrive tra l’altro: "Si può anche
temere che l’uomo, abituandosi all’uso delle pratiche anticoncezionali, finisca
per perdere il rispetto della donna e... arrivi a considerarla come semplice
strumento di godimento egoistico e non più come la sua compagna, rispettata e
amata" (Paolo VI,
Humanae Vitae, 17).
Non ci troviamo forse qui
nell’orbita della stessa premura, che una volta aveva dettato le parole
di Cristo sull’unità e l’indissolubilità del matrimonio, come anche quelle
del Discorso della Montagna, relative alla purezza di cuore e al dominio della
concupiscenza della carne, parole sviluppate più tardi con tanta perspicacia
dall’apostolo Paolo?
6. Nello stesso spirito
l’Autore dell’enciclica
Humanae Vitae, parlando delle esigenze proprie della morale cristiana,
presenta, al tempo stesso, la possibilità di adempierle, quando scrive:
"Il dominio dell’istinto, mediante la ragione e la libera volontà, impone
indubbiamente una ascesi – Paolo VI usa questo termine – affinché le
manifestazioni affettive della vita coniugale siano secondo il retto ordine e in
particolare per l’osservanza della continenza periodica. Ma questa disciplina,
propria della purezza degli sposi, ben lungi dal nuocere all’amore coniugale,
gli conferisce invece un più alto valore umano. Esige un continuo sforzo
(appunto tale sforzo è stato sopra chiamato "ascesi"), ma grazie al suo benefico
influsso i coniugi sviluppano integralmente la loro personalità
arricchendosi di valori spirituali. Essa... favorisce l’attenzione verso l’altro
coniuge, aiuta gli sposi a bandire l’egoismo, nemico del vero amore, ed
approfondisce il loro senso di responsabilità..." (Paolo VI,
Humanae Vitae, 21).
7. Fermiamoci su questi
pochi brani. Essi – particolarmente l’ultimo – dimostrano in modo chiaro quanto
indispensabile sia, per un’adeguata comprensione dell’enunciato del magistero
della Chiesa contemporanea, quella teologia del corpo, le cui basi abbiamo
cercato soprattutto nelle parole di Cristo stesso. È proprio essa – come già
abbiamo detto – che diventa il metodo fondamentale di tutta la pedagogia
cristiana del corpo. Facendo riferimento alle parole citate, si può affermare
che il fine della pedagogia del corpo sta proprio nel far sì che "le
manifestazioni affettive" – soprattutto quelle "proprie della vita
coniugale" – siano conformi all’ordine morale, ossia, in definitiva, alla
dignità delle persone. In queste parole ritorna il problema del reciproco
rapporto tra l’"eros" e l’"ethos" di cui già abbiamo trattato. La teologia,
intesa come metodo della pedagogia del corpo, ci prepara anche alle ulteriori
riflessioni sulla sacramentalità della vita umana e, in particolare, della vita
matrimoniale.
Il Vangelo della purezza di cuore,
ieri ed oggi: concludendo con questa frase il presente ciclo delle nostre
considerazioni – prima di passare al ciclo successivo, in cui la base delle
analisi saranno le parole di Cristo sulla risurrezione del corpo – desideriamo
ancora dedicare un po’ di attenzione alla "necessità di creare un clima
favorevole all’educazione della castità", di cui tratta l’Enciclica di Paolo VI,
e vogliamo incentrare queste osservazioni sul problema dell’ethos del corpo
nelle opere della cultura artistica, con particolare riferimento alle situazioni
che incontriamo nella vita contemporanea.
Mercoledì, 15 aprile 1981
Il corpo umano “tema” dell’opera d’arte
L’udienza odierna cade nel corso della Settimana Santa, la settimana "grande"
dell’anno liturgico, perché ci fa rivivere da vicino il mistero pasquale, in cui
"la rivelazione dell’amore misericordioso di Dio raggiunge il suo culmine" (cf.
Giovanni Paolo II,
Dives in Misericordia, 8).
Mentre invito ciascuno a partecipare con fervore alle
celebrazioni liturgiche di questi giorni, formo l’auspicio che tutti riconoscano
con esultanza e gratitudine il dono irripetibile di essere stati salvati dalla
passione e dalla morte di Cristo. Tutta la storia dell’umanità è illuminata e
guidata da questo evento incomparabile: Dio, infinita bontà, l’ha effusa con
indicibile amore per mezzo del supremo sacrificio di Cristo. Mentre, pertanto,
ci prepariamo ad elevare a Cristo, vincitore della morte, il nostro inno di
gloria, dobbiamo eliminare dalle nostre anime tutto ciò che possa contrastare
con l’incontro con Lui. Per vederlo attraverso la fede è necessario, infatti,
essere purificati dal sacramento del perdono e sostenuti dall’impegno
perseverante di un profondo rinnovamento dello spirito e di quella interiore
conversione che è avvio in se stessi della "nuova creazione" (2Cor
5,17), di cui il Cristo risorto è la primizia e il pegno sicuro.
Allora la Pasqua rappresenterà per ciascuno di noi un incontro
con Cristo.
È quanto auguro di cuore a tutti.
1. Nelle nostre precedenti riflessioni –
sia nell’ambito delle parole di Cristo, in cui Egli fa riferimento al
"principio", sia nell’ambito del Discorso della Montagna, cioè quando Egli si
richiama al "cuore" umano – abbiamo cercato, in modo sistematico, di far vedere
come la dimensione della soggettività personale dell’uomo sia elemento
indispensabile presente nell’ermeneutica teologica, che dobbiamo scoprire e
presupporre alle basi del problema del corpo umano. Quindi non soltanto la
realtà oggettiva del corpo, ma ancor molto di più, come sembra, la coscienza
soggettiva e anche l’"esperienza" soggettiva del corpo entrano, ad ogni passo,
nella struttura dei testi biblici, e perciò richiedono di essere presi in
considerazione e di trovare il loro riflesso nella teologia. Di conseguenza
l’ermeneutica teologica deve tener sempre conto di tali due aspetti. Non
possiamo considerare il corpo come una realtà oggettiva al di fuori della
soggettività personale dell’uomo, degli esseri umani: maschi e femmine. Quasi
tutti i problemi dell’"ethos del corpo" sono legati contemporaneamente
alla sua identificazione ontologica quale corpo della persona, e al
contenuto e qualità dell’esperienza soggettiva, cioè al tempo stesso del
"vivere" sia del proprio corpo sia nelle relazioni interumane, e
in particolare in questa perenne relazione "uomo-donna". Anche le parole della
prima Lettera ai Tessalonicesi, in cui l’Autore esorta a "mantenere il proprio
corpo con santità e rispetto" (cioè tutto il problema della "purezza di cuore")
indicano, senza alcun dubbio, queste due dimensioni.
2. Sono dimensioni che riguardano
direttamente gli uomini concreti, vivi, i loro atteggiamenti e comportamenti.
Le opere della cultura, specialmente dell’arte, fanno sì che quelle
dimensioni di "essere corpo" e di "sperimentare il corpo", si estendano, in
certo senso, al di fuori di questi uomini vivi. L’uomo si incontra con la
"realtà del corpo" e "sperimenta il corpo" anche quando esso diventa un tema
dell’attività creativa, un’opera d’arte, un contenuto della cultura.
Sebbene, in linea di massima, bisogna riconoscere che questo contatto avviene
sul piano dell’esperienza estetica, in cui si tratta di prendere visione
dell’opera d’arte (in greco aisthánomai: guardo, osservo) – e quindi che,
nel determinato caso, si tratta del corpo oggettivizzato, al di fuori della sua
identità ontologica, in modo diverso e secondo i criteri propri dell’attività
artistica – tuttavia l’uomo che viene ammesso a prendere questa visione è a
priori troppo profondamente legato al significato del prototipo, ovvero modello,
che in questo caso è lui stesso: – l’uomo vivo e il vivo corpo umano – perché
egli possa distaccare e separare completamente quell’atto, sostanzialmente
estetico, dell’opera in sé e della sua contemplazione da quei dinamismi o
reazioni di comportamento e dalle valutazioni, che dirigono quella prima
esperienza e quel primo modo di vivere. Questo guardare, per la sua natura,
"estetico" non può, nella coscienza soggettiva dell’uomo, essere
totalmente isolato da quel "guardare" di cui parla Cristo nel Discorso
della Montagna: mettendo in guardia contro la concupiscenza.
3. Così, dunque, l’intera sfera delle
esperienze estetiche si trova, ad un tempo, nell’ambito dell’ethos del corpo.
Giustamente quindi bisogna pensare anche qui alla necessità di creare un clima
favorevole alla purezza: questo clima può infatti essere minacciato non soltanto
nel modo stesso in cui si svolgono i rapporti e la convivenza degli uomini vivi,
ma anche nell’ambito delle oggettivazioni proprie delle opere di cultura,
nell’ambito delle comunicazioni sociali: quando si tratta della parola viva o
scritta; nell’ambito dell’immagine, cioè della rappresentazione e della visione,
sia nel significato tradizionale di questo termine sia in quello contemporaneo.
In questo modo raggiungiamo i diversi campi e prodotti della cultura artistica,
plastica, di spettacolo, anche quella che si basa sulle tecniche audiovisive
contemporanee. In quest’area, vasta e assai differenziata, occorre che ci
poniamo una domanda alla luce dell’ethos del corpo, delineato nelle analisi
finora condotte, sul corpo umano quale oggetto di cultura.
4. Prima di tutto va costatato che il
corpo umano è perenne oggetto di cultura, nel più ampio significato del
termine, per la semplice ragione che l’uomo stesso è soggetto di cultura, e
nella sua attività culturale e creativa egli impegna la sua umanità includendo
perciò in questa attività anche il suo corpo. Nelle presenti riflessioni
dobbiamo però restringere il concetto di "oggetto di cultura", limitandoci al
concetto inteso quale "tema" delle opere di cultura e in particolare delle opere
d’arte. Si tratta insomma della tematizzazione, ossia della "oggettivazione" del
corpo in tali opere. Tuttavia occorre qui far subito alcune distinzioni, sia
pure a modo di esempio. Una cosa è il corpo vivo umano: dell’uomo e della donna,
che di per sé crea l’oggetto d’arte e l’opera d’arte (come ad es. nel teatro,
nel balletto e, fino a un certo punto, anche nel corso di un concerto), e altra
cosa è il corpo come modello dell’opera d’arte, come nelle arti
plastiche, scultura o pittura. È possibile porre sullo stesso rango anche il
film o l’arte fotografica in senso ampio? Sembra di sì, sebbene dal punto di
vista del corpo quale oggetto-tema si verifichi in questo caso una differenza
abbastanza essenziale. Nella pittura o scultura l’uomo-corpo resta sempre un
modello, sottoposto alla specifica elaborazione da parte dell’artista. Nel film,
e ancor più nell’arte fotografica, non il modello viene trasfigurato, ma viene
riprodotto l’uomo vivo: e in tal caso l’uomo, il corpo umano, non è modello per
l’opera d’arte, ma oggetto di una riproduzione ottenuta mediante tecniche
appropriate.
5. Bisogna segnalare già fin d’adesso, che
la suddetta distinzione è importante dal punto di vista dell’ethos del corpo,
nelle opere di cultura. E va anche subito aggiunto che la riproduzione
artistica, quando diviene contenuto della rappresentazione e della trasmissione
(televisiva o cinematografica), perde, in un certo senso, il suo contatto
fondamentale coll’uomo-corpo, di cui è riproduzione, e molto spesso diventa un
oggetto "anonimo", così come è, ad es., un anonimo atto fotografico pubblicato
sulle riviste illustrate, oppure un’immagine diffusa sugli schermi di tutto il
mondo. Un tale anonimato è l’effetto della "propagazione" dell’immagine-riproduzione
del corpo umano, oggettivizzato prima con l’aiuto delle tecniche di
riproduzione, che – come è stato sopra ricordato – sembra differenziarsi
essenzialmente dalla trasfigurazione del modello tipico dell’opera d’arte,
soprattutto nelle arti plastiche. Orbene, tale anonimato (che d’altronde è un
modo di "velare" o "nascondere" l’identità della persona riprodotta),
costituisce anche un problema specifico dal punto di vista dell’ethos del corpo
umano nelle opere di cultura e particolarmente nelle opere contemporanee della
cosiddetta cultura di massa.
Limitiamoci oggi a queste considerazioni preliminari, che hanno
un significato fondamentale per l’ethos del corpo umano nelle opere della
cultura artistica. In seguito queste considerazioni ci renderanno consapevoli di
quanto esse siano strettamente legate alle parole, che Cristo ha
pronunciato nel Discorso della Montagna, paragonando il "guardare per
desiderare" con l’"adulterio commesso nel cuore". L’estensione di queste parole
all’ambito della cultura artistica è di particolare importanza, per quanto si
tratta di "creare un clima favorevole alla castità" di cui parla Paolo VI
nella sua enciclica
Humanae Vitae. Cerchiamo di comprendere questo argomento in modo molto
approfondito ed essenziale.
Mercoledì, 22 aprile 1981
L’opera d’arte deve sempre osservare la regolarità del
dono e del reciproco donarsi
Cari fratelli e sorelle,
Il gaudio pasquale è sempre vivo e
presente in noi durante questa solenne Ottava, e la liturgia ci fa ripetere con
fervore: "Il Signore è risorto, come aveva predetto; rallegriamoci tutti ed
esultiamo, perché Egli regna in eterno, alleluia".
Disponiamo, dunque, i nostri cuori
alla grazia e alla gioia; innalziamo il nostro sacrificio di lode alla vittima
pasquale, perché l’Agnello ha redento il suo gregge e l’Innocente ha
riconciliato noi peccatori col Padre.
Cristo, nostra Pasqua, è risorto e
noi siamo risorti con Lui, per cui dobbiamo cercare le cose del Cielo, dove
Cristo siede alla destra di Dio, e dobbiamo altresì gustare le cose di lassù,
secondo l’invito dell’Apostolo Paolo (cf. Col 3,1-2).
Mentre Dio ci fa passare, in
Cristo, dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce, preparandoci ai beni
celesti, noi dobbiamo tendere a traguardi di opere luminose, nella giustizia e
nella verità. È un cammino lungo questo che abbiamo da percorrere, ma Dio
fortifica e sostiene la nostra incrollabile speranza di vittoria: la meditazione
del mistero pasquale ci accompagni in modo particolare in questi giorni.
1. Riflettiamo ora – in
relazione alle parole di Cristo pronunziate nel Discorso della Montagna – sul
problema dell’ethos del corpo umano nelle opere della cultura artistica. Questo
problema ha radici molto profonde. Conviene qui ricordare la serie di analisi
eseguite in relazione al richiamo di Cristo al "principio", e successivamente al
richiamo da Lui fatto al "cuore" umano, nel Discorso della Montagna. Il corpo
umano – il nudo corpo umano in tutta la verità della sua mascolinità e
femminilità – ha un significato di dono della persona alla persona. L’ethos
del corpo, cioè la regolarità etica della sua nudità, a motivo
della dignità del soggetto personale, è strettamente connesso a quel sistema di
riferimento, inteso quale sistema sponsale, in cui il donare dell’una
parte si incontra con l’appropriata ed adeguata risposta dell’altra al dono.
Tale risposta decide della reciprocità del dono. L’oggettivazione artistica del
corpo umano nella sua nudità maschile e femminile, al fine di fare di esso prima
un modello e, poi, tema dell’opera d’arte, è sempre un certo trasferimento al di
fuori di questa originaria e ad esso specifica configurazione della donazione
interpersonale. Ciò costituisce, in certo senso, uno sradicamento del corpo
umano da questa configurazione ed un suo trasferimento nella dimensione
dell’oggettivazione artistica: dimensione specifica all’opera d’arte oppure alla
riproduzione tipica delle tecniche cinematografiche e fotografiche del nostro
tempo.
In ciascuna di queste dimensioni –
e in ciascuna in modo diverso – il corpo umano perde quel significato
profondamente soggettivo del dono, e diventa oggetto destinato ad una molteplice
cognizione, mediante la quale quelli che guardano, assimilano o addirittura, in
certo senso, s’impadroniscono di ciò che evidentemente esiste, anzi deve
esistere essenzialmente a livello di dono, fatto dalla persona alla persona, non
più già nell’immagine bensì nell’uomo vivo. A dire il vero, quell’"impadronirsi"
avviene già ad un altro livello, cioè al livello dell’oggetto della
trasfigurazione o riproduzione artistica; tuttavia è impossibile non
accorgersi che dal punto di vista dell’ethos del corpo, profondamente
inteso, sorge qui un problema. Problema molto delicato, che ha i suoi
livelli d’intensità a seconda dei vari motivi e circostanze sia da parte
dell’attività artistica, sia da parte della conoscenza dell’opera d’arte o della
sua riproduzione. Dal fatto che si ponga questo problema non risulta affatto che
il corpo umano, nella sua nudità, non possa diventare tema dell’opera d’arte, ma
soltanto che questo problema non è puramente estetico, né moralmente
indifferente.
2. Nelle nostre precedenti
analisi (soprattutto in rapporto al richiamarsi di Cristo al "principio"),
abbiamo dedicato molto spazio al significato della vergogna, cercando di
comprendere la differenza tra la situazione – e lo stato – dell’innocenza
originaria, in cui "tutti e due erano nudi... ma non ne provavano vergogna" (Gen 2,25) e,
successivamente, tra la situazione – e lo stato – della peccaminosità, in cui
tra l’uomo e la donna nacque, insieme alla vergogna, la specifica
necessità dell’intimità verso il proprio corpo. Nel cuore dell’uomo soggetto
alla concupiscenza questa necessità serve, anche indirettamente, ad assicurare
il dono e la possibilità del reciproco donarsi. Tale necessità forma anche il
modo di agire dell’uomo come "oggetto della cultura", nel più ampio significato
del termine. Se la cultura dimostra una esplicita tendenza a coprire la nudità
del corpo umano, certo lo fa non soltanto per motivi climatici, ma anche in
relazione al processo di crescita della sensibilità personale dell’uomo.
L’anonima nudità dell’uomo-oggetto contrasta col progresso della cultura
autenticamente umana dei costumi. Probabilmente è possibile confermare ciò anche
nella vita delle popolazioni cosiddette primitive. Il processo di affinare la
personale sensibilità umana è certamente fattore e frutto della cultura.
Dietro il bisogno della vergogna,
cioè dell’intimità del proprio corpo (sul quale informano con tanta precisione
le fonti bibliche in Genesi, 3), si nasconde una norma più profonda:
quella del dono orientata verso le profondità stesse del soggetto personale o
verso l’altra persona, specialmente nella relazione uomo-donna secondo la
perenne regolarità del reciproco donarsi. In tal modo, nei processi della
cultura umana, intesa in senso ampio, costatiamo – anche nello stato della
peccaminosità ereditaria dell’uomo – una continuità abbastanza esplicita
del significato sponsale del corpo nella sua mascolinità e femminilità.
Quella vergogna originaria, nota già dai primi capitoli della Bibbia, è un
elemento permanente della cultura e dei costumi. Esso appartiene alla genesi
dell’ethos del corpo umano.
3. L’uomo di sensibilità
sviluppata supera, con difficoltà ed interiore resistenza, il limite di quella
vergogna. Il che si pone in evidenza perfino nelle situazioni, che d’altronde
giustificano la necessità di spogliare il corpo, come ad es. nel caso degli
esami o degli interventi medici.
Singolarmente occorre anche
ricordare altre circostanze, come ad es. quelle dei campi di concentramento o
dei luoghi di sterminio, dove la violazione del pudore corporeo è un metodo
consapevolmente usato per distruggere la sensibilità personale e il senso della
dignità umana. Ovunque – sebbene in modi diversi – si riconferma la stessa linea
di regolarità. Seguendo la sensibilità personale, l’uomo non vuole diventare
oggetto per gli altri attraverso la propria nudità anonima, né vuole che
l’altro diventi per lui oggetto in modo simile. Evidentemente in tanto "non
vuole" in quanto si lascia guidare dal senso della dignità del corpo umano.
Vari, infatti, sono i motivi che possono indurre, incitare, perfino premere
l’uomo ad agire contrariamente a ciò che esige la dignità del corpo umano,
connessa con la sensibilità personale. Non si può dimenticare che la
fondamentale "situazione" interiore dell’uomo "storico" è lo stato della
triplice concupiscenza (cf. 1Gv
2,16). Questo stato – è, in particolare, la
concupiscenza della carne – si fa sentire in diversi modi, sia negli impulsi
interiori del cuore umano sia in tutto il clima dei rapporti interumani e nei
costumi sociali.
4. Non possiamo
dimenticare ciò, nemmeno quando si tratta dell’ampia sfera della cultura
artistica, soprattutto quella di carattere visivo e spettacolare, come pure
quando si tratta della cultura di "massa", così significativa per i
nostri tempi e collegata con l’uso delle tecniche divulgative della
comunicazione audiovisiva. Si pone un interrogativo: quando e in quale caso
questa sfera di attività dell’uomo – dal punto di vista dell’ethos del
corpo – venga messa sotto accusa di "pornovisione", così come l’attività
letteraria, che veniva e viene spesso accusata di "pornografia" (questo
secondo termine è più antico). L’uno e l’altro si verifica quando viene
oltrepassato il limite della vergogna, ossia della sensibilità personale
rispetto a ciò che si collega con il corpo umano, con la sua nudità, quando
nell’opera artistica o mediante le tecniche della riproduzione audiovisiva
viene violato il diritto all’intimità del corpo nella sua mascolinità o
femminilità – e in ultima analisi – quando viene violata quella profonda
regolarità del dono e del reciproco donarsi, che è iscritta in questa
femminilità e mascolinità attraverso l’intera struttura dell’essere uomo. Questa
profonda iscrizione – anzi incisione – decide del significato sponsale del corpo
umano, cioè della fondamentale chiamata che esso riceve a formare la "comunione
delle persone" e a parteciparvi.
Interrompendo a questo punto la
nostra considerazione, che intendiamo continuare mercoledì prossimo, conviene
costatare che l’osservanza o la non osservanza di queste regolarità, così
profondamente connesse con la sensibilità personale dell’uomo, non può essere
indifferente per il problema di "creare un clima favorevole alla castità" nella
vita e nell’educazione sociale.
Mercoledì, 29 aprile 1981
I limiti etici nelle opere d’arte e nella produzione
audiovisiva
Cari fratelli e sorelle,
L’udienza di oggi ricorre nella
festa di Santa Caterina da Siena, patrona d’Italia insieme a San Francesco
d’Assisi. Il ricordo dell’umile e sapiente vergine domenicana riempie l’animo di
tutti noi di spirituale esultanza e ci fa trasalire di gioia nello Spirito
Santo, perché il Signore del cielo e della terra ha rivelato i suoi segreti ai
semplici (cf. Lc 10,21).
Il messaggio di Caterina, animato da fede purissima, da amore fervente e da
dedizione insonne alla Chiesa, investe ciascuno di noi e ci trascina soavemente
ad una imitazione generosa. Sono pertanto lieto di rivolgere una particolare
saluto agli italiani presenti a questo incontro e a tutto il caro popolo
italiano.
Ascoltate, cari fedeli, queste
parole di Santa Caterina: "Nel lume della fede acquisto la sapienza; nella luce
della fede spero; non mi lascio venir meno nel cammino. Questo lume mi insegna
la via" (S. Caterina da Siena, Dialogo, c. CLXVII).
Per sua intercessione imploriamo
una fede sempre più profonda ed ardente, affinché Cristo sia la luce del nostro
cammino, di quello delle nostre famiglie e della nostra società intera,
assicurando così alla diletta Italia la vera pace, fondata sulla giustizia e
soprattutto sul rispetto della legge divina, che costituì l’anelito vivissimo
della grande Santa senese.
1. Abbiamo già dedicato
una serie di riflessioni al significato delle parole pronunziate da Cristo nel
Discorso della Montagna, in cui Egli esorta alla purezza di cuore, richiamando
l’attenzione perfino sullo "sguardo concupiscente". Non possiamo dimenticare
queste parole di Cristo anche quando si tratta della vasta sfera della cultura
artistica, soprattutto quella di carattere visivo e spettacolare, come pure
quando si tratta della sfera della cultura "di massa" – così
significativa per i nostri tempi – collegata con l’uso delle tecniche
divulgative della comunicazione audiovisiva. Abbiamo detto ultimamente che la
sunnominata sfera dell’attività dell’uomo viene talvolta messa sotto accusa di "pornovisione",
così come nei confronti della letteratura viene avanzata l’accusa di
"pornografia". L’uno e l’altro fatto ha luogo quando si oltrepassa il limite
della vergogna, ossia della sensibilità personale rispetto a ciò che si collega
con il corpo umano, con la sua nudità, quando nell’opera artistica mediante le
tecniche di produzione audiovisiva viene violato il diritto all’intimità del
corpo nella sua mascolinità o femminilità, e – in ultima analisi – quando
viene violata quella intima e costante destinazione al dono e del
reciproco donarsi, che è iscritta in quella femminilità e mascolinità
attraverso l’intera struttura dell’essere-uomo. Quella profonda iscrizione,
anzi, incisione, decide del significato sponsale del corpo, cioè della
fondamentale chiamata che esso riceve a formare una "comunione di persone" e a
parteciparvi.
2. È ovvio che nelle opere
d’arte, oppure nei prodotti della riproduzione artistica audiovisiva, la
suddetta costante destinazione al dopo, cioè quella profonda iscrizione del
significato del corpo umano, possa essere violata soltanto nell’ordine
intenzionale della riproduzione e della rappresentazione; si tratta infatti –
come già in precedenza è stato detto – del corpo umano quale modello o tema.
Tuttavia, se il senso della vergogna e la sensibilità personale vengono in tali
casi offesi, ciò avviene a causa del loro trasferimento nella dimensione
della "comunicazione sociale", quindi a causa del fatto che si rende, per
così dire, pubblica proprietà ciò che, nel giusto sentire dell’uomo,
appartiene e deve appartenere strettamente al rapporto interpersonale, ciò che
è legato – come già prima è stato rilevato – alla "comunione
stessa delle persone", e nel suo ambito corrisponde alla verità interiore
dell’uomo, dunque anche alla verità integrale sull’uomo.
In questo punto non è possibile
consentire con i rappresentanti del cosiddetto naturalismo, i quali richiamano
il diritto a "tutto ciò che è umano", nelle opere d’arte e nei prodotti della
riproduzione artistica, affermando di agire in tal modo nel nome della verità
realistica circa l’uomo. E appunto questa verità sull’uomo – la verità intera
sull’uomo – che esige di prendere in considerazione sia il senso dell’intimità
del corpo sia la coerenza del dono connesso alla mascolinità e femminilità del
corpo stesso, nel quale si rispecchia il mistero dell’uomo, proprio della
struttura interiore della persona. Tale verità sull’uomo deve essere presa in
considerazione anche nell’ordine artistico, se vogliamo parlare di un pieno
realismo.
3. In questo caso si
costata quindi che la regolarità propria della "comunione delle persone"
concorda profondamente con l’area vasta e differenziata della "comunicazione".
Il corpo umano nella sua nudità – come abbiamo affermato nelle precedenti
analisi (in cui ci siamo riferiti a Genesi 2, 25) – inteso come una
manifestazione della persona e come suo dono, ossia segno di affidamento e di
donazione all’altra persona, consapevole del dono, scelta e decisa a rispondervi
in modo altrettanto personale, diventa sorgente di una particolare
"comunicazione" interpersonale. Come è stato già detto, questa è una particolare
comunicazione nella umanità stessa. Quella comunicazione interpersonale penetra
profondamente nel sistema della comunione ("communio personarum"), nello
stesso tempo cresce da esso e si sviluppa correttamente nel suo ambito. Appunto
a motivo del grande valore del corpo in tale sistema di "comunione"
interpersonale, il fare del corpo nella sua nudità – che esprime appunto
"l’elemento" del dono – l’oggetto-tema dell’opera d’arte o della riproduzione
audiovisiva, è un problema non soltanto di natura estetica, ma, nello stesso
tempo, anche di natura etica. Infatti, quell’"elemento del dono" viene, per così
dire, sospeso nella dimensione di una recezione incognita e di una risposta
imprevista, e con ciò viene in qualche modo intenzionalmente "minacciato", nel
senso che può diventare oggetto anonimo di "appropriazione", oggetto di abuso.
Proprio per ciò la verità integrale sull’uomo costituisce, in questo caso, la
base della norma secondo la quale si modella il bene o il male delle determinate
azioni, dei comportamenti, dei costumi e delle situazioni. La verità sull’uomo,
su ciò che in lui – appunto a motivo del suo corpo e del suo sesso (femminilità
– mascolinità) – è particolarmente personale ed interiore, crea qui precisi
limiti che non è lecito oltrepassare.
4. Questi limiti debbono
essere riconosciuti e osservati dall’artista che fa del corpo umano oggetto,
modello o tema dell’opera d’arte o della riproduzione audiovisiva. Né lui né
altri responsabili in questo campo hanno il diritto di esigere, proporre o fare
sì che altri uomini, invitati, esortati o ammessi a vedere, a contempla. e
l’immagine, violino quei limiti insieme con loro, oppure a causa loro. Si tratta
dell’immagine, nella quale ciò che in se stesso costituisce il contenuto e il
valore profondamente personale, ciò che appartiene all’ordine del dono e del
vicendevole donarsi della persona alla persona, viene, come tema, sradicato dal
proprio autentico substrato, per divenire, per mezzo della "comunicazione
sociale" oggetto e per di più, in certo senso, oggetto anonimo.
5. Tutto il problema della
"pornovisione" e della "pornografia" come risulta da ciò che è detto sopra,
non è effetto di mentalità puritana né di un angusto moralismo, come
pure non è prodotto di un pensiero carico di manicheismo. Si tratta in esso di
una importantissima, fondamentale sfera di valori di fronte ai quali
l’uomo non può rimanere indifferente a motivo della dignità dell’umanità, del
carattere personale e dell’eloquenza del corpo umano. Tutti quei contenuti e
valori, attraverso le opere d’arte e l’attività di mezzi audiovisivi, possono
essere modellati ed approfonditi, ma altresì essere deformati e distrutti
"nel cuore" dell’uomo. Come si vede, ci troviamo di continuo nell’orbita
delle parole pronunziate da Cristo nel Discorso della Montagna. Anche i
problemi, che stiamo qui trattando, debbono essere esaminati alla luce di quelle
parole, che considerano il "guardare" nato dalla concupiscenza come un
"adulterio commesso nel cuore".
E perciò sembra che la riflessione
su questi problemi, importanti per "creare un clima favorevole all’educazione
della castità", costituisca un annesso indispensabile a tutte le precedenti
analisi, quali, nel corso dei numerosi incontri del mercoledì, abbiamo dedicato
a questo tema.
Mercoledì, 6 maggio 1981
Responsabilità etica dell’artista nella trattazione del
tema del corpo umano
1. Nel discorso della
Montagna Cristo pronunziò le parole alle quali abbiamo dedicato una serie di
riflessioni nell’arco di quasi un anno. Spiegando ai suoi ascoltatori il
significato proprio del comandamento: "Non commettere adulterio", Cristo così si
esprime: "Ma io vi dico: Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già
commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt
5,28). Sembra che le suddette parole si
riferiscano anche ai vasti ambiti della cultura umana, soprattutto a quelli
dell’attività artistica, di cui si è già trattato ultimamente, nel corso di
alcuni incontri del mercoledì. Oggi ci conviene dedicare la parte finale di
queste riflessioni al problema del rapporto tra l’ethos dell’immagine – o
della descrizione – e l’ethos della visione o dell’ascolto, della lettura
o di altre forme di ricezione cognitiva, con cui si incontra il contenuto
dell’opera d’arte o dell’audiovisione intesa in senso lato.
2. E qui ritorniamo ancora
una volta al problema già anteriormente segnalato: se e in quale misura il corpo
umano, in tutta la visibile verità della sua mascolinità e femminilità, possa
essere un tema dell’opera d’arte e, per ciò stesso, un tema di quella specifica
"comunicazione", sociale, a cui tale opera è destinata. Questa domanda si
riferisce ancor più alla cultura contemporanea di "massa", connessa con le
tecniche audiovisive. Può il corpo umano essere un tale modello-tema, dato che
noi sappiamo che con ciò è connessa quella oggettività "senza scelta" che prima
abbiamo chiamata anonimità, e che sembra portare con sé una grave, potenziale
minaccia della sfera intera dei significati, propria del corpo dell’uomo e della
donna, a motivo del carattere personale del soggetto umano e del carattere di
"comunione" dei rapporti interpersonali?
Si può aggiungere a questo punto
che le espressioni "pornografia" o "pornovisione" – malgrado la loro antica
etimologia – sono apparse nel linguaggio relativamente tardi. La tradizionale
terminologia latina si serviva del vocabolo ob-scaena, indicando in tal
modo tutto ciò che non deve trovarsi davanti agli occhi degli spettatori, ciò
che deve essere circondato di conveniente discrezione, ciò che non può essere
presentato allo sguardo umano senza scelta alcuna.
3. Ponendo la precedente
domanda ci rendiamo conto che, de facto, nel corso di epoche intere della
cultura umana e dell’attività artistica, il corpo umano è stato ed è un tale
modello-tema delle opere d’arte visive, così come tutta la sfera dell’amore
tra l’uomo e la donna, e, collegato con esso, anche il "donarsi reciproco" della
mascolinità e femminilità nella loro espressione corporea, è stato, è e sarà
tema della narrativa letteraria. Tale narrazione trovò il suo posto anche nella
Bibbia, soprattutto nel testo del "Cantico dei cantici", che ci converrà
riprendere in un’altra circostanza. Anzi, bisogna costatare che nella storia
della letteratura o dell’arte, nella storia della cultura umana, questo tema
appare particolarmente frequente ed è particolarmente importante. Difatti,
esso riguarda un problema che in se stesso è grande e importante. Lo
manifestammo sin dall’inizio delle nostre riflessioni, seguendo le orme dei
testi biblici, che ci rivelano la giusta dimensione di questo problema: cioè la
dignità dell’uomo nella sua corporeità maschile e femminile, e il significato
sponsale della femminilità e mascolinità, iscritto nell’intera struttura
interiore – e nello stesso tempo visibile – della persona umana.
4. Le nostre precedenti
riflessioni non intendevano mettere in dubbio il diritto a questo tema. Esse
mirano soltanto a dimostrare che la sua trattazione è collegata con una
particolare responsabilità di natura non soltanto artistica, ma anche etica.
L’artista, che intraprende quel tema in qualunque sfera dell’arte o mediante
le tecniche audiovisive, deve essere cosciente della piena verità
dell’oggetto, di tutta la scala di valori collegati con esso; deve non
soltanto tener conto di essi in abstracto, ma anche viverli lui stesso
correttamente. Questo corrisponde ugualmente a quel principio della "purezza di
cuore", che in determinati casi occorre trasferire dalla sfera esistenziale
degli atteggiamenti e comportamenti alla sfera intenzionale della creazione o
riproduzione artistiche.
Sembra che il processo di tale
creazione tenda non soltanto alla oggettivazione (e in certo senso ad una nuova
"materializzazione") del modello, ma, in pari tempo, ad esprimere in tale
oggettivazione ciò che può chiamarsi l’idea creativa dell’artista, in
cui appunto si manifesta il suo mondo interiore dei valori, quindi anche
il vivere la verità del suo oggetto. In questo processo si compie una
caratteristica trasfigurazione del modello o della materia e, in particolare, di
ciò che è l’uomo, il corpo umano in tutta la verità della sua mascolinità o
femminilità (da questo punto di vista, come già abbiamo menzionato, c’è una ben
rilevante differenza, ad esempio, tra il quadro o la scultura e tra la
fotografia o il film). Lo spettatore, invitato dall’artista a guardare la sua
opera, comunica non soltanto con l’oggettivazione, e quindi, in certo senso, con
una nuova "materializzazione" del modello o della materia, ma al tempo stesso
comunica con la verità dell’oggetto che l’autore, nella sua "materializzazione"
artistica, è riuscito ad esprimere con i mezzi a lui propri.
5. Nel decorso delle varie
epoche, cominciando dall’antichità – e soprattutto nella grande stagione
dell’arte classica greca – vi sono opere d’arte, il cui tema è il corpo umano
nella sua nudità, e la cui contemplazione consente di concentrarci, in certo
senso, sulla verità intera dell’uomo, sulla dignità e sulla bellezza – anche
quella "soprasensuale" – della sua mascolinità e femminilità. Queste opere
portano in sé, quasi nascosto, un elemento di sublimazione, che conduce lo
spettatore, attraverso il corpo, all’intero mistero personale dell’uomo. In
contatto con tali opere, dove non ci sentiamo determinati dal loro contenuto
verso il "guardare per desiderare", di cui parla il Discorso della Montagna,
impariamo in certo senso quel significato sponsale del corpo, che è il
corrispondente e la misura della "purezza di cuore". Ma ci sono anche opere
d’arte, e forse ancor più spesso riproduzioni, che suscitano obiezione nella
sfera della sensibilità personale dell’uomo – non a motivo del loro oggetto,
poiché il corpo umano in se stesso ha sempre una sua inalienabile dignità – ma a
motivo della qualità o del modo della sua riproduzione, raffigurazione,
rappresentazione artistica. Di quel modo e di quella qualità possono decidere i
vari coefficienti dell’opera o della riproduzione, come pure molteplici
circostanze, spesso più di natura tecnica che non artistica.
È noto che attraverso tutti questi
elementi diventa, in un certo senso, accessibile allo spettatore, come
all’ascoltatore o al lettore, la stessa intenzionalità fondamentale
dell’opera d’arte o del prodotto di relative tecniche. Se la nostra sensibilità
personale reagisce con obiezione e disapprovazione, lo è perché in quella
fondamentale intenzionalità, insieme all’oggettivazione dell’uomo e del suo
corpo, scopriamo indispensabile per l’opera d’arte, o la sua riproduzione, la
sua contemporanea riduzione al rango di oggetto, di oggetto di "godimento",
destinato all’appagamento della concupiscenza stessa. E ciò si pone contro
la dignità dell’uomo anche nell’ordine intenzionale dell’arte e della
riproduzione. Per analogia, occorre riferire la stessa cosa ai vari campi
dell’attività artistica – secondo la rispettiva specificità – come anche alle
varie tecniche audiovisive.
6. L’enciclica Humanae
Vitae di Paolo VI (Paolo VI,
Humanae Vitae, 22) sottolinea la necessità di "creare un clima
favorevole all’educazione della castità"; e con questo intende affermare che il
vivere il corpo umano in tutta la verità della sua mascolinità e femminilità
deve corrispondere alla dignità di questo corpo e al suo significato nel
costruire la comunione delle persone. Si può dire che questa è una delle
dimensioni fondamentali della cultura umana, intesa come affermazione che
nobilita tutto ciò che è umano. Perciò abbiamo dedicato questo breve
tracciato al problema che, in sintesi, potrebbe essere chiamato dell’ethos
dell’immagine. Si tratta dell’immagine che serve ad una singolare "visibilizzazione"
dell’uomo, e che bisogna comprendere in senso più o meno diretto. L’immagine
scolpita o dipinta "esprime visivamente" l’uomo; in altro modo lo "esprime
visivamente" la rappresentazione teatrale o lo spettacolo di balletto, in altro
modo il film; anche l’opera letteraria, a modo suo, tende a suscitare immagini
interiori, servendosi delle ricchezze della fantasia o della memoria umana.
Quindi ciò che qui abbiamo denominato l’"ethos dell’immagine" non può
essere considerato astraendo dalla componente correlativa, che bisognerebbe
chiamare l’"ethos del vedere". Tra l’una e l’altra componente si contiene
tutto il processo di comunicazione, indipendentemente dalla vastità dei cerchi
che descrive questa comunicazione, la quale in questo caso è sempre "sociale".
7. La creazione del clima
favorevole alla educazione della castità contiene queste due componenti;
riguarda, per così dire, un circuito reciproco che avviene tra l’immagine
e il vedere, tra l’ethos dell’immagine e l’ethos del vedere. Come la creazione
dell’immagine nel senso ampio e differenziato del termine, impone all’autore,
artista o riproduttore, obblighi di natura non soltanto estetica ma anche etica,
così il "guardare", inteso secondo la stessa larga analogia, impone obblighi a
colui che dell’opera è recettore.
L’autentica e responsabile attività
artistica tende a superare l’anonimità del corpo umano come oggetto "senza
scelta", cercando (come già è stato in precedenza), attraverso lo sforzo
creativo, una siffatta espressione artistica della verità sull’uomo nella sua
corporeità femminile e maschile, che venga per così dire assegnata in compito
allo spettatore e, nel raggio più ampio, a ciascun recettore dell’opera.
Da lui, a sua volta, dipende se deciderà di compiere il proprio sforzo per
avvicinarsi a tale verità, oppure se resterà soltanto un "consumatore"
superficiale delle impressioni, cioè uno che sfrutta l’incontro con l’anonimo
tema-corpo solo a livello della sensualità che, di per sé, reagisce al suo
oggetto appunto "senza scelta".
Qui terminiamo questo importante
capitolo delle nostre riflessioni sulla teologia del corpo, il cui punto di
partenza sono state le parole pronunziate da Cristo nel Discorso della Montagna:
parole valide per l’uomo di tutti i tempi, per l’uomo "storico", e valide per
ciascuno di noi.
Le riflessioni sulla teologia del
corpo non sarebbero tuttavia complete, se non considerassimo altre parole di
Cristo, e cioè quelle in cui egli si richiama alla futura risurrezione. Ad esse
dunque ci proponiamo di dedicare il prossimo ciclo delle nostre considerazioni.
TERZO CICLO
La risurrezione della carne.
(Teologia del corpo dell'uomo
dell'uomo risorto, pienamente redento e ri-creato)
Mercoledì, 11 novembre 1981
Le parole del “colloquio con i sadducei” essenziali per la
teologia del corpo
1. Riprendiamo quest’oggi, dopo una pausa
piuttosto lunga, le meditazioni tenute già da tempo e che abbiamo definito
riflessioni sulla teologia del corpo.
Nel continuare, conviene, questa
volta, riportarci alle parole del Vangelo, in cui Cristo fa riferimento alla
risurrezione: parole che hanno un’importanza fondamentale per intendere il
matrimonio nel senso cristiano e anche "la rinuncia" alla vita coniugale "per il
regno dei cieli".
La complessa casistica dell’Antico
Testamento nel campo matrimoniale non soltanto spinse i Farisei a recarsi da
Cristo per porgli il problema dell’indissolubilità del matrimonio (cf. Mt 19,3-9;
Mc 10,2-12)
ma anche, un’altra volta, i Sadducei, per interrogarlo sulla legge del
cosiddetto levirato (questa legge, contenuta nel Dt 25,7-10, riguarda i fratelli che abitavano sotto lo stesso tetto. Se uno di
essi moriva senza lasciare figli, il fratello del defunto doveva prendere in
moglie la vedova del fratello morto. Il bambino nato da questo matrimonio era
riconosciuto figlio del defunto, affinché non fosse estinta la sua stirpe e
venisse conservata in famiglia l’eredità [cf. Dt 3,9-4,12]).
Tale colloquio è riportato concordemente dai sinottici (cf. Mt 22,24-30;
Mc 12,18-27;
Lc 20,27-40).
Sebbene tutte e tre le redazioni siano quasi identiche, tuttavia si notano tra
loro alcune differenze lievi, ma, nello stesso tempo, significative. Poiché il
colloquio è riferito in tre versioni, quelle di Matteo, Marco e Luca, si
richiede un’analisi più approfondita, in quanto esso comprende contenuti che
hanno un significato essenziale per la teologia del corpo.
Accanto agli altri due importanti
colloqui, cioè: quello in cui Cristo fa riferimento al "principio" (cf. Mt 19,3-9;
Mc 10,2-12),
e l’altro in cui si richiama all’intimità dell’uomo (al "cuore"), indicando il
desiderio e la concupiscenza della carne come sorgente del peccato (cf. Mt 5,27-32),
il colloquio, che ci proponiamo ora di sottoporre ad analisi, costituisce,
direi, la terza componente del trittico delle enunciazioni di Cristo
stesso: trittico di parole essenziali e costitutive per la teologia del corpo.
In questo colloquio Gesù si richiama alla risurrezione, svelando così una
dimensione completamente nuova del mistero dell’uomo.
2. La rivelazione di
questa dimensione del corpo, stupenda nel suo contenuto – e pur collegata col
Vangelo riletto nel suo insieme e fino in fondo – emerge nel colloquio con i
Sadducei, "i quali affermano che non c’è risurrezione" (1); essi sono venuti da
Cristo per esporgli un argomento che – a loro giudizio – convalida la
ragionevolezza della loro posizione. Tale argomento doveva contraddire
"l’ipotesi della risurrezione". Il ragionamento dei Sadducei è il seguente:
"Maestro, Mosè ci ha lasciato scritto che se muore il fratello di uno e lascia
la moglie senza figli, il fratello ne prenda la moglie per dare discendenti al
fratello" (Mc 12,19).
I Sadducei si richiamano qui alla cosiddetta legge del levirato (cf. Dt 25,5-10),
e riallacciandosi alla prescrizione di questa antica legge, presentano il
seguente "caso": "C’erano sette fratelli: il primo prese moglie e morì senza
lasciare discendenza; allora la prese il secondo, ma morì senza lasciare
discendenza; e il terzo ugualmente, e nessuno dei sette lasciò discendenza.
Infine, dopo tutti morì anche la donna. Nella risurrezione, quando risorgeranno,
a chi di loro apparterrà la donna? Poiché in sette l’hanno avuta come moglie" (Mc 12,20-23. I
Sadducei, rivolgendosi a Gesù per un "caso" puramente teorico, attaccano al
tempo stesso la primitiva concezione dei Farisei sulla vita dopo la risurrezione
dei corpi; insinuano infatti che la fede nella risurrezione dei corpi conduce ad
ammettere la poliandria, contrastante con la legge di Dio.).
3. La risposta di Cristo è
una delle risposte-chiave del Vangelo, in cui viene rivelata – appunto a partire
dai ragionamenti puramente umani e in contrasto con essi – un’altra dimensione
della questione, cioè quella che corrisponde alla sapienza e alla potenza di Dio
stesso. Analogamente, ad esempio, si era presentato il caso della moneta del
tributo con l’immagine di Cesare e del rapporto corretto fra ciò che nell’ambito
della potestà è divino e ciò che è umano ("di Cesare") (cf. Mt 22,15-22).
Questa volta Gesù risponde così: "Non siete voi forse in errore dal
momento che non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio? Quando
risusciteranno dai morti, infatti, non prenderanno moglie né marito, ma saranno
come angeli nei cieli" (Mc
12,24-25). Questa è la risposta basilare del
"caso", cioè al problema che vi è racchiuso. Cristo, conoscendo le concezioni
dei Sadducei, ed intuendo le loro autentiche intenzioni, riprende, in seguito,
il problema della possibilità della risurrezione, negata dai Sadducei
stessi: "A riguardo poi dei morti che devono risorgere, non avete letto nel
libro di Mosè, a proposito del roveto, come Dio gli parlò dicendo: Io sono il
Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe? Non è un Dio dei morti, ma dei
viventi" (Mc 12,26-27).
Come si vede, Cristo cita lo stesso Mosè a cui hanno fatto riferimento i
Sadducei, e termina con l’affermare: "Voi siete in grande errore" (Mc
12,27).
4. Questa affermazione
conclusiva, Cristo la ripete anche una seconda volta. Infatti la prima volta la
pronunciò all’inizio della sua esposizione. Disse allora: "Voi vi ingannate, non
conoscendo né le Scritture, né la potenza di Dio": così leggiamo in Matteo (Mt
22,29). E in Marco: "Non siete voi forse in
errore dal momento che non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio?" (Mc
12,24). Invece, la stessa risposta di
Cristo, nella versione di Luca (Lc
20,27-36), è priva di accento polemico, di
quel "siete in grande errore". D’altronde egli proclama la stessa cosa in quanto
introduce nella risposta alcuni elementi che non si trovano né in Matteo né in
Marco. Ecco il testo: "Gesù risponde: i figli di questo mondo prendono moglie e
prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della
risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito: e nemmeno possono più
morire, perché sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono
figli di Dio" (Lc 20,34-36).
Riguardo alla possibilità stessa della risurrezione, Luca – come i due altri
sinottici – si riferisce a Mosè, ossia al passo del Libro dell’Esodo 3,2-6,
in cui infatti si narra che il grande legislatore dell’Antica Alleanza aveva
udito dal roveto, che "ardeva nel fuoco e non si consumava", le seguenti parole:
"Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di
Giacobbe" (Es 3,6).
Nello stesso luogo, quando Mosè aveva chiesto il nome di Dio, aveva udito la
risposta: "Io sono colui che sono" (Es
3,14).
Così dunque, parlando della futura
risurrezione dei corpi, Cristo si richiama alla potenza stessa del Dio vivente.
In seguito dovremo considerare in modo più particolareggiato questo argomento.
Mercoledì, 18 novembre 1981
Il Dio vivente, stringendo l’alleanza con gli uomini, rinnova
continuamente la realtà stessa della vita
1. "Voi vi ingannate, non conoscendo né le
Scritture né la potenza di Dio" (Mt
22,29), così disse Cristo ai Sadducei, i
quali – rifiutando la fede nella futura risurrezione dei corpi – Gli avevano
esposto il caso seguente: "C’erano tra noi sette fratelli; il primo appena
sposato morì e, non avendo discendenza, lasciò la moglie a suo fratello"
(secondo la legge mosaica del "levirato"); "così anche il secondo, e il terzo,
fino al settimo. Alla fine, dopo tutti, morì anche la donna. Alla risurrezione,
di quale dei sette essa sarà moglie?" (Mt 22,25-28).
Cristo replica ai Sadducei affermando, all’inizio e alla fine della
sua risposta, che essi sono in grande errore, non conoscendo né le Scritture né
la potenza di Dio (cf. Mc
12,24; Mt 22,29).
Dato che il colloquio con i Sadducei è riportato da tutti e tre i Vangeli
Sinottici, confrontiamo brevemente i relativi testi.
2. La versione di Matteo (Mt
22,24-30), benché non faccia riferimento al
roveto, concorda quasi interamente con quella di Marco (Mc
12,18-25). Entrambe le versioni contengono
due elementi essenziali: 1) l’enunciazione sulla futura risurrezione dei corpi,
2) l’enunciazione sullo stato dei corpi degli uomini risorti (1). Il primo
elemento, concernente la futura risurrezione dei corpi, è congiunto,
specialmente in Matteo e in Marco, con le parole indirizzate ai Sadducei,
secondo cui essi non conoscono "né le Scritture né la potenza di Dio". Tale
affermazione merita un’attenzione particolare, perché proprio in essa Cristo
puntualizza le basi stesse della fede nella risurrezione, a cui aveva fatto
riferimento nel rispondere alla questione posta dai Sadducei con l’esempio
concreto della legge mosaica del levirato.
3. Senza dubbio, i Sadducei trattano la
questione della risurrezione come un tipo di teoria o di ipotesi, suscettibile
di superamento (2). Gesù dimostra loro prima un errore di metodo: non
conoscono le Scritture; e poi un errore di merito: non accettano ciò che
viene rivelato dalle Scritture – non conoscono la potenza di Dio – non
credono in Colui che si è rivelato a Mosè nel roveto ardente.
È una risposta molto significativa e molto precisa. Cristo
s’incontra qui con uomini, che si reputano esperti e competenti interpreti delle
Scritture. A questi uomini – cioè ai Sadducei – Gesù risponde che la sola
conoscenza letterale della Scrittura non è sufficiente. La Scrittura infatti è
soprattutto un mezzo per conoscere la potenza del Dio vivo, che in essa rivela
se stesso, così come si è rivelato a Mosè nel roveto. In questa rivelazione Egli
ha chiamato se stesso "il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e di Giacobbe" (3) –
di coloro dunque che erano stati i capostipiti di Mosè nella fede che scaturisce
dalla rivelazione del Dio vivente. Tutti quanti sono ormai morti da molto tempo;
tuttavia Cristo completa il riferimento a loro con l’affermazione che Dio "Non è
Dio dei morti, ma dei vivi". Questa affermazione-chiave, in cui Cristo
interpreta le parole rivolte a Mosè dal roveto ardente, può essere compresa solo
se si ammette la realtà di una vita, a cui la morte non pone fine. I
padri di Mosè nella fede, Abramo, Isacco e Giacobbe, sono per Dio persone
viventi (cf. Lc 20,38:
"perché tutti vivono per Lui") sebbene, secondo i criteri umani, debbano essere
annoverati fra i morti. Rileggere correttamente la Scrittura, e in particolare
le suddette parole di Dio, vuol dire conoscere e accogliere con la fede la
potenza del Datore della vita, il quale non è vincolato dalla legge della morte,
dominatrice nella storia terrena dell’uomo.
4. Sembra che in tal modo sia da interpretare
la risposta di Cristo sulla possibilità della risurrezione(4), data ai Sadducei,
secondo la versione di tutti e tre i Sinottici. Verrà il momento in cui Cristo
darà la risposta, in questa materia, con la propria risurrezione; per ora,
tuttavia, Egli si richiama alla testimonianza dell’Antico Testamento,
dimostrando come scoprirvi la verità sull’immortalità e sulla risurrezione.
Bisogna farlo non soffermandosi soltanto al suono delle parole, ma risalendo
anche alla potenza di Dio, che da quelle parole viene rivelata. Il richiamarsi
ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe in quella teofania concessa a Mosè, di cui
leggiamo nel Libro dell’Esodo (Es
3,2-6), costituisce una testimonianza che il
Dio vivo dà a coloro che vivono "per Lui": a coloro che grazie alla sua potenza
hanno la vita, anche se, stando alle dimensioni della storia, occorrerebbe da
molto tempo annoverarli tra i morti.
5. Il significato pieno di questa
testimonianza, a cui Gesù si riferisce nel suo colloquio con i Sadducei, si
potrebbe (sempre soltanto alla luce dell’Antico Testamento) cogliere nel modo
seguente: Colui che è – Colui che vive e che è la Vita – costituisce
l’inesauribile fonte dell’esistenza e della vita, così come si è rivelato in
"principio", nella Genesi (cf.
Gen 1-3). Sebbene, a causa del peccato,
la morte corporale sia divenuta la sorte dell’uomo(5), e sebbene l’accesso
all’albero della Vita (grande simbolo del Libro della Genesi) gli sia stato
interdetto (cf. Gen 3,22),
tuttavia il Dio vivente, stringendo la sua Alleanza con gli uomini
(Abramo – patriarchi, Mosè, Israele), rinnova continuamente, in questa
alleanza, la realtà stessa della Vita, ne svela di nuovo la prospettiva e
in un certo senso apre nuovamente l’accesso all’albero della Vita. Insieme con
l’Alleanza, questa vita, la cui sorgente è Dio stesso, viene partecipata a
quegli stessi uomini che, in conseguenza della rottura della prima Alleanza,
avevano perduto l’accesso all’albero della Vita, e nelle dimensioni della loro
storia terrena erano stati sottoposti alla morte.
6. Cristo è l’ultima parola di Dio su questo
argomento; infatti l’Alleanza, che con Lui e per Lui viene stabilita tra Dio e
l’umanità, apre una infinita prospettiva di Vita: e l’accesso all’albero della
Vita – secondo l’originario piano del Dio dell’Alleanza – viene rivelato ad ogni
uomo nella sua definitiva pienezza. Sarà questo il significato della morte e
della risurrezione di Cristo, sarà questa la testimonianza del mistero pasquale.
Tuttavia il colloquio con i Sadducei si svolge nella fase pre-pasquale della
missione messianica di Cristo. Il corso del colloquio secondo Matteo (Mt
22,24-30), Marco (Mc
12,27-28), e Luca (Lc
20,27-36) manifesta che Cristo – il quale
più volte, in particolare nei colloqui con i suoi discepoli, aveva parlato della
futura risurrezione del Figlio dell’uomo (cf. Mt 17,9.23;
20,19)
– nel colloquio con i Sadducei invece non si richiama a questo argomento. Le
ragioni sono ovvie e chiare. Il colloquio si svolge con i Sadducei, "i quali
affermano che non c’è risurrezione" (come sottolinea l’evangelista), cioè
mettono in dubbio la stessa sua possibilità, e nel contempo si considerano
esperti della Scrittura dell’Antico Testamento, e suoi interpreti qualificati.
Ed è perciò che Gesù si riferisce all’Antico Testamento e in base ad esso
dimostra loro che "non conoscono la potenza di Dio" (6).
7. Riguardo alla
possibilità della risurrezione, Cristo si richiama appunto a quella potenza, che
va di pari passo con la testimonianza del Dio vivo, che è il Dio di Abramo, di
Isacco, di Giacobbe, e il Dio di Mosè. Il Dio, che i Sadducei "privano" di
questa potenza, non è più il Dio vero dei loro Padri, ma il Dio delle loro
ipotesi ed interpretazioni. Cristo invece è venuto per dare testimonianza al Dio
della Vita in tutta la verità della sua potenza che si dispiega sulla vita
dell’uomo.
Mercoledì, 2 dicembre 1981
La dottrina sulla Risurrezione e la formazione
dell’antropologia teologica
1. "Quando risusciteranno dai morti,
infatti, non prenderanno moglie né marito" (Mc 12,25).
Cristo pronunzia queste parole, che hanno un significato-chiave per la
teologia del corpo, dopo aver affermato, nel colloquio con i Sadducei, che
la risurrezione è conforme alla potenza del Dio vivente. Tutti e tre i Vangeli
Sinottici riportano lo stesso enunciato, solo che la versione di Luca si
differenzia in alcuni particolari da quella di Matteo e di Marco. Essenziale è
per tutti la constatazione che, nella futura risurrezione, gli uomini, dopo aver
riacquistato i loro corpi nella pienezza della perfezione propria dell’immagine
e somiglianza a Dio – dopo averli riacquistati nella loro mascolinità e
femminilità – "non prenderanno moglie né marito". Luca nel capitolo 20,34-35
esprime la stessa idea con le parole seguenti: "I figli di questo mondo prendono
moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e
della risurrezione dai morti, non prendono moglie né marito".
2.
Come risulta da queste parole, il matrimonio, quella unione in cui, come
dice il libro della Genesi, "l’uomo... si unirà a sua moglie e i due saranno una
sola carne" (Gen 2,25) – unione propria dell’uomo
fin dal "principio" – appartiene esclusivamente "a questo mondo". Il
matrimonio e la procreazione non costituiscono invece il futuro escatologico
dell’uomo. Nella risurrezione perdono, per così dire, la loro ragion d’essere.
Quell’"altro mondo", di cui parla Luca (Lc 20,35),
significa il compimento definitivo del genere umano, la chiusura quantitativa di
quella cerchia di esseri, che furono creati ad immagine e somiglianza di Dio,
affinché moltiplicandosi attraverso la coniugale "unità del corpo" di uomini e
donne, soggiogassero a sé la terra. Quell’"altro mondo" non è il mondo della
terra, ma il mondo di Dio, il quale, come sappiamo dalla prima lettera di Paolo
ai Corinzi, lo riempirà interamente, divenendo "tutto in tutti" (1Cor
15,28).
3. Contemporaneamente quell’"altro mondo",
che secondo la rivelazione è "il regno di Dio", è anche la definitiva ed eterna
"patria" dell’uomo (cf. Fil 3,20), è la "casa del
Padre" (Gv 14,2). Quell’"altro mondo", come
nuova patria dell’uomo, emerge definitivamente dal mondo attuale, che è
temporale – sottoposto alla morte, ossia alla distruzione del corpo (cf. Gen 3,19) ["in polvere tornerai"] – attraverso
la risurrezione. La risurrezione, secondo le parole di Cristo riportate dai
Sinottici, significa non soltanto il ricupero della corporeità e il
ristabilimento della vita umana nella sua integrità, mediante l’unione del corpo
con l’anima, ma anche uno stato del tutto nuovo della vita umana stessa.
Troviamo la conferma di questo nuovo stato del corpo nella risurrezione di
Cristo (cf. Rm 6,5-11). Le parole riportate dai
Sinottici (Mt 22,30; Mc 12,25;
Lc 20,34-35) risoneranno allora (cioè dopo la
risurrezione di Cristo) a coloro che le avevano udite, direi quasi con una nuova
forza probativa, e nello stesso tempo acquisteranno il carattere di una promessa
convincente. Tuttavia per ora ci soffermiamo su queste parole nella loro fase "prepasquale",
basandoci soltanto sulla situazione in cui furono pronunziate. Non c’è alcun
dubbio che già nella risposta data ai Sadducei, Cristo svela la nuova condizione
del corpo umano nella risurrezione, e lo fa proponendo appunto un riferimento e
un paragone con la condizione di cui l’uomo era stato partecipe fin dal
"principio".
4. Le parole: "Non prenderanno moglie né
marito", sembrano nello stesso tempo affermare che i corpi umani, recuperati e
insieme rinnovati nella risurrezione, manterranno la loro peculiarità maschile o
femminile e che il senso di essere nel corpo maschio o femmina verrà
nell’"altro mondo" costituito e inteso in modo diverso da quello che fu
"da principio" e poi in tutta la dimensione dell’esistenza terrena. Le parole
della Genesi, "l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie
e i due saranno una sola carne" (Gen 2,24), hanno
costituito fin dal principio quella condizione e relazione di mascolinità e
femminilità, estendentesi anche al corpo, che giustamente bisogna definire
"coniugale" e insieme "procreativa" e "generativa"; essa infatti è connessa con
la benedizione della fecondità, pronunciata da Dio (Elohim) alla
creazione dell’uomo "maschio e femmina" (Gen 1,27).
Le parole pronunziate da Cristo sulla risurrezione ci consentono di dedurre che
la dimensione di mascolinità e femminilità – cioè l’essere nel corpo maschio e
femmina – verrà nuovamente costituita insieme con la risurrezione del corpo
nell’"altro mondo".
5. È possibile dire qualcosa di ancor più
dettagliato su questo tema? Senza dubbio, le parole di Cristo riportate dai
Sinottici (Lc 20,27-40) ci autorizzano a questo. Vi
leggiamo, infatti, che "quelli che sono giudicati degni dell’altro mondo e della
risurrezione dai morti... nemmeno possono più morire perché sono uguali agli
angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio" (Matteo e Marco
riferiscono soltanto che "saranno come angeli nei cieli"). Questo enunciato
consente soprattutto di dedurre una spiritualizzazione dell’uomo secondo una
dimensione diversa da quella della vita terrena (e perfino diversa da quella
dello stesso "principio"). È ovvio che non si tratta qui di trasformazione della
natura dell’uomo in quella angelica, cioè puramente spirituale. Il contesto
indica chiaramente che l’uomo conserverà nell’"altro mondo" la propria natura
umana psicosomatica. Se fosse diversamente, sarebbe privo di senso parlare di
risurrezione.
Risurrezione significa restituzione alla vera vita della
corporeità umana, che fu assoggettata alla morte nella sua fase temporale.
Nell’espressione di Luca (Lc 20,36) appena citata (cf. Mt 22,30; Mc 12,25) si
tratta certamente della natura umana, cioè psicosomatica. Il paragone con gli
esseri celesti, usato nel contesto, non costituisce alcuna novità nella Bibbia.
Fra l’altro, già il Salmo, esaltando l’uomo come opera del Creatore, dice:
"Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli" (Sal 8,6).
Bisogna supporre che nella risurrezione questa somiglianza diverrà maggiore: non
attraverso una disincarnazione dell’uomo, ma mediante un altro genere (si
potrebbe anche dire: un altro grado) di spiritualizzazione della sua natura
somatica, cioè mediante un altro "sistema di forze" all’interno dell’uomo. La
risurrezione significa una nuova sottomissione del corpo allo spirito.
6. Prima di accingerci a sviluppare questo
argomento, conviene ricordare che la verità sulla risurrezione ebbe un
significato-chiave per la formazione di tutta l’antropologia teologica, che
potrebbe essere considerata semplicemente quale "antropologia della
risurrezione". La riflessione sulla risurrezione ha fatto sì che Tommaso
d’Aquino abbia tralasciato nella sua antropologia metafisica (ed insieme
teologica) la concezione filosofica di Platone sul rapporto tra l’anima e il
corpo e si sia avvicinato alla concezione di Aristotele(1).
La risurrezione infatti attesta, almeno indirettamente, che il
corpo, nell’insieme del composto umano, non è soltanto temporaneamente connesso
all’anima (quale sua "prigione" terrena, come riteneva Platone) (Tò mèn sômá
estin hemîn sêma [Platone, Gorgia 493 A; cf. anche Fedone 66B;
Cratilo 400 C), ma che insieme all’anima costituisce l’unità ed integrità
dell’essere umano. Così appunto insegnava Aristotele (Aristotele, De Anima,
II, 412a, 19-22; cf. anche Metaph. 1029 b 11 – 1030 b 14.), diversamente
da Platone. Se san Tommaso nella sua antropologia accettò la concezione di
Aristotele, lo fece avendo riguardo alla verità sulla risurrezione. La verità
sulla risurrezione afferma infatti con chiarezza che la perfezione escatologica
e la felicità dell’uomo non possono esser intese come uno stato dell’anima sola,
separata (secondo Platone: liberata) dal corpo, ma bisogna intenderla come lo
stato dell’uomo definitivamente e perfettamente "integrato" attraverso una
unione tale dell’anima col corpo, che qualifica e assicura definitivamente
siffatta integrità perfetta.
A questo punto interrompiamo la nostra riflessione sulle parole
pronunziate da Cristo sulla risurrezione. La grande ricchezza dei contenuti
racchiusi in queste parole ci induce a riprenderle nelle ulteriori
considerazioni.
Mercoledì, 9 dicembre 1981
La risurrezione realizzerà perfettamente la persona
1. "Alla risurrezione... non si prende né
moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo" (Mt 22,30;
Mc 12,25). "Sono uguali agli angeli e, essendo
figli della risurrezione, sono figli di Dio" (Lc 20,36).
Cerchiamo di comprendere queste parole di Cristo riguardanti la
futura risurrezione, per trarne una conclusione sulla spiritualizzazione
dell’uomo, differente da quella della vita terrena. Si potrebbe qui parlare
anche di un perfetto sistema di forze nei rapporti reciproci tra ciò che
nell’uomo è spirituale e ciò che è corporeo. L’uomo "storico", in seguito al
peccato originale, sperimenta una molteplice imperfezione di questo sistema di
forze, che si manifesta nelle ben note parole di San Paolo: "Nelle mie membra
vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente" (Rm
7,23).
L’uomo "escatologico" sarà libero da quella "opposizione". Nella
risurrezione il corpo tornerà alla perfetta unità ed armonia con lo spirito:
l’uomo non sperimenterà più l’opposizione tra ciò che in lui è spirituale e ciò
che è corporeo. La "spiritualizzazione" significa non soltanto che lo
spirito dominerà il corpo, ma, direi, che esso permeerà pienamente il corpo,
e che le forze dello spirito permeeranno le energie del corpo.
2. Nella vita terrena, il dominio dello
spirito sul corpo – e la simultanea subordinazione del corpo allo spirito – può,
come frutto di un perseverante lavoro su se stessi, esprimere una personalità
spiritualmente matura; tuttavia, il fatto che le energie dello spirito riescano
a dominare le forze del corpo non toglie la possibilità stessa della loro
reciproca opposizione. La "spiritualizzazione", a cui alludono i Vangeli
sinottici (Mt 22,30; Mc 12,25;
Lc 20,34-35) nei testi qui analizzati, si trova già
fuori di tale possibilità. È dunque una spiritualizzazione perfetta, in cui
viene completamente eliminata la possibilità che "un’altra legge muova
guerra alla legge della... mente" (cf. Rm 7,23).
Questo stato che – come è evidente – si differenzia essenzialmente (e non
soltanto riguardo al grado) da ciò che sperimentiamo nella vita terrena, non
significa tuttavia alcuna "disincarnazione" del corpo né, di conseguenza, una
"disumanizzazione" dell’uomo. Anzi, al contrario, significa la sua perfetta
"realizzazione". Infatti, nell’essere composto, psicosomatico, che è l’uomo, la
perfezione non può consistere in una reciproca opposizione dello spirito e del
corpo, ma in una profonda armonia fra loro, nella salvaguardia del primato
dello spirito. Nell’"altro mondo", tale primato verrà realizzato e si
manifesterà in una perfetta spontaneità, priva di alcuna opposizione da parte
del corpo. Tuttavia ciò non va inteso come una definitiva "vittoria" dello
spirito sul corpo. La risurrezione consisterà nella perfetta partecipazione di
tutto ciò che nell’uomo è corporeo a ciò che in lui è spirituale. Al tempo
stesso consisterà nella perfetta realizzazione di ciò che nell’uomo è personale.
3. Le parole dei Sinottici attestano che
lo stato dell’uomo nell’"altro mondo" sarà non soltanto uno stato di perfetta
spiritualizzazione, ma anche di fondamentale "divinizzazione" della sua umanità.
I "figli della risurrezione" – come leggiamo in Luca 20,36 – non soltanto
"sono uguali agli angeli", ma anche "sono figli di Dio". Si può trarne la
conclusione che il grado della spiritualizzazione, proprio dell’uomo
"escatologico", avrà la sua fonte nel grado della sua "divinizzazione",
incomparabilmente superiore a quella raggiungibile nella vita terrena. Bisogna
aggiungere che qui si tratta non soltanto di un grado diverso, ma in certo senso
di un altro genere di "divinizzazione". La partecipazione alla natura divina, la
partecipazione alla vita interiore di Dio stesso, penetrazione e permeazione di
ciò che è essenzialmente umano da parte di ciò che è essenzialmente divino,
raggiungerà allora il suo vertice, per cui la vita dello spirito umano perverrà
ad una tale pienezza, che prima gli era assolutamente inaccessibile. Questa
nuova spiritualizzazione sarà quindi frutto della grazia, cioè del
comunicarsi di Dio, nella sua stessa divinità, non soltanto all’anima, ma
a tutta la soggettività psicosomatica dell’uomo. Parliamo qui della
"soggettività" (e non solo della "natura"), perché quella divinizzazione va
intesa non soltanto come uno "stato interiore" dell’uomo (cioè: del soggetto),
capace di vedere Dio "a faccia a faccia", ma anche come una nuova formazione di
tutta la soggettività personale dell’uomo a misura dell’unione con Dio nel suo
mistero trinitario e dell’intimità con Lui nella perfetta comunione delle
persone. Questa intimità – con tutta la sua intensità soggettiva – non assorbirà
la soggettività personale dell’uomo, anzi, al contrario, la farà risaltare in
misura incomparabilmente maggiore e più piena.
4. La "divinizzazione" nell’"altro mondo",
indicata dalle parole di Cristo, apporterà allo spirito umano una tale "gamma di
esperienza" della verità e dell’amore che l’uomo non avrebbe mai potuto
raggiungere nella vita terrena. Quando Cristo parla della risurrezione, dimostra
al tempo stesso che a questa esperienza escatologica della verità e dell’amore,
unita alla visione di Dio "a faccia a faccia", parteciperà anche, a modo suo, il
corpo umano. Quando Cristo dice che coloro i quali parteciperanno alla futura
risurrezione "non prenderanno moglie né marito" (Mc 12,25),
le sue parole – come già prima fu osservato – affermano non soltanto la fine
della storia terrena, legata al matrimonio e alla procreazione, ma sembrano
anche svelare il nuovo significato del corpo. È forse possibile, in questo caso,
pensare – a livello di escatologia biblica – alla scoperta del
significato "sponsale" del corpo, soprattutto come significato
"verginale" di essere, quanto al corpo, maschio e femmina? Per rispondere a
questa domanda, che emerge dalle parole riportate dai Sinottici, conviene
penetrare più a fondo nell’essenza stessa di ciò che sarà la visione beatifica
dell’Essere Divino, visione di Dio "a faccia a faccia" nella vita futura.
Occorre anche farsi guidare da quella "gamma di esperienza" della verità e
dell’amore, che oltrepassa i limiti delle possibilità conoscitive e spirituali
dell’uomo nella temporalità, e di cui egli diverrà partecipe nell’"altro mondo".
5. Questa "esperienza escatologica" del
Dio Vivente concentrerà in sé non soltanto tutte le energie spirituali
dell’uomo, ma, allo stesso tempo, svelerà a lui, in modo vivo e sperimentale, il
"comunicarsi" di Dio a tutto il creato e, in particolare, all’uomo; il
che è il più personale "donarsi" di Dio, nella sua stessa divinità, all’uomo:
a quell’essere, che dal principio porta in sé l’immagine e somiglianza di Lui.
Così, dunque, nell’"altro mondo" l’oggetto della "visione" sarà quel mistero
nascosto dall’eternità nel Padre, mistero che nel tempo è stato rivelato in
Cristo, per compiersi incessantemente per opera dello Spirito Santo; quel
mistero diverrà, se così ci si può esprimere, il contenuto dell’esperienza
escatologica e la "forma" dell’intera esistenza umana nella dimensione
dell’"altro mondo". La vita eterna va intesa in senso escatologico, cioè come
piena e perfetta esperienza di quella grazia (= charis) di Dio, della
quale l’uomo diviene partecipe mediante la fede durante la vita terrena, e che
invece dovrà non soltanto rivelarsi a coloro i quali parteciperanno dell’"altro
mondo" in tutta la sua penetrante profondità, ma esser anche sperimentata nella
sua realtà beatificante.
Qui sospendiamo la nostra riflessione centrata sulle parole di
Cristo relative alla futura risurrezione dei corpi. In questa
"spiritualizzazione" e "divinizzazione", a cui l’uomo parteciperà nella
risurrezione, scopriamo – in una dimensione escatologica – le stesse
caratteristiche che qualificavano il significato "sponsale" del corpo; le
scopriamo nell’incontro col mistero del Dio vivente, che si svela mediante la
visione di Lui "a faccia a faccia".
Mercoledì, 16 dicembre 1981
Le parole di Cristo sulla risurrezione
completano la rivelazione del corpo
1. "Alla risurrezione.., non si prende né moglie né
marito, ma si è come angeli nel Cielo" (Mt 22,30; Mc 12,25).
"...Sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di
Dio" (Lc 20,36).
La comunione ("communio") escatologica
dell’uomo con Dio, costituita grazie all’amore di una perfetta unione, sarà
alimentata dalla visione, "a faccia a faccia", della contemplazione di
quella comunione più perfetta, perché puramente divina, che è la comunione
trinitaria delle Persone divine nell’unità della medesima divinità.
2. Le parole di Cristo, riportate dai Vangeli
sinottici, ci consentono di dedurre che i partecipi dell’"altro mondo"
conserveranno – in questa unione col Dio vivo, che scaturisce dalla visione
beatifica della sua unità e comunione trinitaria – non soltanto la loro
autentica soggettività, ma lo acquisteranno in misura molto più perfetta che
nella vita terrena. In ciò verrà inoltre confermata la legge dell’ordine
integrale della persona, secondo cui la perfezione della comunione non soltanto
è condizionata dalla perfezione o maturità spirituale del soggetto, ma anche, a
sua volta, la determina. Coloro che parteciperanno al "mondo futuro", cioè alla
perfetta comunione col Dio vivo, godranno di una soggettività perfettamente
matura. Se in questa perfetta soggettività, pur conservando nel loro corpo
risorto, cioè glorioso, la mascolinità e la femminilità, "non prenderanno moglie
né marito", ciò si spiega non soltanto con la fine della storia, ma anche
– e soprattutto – con l’"autenticità escatologica" della risposta
a quel "comunicarsi" del Soggetto Divino, che costituirà la beatificante
esperienza del dono di se stesso da parte di Dio, assolutamente superiore ad
ogni esperienza propria della vita terrena.
3. Il reciproco dono di se stesso a Dio – dono, in
cui l’uomo concentrerà ed esprimerà tutte le energie della propria soggettività
personale ed insieme psicosomatica – sarà la risposta al dono di se stesso da
parte di Dio all’uomo (1). In questo reciproco dono di sé da parte dell’uomo,
dono che diverrà, fino in fondo e definitivamente, beatificante, come risposta
degna di un soggetto personale al dono di sé da parte di Dio, la "verginità" o
piuttosto lo stato verginale del corpo si manifesterà pienamente come compimento
escatologico del significato "sponsale" del corpo, come il segno specifico e
l’espressione autentica di tutta la soggettività personale. Così, dunque, quella
situazione escatologica, in cui "non prenderanno moglie né marito", ha il suo
solido fondamento nello stato futuro del soggetto personale, quando, in seguito
alla visione di Dio "a faccia a faccia", nascerà in lui un amore di tale
profondità e forza di concentrazione su Dio stesso, da assorbire completamente
l’intera sua soggettività psicosomatica.
4. Questa concentrazione della conoscenza
("visione") e dell’amore su Dio stesso – concentrazione che non può essere altro
che la piena partecipazione alla vita interiore di Dio, cioè alla stessa Realtà
Trinitaria – sarà in pari tempo la scoperta, in Dio, di tutto il "mondo" delle
relazioni, costitutive del suo perenne ordine ( "cosmo"). Tale concentrazione
sarà soprattutto la riscoperta di sé da parte dell’uomo, non soltanto nella
profondità della propria persona, ma anche in quella unione che è propria del
mondo delle persone nella loro costituzione psicosomatica. Certamente questa è
una unione di comunione. La concentrazione della conoscenza e dell’amore su Dio
stesso nella comunione trinitaria delle Persone può trovare una risposta
beatificante in coloro che diverranno partecipi dell’"altro mondo", solo
attraverso il realizzarsi della comunione reciproca commisurata a persone create.
E per questo professiamo la fede nella "comunione dei Santi" ("communio
sanctorum") e la professiamo in connessione organica con la fede nella
"risurrezione dei morti". Le parole con cui Cristo afferma che nell’"altro
mondo... non prenderanno moglie né marito", stanno alla base di questi contenuti
della nostra fede, e, al tempo stesso, richiedono una adeguata interpretazione
appunto alla sua luce. Dobbiamo pensare alla realtà dell’"altro mondo" nelle
categorie della riscoperta di una nuova, perfetta soggettività di ognuno, ed
insieme della riscoperta di una nuova, perfetta intersoggettività di
tutti. In tal modo, questa realtà significa il vero e definitivo compimento
della soggettività umana, e, su questa base, il definitivo compimento del
significato "sponsale" del corpo. La totale concentrazione della soggettività
creata, redenta e glorificata, su Dio stesso non distoglierà l’uomo da questo
compimento, anzi – al contrario – ve lo introdurrà e ve lo consoliderà. Si può
dire, infine, che così la realtà escatologica diverrà fonte della perfetta
attuazione dell’"ordine trinitario" nel mondo creato delle persone.
5. Le parole con cui Cristo si richiama alla futura
risurrezione – parole confermate in modo singolare dalla sua risurrezione –
completano ciò che nelle presenti riflessioni siamo soliti chiamare "rivelazione
del corpo". Tale rivelazione penetra in un certo senso nel cuore stesso della
realtà che sperimentiamo, e questa realtà è soprattutto l’uomo, il suo corpo, il
corpo dell’uomo "storico". In pari tempo, questa rivelazione ci consente di
oltrepassare la sfera di questa esperienza in due direzioni. Innanzitutto, nella
direzione di quel "principio", al quale Cristo fa riferimento nel suo colloquio
con i Farisei riguardo alla indissolubilità del matrimonio (cf. Mt
19,3-9); in secondo luogo, nella direzione dell’"altro mondo", al quale il
Maestro richiama l’attenzione dei suoi ascoltatori in presenza dei Sadducei, che
"affermano che non c’è la risurrezione" (Mt 22,23). Questi due
"ampliamenti della sfera" dell’esperienza del corpo (se così si può dire) non
sono del tutto irraggiungibili per la nostra comprensione (ovviamente teologica)
del corpo. Ciò che il corpo umano è nell’ambito dell’esperienza storica
dell’uomo, non viene del tutto reciso da quelle due dimensioni della sua
esistenza, rivelate mediante la parola di Cristo.
6. È chiaro che qui si tratta non tanto del "corpo"
in astratto, ma dell’uomo che è spirituale e corporeo insieme. Proseguendo nelle
due direzioni, indicate dalla parola di Cristo, e riallacciandosi all’esperienza
del corpo nella dimensione della nostra esistenza terrena (quindi nella
dimensione storica), possiamo fare una certa ricostruzione teologica di ciò che
avrebbe potuto essere l’esperienza del corpo in base al "principio" rivelato
dell’uomo, e anche di ciò che esso sarà nella dimensione dell’"altro mondo". La
possibilità di tale ricostruzione, che amplia la nostra esperienza
dell’uomo-corpo, indica, almeno indirettamente, la coerenza dell’immagine
teologica dell’uomo in queste tre dimensioni, che insieme concorrono alla
costituzione della teologia del corpo.
Nell’interrompere, per oggi, le riflessioni su
questo tema, vi invito a rivolgere i vostri pensieri ai giorni santi
dell’Avvento che stiamo vivendo.
Mercoledì, 13 gennaio 1982
1. “Alla Risurrezione . . . non prenderanno moglie
né marito, ma saranno come angeli nei cieli” (Mc 12, 25; et Mt 22,
30). “. . . Sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono
figli di Dio” (Lc 20, 36).
Le parole, con cui Cristo si richiama alla futura
risurrezione - parole confermate in modo singolare dalla sua propria
risurrezione -, completano ciò che nelle presenti riflessioni siamo soliti
chiamare “rivelazione del corpo”. Tale rivelazione penetra per così dire nel
cuore stesso della realtà che sperimentiamo, e questa realtà è soprattutto
l’uomo, il suo corpo: il corpo dell’uomo “storico”. In pari tempo, tale
rivelazione ci consente di oltrepassare la sfera di questa esperienza in due
direzioni. Prima, nella direzione di quel “principio” al quale Cristo fa
riferimento nel suo colloquio con i Farisei riguardo all’indissolubilità del
matrimonio (cf. Mt 19, 3-8); poi, nella direzione del “mondo futuro”, al
quale il Maestro indirizza gli animi dei suoi ascoltatori in presenza dei
Sadducei, che “affermano che non c’è la risurrezione” (cf. Mt 22, 23).
2. Né la verità su quel “principio” di cui parla
Cristo, né la verità escatologica possono essere raggiunte dall’uomo con i soli
metodi empirici e razionalistici. Tuttavia, non è forse possibile affermare che
l’uomo porta, in un certo senso, queste due dimensioni nel profondo
dell’esperienza del proprio essere, o piuttosto che egli in qualche modo è
incamminato verso di esse come verso dimensioni che giustificano pienamente il
significato stesso del suo essere corpo, cioè del suo essere uomo “carnale”? In
quanto poi alla dimensione escatologica, non è forse vero che la morte stessa e
la distruzione del corpo possono conferire all’uomo un eloquente significato
circa l’esperienza in cui si realizza il senso personale dell’esistenza? Quando
Cristo parla della futura risurrezione, le sue parole non cadono nel vuoto.
L’esperienza dell’umanità, e specialmente l’esperienza del corpo, permettono
all’ascoltatore di unire a quelle parole l’immagine della nuova esistenza nel
“mondo futuro”, a cui l’esperienza terrena fornisce il substrato e la base. Una
corrispettiva ricostruzione teologica è possibile.
3. Alla costruzione di questa immagine - che, quanto
al contenuto, corrisponde all’articolo della nostra professione di fede: “credo
nella risurrezione dei morti” - concorre grandemente la consapevolezza che
esiste una connessione tra l’esperienza terrena e tutta la dimensione del
“principio” biblico dell’uomo nel mondo. Se in principio Dio “maschio e femmina
li creò” (Gen 1, 27), se in questa dualità relativa al corpo previde
anche una tale unità per cui “saranno una sola carne” (Gen 2, 24), se
questa unità legò alla benedizione della fecondità ossia della procreazione (cf.
Gen 1, 29), e se ora, parlando di fronte ai Sadducei della futura
risurrezione, Cristo spiega che nell’“altro mondo” . . . “non prenderanno moglie
né marito” - allora è chiaro che si tratta qui di uno sviluppo della verità
sullo stesso uomo. Cristo indica la sua identità, sebbene questa identità
si realizzi nella esperienza escatologica in modo diverso rispetto
all’esperienza del “principio” stesso e di tutta la storia. E tuttavia l’uomo
sarà sempre lo stesso, tale quale è uscito dalle mani del suo Creatore e Padre.
Cristo dice: “Non prenderanno moglie né marito”, ma non afferma che quest’uomo
del “mondo futuro” non sarà più maschio e femmina come lo fu “dal principio”. È
quindi evidente che il significato di essere, quanto al corpo, maschio o femmina
nel “mondo futuro” vada cercato fuori del matrimonio e della procreazione, ma
non vi è alcuna ragione di cercarlo fuori di ciò che (indipendentemente dalla
benedizione della procreazione) deriva dal mistero stesso della creazione e che
in seguito forma anche la più profonda struttura della storia dell’uomo sulla
terra, dato che questa storia è stata profondamente compenetrata dal mistero
della redenzione.
4. Nella sua situazione originaria, l’uomo dunque è
solo e nello stesso tempo diviene maschio e femmina: unità dei
due. Nella sua solitudine “si rivela” a sé come persona, per “rivelare”, ad un
tempo, nell’unità dei due la comunione delle persone. Nell’uno o nell’altro
stato, l’essere umano si costituisce quale immagine e somiglianza di Dio. Dal
principio l’uomo è anche corpo tra i corpi, e nell’unità dei due diviene maschio
e femmina, scoprendo il significato “sponsale” del suo corpo a misura di
soggetto personale. In seguito, il senso di essere-corpo e, in particolare, di
essere nel corpo maschio e femmina, viene collegato con il matrimonio e la
procreazione (e cioè con la paternità e la maternità). Tuttavia il
significato originario e fondamentale di essere corpo, come anche di
essere, in quanto corpo, maschio e femmina - cioè appunto quel significato
“sponsale” - è unito al fatto che l’uomo viene creato come persona e chiamato
alla vita “in communione personarum”. Il matrimonio e la procreazione in se
stessa non determinano definitivamente il significato originario e fondamentale
dell’essere corpo né dell’essere, in quanto corpo, maschio e femmina. Il
matrimonio e la procreazione danno soltanto realtà concreta a quel significato
nelle dimensioni della storia. La risurrezione indica la chiusura della
dimensione storica. Ed ecco che le parole “quando risusciteranno dai morti . . .
non prenderanno moglie né marito” (Mc 12, 25) esprimono univocamente non
soltanto quale significato non avrà il corpo umano nel “mondo futuro”, ma ci
consentono anche di dedurre che quel significato “sponsale” del corpo nella
risurrezione alla vita futura corrisponderà in modo perfetto sia al fatto che
l’uomo, come maschio-femmina, è persona creata a “immagine e somiglianza di
Dio”, sia al fatto che questa immagine si realizza nella comunione delle
persone. Quel significato “sponsale” di essere corpo si realizzerà, dunque, come
significato perfettamente personale e comunitario insieme.
5. Parlando del corpo glorificato attraverso la
risurrezione alla vita futura, abbiamo in mente l’uomo, maschio-femmina, in
tutta la verità della sua umanità: l’uomo che, insieme all’esperienza
escatologica del Dio vivo (alla visione “a faccia a faccia”),
sperimenterà appunto tale significato del proprio corpo. Sarà questa una
esperienza del tutto nuova, e contemporaneamente non sarà in nessun modo
alienata da ciò a cui l’uomo “da principio” ha avuto parte e neppure da ciò che,
nella dimensione storica della sua esistenza, ha costituito in lui la sorgente
della tensione tra lo spirito e il corpo, concernente per lo più proprio il
significato procreativo del corpo e del sesso. L’uomo del “mondo futuro”
ritroverà in tale nuova esperienza del proprio corpo appunto il compimento
di ciò che portava in sé perennemente e storicamente, in certo senso, come
eredità e ancor più come compito e obiettivo, come contenuto dell’ethos.
6. La glorificazione del corpo, quale frutto
escatologico della sua spiritualizzazione divinizzante, rivelerà il valore
definitivo di ciò che dal principio doveva essere un segno distintivo della
persona creata nel mondo visibile, come pure un mezzo del reciproco comunicarsi
tra le persone e un’autentica espressione della verità e dell’amore, per cui si
costruisce la “communio personarum”. Quel perenne significato del corpo umano, a
cui l’esistenza di ogni uomo, gravato dall’eredità della concupiscenza, ha
necessariamente arrecato una serie di limitazioni, lotte e sofferenze, allora si
svelerà di nuovo, e si svelerà in tale semplicità e splendore insieme che
ogni partecipante dell’“altro mondo” ritroverà nel suo corpo glorificato la
fonte della libertà del dono. La perfetta “libertà dei figli di Dio” (cf. Rm
8, 14) alimenterà con quel dono anche ciascuna delle comunioni che costituiranno
la grande comunità della comunione dei santi.
7. È troppo evidente che - sulla base delle
esperienze e conoscenze dell’uomo nella temporalità, cioè in “questo mondo” -
è difficile costruire una immagine pienamente adeguata del “mondo futuro”.
Tuttavia al tempo stesso non c’è dubbio che, con l’aiuto delle parole di Cristo,
è possibile e raggiungibile almeno una certa approssimazione a questa immagine.
Ci serviamo di questa approssimazione teologica, professando la nostra fede
nella “risurrezione dei morti” e nella “vita eterna”, come anche la fede nella
“comunione dei santi”, che appartiene alla realtà del “mondo futuro”.
8. Nel concludere questa parte delle nostre
riflessioni, conviene costatare ancora una volta che le parole di Cristo
riportate dai Vangeli sinottici (Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc
20, 34-35) hanno un significato determinante non soltanto per quel che
concerne le parole del libro della Genesi (alle quali Cristo fa riferimento in
un’altra circostanza), ma anche in quel che concerne tutta la Bibbia. Queste
parole ci consentono, in certo senso, di rileggere nuovamente - cioè fino in
fondo - tutto il significato rivelato del corpo, il significato di essere uomo,
cioè persona “incarnata”, di essere in quanto corpo maschio-femmina. Queste
parole ci permettono di comprendere che cosa può significare, nella dimensione
escatologica dell’“altro mondo”, quella unità nell’umanità, che è stata
costituita “in principio” e che le parole della Genesi 2, 24 (“L’uomo . .
. si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”), pronunziate nell’atto
della creazione dell’uomo come maschio e femmina, sembravano orientare - se non
completamente, almeno, in ogni caso, soprattutto verso “questo mondo”. Dato che
le parole del Libro della Genesi erano quasi la soglia di tutta la teologia del
corpo - soglia su cui si è basato Cristo nel suo insegnamento sul matrimonio e
sulla sua indissolubilità - allora bisogna ammettere che le sue parole riportate
dai Sinottici sono come una nuova soglia di questa verità integrale
sull’uomo, che ritroviamo nella Parola rivelata di Dio. È indispensabile che
ci soffermiamo su questa soglia, se vogliamo che la nostra teologia del corpo -
e anche la nostra “spiritualità del corpo” cristiana - possano servirsene come
di una completa immagine.
Mercoledì, 27 gennaio 1982
1. Durante le precedenti Udienze abbiamo riflettuto
sulle parole di Cristo circa “l’altro mondo”, che emergerà insieme alla
risurrezione dei corpi.
Quelle parole ebbero una risonanza singolarmente
intensa nell’insegnamento di san Paolo. Tra la risposta data ai Sadducei,
trasmessa dai Vangeli sinottici (cf. Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc
20, 35-36) e l’apostolato di Paolo ebbe luogo prima di tutto il fatto della
risurrezione di Cristo stesso e una serie di incontri con il Risorto, tra i
quali occorre annoverare, come ultimo anello, l’evento occorso nei pressi di
Damasco. Saulo o Paolo di Tarso che, convertito, divenne l’“apostolo dei
gentili”, ebbe anche la propria esperienza post-pasquale, analoga a
quella degli altri Apostoli. Alla base della sua fede nella risurrezione, che
egli esprime soprattutto nella prima lettera ai Corinzi (cf. 1 Cor 15),
sta certamente quell’incontro con il Risorto, che divenne inizio e fondamento
del suo apostolato.
2. È difficile qui riassumere e commentare
adeguatamente la stupenda ed ampia argomentazione del 15° capitolo della prima
lettera ai Corinzi in tutti i suoi particolari. È significativo che, mentre
Cristo con le parole riportate dai Vangeli sinottici rispondeva ai Sadducei, i
quali “negano che vi sia la risurrezione” (Lc 20, 27), Paolo, da parte
sua, risponde o piuttosto polemizza (conformemente al suo temperamento) con
coloro che lo contestano (I Corinzi erano probabilmente travagliati da correnti
di pensiero improntate al dualismo platonico e al neopitagorismo di sfumatura
religiosa, allo stoicismo e all'epicureismo: tutte le filosofie greche, del
resto, negavano la risurrezione del corpo. Paolo aveva già sperimentato ad Atene
la reazione dei Greci alla dottrina della risurrezione, durante il suo discorso
all'Areopago - cfr. Act. 17, 32). Cristo, nella sua risposta (pre-pasquale)
non faceva riferimento alla propria risurrezione, ma si richiamava alla
fondamentale realtà dell’alleanza veterotestamentaria, alla realtà del Dio vivo,
che è a base del convincimento circa la possibilità della risurrezione: il Dio
vivo “non è un Dio dei morti ma dei viventi” (Mc 12, 27). Paolo nella sua
argomentazione post-pasquale sulla futura risurrezione si richiama soprattutto
alla realtà e alla verità della risurrezione di Cristo. Anzi, difende tale
verità persino quale fondamento della fede nella sua integrità: “. . . Se Cristo
non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la
nostra fede . . . Ora invece, Cristo è risuscitato dai morti” (1 Cor 15,
14. 20).
3. Qui ci troviamo sulla stessa linea della
rivelazione: la risurrezione di Cristo è l’ultima e la più piena parola
dell’autorivelazione del Dio vivo quale “Dio non dei morti ma dei
viventi” (Mc 12, 27). Essa è l’ultima e più piena conferma della
verità su Dio che fin dal principio si esprime attraverso questa rivelazione. La
risurrezione, inoltre, è la risposta del Dio della vita all’inevitabilità
storica della morte, a cui l’uomo è stato sottoposto dal momento della rottura
della prima alleanza, e che, insieme al peccato, è entrata nella sua storia.
Tale risposta circa la vittoria riportata sulla morte, è illustrata dalla prima
lettera ai Corinzi (cf. 1 Cor 15) con una singolare perspicacia,
presentando la risurrezione di Cristo come l’inizio di quel compimento
escatologico, in cui per lui ed in lui tutto ritornerà al Padre, tutto gli sarà
sottomesso, cioè riconsegnato definitivamente, perché “Dio sia tutto in tutti” (1
Cor 15, 28). Ed allora - in questa definitiva vittoria sul peccato, su ciò
che contrapponeva la creatura al Creatore - verrà anche vinta la morte:
“L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte” (1 Cor 15, 26).
4. In tale contesto sono inserite le parole che
possono esser ritenute sintesi dell’antropologia paolina concernente la
risurrezione. Ed è su queste parole che ci converrà soffermarci qui più a lungo.
Leggiamo, infatti, nella prima lettera ai Corinzi 15, 42-46, circa la
risurrezione dai morti: “Si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si
semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza;
si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale. Se c’è un corpo
animale, vi è anche un corpo spirituale, poiché sta scritto che il primo uomo,
Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di
vita. Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo
spirituale”.
5. Tra questa antropologia paolina della
risurrezione e quella che emerge dal testo dei Vangeli sinottici (Mt 22,
30; Mc 12, 25; Lc 20, 35-36), esiste una coerenza essenziale, solo
che il testo della prima lettera ai Corinzi è maggiormente sviluppato. Paolo
approfondisce ciò che aveva annunciato Cristo, penetrando, ad un tempo, nei vari
aspetti di quella verità che nelle parole scritte dai sinottici era stata
espressa in modo conciso e sostanziale. È inoltre significativo per il testo
paolino che la prospettiva escatologica dell’uomo, basata sulla fede
“nella risurrezione dai morti”, è unita con il riferimento al “principio”
come pure con la profonda coscienza della situazione “storica” dell’uomo.
L’uomo, al quale Paolo si rivolge nella prima lettera ai Corinzi e che si oppone
(come i Sadducei) alla possibilità della risurrezione, ha anche la sua
(“storica”) esperienza del corpo, e da questa esperienza risulta con tutta
chiarezza che il corpo è “corruttibile”, “debole”, “animale”, “ignobile”.
6. Un tale uomo, destinatario del suo scritto - sia
nella comunità di Corinto sia pure, direi, in tutti i tempi - Paolo lo confronta
con Cristo risorto, “l’ultimo Adamo”. Così facendo, lo invita, in un certo
senso, a seguire le orme della propria esperienza post-pasquale. In pari tempo
gli ricorda “il primo Adamo”, ossia lo induce a rivolgersi al “principio”, a
quella prima verità circa l’uomo e il mondo, che sta alla base della rivelazione
del mistero del Dio vivo. Così, dunque, Paolo riproduce nella sua sintesi
tutto ciò che Cristo aveva annunziato, quando si era richiamato, in tre
momenti diversi, al “principio” nel colloquio con i Farisei (cf. Mt 19,
3-8; Mc 10, 2-9); al “cuore” umano, come luogo di lotta con le
concupiscenze nell’interno dell’uomo, durante il discorso della Montagna (cf.
Mt 5, 27); e alla risurrezione come realtà dell’“altro mondo” nel colloquio
con i Sadducei (cf. Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc 20, 35-36).
7. Allo stile della sintesi di Paolo appartiene
quindi il fatto che essa affonda le sue radici nell’insieme del mistero rivelato
della creazione e della redenzione, da cui essa si sviluppa e alla cui luce
soltanto si spiega. La creazione dell’uomo, secondo il racconto biblico, è una
vivificazione della materia mediante lo spirito, grazie a cui “il primo uomo
Adamo . . . divenne un essere vivente” (1 Cor 15, 45). Il testo paolino
ripete qui le parole del libro della Genesi 2, 7, cioè del secondo
racconto della creazione dell’uomo (cosiddetto: racconto jahvista). È noto dalla
stessa fonte che questa originaria “animazione del corpo” ha subìto una
corruzione a causa del peccato. Sebbene a questo punto della prima lettera ai
Corinzi l’Autore non parli direttamente del peccato originale, tuttavia la serie
di definizioni che attribuisce al corpo dell’uomo storico, scrivendo che è
“corruttibile . . . debole . . . animale . . . ignobile . . .”, indica
sufficientemente ciò che, secondo la rivelazione, è conseguenza del peccato, ciò
che lo stesso Paolo chiamerà altrove “schiavitù della corruzione” (Rm 8,
21). A questa “schiavitù della corruzione” è sottoposta indirettamente tutta
la creazione a causa del peccato dell’uomo, il quale fu posto dal Creatore
in mezzo al mondo visibile perché “dominasse” (cf. Gen 1, 28). Così il
peccato dell’uomo ha una dimensione non solo interiore, ma anche “cosmica”. E
secondo tale dimensione, il corpo - che Paolo (in conformità alla sua
esperienza) caratterizza come “corruttibile . . . debole . . . animale . . .
ignobile . . .” - esprime in sé lo stato della creazione dopo il peccato. Questa
creazione, infatti, “geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto” (Rm
8, 22). Tuttavia, come le doglie del parto sono unite al desiderio della
nascita, alla speranza di un uomo nuovo, così anche tutta la creazione attende
“con impazienza la rivelazione dei figli di Dio . . . e nutre la speranza di
essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella
libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8, 19-21).
8. Attraverso tale contesto “cosmico”
dell’affermazione contenuta nella lettera ai Romani - in certo senso, attraverso
il “corpo di tutte le creature” - cerchiamo di comprendere fino in fondo
l’interpretazione paolina della risurrezione. Se questa immagine del corpo
dell’uomo storico, così profondamente realistica e adeguata all’esperienza
universale degli uomini, nasconde in sé, secondo Paolo, non soltanto
la “schiavitù della corruzione”, ma anche la speranza, simile a quella che
accompagna “le doglie del parto”, ciò avviene perché l’Apostolo coglie in questa
immagine anche la presenza del mistero della redenzione. La coscienza di
quel mistero si sprigiona appunto da tutte le esperienze dell’uomo che si
possono definire come “schiavitù della corruzione”; e si sprigiona, perché la
redenzione opera nell’anima dell’uomo mediante i doni dello Spirito: “. .
. Anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente
aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Rm 8,
23). La redenzione è la via alla risurrezione. La risurrezione costituisce il
definitivo compimento della redenzione del corpo. Riprenderemo l’analisi del
testo paolino nella prima lettera ai Corinzi nelle nostre ulteriori riflessioni.
Mercoledì, 3 febbraio 1982
1. Dalle parole di Cristo sulla futura risurrezione
dei morti, riportate da tutti e tre i Vangeli sinottici (Matteo, Marco e Luca),
siamo passati all’antropologia paolina della risurrezione. Analizziamo la prima
lettera ai Corinzi al capitolo 15 versetti 42-49.
Nella risurrezione il corpo umano si manifesta -
secondo le parole dell’Apostolo - “incorruttibile, glorioso, pieno di forza,
spirituale”. La risurrezione non è, dunque, soltanto una manifestazione della
vita che vince la morte - quasi un ritorno finale all’albero della Vita, dal
quale l’uomo è stato allontanato al momento del peccato originale - ma è anche
una rivelazione degli ultimi destini dell’uomo in tutta la pienezza della sua
natura psicosomatica e della sua soggettività personale. Paolo di Tarso - il
quale, seguendo le orme degli altri Apostoli, ha sperimentato nell’incontro con
Cristo risorto lo stato del suo corpo glorificato - basandosi su questa
esperienza, annunzia nella lettera ai Romani “la redenzione del corpo” (Rm
8, 23) e nella lettera ai Corinzi (1 Cor 15, 42-49) il compimento
di questa redenzione nella futura risurrezione.
2. Il metodo letterario, applicato qui da Paolo,
corrisponde perfettamente al suo stile. Questo si serve di antitesi, che ad un
tempo avvicinano ciò che contrappongono e in tal modo sono utili a farci
comprendere il pensiero paolino circa la risurrezione: sia nella sua dimensione
“cosmica”, sia per quanto riguarda la caratteristica della stessa struttura
interna dell’uomo “terrestre” e “celeste”. L’Apostolo, infatti, nel contrapporre
Adamo e Cristo (risorto) - ossia il primo Adamo all’ultimo Adamo - mostra, in
certo senso, i due poli, tra i quali, nel mistero della creazione e della
redenzione, è stato situato l’uomo nel cosmo; si potrebbe pure dire che
l’uomo sia stato “posto in tensione” tra questi due poli nella prospettiva
degli eterni destini, riguardanti, dal principio sino alla fine, la stessa
sua natura umana. Quando Paolo scrive: “Il primo uomo tratto dalla terra è di
terra, il secondo uomo viene dal cielo” (1 Cor 15, 47), ha in mente sia
Adamo-uomo sia pure Cristo quale uomo. Tra questi due poli - tra il primo e
l’ultimo Adamo - si svolge il processo che egli esprime nelle seguenti parole:
“Come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine
dell’uomo celeste” (1 Cor 15, 49).
3. Quest’“uomo celeste” - l’uomo della risurrezione,
il cui prototipo è Cristo risorto - non è tanto antitesi e negazione dell’“uomo
di terra” (il cui prototipo è il “primo Adamo”), ma soprattutto è il suo
compimento e la sua confermazione. È il compimento e la confermazione di ciò che
corrisponde alla costituzione psico-somatica dell’umanità, nell’ambito dei
destini eterni, cioè nel pensiero e nel piano di colui che dal principio creò
l’uomo a sua immagine e somiglianza. L’umanità del “primo Adamo”, “uomo di
terra”, porta in sé, direi, una particolare potenzialità (che è capacità
e prontezza) ad accogliere tutto ciò che divenne il “secondo Adamo”,
l’Uomo celeste, ossia Cristo: ciò che egli divenne nella sua risurrezione.
Quella umanità di cui sono partecipi tutti gli uomini, figli del primo Adamo, e
che, insieme all’eredità del peccato - essendo carnale - al tempo stesso è
“corruttibile”, e porta in sé la potenzialità dell’“incorruttibilità”.
Quell’umanità, che in tutta la sua costituzione
psicosomatica si manifesta “ignobile”, e tuttavia porta in sé l’interiore
desiderio della gloria, cioè la tendenza e la capacità di diventare “gloriosa”,
a immagine del Cristo risorto. Infine, la stessa umanità, di cui l’Apostolo -
conformemente all’esperienza di tutti gli uomini - dice che è “debole” e ha
“corpo animale”, porta in sé l’aspirazione a divenire “piena di forza” e
“spirituale”.
4. Noi parliamo qui della natura umana nella sua
integrità, cioè della umanità nella sua costituzione psicosomatica. Paolo,
invece, parla del “corpo”. Tuttavia possiamo ammettere, in base al contesto
immediato e a quello remoto, che non si tratta per lui soltanto del corpo, ma
dell’uomo intero nella sua corporeità, dunque anche della sua complessità
ontologica. Difatti, non vi è alcun dubbio che, se appunto in tutto il mondo
visibile (cosmo), quell’unico corpo che è il corpo umano, porta in sé la
“potenzialità della risurrezione”, cioè l’aspirazione e la capacità di diventare
definitivamente “incorruttibile, glorioso, pieno di forza, spirituale”, ciò
avviene perché, persistendo dal principio nell’unità psicosomatica dell’essere
personale, egli può cogliere e riprodurre in questa “terrena” immagine e
somiglianza di Dio anche l’immagine “celeste” dell’ultimo Adamo, Cristo.
L’antropologia paolina della risurrezione è cosmica ed universale insieme: ogni
uomo porta in sé l’immagine di Adamo e ognuno è anche chiamato a portare in sé
l’immagine di Cristo, l’immagine del Risorto. Questa immagine è la realtà
dell’“altro mondo”, la realtà escatologica (san Paolo scrive: “porteremo”); ma,
nel contempo, essa è già in certo modo una realtà di questo mondo, dato che è
stata rivelata in esso mediante la risurrezione di Cristo. È una realtà
innestata nell’uomo di “questo mondo”, realtà che in lui sta maturando verso il
compimento finale.
5. Tutte le antitesi che si susseguono nel testo di
Paolo aiutano a costruire un valido abbozzo dell’antropologia della
risurrezione. Tale abbozzo è contemporaneamente più dettagliato di quello che
emerge dal testo dei Vangeli sinottici (Mt 22, 30; Mc 12, 25;
Lc 20, 34-35), ma dall’altra parte è, in certo senso, più unilaterale. Le
parole di Cristo riportate dai Sinottici, aprono davanti a noi la prospettiva
della perfezione escatologica del corpo, sottomesso pienamente alla profondità
divinizzatrice della visione di Dio “a faccia a faccia”, in cui troverà la sua
inesauribile fonte sia la perenne “verginità” (unita al significato sponsale del
corpo), sia la perenne “intersoggettività” di tutti gli uomini, che diverranno
(come maschi e femmine) partecipi della risurrezione. L’abbozzo paolino
della perfezione escatologica del corpo glorificato sembra rimanere piuttosto
nell’ambito della stessa struttura interiore dell’uomo-persona. La sua
interpretazione della futura risurrezione sembrerebbe riallacciarsi al
“dualismo” corpo-spirito che costituisce la sorgente dell’interiore “sistema di
forze” nell’uomo.
6. Questo “sistema di forze” subirà nella
risurrezione un cambiamento radicale. Le parole di Paolo, che lo suggeriscono in
modo esplicito, non possono tuttavia essere intese ed interpretate nello spirito
dell’antropologia dualistica (“Paul ne tient absolument pas compte de la
dichotomie grecque “me et corps” . . . L’apôtre recourt à une sorte de
trichotomie où la totalité de l’homme est corps, me et esprit . . . Tous ces
termes sont mouvants et la division elle-même n’a pas de frontière fixe. Il y a
insistance sur le fait que le corps et l’âme sont capables d’être “pneumatiques”,
spirituels” [B. Rigaux, Dieu l’a ressuscité. Exégèse et théologie biblique,
Gembloux 1973, Duculot, pp. 406-408]) come cercheremo di mostrare nel seguito
della nostra analisi. Infatti, ci converrà dedicare ancora una riflessione
all’antropologia della risurrezione nella luce della prima lettera ai Corinzi.
Mercoledì, 10 febbraio 1982
1. Dalle parole di Cristo sulla futura risurrezione
dei corpi, riportate da tutti e tre i Vangeli sinottici (Matteo, Marco e Luca),
siamo passati nelle nostre riflessioni a ciò che su quel tema scrive Paolo
nella prima lettera ai Corinzi (1 Cor 15). La nostra analisi
s’incentra soprattutto su ciò che si potrebbe denominare “antropologia della
risurrezione” secondo san Paolo. L’Autore della lettera contrappone lo stato
dell’uomo “di terra” (cioè storico) allo stato dell’uomo risorto,
caratterizzando, in modo lapidario e penetrante insieme, l’interiore “sistema di
forze” specifico di ciascuno di questi stati.
2. Che questo sistema interiore di forze debba
subire nella risurrezione una radicale trasformazione, sembra indicato, prima di
tutto, dalla contrapposizione tra corpo “debole” e corpo “pieno di forza”. Paolo
scrive: “Si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e
risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza” (1 Cor 15,
42-43). “Debole” è quindi il corpo che - usando il linguaggio metafisico - sorge
dal suolo temporale dell’umanità. La metafora paolina corrisponde parimenti alla
terminologia scientifica, che definisce l’inizio dell’uomo in quanto corpo con
lo stesso termine (“semen”). Se, agli occhi dell’Apostolo, il corpo umano
che sorge dal seme terrestre risulta “debole”, ciò significa non soltanto che
esso è “corruttibile”, sottoposto alla morte ed a tutto ciò che vi conduce, ma
pure che è “corpo animale”.(L’originale greco usa il termine psychikón.
In san Paolo esso appare solo nella prima lettera ai Corinzi [2, 14; 15, 44; 15,
46] e non altrove, probabilmente a causa delle tendenze pregnostiche dei
Corinzi, ed ha un significato peggiorativo; riguardo al contenuto,
corrisponde al termine “carnale” [cf. 2Cor 1,12; 10,4].
Tuttavia nelle altre lettere paoline la “psyche” e i suoi derivati significano l’esistenza terrena dell’uomo nelle sue manifestazioni, il modo di vivere dell’individuo e perfino la stessa persona in senso positivo [ad es., per indicare l’ideale di vita della comunità ecclesiale: miâ psychê-i “in un solo spirito”: Fil 1, 27; sýmpsychoi = “con l’unione dei vostri spiriti”: Fil 2, 2; isópsychon = “d’animo uguale”: Fil 2, 20; cf. R Jewett, Paul’s Anthropological Terms. A. Study of Their Use in Conflict Settings, Leiden 1971, Brill, pp. 2, 448-449]) Il corpo “pieno di forza”, invece, che l’uomo erediterà dall’ultimo Adamo, Cristo, in quanto partecipe della futura risurrezione sarà un corpo “spirituale”. Esso sarà incorruttibile, non più minacciato dalla morte. Così, dunque, l’antinomia “debole-pieno di forza” si riferisce esplicitamente non tanto al corpo considerato a parte, quanto a tutta la costituzione dell’uomo considerato nella sua corporeità. Solo nel quadro di una tale costituzione il corpo può diventare “spirituale”; e tale spiritualizzazione del corpo sarà la fonte della sua forza ed incorruttibilità (o immortalità).
Tuttavia nelle altre lettere paoline la “psyche” e i suoi derivati significano l’esistenza terrena dell’uomo nelle sue manifestazioni, il modo di vivere dell’individuo e perfino la stessa persona in senso positivo [ad es., per indicare l’ideale di vita della comunità ecclesiale: miâ psychê-i “in un solo spirito”: Fil 1, 27; sýmpsychoi = “con l’unione dei vostri spiriti”: Fil 2, 2; isópsychon = “d’animo uguale”: Fil 2, 20; cf. R Jewett, Paul’s Anthropological Terms. A. Study of Their Use in Conflict Settings, Leiden 1971, Brill, pp. 2, 448-449]) Il corpo “pieno di forza”, invece, che l’uomo erediterà dall’ultimo Adamo, Cristo, in quanto partecipe della futura risurrezione sarà un corpo “spirituale”. Esso sarà incorruttibile, non più minacciato dalla morte. Così, dunque, l’antinomia “debole-pieno di forza” si riferisce esplicitamente non tanto al corpo considerato a parte, quanto a tutta la costituzione dell’uomo considerato nella sua corporeità. Solo nel quadro di una tale costituzione il corpo può diventare “spirituale”; e tale spiritualizzazione del corpo sarà la fonte della sua forza ed incorruttibilità (o immortalità).
3. Questo tema ha le sue origini già nei primi
capitoli del libro della Genesi. Si può dire che san Paolo vede la realtà della
futura risurrezione come una certa “restitutio in integrum”, cioè come la
reintegrazione ed insieme il raggiungimento della pienezza dell’umanità. Non è
soltanto una restituzione, perché in tal caso la risurrezione sarebbe, in certo
senso, ritorno a quello stato, cui partecipava l’anima prima del peccato, fuori
della conoscenza del bene e del male (cf. Gen 1-2). Ma un tale ritorno
non corrisponde alla logica interna di tutta l’economia salvifica, al più
profondo significato del mistero della redenzione. “Restitutio in integrum”,
collegata con la risurrezione e la realtà dell’“altro mondo”, può essere solo
introduzione ad una nuova pienezza. Questa sarà una pienezza che presuppone
tutta la storia dell’uomo, formata dal dramma dell’albero della conoscenza del
bene e del male (cf. Gen 3) e nello stesso tempo permeata dal mistero
della redenzione.
4. Secondo le parole della prima lettera ai Corinzi,
l’uomo in cui la concupiscenza prevale sulla spiritualità, cioè, il “corpo
animale” (1 Cor 15, 44), è condannato alla morte; deve invece risorgere
un “corpo spirituale”, l’uomo in cui lo spirito otterrà una giusta supremazia
sul corpo, la spiritualità sulla sensualità. È facile da intendere che Paolo ha
qui in mente la sensualità quale somma dei fattori che costituiscono la
limitazione della spiritualità umana, cioè quale forza che “lega” lo spirito
(non necessariamente nel senso platonico) mediante la restrizione della sua
propria facoltà di conoscere (vedere) la verità ed anche della facoltà di volere
liberamente e di amare nella verità. Non può invece trattarsi qui di quella
funzione fondamentale dei sensi, che serve a liberare la spiritualità, cioè
della semplice facoltà di conoscere e di volere, propria del “compositum”
psicosomatico del soggetto umano. Siccome si parla della risurrezione del corpo,
cioè dell’uomo nella sua autentica corporeità, di conseguenza il “corpo
spirituale” dovrebbe significare appunto la perfetta sensibilità dei sensi,
la loro perfetta armonizzazione con l’attività dello spirito umano nella
verità e nella libertà. Il “corpo animale”, che è l’antitesi terrena del “corpo
spirituale”, indica invece la sensualità come forza che spesso pregiudica
l’uomo, in quanto egli, vivendo “nella conoscenza del bene e del male”, viene
sollecitato e quasi spinto verso il male.
5. Non si può dimenticare che qui è in questione non
tanto il dualismo antropologico, quanto una antinomia di fondo. Di essa fa parte
non solo il corpo (come “hyle” aristotelica), ma anche l’anima: ossia,
l’uomo come “anima vivente” (cf. Gen 2, 7). I suoi costitutivi, invece,
sono: da un lato tutto l’uomo, l’insieme della sua soggettività psicosomatica,
in quanto rimane sotto l’influsso dello Spirito vivificante di Cristo;
dall’altro lato lo stesso uomo, in quanto resiste e si contrappone a questo
Spirito. Nel secondo caso, l’uomo è “corpo animale” (e le sue opere sono “opere
della carne”). Se, invece, rimane sotto l’influsso dello Spirito Santo,
l’uomo è “spirituale” (e produce il “frutto dello Spirito”) (Gal 5, 22).
6. Di conseguenza, si può dire che non solo in 1
Cor 15 abbiamo a che fare con l’antropologia della risurrezione, ma che
tutta l’antropologia (e l’etica) di san Paolo sono permeate dal mistero della
risurrezione, mediante cui abbiamo definitivamente ricevuto lo Spirito Santo. Il
capitolo 15 della prima lettera ai Corinzi costituisce l’interpretazione paolina
dell’“altro mondo” e dello stato dell’uomo in quel mondo, nel quale ciascuno,
insieme con la risurrezione del corpo, parteciperà pienamente al dono dello
Spirito vivificante, cioè al frutto della risurrezione di Cristo.
7. Concludendo l’analisi della “antropologia della
risurrezione” secondo la prima lettera di Paolo ai Corinzi, ci conviene ancora
una volta volgere la mente verso quelle parole di Cristo sulla
risurrezione e sull’“altro mondo”, che sono riportate dagli evangelisti Matteo,
Marco e Luca. Ricordiamo che, rispondendo ai Sadducei, Cristo collegò la fede
nella risurrezione con tutta la rivelazione del Dio di Abramo, di Isacco, di
Giacobbe e di Mosè, il quale “non è Dio dei morti, ma dei vivi” (Mt 22,
32). E contemporaneamente, respingendo la difficoltà avanzata dagli
interlocutori, pronunziò queste significative parole: “Quando risusciteranno dai
morti . . . non prenderanno moglie né marito” (Mc 12, 25). Appunto a
quelle parole - nel loro immediato contesto - abbiamo dedicato le nostre
precedenti considerazioni, passando poi all’analisi della prima lettera di san
Paolo ai Corinzi (1 Cor. 15).
Queste riflessioni hanno un significato fondamentale
per tutta la teologia del corpo: per comprendere sia il matrimonio sia il
celibato “per il regno dei cieli”. A quest’ultimo argomento saranno dedicate le
nostre ulteriori analisi.
QUARTO CICLO
La verginità cristiana
Mercoledì, 10 marzo 1982
1. Cominciamo oggi a riflettere sulla verginità o
celibato “per il regno dei cieli”.
La questione della chiamata ad una esclusiva
donazione di sé a Dio nella verginità e nel celibato affonda profondamente le
sue radici nel suolo evangelico della teologia del corpo. Per rilevare le
dimensioni che le sono proprie, occorre tener presenti le parole, con cui Cristo
fece riferimento al “principio”, e anche quelle, con cui egli si richiamò alla
risurrezione dei corpi. La constatazione: “Quando risusciteranno dai morti . .
., non prenderanno moglie né marito” (Mc 12, 25), indica che c’è una
condizione di vita priva di matrimonio, in cui l’uomo, maschio e femmina, trova
ad un tempo la pienezza della donazione personale e dell’intersoggettiva
comunione delle persone, grazie alla glorificazione di tutto il suo essere
psicosomatico nell’unione perenne con Dio. Quando la chiamata alla continenza
“per il regno dei cieli” trova eco nell’anima umana, nelle condizioni della
temporalità e cioè nelle condizioni in cui le persone di solito “prendono moglie
e prendono marito” (Lc 20, 34), non è difficile percepirvi una
particolare sensibilità dello spirito umano, che già nelle condizioni della
temporalità sembra anticipare ciò di cui l’uomo diverrà partecipe nella
futura risurrezione.
2. Tuttavia di questo problema, di questa
particolare vocazione, Cristo non ha parlato nel contesto immediato del suo
colloquio con i Sadducei (cf. Mt 22, 23-30; Mc 12, 18-25; Lc
20, 27-36), quando si era riferito alla risurrezione dei corpi. Invece ne aveva
parlato (già prima) nel contesto del colloquio con i Farisei sul matrimonio e
sulle basi della sua indissolubilità, quasi come prolungamento di quel colloquio
(cf. Mt 19, 3-9). Le sue parole conclusive riguardano la cosiddetta
lettera di ripudio, consentita da Mosè in alcuni casi. Cristo dice: “Per la
durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da
principio non fu così. Perciò io vi dico: Chiunque ripudia la propria moglie, se
non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra, commette adulterio” (Mt
19, 8-9). Allora i discepoli che - come si può dedurre dal contesto - erano
attenti ad ascoltare quel colloquio e in particolare le ultime parole
pronunziate da Gesù, gli dicono così: “Se questa è la condizione dell’uomo
rispetto alla donna, non conviene sposarsi” (Mt 19, 10). Cristo dà loro
la seguente risposta: “Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è
stato concesso. Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della
madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono
altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire,
capisca” (Mt 19, 11-12).
3. In relazione a questo colloquio, riportato da
Matteo, ci si può porre la domanda: che cosa pensavano i discepoli, quando, dopo
aver udito la risposta che Gesù aveva dato ai Farisei sul matrimonio e la sua
indissolubilità, espressero la loro osservazione: “Se questa è la condizione
dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi”? In ogni caso, Cristo
ritenne quella circostanza opportuna per parlare loro della continenza
volontaria per il Regno dei cieli. Dicendo questo, egli non prende direttamente
posizione riguardo all’enunciato dei discepoli, nè rimane nella linea del loro
ragionamento. (Sui problemi più dettagliati dell’esegesi di questo brano, vedi
per esempio L. Sabourin, Il Vangelo di Matteo. Teologia e Esegesi, vol.
II, pp. 834-836; The Positive Values of Consecrated Celibacy, in “The
Way”, Supplement 10, summer 1970, p. 51; J. Blinzler, Eisin eunuchoi. Zur
Auslegung von Mt 19, 12, “Zeitschrift für die Neutestamentliche Wissenschaft”
48 [1957] 268 ss.) Quindi non risponde: “Conviene sposarsi” o “Non conviene
sposarsi”. La questione della continenza per il Regno dei cieli non è
contrapposta al matrimonio, né si basa su di un giudizio negativo riguardo alla
sua importanza. Del resto, Cristo, parlando precedentemente della
indissolubilità del matrimonio, si era riferito al “principio”, cioè al mistero
della creazione indicando così la prima e fondamentale fonte del suo valore. Di
conseguenza, per rispondere alla domanda dei discepoli, o piuttosto per chiarire
il problema da loro posto, Cristo ricorre ad un altro principio. Non per
il fatto che “non conviene sposarsi”, ossia non per il motivo di un supposto
valore negativo del matrimonio è osservata la continenza da coloro che nella
vita fanno tale scelta “per il Regno dei cieli”, ma in vista del particolare
valore che è connesso con tale scelta e che occorre personalmente scoprire e
cogliere come propria vocazione. E perciò Cristo dice: “Chi può capire, capisca”
(Mt 19, 12). Invece subito prima dice: “Non tutti possono capirlo, ma
solo coloro ai quali è stato concesso” (Mt 19, 11).
4. Come si vede, Cristo, nella sua risposta al
problema postogli dai discepoli, precisa chiaramente una regola per
comprendere le sue parole. Nella dottrina della Chiesa vige la convinzione
che queste parole non esprimono un comandamento che obbliga tutti, ma un
consiglio che riguarda soltanto alcune persone: (Parimenti la santità della
Chiesa è in modo speciale favorita dai molteplici consigli, che il Signore nel
Vangelo propone all’osservanza dei suoi discepoli. Tra essi eccelle il prezioso
dono della grazia divina, dato dal Padre ad alcuni [cf. Mt 19, 11; 1
Cor 7, 7], perché più facilmente con cuore indiviso si consacrino solo a Dio
nella verginità o nel celibato [Lumen
Gentium, 42]) quelle appunto che sono in grado “di capirlo”. E sono in
grado “di capirlo” coloro “ai quali è stato concesso”. Le parole citate indicano
chiaramente il momento della scelta personale ed insieme il momento della grazia
particolare, cioè del dono che l’uomo riceve per fare una tale scelta. Si può
dire che la scelta della continenza per il Regno dei cieli è un orientamento
carismatico verso quello stato escatologico, in cui gli uomini “non prenderanno
moglie né marito”: tuttavia, tra quello stato dell’uomo nella risurrezione dei
corpi e la volontaria scelta della continenza per il Regno dei cieli nella vita
terrena e nello stato storico dell’uomo caduto e redento, esiste una differenza
essenziale. Quel “non sposarsi” escatologico sarà uno “stato”, cioè il
modo proprio e fondamentale dell’esistenza degli esseri umani, uomini e donne,
nei loro corpi glorificati. La continenza per il Regno dei cieli, come
frutto di una scelta carismatica, è una eccezione rispetto all’altro stato,
cioè a quello di cui l’uomo “dal principio” è divenuto e rimane partecipe nel
corso di tutta l’esistenza terrena.
5. È molto significativo che Cristo non collega
direttamente le sue parole sulla continenza per il Regno dei cieli con il
preannunzio dell’“altro mondo”, in cui “non prenderanno moglie né marito” (Mc
12, 25). Le sue parole, invece, si trovano - come abbiamo già detto - nel
prolungamento del colloquio con i Farisei, in cui Gesù si è richiamato “al
principio”, indicando l’istituzione del matrimonio da parte del Creatore e
ricordando il carattere indissolubile che, nel disegno di Dio, corrisponde
all’unità coniugale dell’uomo e della donna.
Il consiglio e quindi la scelta carismatica della
continenza per il Regno dei cieli sono collegati, nelle parole di Cristo, con il
massimo riconoscimento dell’ordine “storico” dell’esistenza umana, relativo
all’anima e al corpo. In base all’immediato contesto delle parole sulla
continenza per il Regno dei cieli nella vita terrena dell’uomo, occorre vedere
nella vocazione a tale continenza un tipo di eccezione a ciò che è piuttosto una
regola comune di questa vita. Cristo rileva soprattutto questo. Che poi tale
eccezione racchiuda in sé l’anticipo della vita escatologica priva di matrimonio
e propria dell’“altro mondo” (cioè dello stadio finale del “Regno dei cieli”),
Cristo non ne parla qui direttamente. Si tratta, invero, non della continenza
nel Regno dei cieli, ma della continenza “per il Regno dei cieli”. L’idea della
verginità o del celibato, come anticipo e segno escatologico (cf., ex. gr.,
Lumen Gentium, 44;
Perfectae Caritatis, 12), deriva dall’associazione delle parole qui
pronunziate con quelle che Gesù proferirà in un’altra circostanza, ossia nel
colloquio con i Sadducei, quando proclama la futura risurrezione dei corpi.
Riprenderemo questo tema nel corso delle prossime
riflessioni del mercoledì.
Mercoledì, 17 marzo 1982
1. Continuiamo la riflessione sulla verginità o
celibato per il Regno dei cieli: tema importante anche per una completa teologia
del corpo.
Nell’immediato contesto delle parole sulla
continenza per il Regno dei cieli, Cristo fa un confronto molto significativo; e
questo ci conferma ancor meglio nella convinzione che egli voglia radicare
profondamente la vocazione a tale continenza nella realtà della vita terrena,
facendosi così strada nella mentalità dei suoi ascoltatori. Elenca, infatti, tre
categorie di eunuchi.
Questo termine riguarda i difetti fisici che rendono
impossibile la procreatività del matrimonio. Appunto tali difetti spiegano le
due prime categorie, quando Gesù parla sia dei difetti congeniti: “Eunuchi che
sono nati così dal ventre della madre” (Mt 19, 11), sia dei difetti
acquisiti, causati da intervento umano: “Ve ne sono alcuni che sono stati resi
eunuchi dagli uomini” (Mt 19, 12). In entrambi i casi si tratta dunque di
uno stato di coazione, perciò non volontario. Se Cristo, nel suo confronto,
parla poi di coloro “che si sono fatti eunuchi per il Regno dei cieli” (Mt
19, 12), come di una terza categoria, certamente fa questa distinzione per
rilevare ancor più il suo carattere volontario e soprannaturale. Volontario
perché gli appartenenti a questa categoria “si sono fatti eunuchi”;
soprannaturale, invece, perché l’hanno fatto “per il Regno dei cieli”.
2. La distinzione è molto chiara e molto forte.
Nondimeno, forte ed eloquente è anche il confronto. Cristo parla a uomini, ai
quali la tradizione dell’antica alleanza non aveva tramandato l’ideale del
celibato o della verginità. Il matrimonio era così comune che soltanto
un’impotenza fisica poteva costituirne una eccezione. La risposta data a
discepoli in Matteo (Mt 19, 10-12) è ad un tempo rivolta, in un certo
senso, a tutta la tradizione dell’Antico Testamento. Lo confermi un solo
esempio, tratto dal Libro dei Giudici, al quale ci riferiamo qui non tanto a
motivo dello svolgimento del fatto, quanto a motivo delle parole significative,
che lo accompagnano. “Mi sia concesso . . . piangere la mia verginità” (Gdc
11, 37), dice la figlia di Iefte a suo padre, dopo aver appreso da lui di essere
stata destinata all’immolazione per un voto fatto al Signore (nel testo biblico
troviamo la spiegazione di come si giunse a tanto). “Va’; - leggiamo in seguito
- e la lasciò andare . . . Ella se ne andò con le compagne e pianse sui monti la
sua verginità. Alla fine dei due mesi tornò dal padre ed egli fece di lei quello
che aveva promesso con voto. Essa non aveva conosciuto uomo” (Gdc 11,
38-39).
3. Nella tradizione dell’Antico Testamento, a quanto
risulta, non c’è posto per questo significato del corpo, che ora Cristo,
parlando della continenza per il Regno di Dio, vuole prospettare e rivelare ai
propri discepoli. Tra i personaggi a noi noti, quali condottieri spirituali del
popolo dell’antica alleanza, non vi è alcuno che avrebbe proclamato tale
continenza a parole o nella condotta. (È vero che Geremia doveva, per esplicito
ordine del Signore, osservare il celibato [cf. Ger 16, 1-2]; ma questo fu
un “segno profetico”, che simboleggiava il futuro abbandono e la distruzione del
paese e del popolo.) Il matrimonio, allora, non era soltanto uno stato comune,
ma, in più, in quella tradizione aveva acquisito un significato consacrato
dalla promessa fatta ad Abramo dal Signore: “Eccomi: la mia alleanza è con
te e sarai padre di una moltitudine di popoli . . . E ti renderò molto, molto
fecondo; ti farò diventare nazioni e da te nasceranno dei re. Stabilirò la mia
alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te di generazione in
generazione, come alleanza perenne, per essere il Dio tuo e della tua
discendenza dopo di te” (Gen 17, 4.6-7). Perciò nella tradizione
dell’Antico Testamento il matrimonio, come fonte di fecondità e di procreazione
in rapporto alla discendenza, era uno stato religiosamente privilegiato:
e privilegiato dalla stessa rivelazione. Sullo sfondo di questa tradizione,
secondo cui il Messia doveva essere “figlio di Davide” (Mt 20, 30), era
difficile intendere l’ideale della continenza. Tutto perorava a favore del
matrimonio: non soltanto le ragioni di natura umana, ma anche quelle del Regno
di Dio. (È vero, come è noto dalle fonti extrabibliche, che nel periodo
intertestamentario il celibato era mantenuto nell’ambito del giudaismo da alcuni
membri della setta degli Esseni [cf. Giuseppe Flavio, Bell. Jud., II, 8,
2: 120-121; Filone Al., Hypothet., 11, 14]; ma ciò avveniva al margine
del giudaismo ufficiale e probabilmente non persistette oltre l’inizio del II
secolo. Nella comunità di Qumran il celibato non obbligava tutti, ma alcuni dei
membri lo mantenevano fino alla morte, trasferendo sul terreno della pacifica
convivenza la prescrizione del Deuteronomio [23, 10-14] sulla purità rituale che
obbligava durante la guerra santa. Secondo le credenze dei Qumraniani, tale
guerra durava sempre “tra i figli della luce e i figli delle tenebre”; il
celibato fu dunque per loro l’espressione dell’esser pronti alla battaglia [cf.
1 Qm. 7, 5-7].)
4. Le parole di Cristo determinano in tale ambito
una svolta decisiva. Quando egli parla ai suoi discepoli, per la prima volta,
sulla continenza per il Regno dei cieli, si rende chiaramente conto che essi,
come figli della tradizione dell’Antica Legge, debbono associare il celibato e
la verginità alla situazione degli individui, specie di sesso maschile, che a
causa dei difetti di natura fisica non possono sposarsi (“gli eunuchi”), e
perciò si riferisce direttamente a loro. Questo riferimento ha uno sfondo
molteplice: sia storico che psicologico, sia etico che religioso. Con tale
riferimento Gesù tocca - in certo senso - tutti questi sfondi, come se
volesse dire: So che quanto ora vi dirò dovrà suscitare grande difficoltà nella
vostra coscienza, nel vostro modo di intendere il significato del corpo; vi
parlerò, difatti, della continenza, e ciò si assocerà indubbiamente in voi allo
stato di deficienza fisica, sia innata sia acquisita per causa umana. Io invece
voglio dirvi che la continenza può anche essere volontaria e scelta dall’uomo
“per il Regno dei cieli”.
5. Matteo, al cap. 19, non annota alcuna immediata
reazione dei discepoli a queste parole. La troviamo più tardi solamente negli
scritti degli Apostoli, soprattutto in Paolo (cf. 1 Cor 7, 25-40; vide
etiam Ap 14, 4). Ciò conferma che tali parole si erano impresse nella
coscienza della prima generazione dei discepoli di Cristo, e poi fruttificarono
ripetutamente e in modo molteplice nelle generazioni dei suoi confessori nella
Chiesa (e forse anche fuori di essa). Dunque, dal punto di vista della teologia
- cioè della rivelazione del significato del corpo, del tutto nuovo rispetto
alla tradizione dell’Antico Testamento -, queste sono parole di svolta. La loro
analisi dimostra quanto siano precise e sostanziali, nonostante la loro
concisione (lo costateremo ancor meglio, quando faremo l’analisi del testo
paolino della prima lettera ai Corinzi, capitolo 7). Cristo parla della
continenza “per” il Regno dei cieli. In tal modo egli vuole sottolineare che
questo stato, scelto coscientemente dall’uomo nella vita temporale, in cui di
solito gli uomini “prendono moglie e prendono marito”, ha una singolare finalità
soprannaturale. La continenza, anche se scelta coscientemente e anche se decisa
personalmente, ma senza quella finalità, non entra nel contenuto del suddetto
enunciato di Cristo. Parlando di coloro che hanno scelto coscientemente il
celibato o la verginità per il Regno dei cieli (cioè “si sono fatti eunuchi”),
Cristo rileva - almeno in modo indiretto - che tale scelta, nella vita terrena,
è unita alla rinuncia e anche ad un determinato sforzo spirituale.
6. La stessa finalità soprannaturale - “per
il Regno dei cieli” - ammette una serie di interpretazioni più
dettagliate, che Cristo in tale passo non enumera. Si può però affermare che,
attraverso la formula lapidaria di cui egli si serve, indica indirettamente
tutto ciò che è stato detto su quel tema nella Rivelazione, nella Bibbia e nella
Tradizione; tutto ciò che è divenuto ricchezza spirituale dell’esperienza della
Chiesa, in cui il celibato e la verginità per il Regno dei cieli hanno
fruttificato in modo molteplice nelle varie generazioni dei discepoli e seguaci
del Signore.
Mercoledì, 24 marzo 1982
1. Continuiamo le nostre riflessioni sul celibato e
sulla verginità “per il regno dei cieli”.
La continenza “per” il regno dei cieli è certamente
in rapporto con la rivelazione del fatto che “nel” regno dei cieli “non si
prende né moglie né marito” (Mt 22, 30). È un segno carismatico. L’essere
uomo vivente, maschio e femmina, il quale nella situazione terrena, dove di
solito “prendono moglie e prendono marito” (Lc 20, 34), sceglie con
libera volontà la continenza “per il regno dei cieli”, indica che in quel regno,
che è l’“altro mondo” della risurrezione, “non prenderanno moglie né marito” (Mc
12, 25), perché Dio sarà “tutto in tutti” (1 Cor 15, 28). Tale essere
uomo, maschio e femmina, addita dunque la “verginità” escatologica dell’uomo
risorto, in cui si rivelerà, direi, l’assoluto ed eterno significato sponsale
del corpo glorificato nell’unione con Dio stesso, mediante la visione di lui “a
faccia a faccia”; e glorificato, anche, mediante l’unione di una perfetta
intersoggettività, che unirà tutti i “partecipi dell’altro mondo”, uomini e
donne, nel mistero della comunione dei santi. La continenza terrena “per il
regno dei cieli” è indubbiamente un segno che indica questa verità e
questa realtà. È segno che il corpo, il cui fine non è la morte, tende alla
glorificazione ed è già per ciò stesso, direi, tra gli uomini una testimonianza
che anticipa la futura risurrezione. Tuttavia, questo segno carismatico
dell’“altro mondo” esprime la forza e la dinamica più autentica del
mistero della “redenzione del corpo”: un mistero, che da Cristo è stato iscritto
nella storia terrena dell’uomo e in questa storia da lui profondamente radicato.
Così, dunque, la continenza “per il regno dei cieli” porta soprattutto
l’impronta della somiglianza a Cristo, che, nell’opera della redenzione, ha
fatto egli stesso questa scelta “per il regno dei cieli”.
2. Anzi, tutta la vita di Cristo, fin dall’inizio,
fu un discreto ma chiaro distacco da ciò che nell’Antico Testamento ha tanto
profondamente determinato il significato del corpo. Cristo - quasi contro le
attese di tutta la tradizione vetero-testamentaria - nacque da Maria, che al
momento dell’annunciazione dice chiaramente di se stessa: “Come è possibile? non
conosco uomo” (Lc 1, 34), e professa, cioè, la sua verginità. E sebbene
egli nasca da lei come ogni uomo, come un figlio da sua madre, sebbene questa
sua venuta nel mondo sia accompagnata anche dalla presenza di un uomo che è
sposo di Maria e, davanti alla legge e agli uomini, suo marito, tuttavia la
maternità di Maria è verginale; e a questa verginale maternità di Maria
corrisponde il mistero verginale di Giuseppe, che, seguendo la voce dall’alto,
non esita a “prendere Maria . . . perché quel che è generato in lei viene dallo
Spirito Santo” (Mt 1, 20). Sebbene, dunque, il concepimento verginale
e la nascita al mondo di Gesù Cristo fossero nascoste agli uomini,
sebbene davanti agli occhi dei suoi conterranei di Nazaret egli fosse ritenuto
“figlio del carpentiere” (Mt 13, 55) (ut putabatur filius Joseph:
Lc 3, 23), tuttavia la stessa realtà e verità essenziale del suo
concepimento e della nascita si discosta in se stessa da ciò che nella
tradizione dell’Antico Testamento fu esclusivamente in favore del matrimonio, e
che rendeva la continenza incomprensibile e socialmente sfavorita. Perciò, come
poteva essere compresa “la continenza per il regno dei cieli”, se il Messia
atteso doveva essere “discendente di Davide”, e cioè, come si riteneva, doveva
essere figlio della stirpe reale “secondo la carne”? Solo Maria e Giuseppe, che
hanno vissuto il mistero del suo concepimento e della sua nascita, divennero i
primi testimoni di una fecondità diversa da quella carnale, cioè della fecondità
dello Spirito: “Quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo” (Mt
1, 20).
3. La storia della nascita di Gesù sta certamente in
linea con la rivelazione di quella “continenza per il regno dei cieli”, di cui
Cristo parlerà, un giorno, ai suoi discepoli. Questo evento, però, resta
nascosto agli uomini di allora e anche ai discepoli. Solo gradatamente esso si
svelerà davanti agli occhi della Chiesa in base alle testimonianze e ai testi
dei Vangeli di Matteo e di Luca. Il matrimonio di Maria con Giuseppe (in
cui la Chiesa onora Giuseppe come sposo di Maria e Maria come sposa di lui),
nasconde in sé, in pari tempo, il mistero della perfetta comunione
delle persone, dell’Uomo e della Donna nel patto coniugale, e insieme il mistero
di quella singolare “continenza per il regno dei cieli”: continenza che
serviva, nella storia della salvezza, alla più perfetta “fecondità dello
Spirito Santo”. Anzi, essa era, in certo senso, l’assoluta pienezza di
quella fecondità spirituale, dato che proprio nelle condizioni nazaretane del
patto di Maria e Giuseppe nel matrimonio e nella continenza, si è realizzato il
dono dell’incarnazione del Verbo Eterno: il Figlio di Dio, consostanziale al
Padre, venne concepito e nacque come Uomo dalla Vergine Maria. La grazia
dell’unione ipostatica è connessa proprio con questa, direi, assoluta pienezza
della fecondità soprannaturale, fecondità nello Spirito Santo, partecipata da
una creatura umana, Maria, nell’ordine della “continenza per il regno dei
cieli”. La divina maternità di Maria è anche, in certo senso, una sovrabbondante
rivelazione di quella fecondità nello Spirito Santo, cui l’uomo sottopone il suo
spirito, quando liberamente sceglie la continenza “nel corpo”: appunto, la
continenza “per il regno dei cieli”.
4. Tale immagine doveva gradatamente disvelarsi
davanti alla coscienza della Chiesa nelle generazioni sempre nuove dei
confessori di Cristo, quando - insieme al Vangelo dell’infanzia - si consolidava
in loro la certezza circa la divina maternità della Vergine, la quale aveva
concepito per opera dello Spirito Santo. Sebbene in modo solo indiretto -
tuttavia in modo essenziale e fondamentale - tale certezza doveva aiutare a
comprendere, da una parte, la santità del matrimonio e dall’altra il
disinteresse in vista “del regno dei cieli”, di cui Cristo aveva parlato ai suoi
discepoli. Nondimeno, quando egli ne aveva parlato loro per la prima volta (come
attesta l’evangelista Matteo nel capitolo 19, 10-12), quel grande mistero del
suo concepimento e della sua nascita fu loro completamente ignoto, fu nascosto
loro così come lo fu a tutti gli ascoltatori e interlocutori di Gesù di Nazaret.
Quando Cristo parlava di coloro che “si sono fatti eunuchi per il regno dei
cieli” (Mt 19, 12) i discepoli erano capaci di capirlo solo in base al
suo esempio personale. Una tale continenza dovette imprimersi nella loro
coscienza come un particolare tratto di somiglianza a Cristo, che era rimasto
egli stesso celibe “per il regno dei cieli”. Il distacco dalla tradizione
dell’antica alleanza, in cui il matrimonio e la fecondità procreativa “nel
corpo” erano stati una condizione religiosamente privilegiata, doveva
effettuarsi soprattutto in base all’esempio di Cristo stesso. Solo a poco a poco
poté radicarsi la coscienza che per “il regno dei cieli” ha un significato
particolare quella fecondità spirituale e soprannaturale dell’uomo, la quale
proviene dallo Spirito Santo (Spirito di Dio), e alla quale, in senso
specifico e in casi determinati, serve proprio la continenza, e che
questa è appunto la continenza “per il regno dei cieli”.
Più o meno tutti questi elementi della coscienza
evangelica (cioè coscienza propria della nuova alleanza in Cristo) riguardanti
la continenza, li ritroviamo in Paolo. Cercheremo di mostrarlo a tempo
opportuno.
Riassumendo, possiamo dire che il tema principale
dell’odierna riflessione è stato il rapporto tra la continenza “per il regno dei
cieli”, proclamata da Cristo, e la fecondità soprannaturale dello spirito umano,
che proviene dallo Spirito Santo.
Mercoledì, 31 marzo 1982
1. Continuiamo a riflettere sul tema del celibato e
della verginità per il regno dei Cieli, basandoci sul testo del Vangelo secondo
Matteo (cf. Mt 19, 10-12).
Parlando della continenza “per” il regno dei
Cieli e fondandola sull’esempio della propria vita, Cristo desiderava, senza
dubbio, che i suoi discepoli la intendessero soprattutto in rapporto al “regno”,
che egli era venuto ad annunziare e per il quale indicava le giuste vie. La
continenza, di cui parlava, è appunto una di queste vie e, come risulta già dal
contesto del Vangelo di Matteo, è una via particolarmente valida e privilegiata.
Infatti, quella preferenza data al celibato e alla verginità “per il regno”
era una novità assoluta nei confronti della tradizione dell’antica
alleanza, e aveva un significato determinante sia per l’ethos che per la
teologia del corpo.
2. Cristo, nel suo enunciato, ne rileva soprattutto
la finalità. Dice che la via della continenza, di cui egli stesso dà
testimonianza con la propria vita, non solo esiste e non soltanto è possibile,
ma è particolarmente valida e importante “per il regno dei Cieli”. E tale deve
essere, dato che lo stesso Cristo l’ha scelta per sé. E se questa via è così
valida e importante, alla continenza per il regno dei Cieli deve spettare un
particolare valore. Come già abbiamo accennato in precedenza, Cristo non
affrontava il problema sul medesimo livello e nella stessa linea di
ragionamento, in cui lo ponevano i discepoli, quando dicevano: “Se questa è la
condizione . . . non conviene sposarsi” (Mt 19, 10). Le loro parole
celavano sullo sfondo un certo utilitarismo. Cristo, invece, nella sua risposta
ha indicato indirettamente che, se il matrimonio, fedele alla originaria
istituzione del Creatore (ricordiamo che il Maestro proprio a questo punto si
riferiva al “principio”), possiede una sua piena congruenza e valore per il
regno dei Cieli, valore fondamentale, universale e ordinario, da parte
sua la continenza possiede per questo regno un valore particolare ed
“eccezionale”. È ovvio che si tratti della continenza scelta coscientemente
per motivi soprannaturali.
3. Se Cristo rileva nel suo enunciato, innanzitutto,
la finalità soprannaturale di quella continenza, lo fa in senso non solo
oggettivo, ma anche esplicitamente soggettivo, cioè indica la necessità di
una motivazione tale che corrisponda in modo adeguato e pieno alla finalità
oggettiva che viene dichiarata dall’espressione “per il regno dei Cieli”. Per
realizzare il fine di cui si tratta - cioè per riscoprire nella continenza
quella particolare fecondità spirituale che proviene dallo Spirito Santo -
bisogna volerla e sceglierla in virtù di una fede profonda, che non ci mostra
soltanto il regno di Dio nel suo compimento futuro, ma ci consente e rende
possibile in modo particolare di immedesimarci con la verità e la realtà di
quel regno, così come esso viene rivelato da Cristo nel suo messaggio
evangelico e soprattutto con l’esempio personale della sua vita e del suo
comportamento. Perciò, si è detto sopra che la continenza “per il regno dei
Cieli” - in quanto indubbio segno dell’“altro mondo” - porta in sé soprattutto
il dinamismo interiore del mistero della redenzione del corpo (cf. Lc 20,
35), e in questo significato possiede anche la caratteristica di una particolare
somiglianza con Cristo. Chi sceglie consapevolmente tale continenza, sceglie, in
un certo senso, una particolare partecipazione al mistero della redenzione
(del corpo); vuole in modo particolare completarla per così dire nella
propria carne (cf. Col 1, 24), trovando in ciò anche l’impronta di una
somiglianza con Cristo.
4. Tutto questo si riferisce alla motivazione della
scelta (ossia alla sua finalità in senso soggettivo): scegliendo la continenza
per il regno dei Cieli, l’uomo “deve” lasciarsi guidare appunto da tale
motivazione. Cristo, nel caso in questione, non dice che l’uomo vi è obbligato
(in ogni caso non si tratta certamente del dovere che scaturisce da un
comandamento); tuttavia, senza dubbio, le sue concise parole sulla continenza
“per il regno dei Cieli” pongono fortemente in rilievo proprio la sua
motivazione. Ed esse la rilevano (cioè indicano la finalità, di cui il
soggetto è consapevole), sia nella prima parte di tutto l’enunciato, sia anche
nella seconda, indicando che qui si tratta di una scelta particolare: propria
cioè di una vocazione piuttosto eccezionale che non universale e ordinaria.
All’inizio, nella prima parte del suo enunciato, Cristo parla di un intendimento
(“non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso”) (Mt
19, 11); e si tratta non di un “intendimento” in astratto, bensì tale da
influire sulla decisione, sulla scelta personale, in cui il “dono”, cioè la
grazia, deve trovare un’adeguata risonanza nella volontà umana. Tale
“intendimento” coinvolge dunque la motivazione. In seguito, la
motivazione influisce sulla scelta della continenza, accettata dopo averne
compreso il significato “per il regno dei Cieli”. Cristo, nella seconda parte
del suo enunciato, dichiara quindi che l’uomo “si fa” eunuco quando sceglie la
continenza per il regno dei Cieli e ne fa la fondamentale situazione ovvero lo
stato di tutta la propria vita terrena. In una decisione così consolidata
sussiste la motivazione soprannaturale, da cui la decisione stessa fu
originata. Sussiste rinnovandosi, direi, continuamente.
5. Abbiamo già in precedenza volto l’attenzione al
particolare significato dell’ultima affermazione. Se Cristo, nel caso citato,
parla del “farsi” eunuco, non soltanto pone in rilievo il peso specifico di
questa decisione, che si spiega con la motivazione nata da una fede profonda, ma
non cerca, nemmeno di nascondere il travaglio, che tale decisione e le
sue persistenti conseguenze possono avere per l’uomo, per le normali (e
d’altronde nobili) inclinazioni della sua natura.
Il richiamo “al principio” nel problema del
matrimonio ci ha consentito di scoprire tutta la bellezza originaria di quella
vocazione dell’uomo, maschio e femmina: vocazione, che proviene da Dio e
corrisponde alla duplice costituzione dell’uomo, nonché alla chiamata alla
“comunione delle persone”. Predicando la continenza per il regno di Dio, Cristo
non soltanto si pronunzia contro tutta la tradizione dell’antica alleanza,
secondo cui il matrimonio e la procreazione erano, come abbiamo detto,
religiosamente privilegiati, ma si pronuncia, in un certo senso, anche in
contrasto con quel “principio”, a cui egli stesso ha fatto richiamo e forse
anche per questo sfuma le proprie parole con quella particolare “regola di
intendimento”, a cui abbiamo sopra accennato. L’analisi del “principio”
(specialmente in base al testo jahvista) aveva dimostrato infatti che, sebbene
sia possibile concepire l’uomo come solitario di fronte a Dio, tuttavia Dio
stesso lo trasse da questa “solitudine” quando disse: “Non è bene che l’uomo sia
solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile” (Gen 2, 18).
6. Così, dunque, la duplicità maschio-femmina
propria della costituzione stessa dell’umanità e l’unità dei due che si basa su
di essa, rimangono “da principio”, cioè fino alla loro stessa profondità
ontologica, opera di Dio. E Cristo, parlando della continenza “per il regno dei
Cieli”, ha davanti a sé questa realtà. Non senza ragione ne parla (secondo
Matteo) nel contesto più immediato, in cui fa appunto riferimento “al
principio”, cioè al principio divino del matrimonio nella costituzione stessa
dell’uomo.
Sullo sfondo delle parole di Cristo si può asserire
che non solo il matrimonio ci aiuta ad intendere la continenza per il regno dei
Cieli, ma anche la stessa continenza getta una luce particolare sul matrimonio
visto nel mistero della Creazione e della Redenzione.
Mercoledì, 7 aprile 1982
Carissimi fratelli e sorelle!
L’incontro odierno cade nella “Settimana Santa”,
cioè nel periodo centrale dell’Anno Liturgico, che ci fa rivivere gli episodi
così importanti e fondamentali della Redenzione operata da Cristo: l’Ultima
Cena, in cui Gesù istituì il Sacramento dell’Eucaristia, anticipando
misticamente e tramandando per mezzo del Sacerdozio il Sacrificio della Croce;
la Passione di Gesù, a cominciare dall’agonia del Getsemani fino alla crudele
crocifissione e alla morte in croce; e infine la gloriosa risurrezione nella
festosa domenica di Pasqua.
Sono giorni commoventi e toccanti, colmi di una
speciale atmosfera che tutti i Cristiani sentono e conoscono. Devono perciò
essere giorni di silenzio interiore, di più intensa preghiera e di particolare
meditazione sui supremi avvenimenti della storia che segnano la redenzione
dell’umanità e che danno il vero significato alla nostra esistenza.
Vi esorto pertanto a vivere intimamente con grande
amore questi Giorni santi e a partecipare alle funzioni liturgiche, per
penetrare sempre più profondamente il contenuto della Fede e per riportarne
propositi di autentico impegno di coerenza e di vita cristiana. Percorriamo con
Maria santissima la strada della Passione di Cristo, guardando la tragedia del
Venerdì Santo nella luce della Pasqua vittoriosa, per imparare che ogni
sofferenza deve essere accettata e interpretata nella prospettiva della
risurrezione gloriosa e, soprattutto, per incontrarci con Cristo che ci ha amato
e si è donato per noi (cf. Gal 2, 20).
1. Con lo sguardo rivolto a Cristo Redentore, ora
continuiamo le nostre riflessioni sul celibato e sulla verginità “per il Regno
dei cieli”, secondo le parole di Cristo riportate nel Vangelo di Matteo (Mt
19, 10-12).
Proclamando la continenza “per il Regno dei cieli”,
Cristo accetta pienamente tutto ciò che dal principio fu operato ed istituito
dal Creatore. Conseguentemente, da una parte, quella continenza deve dimostrare
che l’uomo, nella sua più profonda costituzione, è non soltanto “duplice”, ma
anche (in questa duplicità) “solo” di fronte a Dio con Dio. Tuttavia,
dall’altra, ciò che, nella chiamata alla continenza per il Regno dei cieli, è un
invito alla solitudine per Dio, rispetta al tempo stesso sia la “duplicità
dell’umanità” (cioè la sua mascolinità e femminilità), sia anche quella
dimensione di comunione dell’esistenza che è propria della persona.
Colui che, conformemente alle parole di Cristo, “comprende” in modo adeguato la
chiamata alla continenza per il Regno dei cieli, la segue, e conserva così
l’integrale verità della propria umanità, senza perdere, strada facendo, nessuno
degli elementi essenziali della vocazione della persona creata “a immagine e
somiglianza di Dio”. Questo è importante per l’idea stessa o piuttosto per
l’idea della continenza, cioè per il suo contenuto oggettivo, che appare
nell’insegnamento di Cristo come una novità radicale. È ugualmente importante
per l’attuazione di quell’ideale, cioè perché la concreta decisione, presa
dall’uomo per vivere nel celibato o nella verginità per il Regno dei cieli
(colui che “si fa” eunuco, per usare le parole di Cristo), sia pienamente
autentica nella sua motivazione.
2. Dal contesto del Vangelo di Matteo (Mt 19,
10-12) risulta in modo sufficientemente chiaro che qui non si tratta di sminuire
il valore del matrimonio a vantaggio della continenza e neppure di offuscare un
valore con l’altro. Si tratta, invece, di “uscire” con piena consapevolezza
da ciò che nell’uomo, per la volontà dello stesso Creatore, porta al matrimonio,
e di andare verso la continenza, che si svela davanti all’uomo concreto,
maschio o femmina, come chiamata e dono di particolare eloquenza e di
particolare significato “per il Regno dei cieli”. Le parole di Cristo (Mt
19, 11-12) partono da tutto il realismo della situazione dell’uomo e con lo
stesso realismo lo conducono fuori, verso la chiamata in cui, in modo nuovo, pur
rimanendo per sua natura essere “duplice” (cioè diretto come uomo verso la
donna, e come donna, verso l’uomo), egli è capace di scoprire in questa sua
solitudine, che non cessa di essere una dimensione personale della duplicità di
ciascuno, una nuova e perfino ancor più piena forma di comunione
intersoggettiva con gli altri. Questo orientamento della chiamata spiega in
modo esplicito l’espressione: “per il Regno dei cieli”; infatti, la
realizzazione di questo Regno deve trovarsi sulla linea dell’autentico sviluppo
dell’immagine e della somiglianza di Dio, nel suo significato trinitario, cioè
proprio “di comunione”. Scegliendo la continenza per il Regno dei cieli, l’uomo
ha la consapevolezza di potere, in tal modo, realizzare se stesso “diversamente”
e, in certo senso, “di più” che non nel matrimonio, divenendo “dono sincero per
gli altri” (Gaudium
et Spes, 24).
3. Mediante le parole riportate in Matteo,(Mt
19, 11-12) Cristo fa comprendere in modo chiaro che quell’“andare” verso la
continenza per il Regno dei cieli è congiunto con una rinuncia volontaria al
matrimonio, cioè allo stato in cui l’uomo e la donna (secondo il significato che
il Creatore diede “in principio” alla loro unità) divengono dono reciproco
attraverso la loro mascolinità e femminilità, anche mediante l’unione corporale.
La continenza significa una rinuncia consapevole e volontaria a tale
unione e a tutto ciò che ad essa è legato nell’ampia dimensione della vita e
della convivenza umana. L’uomo che rinuncia al matrimonio rinuncia ugualmente
alla generazione, come fondamento della comunità familiare composta dai genitori
e dai figli. Le parole di Cristo, alle quali ci riferiamo, indicano senza dubbio
tutta questa sfera di rinuncia, sebbene non si soffermino sui particolari. E il
modo in cui queste parole sono state pronunciate consente di supporre che Cristo
comprenda l’importanza di tale rinuncia e che la comprenda non soltanto rispetto
alle opinioni su tale tema vigenti nella società israelitica di allora. Egli
comprende l’importanza di questa rinuncia anche in rapporto al bene, che
il matrimonio e la famiglia costituiscono in se stessi a motivo dell’istituzione
divina. Perciò, mediante il modo di pronunciare le rispettive parole, fa
comprendere che quell’uscita dal cerchio del bene, alla quale egli stesso chiama
“per il Regno dei cieli”, è connessa con un certo sacrificio di se stessi.
Quella uscita diventa anche l’inizio di successive rinunce e di volontari
sacrifici di sé che sono indispensabili, se la prima e fondamentale scelta deve
essere coerente nella dimensione di tutta la vita terrena; e solo grazie a tale
coerenza, quella scelta è interiormente ragionevole e non contraddittoria.
4. In tal modo, nella chiamata alla continenza
così come è stata pronunciata da Cristo - concisamente e al tempo stesso con una
grande precisione - si delineano il profilo e insieme il dinamismo del
mistero della Redenzione, come è stato già detto in precedenza. È lo stesso
profilo sotto cui Gesù, nel discorso della Montagna, ha pronunciato le parole
circa la necessità di vigilare sulla concupiscenza del corpo, sul desiderio che
inizia dal “guardare” e diventa già in quel momento “adulterio nel cuore”.
Dietro le parole di Matteo sia nel capitolo 19 (cf. Mt 19, 11-12) che nel
capitolo 5 (cf. Mt 5, 27-28), si trova la stessa antropologia e lo
stesso ethos. Nell’invito alla continenza volontaria per il Regno dei cieli,
le prospettive di questo ethos vengono ampliate: nell’orizzonte delle parole del
discorso della Montagna si trova l’antropologia dell’uomo “storico”;
nell’orizzonte delle parole sulla continenza volontaria, rimane essenzialmente
la stessa antropologia, ma irradiata dalla prospettiva del “Regno dei cieli”,
ossia, ad un tempo, dalla futura antropologia della risurrezione. Nondimeno,
sulle vie di questa continenza volontaria nella vita terrena, l’antropologia
della risurrezione non sostituisce l’antropologia dell’uomo “storico”. Ed è
proprio quest’uomo, in ogni caso quest’uomo “storico”, nel quale permane ad un
tempo l’eredità della triplice concupiscenza, l’eredità del peccato ed insieme
l’eredità della redenzione, a prendere la decisione circa la continenza “per il
Regno dei cieli”: questa decisione egli deve attuare, sottomettendo la
peccaminosità della propria umanità alle forze che scaturiscono dal mistero
della redenzione del corpo. Deve farlo come ogni altro uomo, che non prenda
una simile decisione e la cui via rimanga il matrimonio. Diverso è soltanto il
genere di responsabilità per il bene scelto, come diverso è il genere stesso del
bene scelto.
5. Nel suo enunciato, Cristo pone forse in rilievo
la superiorità della continenza per il Regno dei cieli sul matrimonio?
Certamente egli dice che questa è una vocazione “eccezionale”, non “ordinaria”.
Afferma, inoltre, che essa è particolarmente importante, e necessaria per il
Regno dei cieli. Se intendiamo la superiorità sul matrimonio in questo senso,
dobbiamo ammettere che Cristo l’addita implicitamente; tuttavia non la esprime
in modo diretto. Solo Paolo dirà di coloro che scelgono il matrimonio che fanno
“bene”, e, di quanti sono disponibili a vivere nella continenza volontaria, dirà
che fanno “meglio” (cf. 1 Cor 7, 38).
6. Tale è anche l’opinione di tutta la Tradizione,
sia dottrinale che pastorale. Quella “superiorità” della continenza sul
matrimonio non significa mai, nell’autentica Tradizione della Chiesa, una
svalutazione del matrimonio o una menomazione del suo valore essenziale. Non
significa nemmeno uno slittamento, sia pure implicito, sulle posizioni manichee,
oppure un sostegno a modi di valutare o di operare che si fondano
sull’intendimento manicheo del corpo e del sesso, del matrimonio e della
generazione. La superiorità evangelica e autenticamente cristiana della
verginità, della continenza, è conseguentemente dettata dal motivo del Regno dei
cieli. Nelle parole di Cristo, riportate da Matteo (cf. Mt 19, 11-12),
troviamo una solida base per ammettere soltanto tale superiorità; invece non vi
troviamo alcuna base per qualsiasi deprezzamento del matrimonio, che pur sarebbe
potuto essere presente nel riconoscimento di quella superiorità. Su questo
problema torneremo nella nostra prossima riflessione.
Mercoledì, 14 aprile 1982
Carissimi fratelli e sorelle!
La solennità di Pasqua, appena trascorsa, riempie i
nostri animi in questa Settimana, e li riempirà ancora in tutto il tempo
pasquale, di quella gioia che proviene dalla commemorazione della gloriosa
Risurrezione di Cristo. Abbiamo percorso la strada martoriata della sua
Passione, dall’Ultima Cena sino all’agonia e alla morte in croce; ed abbiamo poi
atteso nel grande silenzio del Sabato Santo lo scampanio festoso della “Beata
Notte” della veglia. La Pasqua non deve rimanere soltanto al livello delle
emozioni e dei ricordi; essa deve lasciare una traccia, deve incidere
continuamente nella nostra vita, deve essere per noi ogni giorno motivo di
incoraggiamento alla coerenza ed alla testimonianza.
La Pasqua è per il cristiano invito a vivere “in
novità di vita”: “Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si
trova Cristo asceso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù . . .” (Col
3, 1-3).
Negli avvenimenti lieti o tristi della vita, nel
lavoro, nella professione, nella scuola, il cristiano deve testimoniare che
Cristo è veramente risorto, seguendolo con coraggio e amore, ponendo in lui ogni
fiducia ed ogni speranza.
A voi tutti auspico di cuore che il pensiero delle
festività pasquali vi accompagni e vi faccia sentire la presenza gioiosa di
Cristo Risorto.
1. Continuiamo ora la riflessione delle precedenti
settimane sulle parole circa la continenza “per il Regno dei cieli”, che,
secondo il Vangelo di Matteo (Mt 19, 10-12), Cristo ha rivolto ai suoi
discepoli.
Diciamo ancora una volta che queste parole, in tutta
la loro concisione, sono mirabilmente ricche e precise, ricche di un complesso
di implicazioni sia di natura dottrinale che pastorale, e al tempo stesso
indicano un giusto limite in materia. Così, dunque, qualsiasi interpretazione
manichea resta decisamente oltre quel limite, come pure vi resta,
secondo ciò che Cristo disse nel discorso della Montagna, il desiderio
concupiscente “nel cuore” (cf. Mt 5, 27-28).
Nelle parole di Cristo sulla continenza “per il
Regno dei cieli” non c’è alcun cenno circa la “inferiorità” del matrimonio
riguardo al “corpo”, ossia riguardo all’essenza del matrimonio, consistente nel
fatto che l’uomo e la donna in esso si uniscono così da divenire una “sola
carne” (cf. Gen 2, 24). Le parole di Cristo riportate in Matteo 19,
11-12 (come anche le parole di Paolo nella prima lettera ai Corinzi, cap. 7)
non forniscono motivo per sostenere né l’“inferiorità” del matrimonio, né la
“superiorità” della verginità o del celibato, in quanto questi per la loro
natura consistono nell’astenersi dalla “unione” coniugale “nel corpo”. Su questo
punto le parole di Cristo sono decisamente limpide. Egli propone ai suoi
discepoli l’ideale della continenza e la chiamata ad essa non a motivo
dell’inferiorità o con pregiudizio dell’“unione” coniugale “nel corpo”,
ma solo per il “Regno dei cieli”.
2. In questa luce diventa particolarmente utile un
chiarimento più approfondito dell’espressione stessa “per il Regno dei cieli”;
ed è ciò che in seguito cercheremo di fare, almeno in modo sommario. Però, per
quanto concerne la giusta comprensione del rapporto tra il matrimonio e la
continenza di cui Cristo parla, e della comprensione di tale rapporto come l’ha
inteso tutta la tradizione, vale la pena di aggiungere che quella “superiorità”
ed “inferiorità” sono contenute nei limiti della stessa
complementarietà del matrimonio e della continenza per il Regno di Dio. Il
matrimonio e la continenza né si contrappongono l’uno all’altra, né dividono di
per sé la comunità umana (e cristiana) in due campi (diciamo: dei “perfetti” a
causa della continenza e degli “imperfetti” o meno perfetti a causa della realtà
della vita coniugale). Ma queste due situazioni fondamentali, ovvero, come si
soleva dire, questi due “stati”, in un certo senso si spiegano o completano a
vicenda, quanto all’esistenza ed alla vita (cristiana) di questa comunità, la
quale nel suo insieme e in tutti i suoi membri si realizza nella dimensione del
Regno di Dio e ha un orientamento escatologico, che è proprio di quel Regno.
Orbene, riguardo a questa dimensione e a questo orientamento - a cui deve
partecipare nella fede l’intera comunità, cioè tutti coloro che appartengono ad
essa - la continenza “per il Regno dei cieli” ha una particolare importanza ed
una particolare eloquenza per quelli che vivono la vita coniugale. È noto,
d’altronde, che questi ultimi costituiscono la maggioranza.
3. Sembra, dunque, che una complementarietà così
intesa trovi la sua base nelle parole di Cristo secondo Matteo 19,11-12 (e
anche nella prima lettera ai Corinzi, cap. 7). Non vi è invece alcuna base per
una supposta contrapposizione, secondo cui i celibi (o le nubili), solo a motivo
della continenza costituirebbero la classe dei “perfetti”, e, al contrario, le
persone sposate costituirebbero la classe dei “non perfetti” (o dei “meno
perfetti”). Se, stando a una certa tradizione teologica, si parla dello stato di
perfezione (“status perfectionis”), lo si fa non a motivo della
continenza stessa, ma riguardo all’insieme della vita fondata sui consigli
evangelici (povertà, castità e obbedienza), poiché questa vita corrisponde alla
chiamata di Cristo alla perfezione (“Se vuoi essere perfetto . . .”) (Mt
19, 21). La perfezione della vita cristiana, invece, viene misurata
col metro della carità. Ne segue che una persona che non viva nello “stato
di perfezione” (cioè in una istituzione che fondi il suo piano di vita sui voti
di povertà, castità ed obbedienza), ossia che non viva in un Istituto religioso,
ma nel “mondo”, può raggiungere “de facto” un grado superiore di
perfezione - la cui misura è la carità - rispetto alla persona che viva nello
“stato di perfezione”, con un minor grado di carità. Tuttavia, i consigli
evangelici aiutano indubbiamente a raggiungere una più piena carità. Pertanto,
chiunque la raggiunge, anche se non vive in uno “stato di perfezione”
istituzionalizzato, perviene a quella perfezione che scaturisce dalla carità,
mediante la fedeltà allo spirito di quei consigli. Tale perfezione è
possibile e accessibile ad ogni uomo, sia in un “Istituto religioso” che nel
“mondo”.
4. Alle parole di Cristo riportate da Matteo (Mt
19, 11-12), sembra quindi corrispondere adeguatamente la complementarietà del
matrimonio e della continenza per “il Regno dei cieli” nel loro significato e
nella loro molteplice portata. Nella vita di una comunità autenticamente
cristiana, gli atteggiamenti ed i valori propri dell’uno e dell’altro stato -
cioè di una o dell’altra scelta essenziale e cosciente come vocazione per tutta
la vita terrena e nella prospettiva della “Chiesa celeste” - si completano e
in certo senso si compenetrano a vicenda. Il perfetto amore coniugale deve
essere contrassegnato da quella fedeltà e da quella donazione all’unico Sposo
(ed anche dalla fedeltà e dalla donazione dello Sposo all’unica Sposa), su cui
sono fondati la professione religiosa ed il celibato sacerdotale. In definitiva,
la natura dell’uno e dell’altro amore è “sponsale”, cioè espressa attraverso il
dono totale di sé. L’uno e l’altro amore tende ad esprimere quel significato
sponsale del corpo, che “dal principio” è iscritto nella stessa struttura
personale dell’uomo e della donna.
Riprenderemo in seguito questo argomento.
5. D’altra parte, l’amore sponsale che trova la sua
espressione nella continenza “per il Regno dei cieli”, deve portare nel suo
regolare sviluppo alla “paternità” o “maternità” in senso spirituale (ossia
proprio a quella “fecondità dello Spirito Santo”, di cui abbiamo già parlato),
in modo analogo all’amore coniugale che matura nella paternità e maternità
fisica e in esse si conferma proprio come amore sponsale. Dal suo canto,
anche la generazione fisica risponde pienamente al suo significato, solo se
viene completata dalla paternità e maternità “nello spirito”, la cui
espressione e il cui frutto è tutta l’opera educatrice dei genitori rispetto ai
figli, nati dalla loro unione coniugale corporea.
Come si vede, numerosi sono gli aspetti e le sfere
della complementarietà tra la vocazione, in senso evangelico, di coloro che
“prendono moglie e prendono marito” (Lc 20, 34) e di coloro che
consapevolmente e volontariamente scelgono la continenza “per il Regno dei
cieli” (Mt 19, 12).
Nella sua prima lettera ai Corinzi (la cui analisi
faremo in seguito durante le nostre considerazioni) san Paolo scriverà su questo
tema: “Ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro” (1
Cor 7, 7).
Mercoledì, 21 aprile 1982
1. Proseguiamo le riflessioni sulle parole di
Cristo, relative alla continenza “per il Regno dei cieli”.
Non è possibile intendere pienamente il significato
e il carattere della continenza, se l’ultima locuzione dell’enunciato di Cristo,
“per il Regno dei cieli” (Mt 19, 12), non verrà colmata del suo contenuto
adeguato, concreto ed oggettivo. Abbiamo detto, in precedenza, che questa
locuzione esprime il motivo, ovvero pone in rilievo in un certo senso la
finalità soggettiva della chiamata di Cristo alla continenza. Tuttavia,
l’espressione in se stessa ha carattere oggettivo, indica di fatto una realtà
oggettiva, per cui le singole persone, uomini o donne, possono “farsi” (come
Cristo dice) eunuchi. La realtà del “regno” nell’enunciato di Cristo
secondo Matteo (cf. Mt 19, 11-12) è definita in modo preciso ed
insieme generale, cioè tale da poter comprendere tutte le determinazioni ed
i significati particolari che le sono propri.
2. Il “Regno dei cieli” significa il “Regno di Dio”,
che Cristo predicava nel suo compimento finale, cioè escatologico. Cristo
predicava questo regno nella sua realizzazione o instaurazione temporale, e
nello stesso tempo lo preannunziava nel suo compimento escatologico. La
instaurazione temporale del Regno di Dio è nel medesimo tempo la sua
inaugurazione e la sua preparazione al compimento definitivo. Cristo chiama a
questo regno, e in certo senso, vi invita tutti (cf. la parabola del banchetto
di nozze: Mt 22, 1-14). Se chiama alcuni alla continenza “per il Regno
dei cieli”, dal contenuto di quella espressione risulta che egli li chiama a
partecipare in modo singolare alla instaurazione del regno di Dio sulla terra,
grazie a cui s’inizia e si prepara la fase definitiva del “Regno dei cieli”.
3. In tal senso abbiamo detto che quella chiamata
porta in sé il segno particolare del dinamismo proprio del mistero della
redenzione del corpo. Così, dunque, nella continenza per il regno di Dio si
mette in evidenza, come già abbiamo menzionato, il rinnegare se stesso, prendere
la propria croce ogni giorno e seguire Cristo (cf. Lc 9, 23), che può
giungere fino a implicare la rinuncia al matrimonio e ad una famiglia propria.
Tutto ciò deriva dal convincimento che, in questo modo, è possibile contribuire
maggiormente alla realizzazione del Regno di Dio nella sua dimensione terrena
con la prospettiva del compimento escatologico. Cristo, nel suo enunciato
secondo Matteo (cf. Mt 19, 11-12), dice, in modo generico, che la
rinuncia volontaria al matrimonio ha questa finalità, ma non specifica tale
affermazione. Nel suo primo enunciato su questo tema, egli non precisa ancora
per quali compiti concreti è necessaria oppure indispensabile tale
continenza volontaria, nel realizzare il regno di Dio sulla terra e nel
prepararne il futuro compimento. Qualche cosa di più sentiremo a questo
proposito da Paolo di Tarso (cf. 1 Cor passim) e il resto sarà completato
dalla vita della Chiesa nel suo svolgimento storico, portato dalla corrente
dell’autentica Tradizione.
4. Nell’enunciato di Cristo sulla continenza “per il
Regno dei cieli” non troviamo alcun indizio più dettagliato di come intendere
quello stesso “regno” - sia quanto alla sua realizzazione terrena, sia
quanto al suo definitivo compimento - nella sua specifica ed “eccezionale”
relazione con coloro che per esso “si fanno” volontariamente “eunuchi”.
Né si dice mediante quale aspetto particolare della
realtà che costituisce il regno, gli vengano associati coloro che si sono fatti
liberamente “eunuchi”. È noto, infatti, che il Regno dei cieli è per tutti: sono
in relazione con esso sulla terra (e in cielo) anche coloro che “prendono moglie
e prendono marito”. Per tutti esso è la “vigna del Signore”, in cui qui, sulla
terra, devono lavorare; ed è, in seguito, la “casa del Padre”, in cui devono
trovarsi nell’eternità. Che cosa è, quindi, quel Regno per coloro che in vista
di esso scelgono la continenza volontaria?
5. A questi interrogativi non troviamo per ora
nell’enunciato di Cristo, riportato da Matteo (cf. Mt 19, 11-12), alcuna
risposta. Sembra che ciò corrisponda al carattere di tutto l’enunciato.
Cristo risponde ai suoi discepoli, in modo da non rimanere in linea con il loro
pensiero e le loro valutazioni, in cui si nasconde, almeno indirettamente, un
atteggiamento utilitaristico nei riguardi del matrimonio (“Se questa è la
condizione non conviene sposarsi”: Mt 19, 10). Il Maestro si distacca
esplicitamente da tale impostazione del problema, e perciò, parlando della
continenza “per il Regno dei cieli”, non indica perché vale la pena, in questa
maniera, rinunciare al matrimonio, affinché quel “conviene” non suoni agli
orecchi dei discepoli con qualche nota utilitaristica. Dice soltanto che tale
continenza è alle volte richiesta, se non indispensabile, per il regno di Dio. E
con questo indica che essa costituisce, nel Regno che Cristo predica e al quale
chiama, un valore particolare in se stessa. Coloro che la scelgono
volontariamente debbono sceglierla per riguardo a quel suo valore, e non in
conseguenza di qualsiasi altro calcolo.
6. Questo tono essenziale della risposta di Cristo,
che si riferisce direttamente alla stessa continenza “per il Regno dei cieli”,
può essere riferito, in modo indiretto, anche al precedente problema del
matrimonio (cf. Mt 19, 3-9). Prendendo quindi in considerazione l’insieme
dell’enunciato (cf. Mt 19, 3-11), secondo l’intenzione fondamentale di
Cristo, la risposta sarebbe la seguente: se qualcuno sceglie il matrimonio, deve
sceglierlo così come è stato istituito dal Creatore “dal principio”, deve
cercare in esso quei valori che corrispondono al piano di Dio; se, invece,
qualcuno decide di seguire la continenza per il Regno dei cieli, vi deve cercare
i valori propri di tale vocazione. In altri termini: deve agire conformemente
alla vocazione prescelta.
7. Il “Regno dei cieli” è certamente il compimento
definitivo delle aspirazioni di tutti gli uomini, ai quali Cristo rivolge il suo
messaggio: è la pienezza del bene, che il cuore umano desidera oltre i limiti di
tutto ciò che può essere sua porzione nella vita terrena, è la massima pienezza
della gratificazione per l’uomo da parte di Dio. Nel colloquio con i Sadducei
(cf. Mt 22, 24-30; Mc 12, 18-27; Lc 20, 27-40), che abbiamo
precedentemente analizzato, troviamo altri particolari su quel “regno”, ossia
sull’“altro mondo”. Ancor più ce ne sono in tutto il Nuovo Testamento. Sembra,
tuttavia, che per chiarire che cosa sia il Regno dei cieli per coloro che a
motivo di esso scelgono la continenza volontaria, abbia un significato
particolare la rivelazione del rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa:
tra gli altri testi, quindi, è decisivo quello della lettera agli Efesini 5,
25 ss., su cui ci converrà soprattutto fondarci, quando prenderemo in
considerazione il problema della sacramentalità del matrimonio.
Quel testo è ugualmente valido sia per la teologia
del matrimonio sia per la teologia della continenza “per il Regno”, cioè la
teologia della verginità o del celibato. Pare che proprio in quel testo troviamo
quasi concretizzato ciò che Cristo aveva detto ai suoi discepoli, invitando alla
continenza volontaria “per il Regno dei cieli”.
8. In questa analisi è stato già sufficientemente
sottolineato che le parole di Cristo - con tutta la loro grande concisione -
sono fondamentali, piene di contenuto essenziale e inoltre caratterizzate da una
certa severità. Non c’è dubbio che Cristo pronuncia la sua chiamata alla
continenza nella prospettiva dell’“altro mondo”, ma in questa chiamata pone
l’accento su tutto ciò in cui si esprime il realismo temporale della decisione a
una tale continenza, decisione collegata con la volontà di partecipare all’opera
redentrice di Cristo.
Così dunque, alla luce delle rispettive parole di
Cristo riportate da Matteo (cf. Mt 19, 11-12), emergono soprattutto la
profondità e la serietà della decisione di vivere nella continenza “per il
regno”, e trova espressione il momento della rinuncia che tale decisione
implica.
Indubbiamente, attraverso tutto ciò, attraverso la
serietà e profondità della decisione, attraverso la severità e la responsabilità
che essa comporta, traspare e traluce l’amore: l’amore come disponibilità del
dono esclusivo di sé per il “regno di Dio”. Tuttavia, nelle parole di Cristo
tale amore sembra essere velato da ciò che è invece posto in primo piano. Cristo
non nasconde ai suoi discepoli il fatto che la scelta della continenza “per il
Regno dei cieli” è - vista nelle categorie della temporalità - una rinuncia.
Quel modo di parlare ai discepoli, che formula chiaramente la verità del suo
insegnamento e delle esigenze contenute in esso, è significativo per tutto il
Vangelo; ed è appunto esso a conferirgli, tra l’altro, un marchio e una forza
così convincenti.
9. È proprio del cuore umano accettare esigenze,
perfino difficili, in nome dell’amore per un ideale e soprattutto in nome
dell’amore verso la persona (l’amore, infatti, è per essenza orientato verso
la persona). E perciò in quella chiamata alla continenza “per il Regno dei
cieli”, prima gli stessi discepoli e poi tutta la viva Tradizione della Chiesa
scopriranno presto l’amore che si riferisce a Cristo stesso come Sposo della
Chiesa, Sposo delle anime, alle quali egli ha donato se stesso sino alla
fine, nel mistero della sua Pasqua e dell’Eucaristia.
In tal modo la continenza “per il Regno dei cieli”,
la scelta della verginità o del celibato per tutta la vita, è divenuta
nell’esperienza dei discepoli e dei seguaci di Cristo l’atto di una risposta
particolare dell’amore dello Sposo Divino, e perciò ha acquisito il
significato di un atto di amore sponsale: cioè di una donazione sponsale di
sé, al fine di ricambiare in modo particolare l’amore sponsale del Redentore;
una donazione di sé intesa come rinuncia, ma fatta soprattutto per
amore.
Mercoledì, 28 aprile 1982
1. “Vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il
Regno dei cieli”: così si esprime Cristo secondo il Vangelo di Matteo (Mt
19, 12).
È proprio del cuore umano accettare esigenze,
perfino difficili, in nome dell’amore per un ideale e soprattutto in nome
dell’amore verso una persona (l’amore infatti, per essenza, è orientato
verso la persona). E perciò nella chiamata alla continenza “per il Regno dei
cieli”, prima gli stessi Discepoli e poi tutta la viva Tradizione scopriranno
presto quell’amore che si riferisce a Cristo stesso come Sposo della Chiesa e
Sposo delle anime, alle quali egli ha donato se stesso sino alla fine, nel
mistero della sua Pasqua e nell’Eucaristia. In tal modo, la continenza “per il
Regno dei cieli”, la scelta della verginità o del celibato per tutta la vita, è
divenuta nell’esperienza dei discepoli e dei seguaci di Cristo un atto di
risposta particolare all’amore dello Sposo Divino e perciò ha acquisito
il significato di un atto di amore sponsale, cioè di una donazione sponsale
di sé, al fine di ricambiare in modo speciale l’amore sponsale del Redentore;
una donazione di sé, intesa come rinuncia, ma fatta soprattutto per
amore.
2. Abbiamo così ricavato tutta la ricchezza del
contenuto, di cui è carico il pur conciso, ma insieme tanto profondo enunciato
di Cristo sulla continenza “per il Regno dei cieli”; ma ora conviene prestare
attenzione al significato che hanno queste parole per la teologia del corpo,
così come abbiamo cercato di presentarne e ricostruirne i fondamenti biblici
“dal principio”. Appunto l’analisi di quel “principio” biblico a cui Cristo si è
riferito nel colloquio con i Farisei sul tema del matrimonio, della sua unità e
indissolubilità (cf. Mt 19, 3-9) - poco prima di rivolgere al suoi
discepoli le parole sulla continenza “per il Regno dei cieli” (Mt 19,
10-12) - ci consente di ricordare la profonda verità sul significato sponsale
del corpo umano nella sua mascolinità e femminilità, come l’abbiamo dedotta
a suo tempo dall’analisi dei primi capitoli della Genesi (cf. speciatim Gen
2, 23-25). Proprio così occorreva formulare e precisare ciò che troviamo in
quegli antichi testi.
3. La mentalità contemporanea si è abituata a
pensare e parlare soprattutto dell’istinto sessuale, trasferendo sul terreno
della realtà umana ciò che è proprio del mondo degli esseri viventi, gli “animalia”.
Ora, una approfondita riflessione sul conciso testo del capitolo primo e secondo
della Genesi ci permette di stabilire, con certezza e convinzione, che sin “dal
principio” viene delineato nella Bibbia un limite molto chiaro e univoco tra il
mondo degli animali (“animalia”) e l’uomo creato a immagine e somiglianza di
Dio. In quel testo, pur molto breve relativamente, c’è tuttavia abbastanza
spazio per dimostrare che l’uomo ha una chiara coscienza di ciò che lo distingue
in modo essenziale da tutti gli esseri viventi (“animalia”).
4. Quindi, l’applicazione all’uomo di questa
categoria, sostanzialmente naturalistica, che è racchiusa nel
concetto e nell’espressione di “istinto sessuale”, non è del tutto
appropriata ed adeguata. È ovvio che tale applicazione può avvenire in base
ad una certa analogia; infatti, la particolarità dell’uomo nei confronti di
tutto il mondo degli esseri viventi (“animalia”) non è tale che l’uomo, inteso
dal punto di vista della specie, non possa essere fondamentalmente qualificato
anche come “animal”, ma “animal rationale”. Perciò, nonostante questa analogia,
l’applicazione del concetto di “istinto sessuale” all’uomo - data la dualità in
cui egli esiste come maschio o femmina - limita tuttavia grandemente, e in certo
senso “sminuisce”, ciò che è la stessa mascolinità-femminilità nella dimensione
personale della soggettività umana. Limita e “sminuisce” anche ciò per cui
ambedue, l’uomo e la donna, si uniscono così da esser una sola carne (cf. Gen
2, 24). Per esprimere ciò in modo appropriato ed adeguato, bisogna servirsi
anche di un’analisi diversa da quella naturalistica. Ed è proprio lo
studio del “principio” biblico che ci obbliga a far questo in maniera
convincente. La verità sul significato sponsale del corpo umano nella sua
mascolinità e femminilità, dedotta dai primi capitoli della Genesi (cf.
speciatim Gen 2, 23-25), ossia la scoperta ad un tempo del significato
sponsale del corpo nella struttura personale della soggettività dell’uomo e
della donna, sembra essere in questo ambito un concetto chiave, e insieme il
solo appropriato ed adeguato.
5. Orbene, appunto in relazione a questo concetto, a
questa verità sul significato sponsale del corpo umano, bisogna rileggere ed
intendere le parole di Cristo circa la continenza “per il Regno dei cieli”,
pronunciate nell’immediato contesto di quel riferimento al “principio”, sul
quale egli ha fondato la sua dottrina circa l’unità e l’indissolubilità del
matrimonio. Alla base della chiamata di Cristo alla continenza sta non solo
l’“istinto sessuale”, quale categoria di una necessità, direi, naturalistica, ma
anche la consapevolezza della libertà del dono, che è organicamente
connessa alla profonda e matura coscienza del significato sponsale del corpo,
nella totale struttura della soggettività personale dell’uomo e della donna.
Soltanto in relazione ad un tale significato della mascolinità e femminilità
della persona umana, la chiamata alla continenza volontaria “per il Regno
dei cieli” trova piena garanzia e motivazione. Soltanto ed esclusivamente
in tale prospettiva Cristo dice: “Chi può capire, capisca” (Mt 19, 12);
con ciò, egli indica che tale continenza - sebbene in ogni caso sia soprattutto
un “dono” - può essere anche “capita”, cioè ricavata e dedotta dal concetto che
l’uomo ha del proprio “io” psicosomatico nella sua interezza, e in particolare
della mascolinità e femminilità di questo “io” nel reciproco rapporto, che è
come “per natura” inscritto in ogni soggettività umana.
6. Come ricordiamo dalle analisi precedenti, svolte
in base al libro della Genesi (Gen 2, 23-25), quel reciproco rapporto
della mascolinità e femminilità, quel reciproco “per” dell’uomo e della
donna può essere inteso in modo appropriato ed adeguato solo nell’insieme
dinamico del soggetto personale. Le parole di Cristo in Matteo (cf. Mt
19, 11-12) mostrano in seguito che quel “per”, presente “dal principio”
alla base del matrimonio, può anche stare alla base della continenza “per” il
Regno dei cieli! Poggiandosi sulla stessa disposizione del soggetto
personale, grazie a cui l’uomo si ritrova pienamente attraverso un dono sincero
di sé (Gaudium
et Spes, 24) l’uomo (maschio o femmina) è capace di scegliere la
donazione personale di se stesso, fatta ad un’altra persona nel patto coniugale,
in cui essi divengono “una sola carne”, ed è anche capace di rinunciare
liberamente a tale donazione di sé ad un’altra persona, affinché, scegliendo
la continenza “per il Regno dei cieli”, possa donare se stesso totalmente a
Cristo. In base alla stessa disposizione del soggetto personale e in base allo
stesso significato sponsale dell’essere, in quanto corpo, maschio o femmina, può
plasmarsi l’amore che impegna l’uomo al matrimonio nella dimensione di tutta la
vita (cf. Mt 19, 3-10), ma può anche plasmarsi l’amore che impegna l’uomo
per tutta la vita alla continenza “per il Regno dei cieli” (cf. Mt 19,
11-12). Proprio di questo parla Cristo nell’insieme del suo enunciato,
rivolgendosi ai Farisei (cf. Mt 19, 3-10) e poi ai Discepoli (cf. Mt
19, 11-12).
7. È evidente che la scelta del matrimonio, così
come esso è stato istituito dal Creatore “da principio”, suppone la presa di
coscienza e l’accettazione interiore del significato sponsale del corpo,
collegato con la mascolinità e femminilità della persona umana. Proprio questo
infatti è espresso in modo lapidario nei versetti del libro della Genesi.
Nell’ascoltare le parole di Cristo, rivolte ai Discepoli sulla continenza “per
il Regno dei cieli” (cf. Mt 19, 11-12), non possiamo pensare che quel
secondo genere di scelta possa esser fatto in modo cosciente e libero senza un
riferimento alla propria mascolinità o femminilità ed a quel significato
sponsale, che è proprio dell’uomo appunto nella mascolinità o femminilità del
suo essere soggetto personale. Anzi, alla luce delle parole di Cristo, dobbiamo
ammettere che quel secondo genere di scelta, cioè la continenza per il
regno di Dio, si attua pure in rapporto alla mascolinità o femminilità
propria della persona che fa tale scelta; si attua in base alla piena
coscienza di quel significato sponsale, che la mascolinità e la
femminilità contengono in sé. Se tale scelta si attuasse per via di un qualche
artificioso “prescindere” da questa reale ricchezza di ogni soggetto umano, essa
non risponderebbe in modo appropriato ed adeguato al contenuto delle parole di
Cristo in Matteo 19, 11-12.
Cristo richiede qui esplicitamente una piena
comprensione, quando dice: “Chi può capire, capisca” (Mt 19, 12).
Mercoledì, 5 maggio 1982
1. Nel rispondere alle domande dei Farisei sul
matrimonio e la sua indissolubilità, Cristo si è riferito al “principio”, cioè
alla sua originaria istituzione da parte del Creatore. Dato che i suoi
interlocutori si sono richiamati alla legge di Mosè, che prevedeva la
possibilità della cosiddetta “lettera di ripudio”, egli rispose: “Per la durezza
del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da
principio non fu così” (Mt 19, 8).
Dopo il colloquio con i Farisei, i discepoli di
Cristo si sono rivolti a lui con le seguenti parole: “Se questa è la condizione
dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi. Egli rispose loro: Non
tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso. Vi sono infatti
eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono
stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per
il Regno dei cieli. Chi può capire, capisca” (Mt 19, 10-20).
2. Le parole di Cristo alludono indubbiamente ad una
cosciente e volontaria rinuncia al matrimonio. Tale rinuncia è possibile
soltanto quando si ammette un’autentica coscienza di quel valore che è
costituito dalla disposizione sponsale della mascolinità e femminilità al
matrimonio. Perché l’uomo possa essere pienamente consapevole di ciò che
sceglie (la continenza per il Regno), deve essere anche pienamente
consapevole di ciò a cui rinuncia (si tratta qui proprio della coscienza
del valore in senso “ideale”; nondimeno questa coscienza è del tutto
“realistica”). Cristo esige certamente, in questo modo, una scelta matura. Lo
comprova, senza alcun dubbio, la forma in cui viene espressa la chiamata alla
continenza per il Regno dei cieli.
3. Ma non basta una rinuncia pienamente consapevole
al suddetto valore. Alla luce delle parole di Cristo, come pure alla luce di
tutta l’autentica tradizione cristiana, è possibile dedurre che tale rinuncia
è ad un tempo una particolare forma di affermazione di quel valore, da cui
la persona non sposata si astiene coerentemente, seguendo il consiglio
evangelico. Ciò può sembrare un paradosso. È noto, tuttavia, che il paradosso
accompagna numerosi enunciati del Vangelo, e spesso quelli più eloquenti e
profondi. Accettando un tale significato della chiamata alla continenza “per
Regno dei cieli”, traiamo una conclusione corretta, sostenendo che la
realizzazione di questa chiamata serve anche - e in modo particolare - alla
conferma del significato sponsale del corpo umano nella sua mascolinità e
femminilità. La rinuncia al matrimonio per il regno di Dio mette in
evidenza al tempo stesso quel significato in tutta la sua verità interiore e
in tutta la sua personale bellezza. Si può dire che questa rinuncia da parte
delle singole persone, uomini e donne, sia in un certo senso indispensabile,
affinché lo stesso significato sponsale del corpo sia più facilmente
riconosciuto in tutto l’ethos della vita umana e soprattutto nell’ethos della
vita coniugale e familiare.
4. Così, dunque, sebbene la continenza “per il Regno
dei cieli” (la verginità, il celibato) orienti la vita delle persone che la
scelgono liberamente al di fuori della via comune della vita coniugale e
familiare, tuttavia non rimane senza significato per questa vita: per il suo
stile, il suo valore e la sua autenticità evangelica. Non dimentichiamo che
l’unica chiave per comprendere la sacramentalità del matrimonio è l’amore
sponsale di Cristo verso la Chiesa (cf. Ef 5, 22-23): di Cristo figlio
della vergine, il quale era lui stesso vergine, cioè “eunuco per il Regno dei
cieli”, nel senso più perfetto del termine. Ci converrà riprendere questo
argomento più tardi.
5. Alla fine di queste riflessioni rimane ancora un
problema concreto: in che modo nell’uomo, a cui “è stata concessa” la chiamata
alla continenza per il Regno, tale chiamata si forma sulla base della coscienza
del significato sponsale del corpo nella sua mascolinità e femminilità, e, in
più, come frutto di tale coscienza? In quale modo si forma o piuttosto si
“trasforma”? Questa domanda è parimente importante, sia dal punto di vista
della teologia del corpo, sia dal punto di vista dello sviluppo della
personalità umana, che è di carattere personalistico e carismatico insieme. Se
volessimo rispondere a tale domanda in modo esauriente - nella dimensione di
tutti gli aspetti e di tutti i problemi concreti, che essa racchiude -
bisognerebbe fare uno studio apposito sul rapporto tra il matrimonio e la
verginità e tra il matrimonio e il celibato. Questo però oltrepasserebbe i
limiti delle presenti considerazioni.
6. Rimanendo nell’ambito delle parole di Cristo
secondo Matteo (Mt 19, 11-12), occorre concludere le nostre riflessioni
con l’affermare ciò che segue. Primo: se la continenza “per il Regno dei
cieli” significa indubbiamente una rinuncia, tale rinuncia è ad un tempo una
affermazione: quella che deriva dalla scoperta del “dono”, cioè ad un
tempo dalla scoperta di una nuova prospettiva della realizzazione personale di
se stessi “attraverso un dono sincero di sé” (Gaudium
et Spes, 24); questa scoperta sta allora in una profonda armonia
interiore con il senso del significato sponsale del corpo, collegato “dal
principio” alla mascolinità o femminilità dell’uomo quale soggetto personale.
Secondo: sebbene la continenza “per il Regno dei cieli” si identifichi con
la rinuncia al matrimonio - che nella vita di un uomo e di una donna dà inizio
alla famiglia -, non si può in alcun modo vedere in essa una negazione del
valore essenziale del matrimonio; anzi, al contrario, la continenza serve
indirettamente a porre in rilievo ciò che nella vocazione coniugale è
perenne e più profondamente personale, ciò che nelle dimensioni della
temporalità (ed insieme nella prospettiva dell’“altro mondo”) corrisponde
alla dignità del dono personale, collegato al significato sponsale del corpo
nella sua mascolinità o femminilità.
7. In tal modo, la chiamata di Cristo alla
continenza “per il Regno dei cieli”, giustamente associata al richiamo alla
futura risurrezione (cf. Mt 21, 24-30; Mc 12, 18-27; Lc 20,
27-40), ha un significato capitale non soltanto per l’ethos e la spiritualità
cristiana, ma anche per l’antropologia e per tutta la teologia del corpo, che
scopriamo alle sue basi. Ricordiamo che Cristo, richiamandosi alla risurrezione
del corpo nell’“altro mondo”, disse, secondo la versione dei tre Vangeli
Sinottici: “Quando risusciteranno dai morti . . . non prenderanno moglie né
marito . . .” (Mc 12, 25). Queste parole, già prima analizzate, fanno
parte dell’insieme delle nostre considerazioni sulla teologia del corpo e
contribuiscono alla sua costruzione.
Mercoledì, 23 giugno 1982
1. Dopo aver fatto l’analisi delle parole di Cristo,
riferite dal Vangelo secondo Matteo (Mt 19, 10-12), conviene passare
all’interpretazione paolina del tema: verginità e matrimonio.
L’enunciato di Cristo sulla continenza per il Regno
dei cieli è conciso e fondamentale. Nell’insegnamento di Paolo, come ci
convinceremo fra poco, possiamo individuare un correlato delle parole del
Maestro; tuttavia il significato della sua enunciazione (1 Cor 7) nel suo
insieme va valutato in modo diverso. La grandezza dell’insegnamento di Paolo
consiste nel fatto che egli, presentando la verità proclamata da Cristo in tutta
la sua autenticità ed identità, le dà un proprio timbro, in un certo senso la
propria interpretazione “personale”, ma che è sorta soprattutto dalle esperienze
della sua attività apostolico-missionaria, e forse addirittura dalla necessità
di rispondere alle domande concrete degli uomini, ai quali quest’attività era
indirizzata. E così incontriamo in Paolo la questione del rapporto reciproco tra
il matrimonio e il celibato o la verginità, quale tema che travagliava gli
animi della prima generazione dei confessori di Cristo, la generazione dei
discepoli degli apostoli, delle prime comunità cristiane. Ciò accadeva per i
convertiti dall’ellenismo, quindi dal paganesimo, più che dal giudaismo; e
questo può spiegare il fatto che il tema sia presente appunto in una lettera
diretta alla comunità di Corinto, la prima.
2. Il dono dell’intero enunciato è senza dubbio
magisteriale; tuttavia, il tono come il linguaggio è anche pastorale. Paolo
insegna la dottrina trasmessa dal Maestro agli apostoli e, ad un tempo,
intrattiene come un continuo colloquio con i destinatari della sua lettera sul
tema in questione. Parla come un classico maestro di morale, affrontando e
risolvendo problemi di coscienza, e perciò i moralisti amano rivolgersi di
preferenza ai chiarimenti e alle deliberazioni di questa prima lettera ai
Corinzi (cf. 1 Cor 7). Bisogna però ricordare che la base ultima di
quelle deliberazioni va cercata nella vita e nell’insegnamento di Cristo stesso.
3. L’Apostolo sottolinea, con grande chiarezza, che
la verginità, ossia la continenza volontaria, deriva esclusivamente da un
consiglio e non da un comandamento: “Quanto alle vergini, non ho alcun
comando dal Signore, ma do un consiglio”. Paolo dà questo consiglio “come uno
che ha ottenuto misericordia dal Signore e merita fiducia” (cf. 1 Cor 7,
25). Come si vede dalle parole citate, l’Apostolo distingue, così come il
Vangelo (cf. Mt 19, 11-12), tra consiglio e comandamento. Egli, in base
alla regola “dottrinale” della comprensione dell’insegnamento proclamato, vuole
consigliare, desidera dare consigli personali agli uomini che si rivolgono a
lui, Così, dunque, il “consiglio” ha chiaramente nella prima
lettera ai Corinzi (cf. 1 Cor 7) due diversi significati. L’Autore
afferma che la verginità è un consiglio e non un comandamento, e, in pari tempo,
dà consigli sia alle persone già sposate, sia a coloro che debbono prendere
ancora una decisione al riguardo, e infine a quanti sono nello stato di
vedovanza. La problematica è sostanzialmente uguale a quella che incontriamo in
tutto l’enunciato di Cristo riportato da Matteo (cf. Mt 19, 2-12): prima
sul matrimonio e la sua indissolubilità, e poi sulla continenza volontaria per
il Regno dei cieli. Tuttavia, lo stile di tale problematica è del tutto
proprio: è di Paolo.
4. “Se però qualcuno ritiene di non regolarsi
convenientemente nei riguardi della sua vergine, qualora essa sia oltre il fiore
dell’età, e conviene che accada così, faccia ciò che vuole: non pecca. Si
sposino pure! Chi invece è fermamente deciso in cuor suo, non avendo nessuna
necessità, ma è arbitro della propria volontà, ed ha deliberato in cuor suo di
conservare la sua vergine, fa bene. In conclusione, colui che sposa la sua
vergine fa bene e chi non la sposa fa meglio” (1 Cor 7, 36-38).
5. Chi aveva chiesto consiglio poteva essere un
giovane, che si era trovato davanti alla decisione di prendere moglie, o forse
un novello sposo, che di fronte a correnti ascetiche esistenti a Corinto
rifletteva sulla linea da dare al suo matrimonio; poteva essere anche un padre o
il tutore di una ragazza, che aveva posto il problema del matrimonio di lei. In
tale caso, si tratterebbe direttamente della decisione che derivava dai suoi
diritti tutelari. Paolo scrive, infatti, in tempi in cui le decisioni del genere
appartenevano più ai genitori o ai tutori che non ai giovani stessi. Egli,
dunque, nel rispondere alla domanda in tal modo a lui rivolta, cerca di
spiegare, in maniera molto precisa, che la decisione circa la
continenza, ossia circa la vita nella verginità, deve essere volontaria
e che solo una tale continenza è migliore del matrimonio. Le
espressioni: “fa bene”, “fa meglio”, sono in questo contesto completamente
univoche.
6. Orbene, l’Apostolo insegna che la verginità,
ossia la continenza volontaria, l’astenersi della giovane dal matrimonio, deriva
esclusivamente da un consiglio e che, nelle condizioni opportune, essa è
“migliore” del matrimonio. Non vi subentra, invece, in alcun modo la questione
del peccato: “Ti trovi legato a una donna? Non cercare di scioglierti. Sei
libero da donna? Non andare a cercarla. Però se ti sposi non fai peccato; e se
la giovane prende marito, non fa peccato” (1 Cor 7, 27-28). In base solo
a queste parole, non possiamo certamente formulare giudizi su ciò che l’Apostolo
pensava e insegnava circa il matrimonio. Questo tema si spiegherà già in parte
nel contesto della prima lettera ai Corinzi (1 Cor 7) e in maniera più
piena nella lettera agli Efesini (Ef 5, 21-23). Nel nostro caso, si
tratta probabilmente della risposta alla domanda se il matrimonio sia peccato; e
si potrebbe anche pensare che in una tale domanda ci sia qualche influsso di
correnti dualistiche pregnostiche, che più tardi si trasformarono in encratismo
e manicheismo. Paolo risponde che qui non entra assolutamente in gioco la
questione del peccato. Non si tratta del discernimento tra “bene”
o “male”, ma soltanto tra “bene” o “meglio”. In seguito, egli passa a
motivare perché chi sceglie il matrimonio “fa bene” e chi sceglie la verginità,
ossia la continenza volontaria, “fa meglio”.
Dell’argomentazione paolina ci occuperemo durante la
nostra prossima riflessione.
Mercoledì, 30 giugno 1982
1. San Paolo, spiegando nel capitolo settimo della
sua prima lettera ai Corinzi la questione dal matrimonio e della verginità
(ossia della continenza per il Regno di Dio), cerca di motivare la causa
per cui chi sceglie il matrimonio fa “bene” e chi, invece, si decide ad una vita
nella continenza, ossia nella verginità, fa “meglio”. Scrive infatti così:
“Questo vi dico fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli
che hanno moglie, vivano come se non l’avessero . . .”; e poi: “quelli che
comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne
usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo! Io vorrei
vedervi senza preoccupazioni . . .” (1 Cor 7, 29.30-32).
2. Le ultime parole del testo citato dimostrano che
Paolo si riferisce nella sua argomentazione anche alla propria
esperienza, per cui la sua argomentazione diventa più personale. Non solo
formula il principio e cerca di motivarlo come tale, ma si allaccia alle
riflessioni e alle convinzioni personali, nate dalla pratica del consiglio
evangelico del celibato. Della loro forza persuasiva testimoniano le singole
espressioni e locuzioni. L’Apostolo non soltanto scrive ai suoi Corinzi: “Vorrei
che tutti fossero come me” (1 Cor 7, 7), ma va oltre, quando, in
riferimento agli uomini che contraggono il matrimonio, scrive: “Tuttavia costoro
avranno tribolazioni nella carne, e io vorrei risparmiarvele” (1 Cor 7,
28). Del resto questa sua convinzione personale era già espressa nelle prime
parole del capitolo settimo della stessa lettera, riferendo, sia pure per
modificarla, questa opinione dei Corinzi: “Quanto poi alle cose che mi avete
scritto, è cosa buona per l’uomo non toccare donna . . .” (1 Cor 7, 1).
3. Ci si può porre la domanda: quali
“tribolazioni nella carne” Paolo aveva in mente? Cristo parlava solo delle
sofferenze (ovvero “afflizioni”), che prova la donna quando deve dare “alla luce
il bambino”, sottolineando tuttavia la gioia (cf. Gv 16, 21) di cui ella
si allieta come compenso di queste sofferenze, dopo la nascita del figlio: la
gioia della maternità. Paolo, invece, scrive delle “tribolazioni del corpo”, che
attendono i coniugi. Sarà questa l’espressione di una avversione personale
dell’Apostolo nei riguardi del matrimonio? In questa osservazione realistica
bisogna vedere un giusto avvertimento per coloro che - come a volte i giovani -
ritengono che l’unione e la convivenza coniugale debbono apportare loro soltanto
felicità e gioia. L’esperienza della vita dimostra che i coniugi rimangono non
di rado delusi in ciò che maggiormente si aspettavano. La gioia dell’unione
porta con sé anche quelle “tribolazioni nella carne”, di cui scrive l’Apostolo
nella lettera ai Corinzi. Queste sono spesso “tribolazioni” di natura morale. Se
egli intende dire con questo che il vero amore coniugale - proprio quello
in virtù del quale “l’uomo . . . si unirà a sua moglie e i due saranno una sola
carne” (Gen 2, 24) - è anche un amore difficile, certo rimane sul
terreno della verità evangelica e non vi è alcuna ragione per scorgervi sintomi
dell’atteggiamento che, più tardi, doveva caratterizzare il manicheismo.
4. Cristo, nelle sue parole circa la continenza per
il Regno di Dio, non cerca in alcun modo di avviare gli ascoltatori al celibato
o alla verginità, indicando loro “le tribolazioni” del matrimonio. Piuttosto si
percepisce che egli cerca di mettere in rilievo diversi aspetti, umanamente
penosi, del decidersi alla continenza: sia la ragione sociale, sia le ragioni di
natura soggettiva, inducono Cristo a dire dell’uomo che prende una tale
decisione, che egli si fa “eunuco”, cioè volontariamente abbraccia la
continenza. Ma proprio grazie a ciò, balza molto chiaramente tutto il
significato soggettivo, la grandezza e l’eccezionalità di una tale decisione:
il significato di una risposta matura a un particolare dono dello Spirito.
5. Non diversamente intende il consiglio di
continenza san Paolo nella lettera ai Corinzi, ma egli lo esprime in modo
diverso. Infatti scrive: “Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto
breve . . .” (1 Cor 7, 29), e poco più avanti: “Passa la scena di questo
mondo . . .” (1 Cor 7, 31). Questa constatazione circa la caducità
dell’esistenza umana e la transitorietà del mondo temporale, in un certo
senso circa l’accidentalità di tutto ciò che è creato, deve far sì che “quelli
che hanno moglie, vivano come se non l’avessero” (1 Cor 7, 29; cf. 7,
31), e insieme preparare il terreno per l’insegnamento sulla continenza. Nel
centro del suo ragionamento, infatti, Paolo mette la frase-chiave che può essere
unita all’enunziato di Cristo, unico nel suo genere, sul tema della continenza
per il Regno di Dio (cf. Mt 19, 12).
6. Mentre Cristo mette in rilievo la grandezza della
rinuncia, inseparabile da una tale decisione, Paolo dimostra soprattutto come
bisogna intendere il “Regno di Dio”, nella vita dell’uomo, il quale ha
rinunciato al matrimonio in vista di esso. E mentre il triplice parallelismo
dell’enunziato di Cristo raggiunge il punto culminante nel verbo che significa
la grandezza della rinuncia assunta volontariamente (“e vi sono altri che si
sono fatti eunuchi per il Regno dei cieli”) (Mt 19, 12), Paolo definisce
la situazione con una sola parola: “Chi non è sposato” (àgamos); più avanti
invece rende tutto il contenuto dell’espressione “Regno dei cieli” in una
splendida sintesi. Dice, infatti: “Chi non è sposato si preoccupa delle cose del
Signore, come possa piacere al Signore” (1 Cor 7, 32). Ogni parola di
questo enunziato merita una speciale analisi.
7. Il contesto del verbo “preoccuparsi” o “cercare”
nel Vangelo di Luca, discepolo di Paolo, indica che veramente bisogna cercare
soltanto il Regno di Dio (cf. Lc 12,31), ciò che costituisce “la parte
migliore”, l’“unum necessarium” (cf. Lc 10, 41). E Paolo stesso
parla direttamente della sua “preoccupazione per tutte le Chiese” (2 Cor
11, 28), della ricerca di Cristo mediante la sollecitudine per i problemi dei
fratelli, per i membri del Corpo di Cristo (cf. Fil 2, 20-21; 1 Cor
12, 25). Già da questo contesto emerge tutto il vasto campo della
“preoccupazione”, alla quale l’uomo non sposato può dedicare totalmente il suo
pensiero, la sua fatica e il suo cuore. L’uomo, infatti, può “preoccuparsi”
soltanto di ciò che veramente gli sta a cuore.
8. Nell’enunziato di Paolo, chi non è sposato si
preoccupa delle cose del Signore (tà toû kyrìou). Con questa concisa
espressione Paolo abbraccia l’intera oggettiva realtà del Regno di Dio.
“Del Signore è la terra e tutto ciò che essa
contiene”, dirà egli stesso poco più avanti in questa lettera (1 Cor 10,
26; cf. Sal 23 [24], 1).
L’oggetto della sollecitudine del cristiano è tutto
il mondo! Ma Paolo con il nome di “Signore” qualifica prima di tutto Gesù Cristo
(cf. ex. gr., Fil 2, 11), e perciò “le cose del Signore” significano in
primo luogo “il Regno di Cristo”, il suo Corpo che è la Chiesa (cf. Col
1, 18) e tutto ciò che contribuisce alla sua crescita. Di tutto ciò si preoccupa
l’uomo non sposato e perciò Paolo, essendo nel pieno senso della parola
“apostolo di Gesù Cristo” (1 Cor 1, 1) e ministro del Vangelo (cf. Col
1, 23), scrive ai Corinzi: “Vorrei che tutti fossero come me” (1 Cor 7,
7).
9. Tuttavia, lo zelo apostolico e l’attività più
fruttuosa non esauriscono ancora ciò che si contiene nella motivazione paolina
della continenza. Si potrebbe perfino dire che la loro radice e sorgente si
trova nella seconda parte della frase, che dimostra la realtà soggettiva del
Regno di Dio: “Chi non è sposato si preoccupa . . ., come possa piacere al
Signore”. Questa constatazione abbraccia tutto il campo della relazione
personale dell’uomo con Dio. “Piacere a Dio” - l’espressione si trova in antichi
libri della Bibbia (cf. ex gr., Dt 13, 19) - è sinonimo di vita nella
grazia di Dio, ed esprime l’atteggiamento di colui che cerca Dio, ossia di chi
si comporta secondo la sua volontà, così da essergli gradito. In uno degli
ultimi libri della Sacra Scrittura questa espressione diventa una sintesi
teologica della santità. San Giovanni l’applica una sola volta a Cristo: “Io
faccio sempre le cose che gli (al Padre) sono gradite” (Gv 8, 29). San
Paolo osserva nella lettera ai Romani che Cristo “non cercò di piacere a se
stesso” (Rm 15, 3).
Tra queste due constatazioni si racchiude tutto ciò
che costituisce il contenuto del “piacere a Dio”, inteso nel Nuovo Testamento
come il seguire le orme di Cristo.
10. Sembra che ambedue le parti dell’espressione
paolina si sovrappongano: infatti, preoccuparsi di ciò che “appartiene al
Signore”, delle “cose del Signore”, deve “piacere al Signore”. D’altra parte,
colui che piace a Dio non può rinchiudersi in se stesso, ma si apre al mondo, a
tutto ciò che è da ricondurre a Cristo. Questi sono, evidentemente, solo due
aspetti della stessa realtà di Dio e del suo Regno. Paolo, tuttavia, doveva
distinguerli, per dimostrare più chiaramente la natura e la possibilità della
continenza “per il Regno dei cieli”.
Cercheremo di ritornare ancora su questo tema.
Mercoledì, 7 luglio 1982
1. Durante l’incontro di mercoledì scorso, abbiamo
cercato di approfondire l’argomentazione, di cui si serve san Paolo nella prima
lettera ai Corinzi per convincere i suoi destinatari che colui che sceglie il
matrimonio fa “bene” e chi invece sceglie la verginità (ossia la continenza
secondo lo spirito del consiglio evangelico) fa “meglio” (1 Cor 7, 38).
Continuando oggi questa meditazione, ricordiamo che secondo san Paolo “chi non è
sposato si preoccupa . . . come possa piacere al Signore” (1 Cor 7, 32).
Il “piacere al Signore” ha, come sfondo, l’amore.
Questo sfondo emerge da un ulteriore confronto: chi non è sposato si preoccupa
di come piacere a Dio, mentre l’uomo sposato deve preoccuparsi anche di come
accontentare la moglie. Qui appare, in un certo senso, il carattere sponsale
della “continenza per il regno di Dio”. L’uomo cerca sempre di piacere alla
persona amata. Il “piacere a Dio” non è quindi privo di questo carattere, che
distingue la relazione interpersonale degli sposi. Da una parte, esso è uno
sforzo dell’uomo che tende a Dio e cerca il modo di piacergli, cioè di esprimere
attivamente l’amore; d’altra parte, a quest’aspirazione corrisponde un
gradimento di Dio che, accettando gli sforzi dell’uomo, corona la propria opera
col dare una nuova grazia: sin dall’inizio, infatti, quest’aspirazione è stata
suo dono. Il “preoccuparsi (di) come piacere a Dio” è quindi un contributo
dell’uomo al continuo dialogo della salvezza, iniziato da Dio. Evidentemente ad
esso prende parte ogni cristiano che vive di fede.
2. Paolo osserva, tuttavia, che l’uomo legato col
vincolo matrimoniale “si trova diviso” (1 Cor 7, 34) a causa dei suoi
doveri familiari (cf. 1 Cor 7, 34). Da questa constatazione sembra quindi
risultare che la persona non sposata dovrebbe essere caratterizzata da una
integrazione interiore, da una unificazione, che gli permetterebbero di
dedicarsi completamente al servizio del Regno di Dio in tutte le sue dimensioni.
Tale atteggiamento presuppone l’astensione dal matrimonio, esclusivamente “per
il Regno di Dio”, e una vita indirizzata unicamente a questo scopo.
Diversamente, “la divisione” può furtivamente entrare anche nella vita di un non
sposato, il quale, essendo privo da una parte della vita matrimoniale e
dall’altra di un chiaro scopo per cui dovrebbe rinunciare ad essa, potrebbe
trovarsi davanti a un certo vuoto.
3. L’Apostolo sembra conoscere bene tutto ciò, e si
premura di specificare che egli non vuole “gettare un laccio” a colui al quale
consiglia di non sposarsi, ma lo fa per indirizzarlo a ciò che è degno e che
lo tiene unito al Signore senza distrazioni (cf. 1 Cor 7, 35). Queste
parole fanno venire in mente ciò che Cristo durante l’Ultima Cena, secondo il
Vangelo di Luca, dice agli Apostoli: “Voi siete quelli che avete perseverato con
me nelle mie prove (letteralmente, “nelle tentazioni”); e io preparo per voi un
Regno, come il Padre l’ha preparato per me” (Lc 22, 28-29). Chi non è
sposato “essendo unito al Signore”, può essere certo che le sue difficoltà
troveranno comprensione: “Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia
compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa,
escluso il peccato” (Eb 4, 15). Ciò permette alla persona non sposata non
tanto di immergersi esclusivamente negli eventuali problemi personali, quanto di
includerli nella grande corrente delle sofferenze di Cristo e del suo Corpo che
è la Chiesa.
4. L’Apostolo mostra in che modo si può “essere
uniti al Signore”: ciò si può raggiungere aspirando a un costante permanere con
lui, a un gioire della sua presenza (eupáredron), senza lasciarsi
distrarre dalle cose non essenziali (aperispástos) (cf. 1 Cor 7,
35).
Paolo precisa questo pensiero ancor più chiaramente,
quando parla della situazione della donna sposata e di quella che ha scelto la
verginità o non ha più il marito. Mentre la donna sposata deve preoccuparsi di
“come possa piacere al marito”, quella non sposata “si preoccupa delle cose del
Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito” (1 Cor 7, 34).
5. Per afferrare in modo adeguato tutta la
profondità del pensiero di Paolo, bisogna osservare che la “santità”, secondo la
concezione biblica, è piuttosto uno stato che un’azione; essa ha un carattere
innanzitutto ontologico e poi anche morale. Specie nell’Antico Testamento, è una
“separazione” da ciò che non è soggetto all’influenza di Dio, che è “profanum”,
per appartenere esclusivamente a Dio. La “santità nel corpo e nello
spirito”, quindi, significa anche la sacralità della verginità o del celibato,
accettati per il “Regno di Dio”. E, contemporaneamente, ciò che è offerto a Dio
deve distinguersi con la purezza morale e perciò presuppone un comportamento
“senza macchia né ruga”, “santo e immacolato”, secondo il modello verginale
della Chiesa che sta davanti a Cristo (Ef 5, 27).
L’Apostolo in questo capitolo della lettera ai
Corinzi, tocca i problemi del matrimonio e del celibato o della verginità in
modo profondamente umano e realistico, rendendosi conto della mentalità dei suoi
destinatari. L’argomentazione di Paolo è, in una certa misura, “ad hominem”.
Il mondo nuovo, il nuovo ordine dei valori che egli annunzia, deve incontrarsi,
nell’ambiente dei suoi destinatari di Corinto, con un altro “mondo” e con un
altro ordine di valori, diverso anche da quello a cui erano giunte, per la prima
volta, le parole pronunziate da Cristo.
6. Se Paolo, con la sua dottrina circa il matrimonio
e la continenza, si riferisce anche alla caducità del mondo e della vita
umana in esso, certamente lo fa in riferimento all’ambiente, che, in un certo
senso, era orientato in modo programmatico all’“uso dal mondo”.
Quanto significativo è, da questo punto di vista, il suo appello “a quelli che
usano del mondo” perché lo facciano “come se non ne usassero appieno” (1 Cor
7, 31). Dal contesto immediato risulta che pure il matrimonio, in
quest’ambiente, era inteso come un modo di “usare il mondo” -
diversamente da come lo era stato in tutta la tradizione israelitica (nonostante
alcuni snaturamenti, che Gesù indicò nel colloquio con i Farisei, oppure nel
Discorso della montagna). Indubbiamente, tutto ciò spiega lo stile della
risposta di Paolo. L’Apostolo si rendeva ben conto che, incoraggiando
all’astensione dal matrimonio, doveva al tempo stesso mettere in luce un modo di
comprensione del matrimonio che fosse conforme con tutto l’ordine evangelico dei
valori. E doveva farlo col massimo realismo, tenendo cioè davanti agli occhi
l’ambiente al quale si rivolgeva, le idee e i modi di valutare le cose, in esso
dominanti.
7. Agli uomini che vivevano in un ambiente, ove il
matrimonio era considerato soprattutto come uno dei modi di “usare del mondo”,
Paolo si pronunzia quindi con le significative parole sia circa la verginità o
il celibato (come abbiamo visto), sia anche circa il matrimonio stesso: “Ai non
sposati e alle vedove dico: è cosa buona per loro rimanere come sono io; ma se
non sanno vivere in continenza, si sposino; è meglio sposarsi che ardere” (1
Cor 7, 8-9). Quasi la stessa idea era stata espressa da Paolo già prima:
“Quanto poi alle cose di cui mi avete scritto, è cosa buona per l’uomo non
toccare la donna; tuttavia, per il pericolo dell’incontinenza, ciascuno abbia la
propria moglie e ogni donna il proprio marito” (1 Cor 7, 1-2).
8. Forse che l’Apostolo, nella prima lettera ai
Corinzi, guarda il matrimonio esclusivamente dal punto di vista di un
“remedium concupiscentiae”, come si soleva dire nel tradizionale linguaggio
teologico? Gli enunziati riportati poco sopra sembrerebbero testimoniarlo.
Intanto, nell’immediata prossimità delle formulazioni riportate, leggiamo una
frase che ci induce a vedere in modo diverso l’insieme dell’insegnamento di san
Paolo, contenuto nel capitolo 7 della prima lettera ai Corinzi: “Vorrei che
tutti fossero come me (egli ripete il suo argomento preferito a favore
dell’astensione dal matrimonio); - ma ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in
un modo, chi in un altro” (1 Cor 7, 7). Quindi, anche coloro che scelgono
il matrimonio e vivono in esso ricevono da Dio un “dono”, il “proprio dono”,
cioè la grazia propria di tale scelta, di questo modo di vivere, di questo
stato. Il dono ricevuto dalle persone che vivono nel matrimonio è diverso da
quello ricevuto dalle persone che vivono nella verginità e scelgono la
continenza per il Regno di Dio; nondimeno esso è un vero “dono da Dio”, dono
“proprio”, destinato a persone concrete, e “specifico”, cioè adatto alla loro
vocazione di vita.
9. Si può quindi dire che, mentre l’Apostolo, nella
sua caratterizzazione del matrimonio da parte “umana” (e forse ancora più da
parte della situazione locale che dominava a Corinto) mette fortemente in
rilievo la motivazione “del riguardo alla concupiscenza della carne”, al
tempo stesso egli rileva, con non minore forza di convinzione, anche il suo
carattere sacramentale e “carismatico”. Con la stessa chiarezza, con la quale
vede la situazione dell’uomo in rapporto alla concupiscenza della carne, egli
vede anche l’azione della grazia in ogni uomo - in colui che vive nel matrimonio
non meno che in colui il quale sceglie volontariamente la continenza - tenendo
presente che “passa la scena di questo mondo”.
Mercoledì, 14 luglio 1982
1. Durante le nostre precedenti considerazioni,
analizzando il settimo capitolo della prima lettera ai Corinzi, abbiamo cercato
di cogliere e di comprendere gli insegnamenti e i consigli, che san Paolo dà ai
destinatari della sua Lettera sulle questioni riguardanti il matrimonio e la
continenza volontaria (ossia l’astensione dal matrimonio). Affermando che chi
sceglie il matrimonio “fa bene” e chi sceglie la verginità “fa meglio”,
l’Apostolo fa riferimento alla caducità del mondo - ossia a tutto ciò che è
temporale.
È facile intuire che il motivo della caducità e
della labilità di ciò che è temporale, parla, in questo caso, con molta maggior
forza che non il riferimento alla realtà dell’“altro mondo”. Benché l’Apostolo
qui si esprima non senza difficoltà, possiamo, tuttavia, essere d’accordo che
alla base dell’interpretazione paolina del tema “matrimonio-verginità” si trova
non tanto la stessa metafisica dell’essere accidentale (quindi passeggero),
quanto piuttosto la teologia di una grande attesa, di cui Paolo fu
fervido propugnatore. Non il “mondo” è l’eterno destino dell’uomo, ma il Regno
di Dio. L’uomo non può attaccarsi troppo ai beni che sono a misura del mondo
perituro.
2. Pure il matrimonio è legato con la “scena di
questo mondo”, che passa; e qui siamo, in un certo senso, molto vicini alla
prospettiva aperta da Cristo nel suo enunziato circa la futura risurrezione (cf.
Mt 22, 23-32; Mc 12, 18-27; Lc 20, 27-40). Perciò il
cristiano, secondo l’insegnamento di Paolo, deve vivere il matrimonio dal punto
di vista della sua vocazione definitiva. E mentre il matrimonio è legato con la
scena di questo mondo che passa e perciò impone, in un certo senso, la
necessità di “chiudersi” in questa caducità, l’astensione dal matrimonio,
invece, si potrebbe dire libera da una tale necessità. Proprio per questo
l’Apostolo dichiara che “fa meglio” colui che sceglie la continenza. Benché la
sua argomentazione prosegua su tale strada, tuttavia si mette decisamente in
primo piano (come già abbiamo costatato) soprattutto il problema di “piacere al
Signore” e di “preoccuparsi delle cose del Signore”.
3. Si può ammettere che le stesse ragioni parlano in
favore di ciò che l’Apostolo consiglia alle donne rimaste vedove: “La moglie è
vincolata per tutto il tempo in cui vive il marito; ma se il marito muore è
libera di sposare chi vuole, purché ciò avvenga nel Signore. Ma se rimane così,
a mio parere, è meglio; credo infatti di avere anch’io lo Spirito di Dio” (1
Cor 7, 39-40). Quindi: rimanga nella vedovanza piuttosto che contrarre un
nuovo matrimonio.
4. Mediante ciò che scopriamo con una lettura
perspicace della prima lettera ai Corinzi (specie del capitolo 7), si svela
tutto il realismo della teologia paolina del corpo. Se l’Apostolo nella lettera
proclama che “il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi” (1
Cor 6, 19), al tempo stesso egli è pienamente consapevole della debolezza e
della peccaminosità alle quali l’uomo soggiace, proprio a motivo della
concupiscenza della carne.
Tuttavia, una tale coscienza non gli offusca in
alcun modo la realtà del dono di Dio, che viene partecipato sia da coloro che si
astengono dal matrimonio, sia da coloro che prendono moglie o marito. Nel
capitolo 7 della prima lettera ai Corinzi troviamo un chiaro incoraggiamento
all’astensione dal matrimonio, la convinzione che “fa meglio” colui che si
decide per essa; ma non troviamo, tuttavia, alcun fondamento per considerare
coloro che vivono nel matrimonio come “carnali”, e coloro invece che, per motivi
religiosi, scelgono la continenza come “spirituali”. Infatti, nell’uno e
nell’altro modo di vivere - diremmo oggi: nell’una e nell’altra vocazione -
opera quel “dono” che ciascuno riceve da Dio, cioè la grazia, la quale fa sì
che il corpo è “tempio dello Spirito Santo” e tale rimane, così nella
verginità (nella continenza) come anche nel matrimonio, se l’uomo si
mantiene fedele al proprio dono e, conformemente al suo stato, ossia alla sua
vocazione, non “disonora” questo “tempio dello Spirito Santo”, che è il suo
corpo.
5. Nell’insegnamento di Paolo, contenuto soprattutto
nel capitolo 7 della prima lettera ai Corinzi, non troviamo nessuna premessa a
ciò che più tardi sarà chiamato “manicheismo”. L’Apostolo è pienamente
consapevole che - per quanto la continenza per il Regno di Dio rimanga sempre
degna di raccomandazione - contemporaneamente la grazia, cioè “il proprio dono
di Dio”, aiuta anche gli sposi in quella convivenza, nella quale (secondo le
parole della “Genesi” 2, 24) essi sono così strettamente uniti da
diventare “una sola carne”. Questa convivenza carnale è quindi sottoposta
alla potenza del loro “proprio dono da Dio”. L’Apostolo ne scrive con lo
stesso realismo, che caratterizza tutto il suo ragionamento nel capitolo 7 di
questa lettera: “Il marito compia il suo dovere verso la moglie; ugualmente
anche la moglie verso il marito. La moglie non è arbitra del proprio corpo, ma
lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è arbitro del proprio
corpo, ma lo è la moglie” (1 Cor 3-4).
6. Si può dire che queste formulazioni sono un
chiaro commento, da parte del Nuovo Testamento, alle parole appena ricordate del
libro della Genesi (Gen 2, 24). Tuttavia, le parole qui usate, in
particolare le espressioni “dovere” e “non è arbitra (arbitro)”, non
possono essere spiegate astraendo dalla giusta dimensione dell’alleanza
matrimoniale, così come abbiamo cercato di chiarirlo facendo l’analisi dei testi
del libro della Genesi; cercheremo di farlo ancor più pienamente, quando
parleremo della sacramentalità del matrimonio in base alla lettera agli Efesini
(cf. Ef 5, 22-33). A suo tempo, occorrerà tornare ancora su queste
espressioni significative, che dal vocabolario di san Paolo sono passate in
tutta la teologia del matrimonio.
7. Per ora, continuiamo a rivolgere l’attenzione
alle altre frasi dello stesso brano del capitolo 7 della prima lettera ai
Corinzi, in cui l’Apostolo rivolge agli sposi le seguenti parole: “Non
astenetevi tra voi se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi
alla preghiera, e poi ritornate a stare insieme, perché satana non vi tenti nei
momenti di passione. Questo però vi dico per concessione, non per comando” (1
Cor 7, 5-6). È un testo molto significativo, a cui forse occorrerà fare
ancora riferimento nel contesto delle meditazioni sugli altri temi.
È molto significativo il fatto che l’Apostolo, il
quale, in tutta la sua argomentazione circa il matrimonio e la continenza, fa,
come Cristo, una chiara distinzione tra il comandamento e il consiglio
evangelico, senta il bisogno di riferirsi anche alla “concessione”, come ad
una regola supplementare e ciò proprio soprattutto in riferimento ai
coniugi e alla loro reciproca convivenza. San Paolo dice chiaramente che sia
la convivenza coniugale, sia la volontaria e periodica astensione dei coniugi
deve essere frutto di questo “dono di Dio” che è loro “proprio”, e che,
cooperando consapevolmente con esso, gli stessi coniugi possono mantenere e
rafforzare quel reciproco legame personale e insieme quella dignità che il fatto
di essere “tempio dello Spirito Santo che è in loro” (cf.1 Cor 6, 19)
conferisce al loro corpo.
8. Sembra che la regola paolina di “concessione”
indichi il bisogno di prendere in considerazione tutto ciò che, in qualche modo,
corrisponde alla soggettività tanto differenziata dell’uomo e della donna. Tutto
ciò che, in questa soggettività, è di natura non soltanto spirituale ma anche
psico-somatica, tutta la ricchezza soggettiva dell’uomo, la quale, tra il suo
essere spirituale e quello corporale, si esprime nella sensibilità specifica sia
per l’uomo che per la donna - tutto ciò deve rimanere sotto l’influsso del
dono che ciascuno riceve da Dio, dono che è suo proprio.
Come si vede, san Paolo nel capitolo 7 della prima
lettera ai Corinzi interpreta l’insegnamento di Cristo circa la continenza per
il Regno dei cieli in quel modo, molto pastorale, che gli è proprio, non
risparmiando in quest’occasione accenti del tutto personali. Egli interpreta
l’insegnamento sulla continenza, sulla verginità, parallelamente alla dottrina
sul matrimonio, conservando il realismo proprio di un pastore e, al tempo
stesso, le proporzioni che troviamo nel Vangelo, nelle parole di Cristo stesso.
9. Nell’enunziato di Paolo si può ritrovare quella
fondamentale struttura portante della dottrina rivelata sull’uomo, che anche con
il suo corpo è destinato alla “vita futura”. Questa struttura portante sta alla
base di tutto l’insegnamento evangelico sulla continenza per il Regno di Dio (cf.
Mt 19, 12) - ma contemporaneamente poggia su di essa anche il definitivo
(escatologico) compimento della dottrina evangelica circa il matrimonio (cf.
Mt 22, 30; Mc 12, 25; Lc 20, 36). Queste due dimensioni della
vocazione umana non si oppongono tra di loro, ma sono complementari. Tutte e due
forniscono una piena risposta a una delle fondamentali domande dell’uomo: alla
domanda circa il significato di “essere corpo”, cioè circa il significato della
mascolinità e della femminilità, di essere “nel corpo” un uomo o una donna.
10. Ciò che qui di solito definiamo come teologia
del corpo si dimostra come qualcosa di veramente fondamentale e costitutivo per
tutta l’ermeneutica antropologica - e al tempo stesso ugualmente
fondamentale per l’etica e per la teologia dell’ethos umano. In ciascuno
di questi campi bisogna ascoltare attentamente non soltanto le parole di Cristo,
in cui egli si richiama al “principio” (Mt 19, 4) o al “cuore” come luogo
interiore e contemporaneamente “storico” (cf. Mt 5, 28) dell’incontro con
la concupiscenza della carne - ma dobbiamo ascoltare attentamente anche le
parole, mediante le quali Cristo si è richiamato alla risurrezione per innestare
nello stesso irrequieto cuore dell’uomo i primi semi della risposta alla domanda
circa il significato di essere “carne” nella prospettiva dell’“altro mondo”.
Mercoledì, 21 luglio 1982
1. “Anche noi che possediamo le primizie dello
Spirito, gemiamo interiormente, aspettando . . . la redenzione del nostro corpo”
(Rm 8, 23). San Paolo nella lettera ai Romani vede questa “redenzione del
corpo” in una dimensione antropologica e insieme cosmica . . . La
creazione “infatti è stata sottomessa alla caducità” (Rm 8, 20). Tutta la
creazione visibile, tutto il cosmo porta su di sé gli effetti del peccato
dell’uomo. “Tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del
parto” (Rm 8, 22). E contemporaneamente tutta “la creazione . . . attende
con impazienza la rivelazione dei figli di Dio” e “nutre la speranza di essere
lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà
della gloria dei figli di Dio” (Rm 8, 19.20-21).
2. La redenzione del corpo è, secondo Paolo, oggetto
della speranza. Questa speranza è stata innestata nel cuore dell’uomo in un
certo senso subito dopo il primo peccato. Basta ricordare le parole del libro
della Genesi, che vengono tradizionalmente definite come il “proto-vangelo” (cf.
Gen 3, 15) e quindi, potremmo dire, come l’inizio della Buona Novella, il
primo annunzio della salvezza. La redenzione del corpo si collega, secondo le
parole della lettera ai Romani, proprio con questa speranza, nella quale - come
leggiamo - “noi siamo stati salvati” (Rm 8, 24). Mediante la speranza,
che risale agli inizi stessi dell’uomo, la redenzione del corpo ha la sua
dimensione antropologica: è la redenzione dell’uomo. Contemporaneamente essa si
irradia, in un certo senso, su tutta la creazione, che sin dall’inizio è stata
legata in modo particolare all’uomo ed a lui subordinata (cf. Gen 1,
28-30). La redenzione del corpo è, quindi, la redenzione del mondo: ha una
dimensione cosmica.
3. Presentando nella lettera ai Romani l’immagine
“cosmica” della redenzione, Paolo di Tarso colloca al suo stesso centro l’uomo,
così come “in principio” questi era stato collocato al centro stesso
dell’immagine della creazione. È proprio l’uomo, sono gli uomini, quelli che
possiedono “le primizie dello Spirito”, che gemono interiormente, aspettando la
redenzione del loro corpo (cf. Rm 8, 23). Cristo, che è venuto per
svelare pienamente l’uomo all’uomo rendendogli nota la sua altissima vocazione (cf.
Gaudium et Spes, 22), parla nel Vangelo della stessa divina
profondità del mistero della redenzione, che proprio in lui trova il suo
specifico soggetto “storico”. Cristo, quindi, parla nel nome di quella speranza,
che è stata innestata nel cuore dell’uomo già nel “proto-vangelo”. Cristo dà
compimento a questa speranza, non soltanto con le parole del suo insegnamento,
ma soprattutto con la testimonianza della sua morte e risurrezione. Così,
dunque, la redenzione del corpo si è già compiuta in Cristo. In lui è stata
confermata quella speranza, nella quale “noi siamo stati salvati”. E,
al tempo stesso, quella speranza è stata riaperta di nuovo verso il suo
definitivo compimento escatologico. “La rivelazione dei figli di Dio” in Cristo
è stata definitivamente indirizzata verso quella “libertà e gloria”, che devono
essere definitivamente partecipate dai “figli di Dio”.
4. Per comprendere tutto ciò che comporta “la
redenzione del corpo” secondo la lettera di Paolo ai Romani, è necessaria una
autentica teologia del corpo. Abbiamo cercato di costruirla, riferendoci prima
di tutto alle parole di Cristo. Gli elementi costitutivi della teologia del
corpo sono racchiusi in ciò che Cristo dice, facendo richiamo al “principio”, in
relazione alla domanda circa l’indissolubilità del matrimonio (cf. Mt 19,
8), in ciò che egli dice della concupiscenza, richiamandosi al cuore umano, nel
Sermone della Montagna (cf. Mt 5, 28), ed anche in ciò che dice
richiamandosi alla risurrezione (cf. Mt 22, 30). Ciascuno di questi
enunziati nasconde in sé un ricco contenuto di natura sia antropologica, sia
etica. Cristo parla all’uomo - e parla dell’uomo: dell’uomo che è “corpo”, e che
è stato creato come maschio e femmina a immagine e somiglianza di Dio; parla
dell’uomo, il cui cuore è sottoposto alla concupiscenza, e infine dall’uomo,
davanti al quale si apre la prospettiva escatologica della risurrezione del
corpo.
Il “corpo” significa (secondo il libro della
Genesi) l’aspetto visibile dell’uomo e la sua appartenenza al mondo visibile.
Per san Paolo esso significa non soltanto questa appartenenza, ma a volte anche
l’alienazione dell’uomo dall’influsso dello Spirito di Dio. L’uno e l’altro
significato rimane in relazione alla “redenzione del corpo”.
5. Poiché nei testi precedentemente analizzati
Cristo parla della profondità divina del mistero della redenzione, le sue
parole servono proprio quella speranza, di cui si parla nella lettera
ai Romani. “La redenzione del corpo” secondo l’Apostolo è, in definitiva, ciò
che noi “attendiamo”. Così attendiamo proprio la vittoria escatologica
sulla morte, alla quale Cristo rese testimonianza soprattutto con la sua
risurrezione. Alla luce del mistero pasquale, le sue parole sulla risurrezione
dei corpi e sulla realtà dell’“altro mondo”, registrate dai Sinottici, hanno
acquistato la loro piena eloquenza. Sia Cristo, sia poi Paolo di Tarso, hanno
proclamato l’appello all’astensione dal matrimonio “per il Regno dei cieli”
proprio in nome di questa realtà escatologica.
6. Tuttavia, la “redenzione del corpo” si esprime
non soltanto nella risurrezione quale vittoria sulla morte. Essa è presente
anche nelle parole di Cristo, indirizzate all’uomo “storico”, sia quando esse
confermano il principio dell’indissolubilità del matrimonio, come principio
proveniente dal Creatore stesso, sia anche quando - nel Discorso della Montagna
- Cristo invita a superare la concupiscenza, e ciò perfino nei movimenti
unicamente interiori del cuore umano. Dell’uno e dell’altro di questi
enunziati-chiave bisogna dire che si riferiscono alla moralità umana,
hanno un senso etico. Qui si tratta non della speranza escatologica della
risurrezione, ma della speranza della vittoria sul peccato, che
può essere chiamata la speranza di ogni giorno.
7. Nella sua vita quotidiana l’uomo deve attingere
al mistero della redenzione del corpo l’ispirazione e la forza per superare il
male che è assopito in sé sotto forma della triplice concupiscenza. L’uomo e la
donna, legati nel matrimonio, devono intraprendere quotidianamente il compito
dell’indissolubile unione di quell’alleanza, che hanno stipulato tra di loro. Ma
anche un uomo o una donna, che volontariamente hanno scelto la continenza per il
Regno dei cieli, devono dare quotidianamente una viva testimonianza della
fedeltà a una tale scelta, ascoltando le direttive di Cristo dal Vangelo e
quelle dell’apostolo Paolo dalla prima lettera ai Corinzi. In ogni caso si
tratta della speranza di ogni giorno, che, a misura dei normali compiti e
delle difficoltà della vita umana, aiuta a vincere “con il bene il male” (Rm
12, 21). Infatti, “nella speranza noi siamo stati salvati”: la speranza di ogni
giorno manifesta la sua potenza nelle opere umane e perfino negli stessi
movimenti del cuore umano, facendo strada, in un certo senso, alla grande
speranza escatologica legata con la redenzione del corpo.
8. Penetrando nella vita quotidiana con la
dimensione della morale umana, la redenzione del corpo aiuta, prima di tutto,
a scoprire tutto questo bene, in cui l’uomo riporta la vittoria sul peccato
e sulla concupiscenza. Le parole di Cristo, che derivano dalla divina profondità
del mistero della redenzione, permettono di scoprire e di rafforzare quel
legame, che esiste tra la dignità dell’essere umano (dell’uomo o della donna) e
il significato sponsale del suo corpo. Permettono di comprendere e attuare, in
base a quel significato, la libertà matura del dono, che in un modo si esprime
nel matrimonio indissolubile, e in un altro mediante l’astensione dal matrimonio
per il Regno di Dio. Su queste vie diverse Cristo svela pienamente l’uomo
all’uomo, rendendogli nota la “sua altissima vocazione”. Questa vocazione è
iscritta nell’uomo secondo tutto il suo “compositum” psico-fisico,
proprio mediante il mistero della redenzione del corpo.
Tutto ciò che abbiamo cercato di fare nel corso
delle nostre meditazioni, per comprendere le parole di Cristo, ha il suo
fondamento definitivo nel mistero della redenzione del corpo.
SECONDA PARTE
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Catechesi di Papa Giovanni
Paolo II
" L'AMORE UMANO NEL PIANO
DIVINO "
"la redenzione del corpo e la
sacramentalità del matrimonio"
( la Teologia del Corpo )
Fonte : www.vatican.va
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