A LA BEATISSIMA VERGINE DI
LORETO DI TORQUATO TASSO
di
Francesco Di Ciaccia
Il Tasso nutrì a lungo il desiderio di recarsi a
Loreto. Dalla prigione di Sant’Anna, l’11 ottobre 1581 chiedeva al cappuccino
Padre Marco di pregare per lui, perché la “bontà infinita” di Dio si degnasse di
fargli la grazia di visitare la chiesa lauretana “consacrata alla sua Madre
gloriosa”. Il 5 aprile 1584 scriveva al duca Alfonso d’Este chiedendo licenza di
andarvi: lì si aspettava - così diceva - “quella medicina a la mia infermità,
che non penso che da alcun altro possa essermi data”. Il permesso non gli fu
accordato. Il momento era drammatico. Dal 1577 il Tasso dava già segni di
squilibri mentali: soffriva di mania di persecuzione. Un giorno lanciò un
coltello contro un servo: temeva di esserne spiato. Al contempo era preso da
maniacali sensi di colpa: si accusava di eresie presso il tribunale
dell’Inquisizione. Fu rinchiuso nel convento di San Francesco a Ferrara, fuggì,
poi tornò alla corte degli Estensi nel 1579, ma in un raptus di follia aggredì
il duca Alfonso, suo protettore. Fu allora segregato a Sant’Anna, l’ospedale
romano al Gianicolo, fino al 1586. Questo è il doloroso contesto in cui concepì
la canzone alla Madonna di Loreto, cui del resto lavorò molto: stese la prima
redazione negli ultimi mesi del 1587, vi ritornò alla fine del 1590 e
definitivamente negli anni successivi.
Padre Giuseppe Santarelli, cappuccino, che al Tasso
ha dedicato uno studio nel 1974, ritiene che il Tasso si sia orientato verso
Loreto per la celebrità del santuario. In particolare perché, come il poeta dice
nella canzone (strofa IV): “Qui gli Angeli innalzaro il santo albergo, / Che già
Maria co ‘l santo figlio accolse”. Inoltre è probabile che lo attirasse la
connessione tra la materia della sua Gerusalemme Liberata e la tradizione
secondo cui la Santa Casa provenisse dalla Palestina. Forse voleva ringraziare
la Madonna per l’assistenza da lei avuta nell’elaborazione della Gerusalemme
Liberata, o anche impetrare da lei il perdono per quelli che egli riteneva
tradimenti del “vero” storico compiuti nel poema. In effetti egli ripudiò il
poema e dal 1587 si mise a comporne un altro, la Gerusalemme Conquistata.
Fatto sta che, nel 1587, ormai libero, partì per Roma passando per Loreto. Qui
arrivò il 31 ottobre 1587. Intanto era ossessionato da rischi immaginari: “mi
pare di vedere e di udire molti cenni, quasi nubi e tuoni per l’aria che
minacciano crudelissima tempesta”, scrisse da Fano all’amico Scipione Gonzaga il
29 ottobre precedente. La canzone rispecchia questo turbamento: “Ecco fra le
tempeste e i fieri venti / […] / O Santa stella, il tuo splendor m’ha scorto, /
[…] / E porge al dubbio cor dolce conforto / In terribil procella, ov’altri è
morto”.
Pellegrino a Loreto, non vede altra salvezza che in
Maria (strofa VI):
“Vergine chiara e stabile in eterno,
Di questo tempestoso mare stella,
D’ogni fedel nocchier fidata guida,
Pon mente in che terribile procella
I’ mi ritrovo sol, senza governo […]”.
L’immagine del santo “Monte” di Loreto fa da cornice
alla strofa II. Loreto si erge su una “alta rupe”: da lì domina la campagna e il
mare sottostanti. Il santuario, solenne e possente nel suo marmo bianco, anche a
distanza appare una vera “mole”: uno spettacolare monumento.
“Il tuo splendor m’affida, o chiara Stella,
Stella onde nacque la serena luce,
Luce di non creato e sommo Sole,
Sol che non seppe occaso e me rappella
Teco da lunghi errori, e mi conduce
A l’alta rupe, ove in marmorea mole
L’umil tua casa il mondo onora e cole.
Grave di colpe e d’onte,
Già veggio il sacro Monte,
Talché del peso ancor l’alma si dole
E sotto il doppio incarco è tarda e lenta,
Né contra il Cielo imporre
Superba torre a’ poggi ardisce o tenta”.
Al sacro luogo il poeta poi accosta i temi più
squisitamente teologici. Non era il primo a cantare le verità cristiane in modo
così lirico: maestri erano stati Dante e Petrarca. Ma egli lo fa con una
sensibilità sua propria. Degne di nota sono le immagini di “luce” e “sole”. Con
molta proprietà, la “luce” simboleggia Gesù, che è Pensiero o Parola, il
logos nella terminologia di San Giovanni evangelista. Gesù è la Luce di Dio,
del “sommo Sole” che genera la Luce stessa. E il concetto teologico si addice
anche alla situazione di vita del poeta. Egli è un uomo che brancola: brancola
nel buio delle allucinazioni, nel buio di un girovagare incerto, nel buio del
cuore inaridito dalle sventure. Ecco perché è toccante e vivo quell’aggettivo
“serena” attribuito alla luce che è Gesù: il poeta ne ha tanto bisogno!
Non si può tacere un altro urgente moto dell’animo,
in questo esordio: l’amarezza per le passate colpe. Certo, egli esagerava, nel
considerare le proprie colpe. Ed è pur vero che la coscienza d’esser peccatore
già aveva impregnato tanta parte della poesia anche del Petrarca. Ma a
differenza del Petrarca il Tasso aveva conosciuto esiti pesanti, negativi, dopo
le sue colpe. Che cosa erano quei “lunghi errori” che il poeta accusa? Il
piacere della vanità, il darsi alla poesia che dilettava il bel mondo delle
corti, il desiderio della terrena gloria. Lo dichiara espressamente la strofa
III, quando parla di “saper vano”, di conoscenze umane. Era un’idea molto
radicata negli ambienti religiosi, e non solo medioevali (si pensi a Iacopone, a
Dante e al Petrarca), secondo cui il sapere terreno si contrappone alla sapienza
della croce, e la ostacola. Allora, di fronte ai “santi essempi” di “umiltà”
offerti dalla Casa lauretana, dice la canzone, il poeta esorta se stesso al
pentimento: “Qui va piangendo i tuoi passati tempi”!
Nella strofa IV, il poeta si sofferma a descrivere
il “miracolo” della traslazione della Santa Casa di Loreto.
“Qui gli Angeli innalzaro il santo albergo,
Che già Maria co ‘l santo figlio accolse,
E ‘l portar sovra i nembi e sovra l’acque:
Miracol grande, a cui sollevo ed ergo
La mente, ch’altro obietto a terra volse,
Mentre da suoi pensieri oppressa giacque.
Questo è quel Monte ch’onorar ti piacque
De le tue sante mura,
Vergine, casta e pura,
Anzi il tuo parto, e poscia, e quando ei nacque
[…]”.
Secondo il racconto del Teramano, ancora all’epoca
del Tasso esposto nella chiesa di Loreto, la Santa Casa fu trasportata dagli
angeli facendo queste soste: da Nazaret in Schiavonia o Illiria, “presso un
certo qual Castello denominato Fiume”. Il Castello fu identificato da successivi
storiografi con Tersatto, a ridosso di Fiume nel golfo del Quarnaro. Ma poiché
la reliquia di Nazaret non era onorata degnamente da quelle popolazioni, fu
traslata nella Selva di Loreta (come si chiamava) presso il Porto di Recanati.
Lì però i briganti derubavano e uccidevano i pellegrini; allora gli angeli la
portarono sul colle di due avidi fratelli. Poiché costoro litigavano per
impossessarsi del danaro dei pellegrini, la collocarono su una pubblica strada,
senza fondamenta, come è tuttora.
Di fronte a questo miracoloso avvenimento, il Tasso
non manca di confrontare i “grandi” miracoli della tradizione cristiana con
quelli, falsi e vani, della mitologia classica , a cui si era dedicato a lungo
fino allora. Ma egli coglie l’occasione della Santa Casa anche per ricordare la
perpetua verginità della Madonna. La Madonna fu vergine prima, dopo, e durante
il parto (“anzi”, “poscia”, e “quando ei nacque”). Così il poeta non restringe
il campo dei “miracoli” a quello della traslazione angelica della Santa Casa.
Del resto, oggi è dimostrato proprio da Giuseppe Santarelli e Floriano Grimaldi,
cappuccini, che il trasporto delle pietre di cui è costituita la Casa lauretana
avvenne per mano di uomini. Il Tasso addita la verginità di Maria come un fatto
che appartiene all’ordine soprannaturale. Ne scrisse anche in altra canzone, con
più suggestive immagini (Mira devotamente alma pentita):
“E qual cristallo in cui non passi o spiri
O pioggia, od aura, o vento,
Tal a quel raggio sol d’eterno amore
S’apre il virgineo
fiore”.
Fonte : scritti e
appunti del Prof. Francesco Di Ciaccia .
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