GIOVANNI CRISTINI (1925-1995)
Giovanni Cristini nasce a Brescia il 22 gennaio
1925. Proviene da una famiglia numerosa e di modeste condizioni. Compie gli
studi liceali durante la guerra, lontano da Brescia, e consegue la maturità
classica come privatista al Liceo Arnaldo da Brescia. Ritorna nella sua
città dopo aver interrotto gli studi universitari per cercare lavoro.
Si dedica presto all'attività di scrittore e di
poeta seguendo una sua intima e prepotente vocazione. Il suo primo articolo,
che gli darà coscienza delle sue capacità, appare nel novembre del 1943
(aveva 18 anni) su
"L'Italia" l'indomani della morte di Angelo Canossi cui l'articolo è
dedicato.
Trova lavoro come redattore e collaboratore di
giornali locali. Fa le sue prime prove sul quotidiano "Brescianotizie" del
fantasioso Franco Grassi e viene assunto dalla casa editrice La Scuola dove
collabora attivamente, come scrittore e redattore, alla Rivista per studenti
"Carta Penna e Calamaio" sulla quale pubblica numerosi
articoli,soprattutto di critica letteraria, e tiene una rubrica fissa, "su
onda radar", che gli consente un contatto vivace e stimolante con i giovani:
rivistina, la chiamava lui, per il formato piccolo e per la modestia degli
intenti. Eppure questa rivista ebbe una notevole eco, pur nella sua breve
durata. Danilo Tamagnini la ricorda ancora affettuosamente in un suo breve
scritto sul "Giornale di Brescia" il 19 dicembre 1983 e Matteo Perrini, più
recentemente, l'ha definita "La più bella rivista per studenti che l'Italia
abbia mai avuto... vivace, non conformista, senza sbavature ideologiche, una
vera palestra di confronto, una scuola di formazione" ("Giornale di Brescia"
26 febbraio 1996).
"Carta Penna e Calamaio" costituì un punto
d'incontro e di rivelazione per molti giovani, che poi si sono affermati in
varie professioni e che ricordano ancora adesso con nostalgia quei tempi
"favolosi". Ci piace ricordare, fra questi, una professoressa di Trento che,
all'indomani della morte di Giovanni Cristini, scrisse una lettera commossa
e vibrante di simpatia comparsa sull'"Avvenire" il 13 dicembre 1995.
In quei primi anni di attività Giovanni Cristini
si lega di profonda amicizia a
Don Primo Mazzolari, partecipando con entusiasmo alla travagliata
esperienza del giornale
"Adesso",
fondato dal parroco di Bozzolo. Ricordiamo a questo proposito che a Don
Mazzolari, morto nel 1959, Cristini dedicò il poemetto
"Il grande grido" e che trent'anni dopo, nel 1989, diede il suo
contributo al convegno bresciano
"Don Mazzolari a trent'anni dalla morte; insegnamenti e provocazioni",
organizzato dal Gruppo aziendale della banca S. Paolo di Brescia al Centro
pastorale Paolo VI.
Il suo primo libro di poesie,
"La strada della croce", esce nel 1950 per le edizioni de Il Gallo di
Genova e fu definito da Fausto Montanari su "Studium" "Il libro di poesie
più bello dell'anno". Tema: la passione di Cristo. Poesia religiosa, dunque,
in cui il poeta ha evitato ogni forma di retorica devozionale ed ha
espresso, in un linguaggio forte e limpido, lo slancio devoto della creatura
a Dio, la partecipazione alla sofferenza umana del Cristo, nella certezza
della Resurrezione.
E religiosa è rimasta poi sempre, nell'intero
arco della sua esistenza, l'ispirazione della poesia di Cristini, ma di una
religiosità che, col passare degli anni, è diventata, come ha scritto Luigi
Santucci, "una personale avventura di ricerca, di inquietudini, di
conferme".
Undici anni più tardi, nel 1961, quelle stesse
poesie vennero ripubblicate dalla Locusta di Vicenza in un volumetto che si
apriva con il poemetto sopra ricordato dedicato a Don Primo Mazzolari che
voleva essere, come Cristini stesso scrisse nella nota finale, "I'addio ad
un uomo che ingenuamente sognava un mondo più giusto e cristiano". Questa
nuova edizione portava il titolo emblematico
"I chiodi e i dadi": i chiodi della passione di Cristo e di ogni uomo e
i dadi con cui c'è chi si gioca la veste di Cristo e con essa la vita e la
salvezza. Ma il poeta, nella nota che chiude la raccolta, annotava: "ci sono
intere liriche, interi versi che quasi non mi appartengono più... (ma)
ripropongo il vecchio testo, così com'é nato, accettandolo con pazienza così
come accetto me stesso".
Due anni prima, nel 1959 era uscita presso
Vallecchi una seconda raccolta di poesie,
"Concerto grosso", che comprendeva le poesie pubblicate in quegli anni
su "Il Gallo", "L'ultima" e nella "Antologia della poesia religiosa italiana
contemporanea", a cura di Valerio Volpini. Un gruppo di queste poesie,
"Cori per un mistero", è ancora dedicato a Don Primo Mazzolari. In
quest'opera, rimanendo costante il tema amore-morte-resurrezione, la realtà
faceva irruzione con tutta la sua violenza nella poesia di Cristini, anche
la realtà della storia e della cronaca con tutto il suo peso di
disperazione. Nel presentare il libro, l'editore faceva notare che questa
poesia, staccandosi dal frammentismo e dall'ermetismo cari a poetiche
gloriose ma che ormai sopravvivevano a se stesse, operava un ritorno a quei
contenuti umani "che sono al di là delle sensazioni preziose e della stessa
intimità psicologica".
Poi, per circa venticinque anni, le poesie di
Giovanni Cristini circolarono solo dattiloscritte fra gli amici. La sua
attività era intensa, da quando nel 1955 si era trasferito a Milano (dove si
era sposato)- frequenti i suoi interventi, oltre che sul "Giornale di
Brescia", su "Avvenire", sull' "Osservatore Romano" e su varie riviste: "Humanitas",
"Leggere", "La fiera letteraria", per citarne solo alcune. In particolare
negli anni Settanta-Ottanta i lettori del "Giornale di Brescia" trovavano
sovente il suo nome nella pagina della cultura: erano recensioni, articoli
di critica letteraria e di costume (Cristini era particolarmente attento ai
problemi giovanili) o "frammenti di vita", come lui li chiamava; erano,
questi ultimi, una specie di diario che andava scrivendo "in cui mi trovo
come nella poesia" (sono parole sue all'amico Enzo Maizza che allora curava
quella pagina del giornale); in questi frammenti, osservando lo spettacolo
della vita, egli si interrogava in una ostinata ricerca sul suo significato
e il suo mistero. Queste pagine, insieme ad altre inedite, vennero più tardi
raccolte nel volume
"Sulle rive del lago", uscito nel 1990 per le Edizioni Paoline.
Negli stessi anni intensa era la sua attività di
collaboratore presso editori diversi: Fabbri, Mondadori, Rizzoli, Mursia.
Presso quest'ultima casa editrice egli diresse per oltre vent'anni il
settore della letteratura giovanile, settore, questo, cui aveva da tempo
prestato attenzione. Aveva pubblicato infatti presso La Scuola Editrice di
Brescia due saggi, Perrault (1954) e I Grimm (1966), e presso Rizzoli (1964)
una trascrizione, dedicata ai ragazzi delle scuole medie, de "I grandi poemi
dell'umanità".
Di quegli anni notevole è anche un suo saggio su
Luigi Santucci (1976) nella collana di Mursia "Invito alla lettura",
saggio di cui lnes Scaramucci scrisse che rappresentava "una svolta nella
critica santucciana".
E tra le sue attività vanno ricordate anche le
lezioni al Centro Sperimentale di Giornalismo, diretto dall'editore Guido
Miano, e la partecipazione a convegni e a tavole rotonde; in particolare ai
seminari di studi organizzati dalla Pro Civitate Christiana di Assisi, ai
quali fu sovente presente sia come relatore sia come moderatore.
Insomma Cristini era quello che, con una brutta
espressione del linguaggio giornalistico, verrebbe definito un operatore
culturale e in ogni settore chi lo ha conosciuto ne ha sempre ammirato la
competenza, la serietà, la disponibilità, l'entusiasmo che contagiava
inevitabilmente le persone che lavoravano con lui. E nel 1981 ottiene il
Premio Mediterraneo per la sua attività di scrittore «impegnato in un sempre
più diretto confronto sia con le occasioni del tempo e della storia sia con
le vicende tenere e strazianti dell'esperienza esistenziale».
Ma la poesia, che era la sua vocazione più
intima, ufficialmente taceva. Gli amici, cui inviava in diverse occasioni i
versi che andava scrivendo, si affrettavano a pubblicarli su varie riviste,
quasi per incoraggiamento; alcune poesie vinsero premi prestigiosi per
l'inedito: il Premio Camposampiero nel '76, il Premio Tagliacozzo nel '76.
Ma solo nel 1985 uscì finalmente una piccola plaquette,
"Cartoline dalle Dolomiti del Brenta"; fatto molto insolito, per non
dire unico, il sottotitolo recita "poesia a due voci", perché queste
"cartoline" sono solo per metà di Cristini e per l'altra metà di un suo
amico carissimo e poeta di limpida vena, il genovese Aldo G.B. Rossi:
amavano entrambi la montagna ed entrambi ne erano stati ispirati. La
plaquette è un inno alla bellezza della montagna su cui si innescano motivi
umani e affettivi e a tratti perfino un ordito simbolico e metafisico che
oltrepassa l'occasione immediata.
Un anno più tardi, nel 1986, usciva l'ultimo
libro di poesie,
"Weekend in terra straniera", in cui il poeta aveva raccolto quanto era
venuto scrivendo in quei venticinque anni, organizzandolo non
cronologicamente ma per tematiche.
Il poemetto eponimo di apertura e l'ultima
"Elegia di Capodanno" erano usciti entrambi nel '73. Il primo su "Il
Ragguaglio Librario" insieme ad una intervista in cui il poeta dichiarava
molto esplicitamente che cos'era per lui la poesia: "un'ipotesi di verità",
in quanto "esprime un modo di concepire la realtà dell'uomo e del mondo".
L'Elegia dí Capodanno era invece apparsa su "Il
Fuoco", ma nel libro presenta delle varianti "miranti - come ha annotato
acutamente Alberto Frattini ad alleggerire il testo... ad attenuare il
pessimismo, cupo e quasi manicheo, della prima stesura in una visione aperta
alla speranza". E tra queste due poesie - la prima che esprime il senso di
estraneazione, di esilio in cui si svolge l'esistenza umana, e l'ultima
fortemente segnata (sono ancora parole di Alberto Frattini) "da istanze
metafisico-esistenziali e insieme da un forte spirito polemico-apodittico" -
ecco tutta una serie di liriche che sono un inno straziante alla sacralità
della vita, dell'amore, della bellezza.
"Weekend in terra straniera" ebbe un notevole
riconoscimento: vinse nel 1987 il Premio Nazionale di poesia Clemente Rebora,
che fu consegnato a Cristini da David Maria Turoldo.
Successivamente Cristini vinse il Premio Cultura
e Comunità per la saggistica (ex-aequo con Alberto Frattini) nel 1991 e il
Premio Calliope per la poesia inedita, nel 1992, con le liriche di
"La stanza".
Dal 1989, cioè dalla morte di Ines Scaramucci,
Giovanni Cristini diresse il
"Ragguaglio Librario", una gloriosa rassegna bibliografico-culturale che
è vissuta sessantaquattro anni: l' ultimo numero, ancora curato da lui, è
uscito nel dicembre 1995.
Sul penultimo numero appare ancora un suo
scritto, "La poesia e il sacro", in cui, sintetizzando quanto avrebbe voluto
dire al Convegno su "Letteratura e Religione", che si era tenuto
all'Università Cattolica nel settembre (al quale le condizioni di salute non
gli permisero di partecipare) Cristini scrive (e con le sue parole vogliamo
concludere questa nota): "La poesia e la religione occupano due campi
diversi sia nel loro oggetto proprio (l'umano e il sacro) sia nelle loro
manifestazioni (la creazione estetica e l'umile riconoscimento del divino
nella preghiera e nel culto collettivo), ma questi campi... sono destinati a
sovrapporsi, a compenetrarsi l'uno nell'altro nell'uomo, nel suo concreto
pensare e operare, perché solo nell'uomo, nella sua coscienza e nella sua
vita, religione e poesia cessano di essere voci astratte... e divengono
realtà viva". E questo è avvenuto nella vita e nella poesia di Giovanni
Cristini.
"Il Ragguaglio Librario",
nel marzo 1996 gli ha dedicato un numero unico con le testimonianze degli
amici .
Nel marzo 1997 sono state pubblicate presso l'I.P.L.
di Milano le poesie ancora inedite, col titolo
POESIE (1978-1995). Nel novembre 1998 è uscito presso
l'Editrice San Paolo
"Lettera ai figli e altri scritti familiari".
Il testo qui riprodotto, a cura di Annamaria Vaccari, è stato pubblicato su "Civiltà Bresciana", giugno 1997.
Giovanni Cristini
Cori per un mistero
a Primo Mazzolari
1
Tristis est anima mea usque ad mortem
L'angelo ha lasciato una striscia di fuoco
sugli olivi bruciati; un gufo sibila tra i rami,
sbatacchia le ali nel bianco della luna.
Ma che fanno, che fanno a un tiro di sasso
quei pigri cumuli d'ombra e sonno?
Egli ha curvato la fronte tra le foglie secche;
fruscio di foglie secche rammulina il vento
che raggela la notte;
e uno dei tre si scuote, ricade di pietra
e rotola nel sonno il suo cappello.
E intanto vengono dalla terra parole incomprensibili
mentre la tenera erba si macchia di sudore di sangue.
Passano nell'aria bestie dalle ali di pipistrello,
piedi nudi sull'erba e sulle foglie secche,
si rovescia l'assenzio e i profumi sui corpi
mandando un puzzo insopportabile di morti in cancrena.
Sulla neve sono peste e sangue, sangue e peste,
la cenere divora i corpi, la fiamma, il vento,
e un ragno verde ha tessuto una tele mostruosa
tra gli olivi bruciati e una vecchia scarpa
affiorata dal suolo con poche ossa in croce.
Ma che fanno, che fanno a un tiro di sasso
quei pigri cumuli d'ombra e di sonno?
Ora tutto è ritornato tranquillo;
le torce rosse si avvicinano silenziose,
uno spia tra gli alberi e scompare nell'ombra
e il suo mantello apre uno spazio intorno.
Ecco vengono, ma il rumore è diverso,
rumore d'uomini di parole di passi
non un remoto alto frusciare d'angosce:
un vocio familiare discorde e soffocato.
Fate presto, il dialogo è breve,
e tre non fanno a tempo
a passarsi la mano sugli occhi;
il bacio è dato.
Nello spazio aperto intorno dal nero mantello
irrompe un vento irato,turbina le foglie
e spruzza gocce di sangue
sui volti accesi dalle torce, sulle barbe
sugli occhi le mani la toga i piedi nudi il letto
e il nodo scorsoio e il cappello abbandonato:
tutto è consacrato e maledetto per sempre.
Poi si avviano in silenzio verso il palazzo.
Se l'angelo non avesse bruciato gli alti olivi
se il gufo non avesse sbatacchiato le ali nere
se uno non avesse spiato tra gli alberi
se i cumuli d'ombra non avessero vegliato
il loro pigro sonno,
il ragno succhierebbe la mosca fino al midollo
nel verde della luna.
E tu lascia che dormano; è giusto
che qualcuno dorma continuamente
nell'orto vuoto, dove non c'è più nessuno.
2
Popule meus quid fecit tibi?...
Dopo il palazzo, la bestemmia, le vesti lacerate,
la bacinella d'acqua e le mani pulite,
eccoci qui su una strada sassosa
tra un popolo muto e la tempesta nel cielo.
Le lance e le aste fanno selva nell'aria,
le armature vuote si muovono senza rumore
ma un uomo nudo e solo
cammina meno speditamente.
Alcune donne muovono lamento
ed una ha rotto la calca con un bianco pennello.
Selva di lance e aste, un folla muta e ostile,
e l'uomo nudo e solo che stramazza.
Passano nel suo occhio di agnello moribondo
polvere e fumo di città bruciate,
uomini che camminano come alberi,senza verde,
ridotti alla scorza, fulminati e contorti.
Non su di me piangete .....E le donne
sentono il giorno vicino, alzano lamenti
tendono le braccia alle pietose montagne.
Ecco che il giorno viene; dai deserti
la colonna di fumo s'è impennata.
Che cosa potrebbero fare i tre che dormono?
La colonna di fumo s'apre al vento
gli ardenti lapilli bruciano gli occhi nel sonno,
la porpora sulle spalle.
Fuoco e fiamma è alle soglie del mondo.
Ed ecco qui una strana primavera
che riarde torrida sulle pietre scoperte
sulle ossa abbandonate dai cani notturni
sulle armature che muovono vuote versa il teschio
e sui volti sudati di un popolo in rovina.
I tre che dormono ancora si stanno destando;
uno al canto del gallo è diventato pastore
( era il più vecchio, figlio delle lacrime )
uno è qui tra di noi per diventare il figlio
( l'innocenza affilava le due mani )
e l'altro è rimasto nell'ombra a vegliare gli assenti:
quelli che non età tra giovani e vecchi
e aspettano sempre la risposta precisa
a una domanda ambigua e senza senso.
Ma l'ecce homo tace, non risponde.
Si è presentato a tutti ( era la Sua risposta )
quando ebbero finito si sputargli negli occhi.
Come volete che parli ora che è giunto alla fine?
Tace e guarda scavare una fossa,
inchiodare i due legni, fare i preparativi
con cura minuziosa e con sicuro istinto,
come se la cosa non lo riguardasse affatto.
Ed ecco all'improvviso lo rovesciano su quel tronco
ed il colpo del martello
prepara tra le nubi il tuono del cielo.
Chiodi non fategli male, e tu, o madre
volgi il capo, oh, non guardare,
fin che sarà sospeso ritto nel cielo.
Nembo funesto, vento del deserto
le voci dei profeti empiono l'aria
piegano a terra la selva delle aste.
Popule meus, quid fecit tibi ... E mentre il sole oscura
un'arruffata selva di capelli
si scuote e manda voce: Ricordati di me,
quando sarai nel tuo regno. - E la promessa,
e le grandi parole nel silenzio,
la lancia diritta al costato, il consummatum.
Egli reclina il capo derelitto,
gli occhi scendono opachi lungo il rivolo di sangue,
s'arrestano a un palmo dalla fossa raggrumata.
I dadi sono tratti, la cifra è fatta,
la scelta del caso è perfetta.
Ma il terremoto scuote la collina,
la bufera rotola i dadi, sempre la cifra muta,
e ogni giorno la rossa veste sventola all'asta.
3
Sepulcrum vidi viventis
La pietra del sepolcro era rimosso,
ed ecco nella caverna al fioco albore
una donna parla con gli angioli e non si avvede di essi.
Né la luce la desta né le vesti bianche e le voci
ma il suo nome che viene improvviso
dal mondo dei vivi. E già i suoi capelli
che ancora odorano dell'acre profumo dei morti
ondeggiano sulla strada verso l'alba.
Le porte del Cenacolo sono chiuse,
accuratamente sbarrate
alle voci smaniose di una donna impazzita;
ma la Pace conosce questo rifugio e le vie.
E intanto nella notte vanno due pellegrini
e i Terzo li attende col pane che gocciola sangue.
E una voce si leva da lontano, vana dice una fede
che non ci aggredisce, viva, dal regno dei morti.
E ora che l'impegno è sigillato
gioia e lacrime si mescolano in silenzio,
e il mistero è tremendo e non c'è scusa.
Qualcuno ha cercato anche l'ultimo appiglio,
ma il suo dito tremava nell'aperto costato,
e ancora amareggia la sua bocca
il sapore del pesce vivo e del sangue.
L'angelo s'è calato
tra i veli squarciati del tempio,
ha preso possesso del santuario segreto.
Non fare domande sciocche, la risposta è venuta.
Adora il silenzio, prendi il fardello e cammina.
Oltre la pietra rimossa Egli rapina il mondo,
come un fuoco lo divora dentro e fuori.
E voi che fate con le alabarde ritte?
Custodite voi stessi dentro un sepolcro vuoto.
( Pasqua 1951 )
( da "Concerto grosso" Vallecchi Editore Firenze, 1959)
Fonte: http://www.michelecristini.it/GiovanniCristini/
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