lunedì 15 luglio 2019

A LA BEATISSIMA VERGINE DI LORETO DI TORQUATO TASSO, di Francesco Di Ciaccia



A LA BEATISSIMA VERGINE DI LORETO DI TORQUATO TASSO
di  Francesco Di Ciaccia
 
 
 
 
Il Tasso nutrì a lungo il desiderio di recarsi a Loreto. Dalla prigione di Sant’Anna, l’11 ottobre 1581 chiedeva al cappuccino Padre Marco di pregare per lui, perché la “bontà infinita” di Dio si degnasse di fargli la grazia di visitare la chiesa lauretana “consacrata alla sua Madre gloriosa”. Il 5 aprile 1584 scriveva al duca Alfonso d’Este chiedendo licenza di andarvi: lì si aspettava - così diceva - “quella medicina a la mia infermità, che non penso che da alcun altro possa essermi data”. Il permesso non gli fu accordato. Il momento era drammatico. Dal 1577 il Tasso dava già segni di squilibri mentali: soffriva di mania di persecuzione. Un giorno lanciò un coltello contro un servo: temeva di esserne spiato. Al contempo era preso da maniacali sensi di colpa: si accusava di eresie presso il tribunale dell’Inquisizione. Fu rinchiuso nel convento di San Francesco a Ferrara, fuggì, poi tornò alla corte degli Estensi nel 1579, ma in un raptus di follia aggredì il duca Alfonso, suo protettore. Fu allora segregato a Sant’Anna, l’ospedale romano al Gianicolo, fino al 1586. Questo è il doloroso contesto in cui concepì la canzone alla Madonna di Loreto, cui del resto lavorò molto: stese la prima redazione negli ultimi mesi del 1587, vi ritornò alla fine del 1590 e definitivamente negli anni successivi.
Padre Giuseppe Santarelli, cappuccino, che al Tasso ha dedicato uno studio nel 1974, ritiene che il Tasso si sia orientato verso Loreto per la celebrità del santuario. In particolare perché, come il poeta dice nella canzone (strofa IV): “Qui gli Angeli innalzaro il santo albergo, / Che già Maria co ‘l santo figlio accolse”. Inoltre è probabile che lo attirasse la connessione tra la materia della sua Gerusalemme Liberata e la tradizione secondo cui la Santa Casa provenisse dalla Palestina. Forse voleva ringraziare la Madonna per l’assistenza da lei avuta nell’elaborazione della Gerusalemme Liberata, o anche impetrare da lei il perdono per quelli che egli riteneva tradimenti del “vero” storico compiuti nel poema. In effetti egli ripudiò il poema e dal 1587 si mise a comporne un altro, la Gerusalemme Conquistata. Fatto sta che, nel 1587, ormai libero, partì per Roma passando per Loreto. Qui arrivò il 31 ottobre 1587. Intanto era ossessionato da rischi immaginari: “mi pare di vedere e di udire molti cenni, quasi nubi e tuoni per l’aria che minacciano crudelissima tempesta”, scrisse da Fano all’amico Scipione Gonzaga il 29 ottobre precedente. La canzone rispecchia questo turbamento: “Ecco fra le tempeste e i fieri venti / […] / O Santa stella, il tuo splendor m’ha scorto, / […] / E porge al dubbio cor dolce conforto / In terribil procella, ov’altri è morto”.
Pellegrino a Loreto, non vede altra salvezza che in Maria (strofa VI):

“Vergine chiara e stabile in eterno,
Di questo tempestoso mare stella,
D’ogni fedel nocchier fidata guida,
Pon mente in che terribile procella
I’ mi ritrovo sol, senza governo […]”.

L’immagine del santo “Monte” di Loreto fa da cornice alla strofa II. Loreto si erge su una “alta rupe”: da lì domina la campagna e il mare sottostanti. Il santuario, solenne e possente nel suo marmo bianco, anche a distanza appare una vera “mole”: uno spettacolare monumento.
 
“Il tuo splendor m’affida, o chiara Stella,
Stella onde nacque la serena luce,
Luce di non creato e sommo Sole,
Sol che non seppe occaso e me rappella
Teco da lunghi errori, e mi conduce
A l’alta rupe, ove in marmorea mole
L’umil tua casa il mondo onora e cole.
Grave di colpe e d’onte,
Già veggio il sacro Monte,
Talché del peso ancor l’alma si dole
E sotto il doppio incarco è tarda e lenta,
Né contra il Cielo imporre
Superba torre a’ poggi ardisce o tenta”.
 
Al sacro luogo il poeta poi accosta i temi più squisitamente teologici. Non era il primo a cantare le verità cristiane in modo così lirico: maestri erano stati Dante e Petrarca. Ma egli lo fa con una sensibilità sua propria. Degne di nota sono le immagini di “luce” e “sole”. Con molta proprietà, la “luce” simboleggia Gesù, che è Pensiero o Parola, il logos nella terminologia di San Giovanni evangelista. Gesù è la Luce di Dio, del “sommo Sole” che genera la Luce stessa. E il concetto teologico si addice anche alla situazione di vita del poeta. Egli è un uomo che brancola: brancola nel buio delle allucinazioni, nel buio di un girovagare incerto, nel buio del cuore inaridito dalle sventure. Ecco perché è toccante e vivo quell’aggettivo “serena” attribuito alla luce che è Gesù: il poeta ne ha tanto bisogno!
 
Non si può tacere un altro urgente moto dell’animo, in questo esordio: l’amarezza per le passate colpe. Certo, egli esagerava, nel considerare le proprie colpe. Ed è pur vero che la coscienza d’esser peccatore già aveva impregnato tanta parte della poesia anche del Petrarca. Ma a differenza del Petrarca il Tasso aveva conosciuto esiti pesanti, negativi, dopo le sue colpe. Che cosa erano quei “lunghi errori” che il poeta accusa? Il piacere della vanità, il darsi alla poesia che dilettava il bel mondo delle corti, il desiderio della terrena gloria. Lo dichiara espressamente la strofa III, quando parla di “saper vano”, di conoscenze umane. Era un’idea molto radicata negli ambienti religiosi, e non solo medioevali (si pensi a Iacopone, a Dante e al Petrarca), secondo cui il sapere terreno si contrappone alla sapienza della croce, e la ostacola. Allora, di fronte ai “santi essempi” di “umiltà” offerti dalla Casa lauretana, dice la canzone, il poeta esorta se stesso al pentimento: “Qui va piangendo i tuoi passati tempi”!
 
Nella strofa IV, il poeta si sofferma a descrivere il “miracolo” della traslazione della Santa Casa di Loreto.
 
“Qui gli Angeli innalzaro il santo albergo,
Che già Maria co ‘l santo figlio accolse,
E ‘l portar sovra i nembi e sovra l’acque:
Miracol grande, a cui sollevo ed ergo
La mente, ch’altro obietto a terra volse,
Mentre da suoi pensieri oppressa giacque.
Questo è quel Monte ch’onorar ti piacque
De le tue sante mura,
Vergine, casta e pura,
Anzi il tuo parto, e poscia, e quando ei nacque […]”.
 
Secondo il racconto del Teramano, ancora all’epoca del Tasso esposto nella chiesa di Loreto, la Santa Casa fu trasportata dagli angeli facendo queste soste: da Nazaret in Schiavonia o Illiria, “presso un certo qual Castello denominato Fiume”. Il Castello fu identificato da successivi storiografi con Tersatto, a ridosso di Fiume nel golfo del Quarnaro. Ma poiché la reliquia di Nazaret non era onorata degnamente da quelle popolazioni, fu traslata nella Selva di Loreta (come si chiamava) presso il Porto di Recanati. Lì però i briganti derubavano e uccidevano i pellegrini; allora gli angeli la portarono sul colle di due avidi fratelli. Poiché costoro litigavano per impossessarsi del danaro dei pellegrini, la collocarono su una pubblica strada, senza fondamenta, come è tuttora.
 
Di fronte a questo miracoloso avvenimento, il Tasso non manca di confrontare i “grandi” miracoli della tradizione cristiana con quelli, falsi e vani, della mitologia classica , a cui si era dedicato a lungo fino allora. Ma egli coglie l’occasione della Santa Casa anche per ricordare la perpetua verginità della Madonna. La Madonna fu vergine prima, dopo, e durante il parto (“anzi”, “poscia”, e “quando ei nacque”). Così il poeta non restringe il campo dei “miracoli” a quello della traslazione angelica della Santa Casa. Del resto, oggi è dimostrato proprio da Giuseppe Santarelli e Floriano Grimaldi, cappuccini, che il trasporto delle pietre di cui è costituita la Casa lauretana avvenne per mano di uomini. Il Tasso addita la verginità di Maria come un fatto che appartiene all’ordine soprannaturale. Ne scrisse anche in altra canzone, con più suggestive immagini (Mira devotamente alma pentita):
 
“E qual cristallo in cui non passi o spiri
O pioggia, od aura, o vento,
Tal a quel raggio sol d’eterno amore
S’apre il virgineo fiore”.






Fonte : scritti e appunti del Prof. Francesco Di Ciaccia .



















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