IL " CANTICO DELLE CREATURE "
NELL'ARTE
FRANCESCO E VAN GOGH
di Rosa Morelli
Laudes Creaturarum
di Giovanni di
Bernardone (San Francesco d'Assisi)
Altissimu, onnipotente bon
Signore,
Tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione.
Ad Te solo, Altissimo, se
konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare. Laudato sie, mi' Signore cum tucte le Tue creature, spetialmente messor lo frate Sole, lo qual è iorno, et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de Te, Altissimo, porta significatione. Laudato si', mi Signore, per sora Luna e le stelle: in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle. Laudato si', mi' Signore, per frate Vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento. Laudato si', mi Signore, per sor'Acqua. la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta. Laudato si', mi Signore, per frate Focu, per lo quale ennallumini la nocte: ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte. Laudato si', mi Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti fior et herba. Laudato si', mi Signore, per quelli che perdonano per lo Tuo amore et sostengono infrmitate et tribulatione. Beati quelli ke 'l sosterranno in pace, ka da Te, Altissimo, sirano incoronati. Laudato s' mi Signore, per sora nostra Morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare: guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda no 'l farrà male. Laudate et benedicete mi Signore et rengratiate e serviateli cum grande humilitate. |
Introduzione
Il Cantico più bello della letteratura di
tutto il mondo è la Laude medioevale di Francesco d'Assisi. In questo testo
l'Arte occidentale ha il suo manifesto[1];
con esso tutti i rapporti tra proporzione, integrità e claritas, elencati
da Tommaso quali elementi della Bellezza[2],
dal campo della pura riflessione teoretica si traducono nella concreta forma di
un'opera d'arte.
Intimamente legato alla figura e all'opera del
Poverello, il testo ha il fascino ineguagliato di un candore primitivo,
espressione di un'ispirazione autentica. I versi, che si succedono con il
sapiente utilizzo delle regole metriche, risultano a tal punto perfetti nella
loro semplicità e perciò stesso: profondità, che ogni tentativo di tradurli in
una prosa chiarificatrice finisce col distruggerne l'incanto. Tale incanto è
nella capacità di Francesco di andare, tramite il verso, al di là del verso,
per condurre gli ascoltatori nel luogo della Visione: nel Mistero stesso del Dio
trinitario; tramite la cosa, oltre la cosa: <<Quella francescana è la
mistica dell'amore omni accogliente, la mistica che esalta -proprio
nell'evento dell'apparire della cosa nella sua miracolosa singolarità- la
infinita Bontà (Bonum effusivum sui) del Fattore>>[3].
1. Nel mondo per il mondo
amato dal Padre
Tutta la vicenda di Francesco e lo stile che inaugura
nei rapporti con gli uomini e col mondo, nella Chiesa e tra la Chiesa e il
mondo, ha la taglia di un'operazione rivoluzionaria. Ben rendono il cambiamento
introdotto dall'Assisiate le parole con cui Cennino Cennini parla dell'arte
giottesca rispetto ai capolavori bizantini[4]:
'mutò l'arte del dipinger di greco in latino e ridusse al moderno'.
Francesco non è interessato alla vita in monastero ma alle vie del
mondo. L'Occidente, che pur nel monachesimo benedettino ha individuato uno stile
che lo distingue dal monachesimo orientale, aderente alla propria tradizione
culturale -con l'attenzione alla concretezza ed alla soggettività- non offre al
Santo di Assisi quel che avverte come importante nel più profondo di se stesso.
Giovane spensierato prima, poi pensoso ed alla ricerca di un senso che
renda la vita sapida, crede di trovare nella Cavalleria il modo per vivere la
sua crociata, per incarnare l'immagine di Cristo, cavaliere vittorioso, e per
vivere la sua Chanson de géste simile a tanti giovani del suo tempo.
Invece l'indifferenza lo invade, la ricerca diventa silenziosa e muta.
Il bacio al lebbroso e l'incontro con il Crocifisso di San Damiano
parlano dell'incontro con un Dio che fa la differenza
nell'esistenza del giovane di Assisi.
La Croce del Cristo non è però sugli altari e tra i
fumi odorosi dell'incenso. Essa giace tra le rovine, si eleva dal centro del
mondo, è radicata nel cuore della storia. Eppure è qui che inizia l'avventura di
un uomo che muterà la rotta di un Occidente troppo impegnato nei giochi di
potere -smarrito tra i distinguo di una Scolastica decadente ed infedele
alle proprie origini- con la pretesa di una Verità astratta, esclusivo e geloso
possesso della Gerarchia, immerso in un grave oblio sul senso e sul modo
dell'annuncio evangelico. Quel Crocifisso di San Damiano sarà il cuore di
tutta la vita di Francesco: sarà la Croce, sempre più pesante e lieve, che
attira e include nel suo abbraccio tutto il mondo: Croce da cui sgorgherà il
Cantico di Frate Sole[5].
Ciò che Francesco metterà in atto è dunque la possibilità concreta di
vivere come Cristo: tra la gente, per la gente; nella storia, per la storia; nel
mondo, per il mondo. La Chiesa, laica per costituzione - perché, prima di
ogni altra distinzione, è: laos, popolo di Dio (cf. LG, 1-3)-,
ritorna alle origini, è mondana: nel mondo ma non del mondo. Il
primo artista dell'Occidente, Francesco, inverte in tal maniera i canoni
prospettici.
Ben lo comprende Giotto che nei suoi lavori utilizza
sia la prospettiva rovesciata -tipica dell'Oriente bizantino- indice
dell'avvento divino nel mondo, sia quella moderna: 'rinascimentale' -in
cui il punto di fuga converge davanti all'immagine-. Giotto che traduce in
immagini la verità del messaggio di Francesco, sa, con il Poverello, che lo
spettatore, colui che guarda, il soggetto che è dinanzi al quadro, è colui che,
in sintonia con l'opera dell'artista, guarda la cosa da un
oltre[6],
<<poiché non può esservi alcuna realitas […] che non parli infine del
ri-nascere, in ogni sua creatura, […] del medesimo Principio creatore>>[7]
. L'artista occidentale Francesco, e con lui tutti quelli che verranno, conduce,
attraverso le realtà create, fino a compromettersi con esse, gli uomini al
Principio. Tutto questo sarà possibile a Francesco, e a tutti quelli che faranno
dell'Arte la loro vocazione, esclusivamente -lo sappia o no l'artista- a
partire dal Mistero della Croce in cui il Crocifisso, il Redentore, restituisce
alla creazione tutta la sua prossimità al Creatore. Lui, l'agonizzante,
con-creatore col Padre (Col 15, 1ss) riconduce, nella 'consegna' dello Spirito,
dall'esilio del peccato, il mondo intero nel grembo accogliente della Trinità.
Tutto è Grazia: il mondo, la storia col suo spessore,
le sue contraddizioni e le sue piaghe; tutto merita lo sguardo amoroso e
accogliente del Santo che guarda con gli occhi del Padre che, per Cristo, nello
Spirito riconduce il mondo all'origine. Nella storia con gli occhi rivolti al
cielo, segnato dalle stigmate del Figlio crocifisso, Francesco ama la creazione
di un amore autentico e appassionato, quello della Passione del Figlio di Dio.
Come già in Tommaso: <<Qui la bellezza viene ad affacciarsi in un frammento: qui
essa si nasconde sub contraria specie nel volto di Colui davanti al quale
ci si copre la faccia, e che pure è il volto del più bello dei figli degli
uomini (cf. Is 53, 3; Ps 44, 3)>>[8]
L'Umanesimo italiano nasce da questa rivoluzione
ecclesiale: rivoluzione di modi e di costumi, ri-nascita perché
ritorno al Principio, passando per l'evento della Croce[9].
Il grande Umanesimo, che vede l'Arte regina tra le scienze, lo esprime con
forza nella Trinità di Masaccio[10]
e nella Resurrezione di Piero della Francesca. In una dialettica storica
segnata da un ottimismo tragico, gli umanisti come i Valla, gli Alberti e i
Cusano indagheranno il mistero di una humanitas grande e fragile insieme,
agli antipodi dell'uomo cantato da Pico della Mirandola.
Quando la filosofia dimenticherà, per un ingenuo ottimismo, questa
verità sull'uomo e sul mondo; quando, illudendo se stessa e gli altri, negherà
quel Principio in nome degli iuxta propria principia; quando la teologia,
preoccupata di guadagnar terreno sui moderni, inseguirà la Rivoluzione
scientifica sul terreno del certo e del verificabile –
allontanandosi dal Mistero che illumina la conoscenza, perdendo in tal maniera
ogni efficacia nell'annuncio e rinunciando ad incidere nel cuore degli uomini-
l'arte continuerà a raccontare lo stupore di una realtà che custodisce il dono
prezioso della Croce: Amore infinito del Dio Infinito verso tutte le sue
creature.
Il Seminatore , di Van Gogh.
2. L'Arte nel Cantico delle
creature; il Cantico nell'Arte: la pittura di Van Gogh
Vincent van Gogh nella sua pittura si presenta così
prossimo a Francesco da diventarne, nel nostro tempo, il più fedele interprete.
Oltre la sua esistenza, vissuta in un pauperismo voluto e patito; oltre le
scelte che lo porteranno a tentare il recupero di una prostituta, a redimere un
ubriacone, ad assistere la madre con una devozione ineguagliabile; oltre i
singoli episodi di una vita di dolore e afflitta da una malattia diagnosticata
tardi e curata male, Vincent ci viene incontro nella quiete armoniosa dei
Mangiatori di patate e nella luce radiosa dei Girasoli; nei cieli
stellati e nelle infermità dei Caffé di notte. Parla del suo
desiderio di infinito nelle altezze vertiginose dei cipressi, nello slancio dei
campanili e nelle nuvole animate, come tutta la natura, dalla vita che riesce a
rendere con pennellate piene, mosse e ondulate accogliendo la lezione dell'arte
giapponese. Il tono squillante dei colori non nasce però da un animo leggero ed
infantile. La fanciullezza dell'animo è in certi adulti un dono e non una
qualità. Così la sua fanciullezza dello spirito, letta in una vita segnata dal
dolore, è il dono fatto all'artista da Colui che per Vincet è la più alta
espressione dell'amore e dell'arte, -che per van Gogh si identificano- :
<<Cristo solo -fra tutti i filosofi, maghi etc.- ha affermato come certezza
prima la vita eterna, l'infinito del tempo, il nulla della morte, la necessità e
la ragion d'essere della serenità e della dedizione>>[11]
. Studente di teologia, desideroso di intraprendere la via percorsa dal padre
che è un pastore della chiesa riformata, a causa degli scarsi successi e per un
conflitto sempre presente col genitore, che incide sulla sua autostima, lascerà
lo studio ma, votatosi alla pittura, trasfonderà il senso mistico che lo abita
in tutte le sue opere. Sarà un predicatore sulla scia di Cristo ma mentre Cristo
non dipinge e realizza uomini veri con cuori di carne[12],
lui dipingerà cercando di manifestare il senso nascosto delle cose per
riabilitare la creazione tutta dal peccato in cui l'ha costretta l'uomo.
E’ seguendo Francesco e Vincent che si cercherà di scorgere la
consanguineità tra la spiritualità del Cantico e l’arte in alcune
significative opere di Van Gogh. Tra la ricerca estetica di un artista
conosciuto male e un Santo amato da tutti –credenti e non credenti- ma forse da
restituire alla sua esperienza primigenia: quella della Croce.
a. Il 'Cantico'.
La dossologia: vv 1. 27. <<Altissimo
Onnipotente Bon Signore >>: è la prima nota del canto. Nota che risuona grave e
profonda: pura, priva di ogni estetizzante accidente. Essa sgorga dal punto più
remoto dell'animo umano ed è simile alla preghiera più autentica, quella del
cuore che si arrende e si abbandona, sfiancato dalla lotta e dalla sofferenza,
al Dio che tutto può nella sua bontà. Conosce la forza dell'abbandono del
Crocifisso -Padre nelle tue mani consegno il mio spirito- e la tensione del
grido dell'Abbandonato. Conosce le tenebre del Venerdì santo e la luce
splendente della Speranza che, dalla notte più buia della storia, notte mistica
-quando tutto e tutti sono lontani o nemici, anche Dio che non mostra più il suo
Volto-, conduce alla Resurrezione.
Questa nota iniziale, dossologia che sostiene ed interpreta tutto il
Cantico, che ha la sua sorgente nella notte della sofferenza e della
solitudine -perfecta laetitia- è già evocazione del mistero
della morte - << sora nostra morte corporale>>-. Essa è il canto che vede
trasfigurare la derelizione -Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato- in
gioia. Perciò, dovendo individuare una relazione che sia, più che un'affinità,
una sororità con l'Arte, il rimando più immediato, -quello verso cui va il
cuore e la mente mentre risuonano le note di questa Ouverture-, con i
capolavori dell'arte occidentale, è quello che scorge nella Pietà
l'immagine più fedele a tanta onnipotenza crocifissa. Infatti, dal Compianto
sul Cristo morto di Giotto -agli Scrovegni- alle Pietà
michelangiolesche, fino a quella, meno conosciuta, che Van Gogh dipinge quale
omaggio a Delacroix, tutte custodiscono il mistero di un Silenzio da cui solo
può sgorgare la lode. Esse, imponendo all'osservatore lo stesso mistico
silenzio, aprono con tremore alla lode all'Altissimo.
b. La concezione estetica
di Van Gogh.
Van Gogh, come egli stesso attesta, ha dell'arte una idea
precisa che leggiamo nella fitta corrispondenza con l'amatissimo fratello Teo:
<<Voglio che tu capisca bene la mia concezione dell'arte [...]Voglio fare dei
disegni che vadano al cuore della gente. […] Sia nella figura che nel
paesaggio vorrei esprimere non una malinconia sentimentale ma il dolore vero.
[…] che la gente possa dire delle mie opere: “sente profondamente, sente con
tenerezza” - malgrado la mia cosiddetta rozzezza e forse perfino a causa di
essa>>[13].
Il dolore vero, soglia del Mistero, tanto acuto da lasciare gli occhi
senza lacrime, Vincent lo realizza ne La Pietà, una delle sue
ultime opere. Qui, il dramma del Calvario, il dolore per la morte
dell'Innocente, il silenzio che subentra al clamore della Crocifissione, emanano
con forza da tutta l'opera e conoscono la stessa nota grave e
pura della dossologia che apre il Cantico. Il mistero della morte del
Verbo, il silenzio del Sabato santo, la discesa agli inferi, porta stretta per
la Resurrezione, vengono rese dal rilassamento del corpo del Figlio tra le
braccia della Madre, dall'inquadratura prospettica che quasi fa precipitare le
figure verso l'osservatore, -sì che questi venga coinvolto nell'irreale silenzio
della Parola-, dalla reale umanità del Figlio -rappresentato con il volto
dell'artista- e dal giallo solare che invade le figure: mistica della luce,
anticipo e promessa della Resurrezione.
Campo di grano con mietitore , di Vincent
Van Gogh.
c. Dalla Croce la perfetta
letizia <<sora nostra morte corporale>>.
Se hilaris è sempre
Francesco, mai nubilosus, <<Laetum deve sempre suonare il
carmen francescano, ma proprio nel contemplare e rivivere l'estremo della
Croce>>[14].
E la Croce è: morte, limite a cui giunge il Figlio di Dio per amore degli
uomini. Senza la Croce, l'Incarnazione sarebbe stata una recita; come senza la
Resurrezione, la Croce non risplenderebbe di alcuna forza.
Alla nota della dossologia iniziale fa dunque rimando
la <<sora nostra morte corporale>>. Sorella: perché ci conduce verso l'eterna
vita, ne è la porta e l'inizio come è stato il fine di tutta la vita: <<Ogni
volta la coda, ciò che generalmente chiude l'opera, appare d'improvviso, come un
regalo inatteso, ma appare sempre alla fine del lavoro. Io stesso sono
costretto a percorrere l'intero cammino, a viverlo soprattutto>>[15],
così Schnittke (1934-1998) - compositore di origine russa, cattolico, alla
ricerca di uno stile musicale essenziale e non ridondante, in grado di parlare
con confidenza amicale all'ascoltatore-, si esprime sulla “sorella morte”.
All'onnipotenza divina si oppone quell'estremo senza il quale il Cantico
sarebbe solo un'esercitazione retorica senz'anima. Amare la creazione significa
per Francesco: amare quella cosa mortale che, perché mortale, per un dono
meraviglioso e stupendo, è significazione di quella stessa onnipotenza
esposta alla debolezza ed alla sofferenza.
Nella tela Campo di grano con mietitore Van Gogh ben interpreta
la lezione di Francesco.
Vincent è un animo mistico. Ce lo attesta, tra le
altre, la lettera datata novembre 1883, in cui racconta al fratello una
giornata a Zweeloo, dove abitò Liebermann (1847-1935), ed il ritorno a casa[16].
Al primo bagliore
dell'alba, quando i galli presero a cantare dappertutto, accanto alle capanne
sparse per tutta la brughiera […] tutto allora divenne identico ai più bei Corot.
Una tranquillità, un mistero, una pace come solo lui ha dipinto.
L'ingresso al villaggio era
magnifico: enormi tetti di muschio, stalle, pastori e pollai. […] Il cielo era
terso, luminoso, non bianco ma di un color lilla difficile a cogliersi, bianco a
bagliori rossi, blu e gialli in cui tutto si rifletteva; lo si sentiva
dappertutto sopra ogni cosa, vaporoso, si confondeva con la nebbiolina leggera
sottostante […] l'intera campagna […] è completamente coperta […] da grano
giovane, del verde più tenero che abbia mai visto. […] Quando si cammina per ore
e ore per questa campagna, davvero si sente che non esiste altro […] Non ci si
accorge di nulla […] si sa solo che c'è la terra e il cielo […] Poi venne il
crepuscolo -pensa che pace, che tranquillità! […] (Il) ritorno del gregge al
crepuscolo è stato l finale della sinfonia che ieri ho udito.
Il rapporto che van Gogh ha
con la creazione è segnato da un tale amore appassionato e profondo, da esigere
da lui -<<l'arte è esigente>> scrive al fratello[17]-
una ricerca capace di coglierne, nell'opera pittorica, l'essenza, quel
mistero che egli avverte presente nelle le cose, presente negli uomini: i più
umili. Eppure, questo amore appassionato non è mai idolatria delle cose
terrestri. Vincent le ama perché segnate da quella caducità e limite che è la
morte. Le ama perché oltre il limite temporale, avverte il senso dell'eterno,
dell'infinito, di quel Dio che le ha create, e, nel suo Amore crocifisso, le
ricreerà.
Il Seminatore e
Campo di grano con mietitore si fanno parabola del tempo e della fine della
vita: irradiato dalla luce di un sole enorme ma al tramonto, il primo;
splendente, col disco solare alto nel cielo, il secondo. Ma è il Mietitore
che per Vincent evoca l'immagine della morte: nel grano mietuto egli vede
l'umanità: <<...il contrario del seminatore […] Ma in quella morte non si
nasconde nulla di triste, avviene in pieno giorno, sotto un sole che immerge
tutto in una luce d'oro>>[18].
d.
Il sole e le stelle: il creato
Compare così, tra l'illimitato
infinito del primo verso e il limite finito del ventisettesimo, messor lo
frate sole (v. 6), e col sole le altre creature: la creazione si
'squaderna' ed il Cantico si scioglie.
Francesco è un mistico e il
mistico guarda mettendosi dalla prospettiva di Dio. Questo Dio non smette mai di
stupirsi e amare ciò che ha tratto dal nulla e che è perciò esposto alla
fragilità, caducità. E ama, e perciò custodisce fino alla morte di Croce, questo
frammento, così diverso da Lui, così limitato. Poiché questo limite, che pone
l'uomo e il mondo di fronte all'Infinito in posizione di apparente inferiorità,
è l'unica, autentica garanzia dell'Amore. Il Dio di Francesco non è il dio dei
catari -una delle cangianti facce dello gnosticismo-. Il Dio di Francesco è vero
Amore perché l'Amore vero è quello capace d'amare il totalmente diverso da sé:
anzi proprio per questo lo ama di amore autentico e non come una proiezione di
se stesso.
Il sole è segno
dell'Altissimo: bello, raggiante, aggiorna -iorna- e <<allumini noi per
lui>> (vv 6-8).
Nel volgare di Francesco allumini conosce una forza espressiva
paragonabile solo alla lingua napoletana: allummare è più che illuminare.
E' la forza di una luce interiore, un fuoco che infiamma e rivela. Allumini
noi per lui è dunque, visto il legame simbolico -la -significazione –
tra il disco solare e Dio stesso caro a tutto il Medioevo e non solo,
equiparabile solo al calore della vita, all’azione dello Spirito.
Se il riferimento immediato di questo verso del Cantico è in Gen 1,
1ss, il Santo lo rende ancor più denso di significati biblici, lo rende sintesi
mirabile del dono della vita fatto dal Dio della vita non limitato ad un lontano
inizio, bensì percepito costantemente nel quotidiano dell'esistenza.
Quando van Gogh dipinge il sole lo vuole e realizza esattamente così:
bello, grande, 'significazione' di Dio. Dal momento del suo arrivo in Provenza,
la luce del Meridione lo apre al colore, lo apre alla vita. Il suo percorso
artistico diviene così un viaggio verso la luce.
I campi di grano e i covoni -per lui simbolo
dell'infinito :<<aspirazioni verso quell'infinito di cui il seminatore, il
covone sono simboli, mi incantano ancora, come un tempo>>[19]
- sono un profluvio di giallo cromo, che attestano la ritrovata luce interiore.
Alle sue spalle è Parigi e la lezione degli Impressionisti: una Parigi nebbiosa,
tra tendenze alla moda che nulla hanno da dire al suo cuore. Egli trova qui
l'<<alta nota gialla>> che dona il sole e la interpreterà in tutta la sua
ampiezza e sontuosità.
Ma il desiderio d'infinito, il desiderio del cielo egli lo testimonia
nei cieli stellati, in cui la luminosa bellezza delle stelle viene resa
coi toni del rosa e dell'arancio e la relazione con il Cantico di frate sole
continua a proporsi nelle stelle <<clarite e belle>>.
Francesco utilizza il termine claritas, e suggella ulterirmente
l'alleanza, la consanguineità tra l'opera degli artisti e la preghiera, la lode
e il canto.
La claritas è luce, che, aggiungendosi
all'estetica classica, nella concezione estetica dell'Aquinate Tommaso, dice
quella particolare luminosità che è più e oltre la luce naturale[20]
: essa è l'irruzione del Bello nella sua totalità e non solo come rimando
proporzionale, nostalgia di un abisso in cui il singolare si smarrisce. Tutta
l'arte dell'Occidente – un esempio è Caravaggio- interpreterà come claritas
proveniente dal Principio la luce che fa splendere la forma. Essa rende
l'arte -la pittura- parente di Dio: << è scienza e legittima figlia di natura;
ma per dir più corretto, diremo nipote di natura, perché tutte le cose evidenti
sono state partorite dalla natura, dalle quali cose è nata la pittura. Adunque
rettamente la chiameremo nipote di essa natura e parente d'Iddio>>[21].
La "Predica agli uccelli" , di Lavinio
Sceral.
La 'Predica agli uccelli'
di Lavinio Sceral: verso una Conclusione
C'è una tela che ci mostra Francesco mentre predica agli uccelli. E' un
quadro dell'artista napoletano Lavinio Sceral.
Imponente per le dimensioni, vede il Santo circondato dagli uccelli che
l'artista ha studiato e riprodotto con una fedeltà alla natura ben coniugata con
la sua ispirazione artistica: nessun 'naturalismo' materialista inquina la
purezza del dipinto.
Un Francesco dal volto disteso sereno ed intenso si offre allo sguardo
dello spettatore mentre gira il volto di tre quarti per accogliere una
preghiera un sussurro un richiamo. L'abito francescano è simile ad una
corteccia d'albero.
Tutto è soffuso da un'estatica pace, I piccoli cantori della natura
stanno, indaffarati e sereni, intorno alla figura di Francesco; qualcuno riposa
tra i rami nell'atteggiamento di chi si sente avvolto dalla tenerezza
rassicurante della presenza umana.
Il Santo porge l'orecchio all'ascolto; le mani ed i
piedi -volutamente- più grandi di quanto le regole anatomiche imporrebbero,
parlano della sua vita peregrinante, della sua accoglienza. Egli è l'uomo che
ha calcato le strade del mondo, che ha accolto tutto e tutti, che ha vissuto,
come una continua lode, la sua creaturalità. Questa consapevolezza creaturale,
che gli ha fatto avvertire la solidarietà di tutto il creato e, perciò, lui e
la creazione tutta nel seno del Padre, lo ha elevato alle altezze di Dio
perché: <<L'unio mystica non avviene de-creandoci , svuotandoci
del nostro esserci creaturale>>[22].
E' già il Paradiso! Il cinguettio silente degli uccelli, le parole
d'amore sigillate da questo eloquente silenzio, che Francesco, l'alter
Christus , pronuncia, conoscono, nella tela di Sceral, la stessa forza
espressiva delle parole promananti dal Crocifisso di San Damiano. Anche
lì, le labbra sigillate nel Silenzio del Cristo crocifisso e risorto, emanano
parole mai udite prima: parlate al cuore di Gerusalemme e ditele che è finita la
sua schiavitù.
Gli animali, il creato sono nel giardino dell'Eden prossimi a Dio.
Quando l'uomo impone loro il nome li rende anche prossimi a sé. In quel giardino
è l'uni-verso: l'umanità e la creazione vanno verso quell'Uno
che ama la molteplicità del creato. Ed ogni cosa creata manifesta un aspetto del
Fattore, ogni cosa ne è significazione. Il Creatore 'scrive' nella realtà
creata, rivelandola, una sua caratteristica: <<Non si bada al fatto che le
bestie sono altrettanto misteriose dell'uomo e si ignora assolutamente che la
loro storia è una Scrittura per immagini, in cui risiede il segreto divino. Ma
non si è ancora presentato nessun genio per decifrare l'alfabeto simbolico della
creazione>> (Léon Bloy, La femme pauvre, Mercure de France, Paris 1956).
Il giardino delle origini è il Paradiso. Simbolo di Cristo,
rivelazione piena dell'amore trinitario Il Figlio irradia il suo amore totale,
esistente ancor prima della fondazione del mondo, e sazia i pellegrini di una
storia non ancora segnata dal peccato eppur storia vera, limitata, caduca.
Il peccato di Genesi 3 allontana l'uomo dal Paradiso e la creazione
resta come sospesa tra la prossimità a Dio e la prossimità all'uomo. Sospesa tra
la lontananza derivata dal peccato dell'uomo e la vicinanza al Dio che l'ha
creata e l'ama. La somiglianza divina nell'uomo, attestata dalla dedizione
degli animali, rivela il desiderio di un ritorno, la nostalgia di un origine a
cui tutto il creato è stato strappato.
Ma se l'uomo si allontana dal Paradiso, il Dio Tre volte Santo non si
allontana dall'uomo né dalla creazione tutta. Se l'uomo, indifferente al
desiderio di Dio – essere simili a Lui-, con un atto che sa di rapina ha inteso
realizzare, nell'intervallo di un attimo, quanto di crescita e attesa richiedeva
diventare come Lui, -precipitando il mondo in una lontananza dolorosa-, il Dio
che ha creato tutte le cose non poteva abbandonare alla deriva quella realtà che
è frutto del suo amore. Si dimentica una donna del suo bambino?
L'Incarnazione del Verbo è l'amore che viene a cercarci per ricondurre
tutte le cose al loro Principio. La nascita, la crescita, l'adolescenza e la
giovinezza del Verbo incarnato, l'umiltà -inaudita per Colui che è da sempre
nella Trinità-, l'obbedienza fino alla morte e alla morte di Croce, compiono per
noi quel che i Progenitori non avevano voluto attendere. E poiché sulla Croce
c'è il Figlio infinito del Dio infinito, infinita è la sofferenza
del Figlio: il Silenzio del Padre è esperienza di un abbandono senza confini.
Questa s-confinata scelta d'amore apre definitivamente il cielo
alla terra: perché la terra appartiene al cielo e nel cielo del Dio trinitario
c'è tanto spazio che tutta la creazione vi trova posto (A. von Speyer).
Nella tela di Sceral l'abito simile ad un albero parla di Francesco come
di colui che riavvicina la creazione all'albero della vita. Francesco, che
canta la sua lode, sa che questo canto può essere di riconciliazione solo
passando per la porta stretta. Ha seguito il Signore sulla via dolorosa del
Calvario, ha allargato il suo cuore, gli ha tolto i confini angusti della sua
umanità precedente e lo ha reso simile al cuore del Crocifisso. Ed ora la
creazione gli è intorno perché le creature si sentono amate con lo stesso amore
del Creatore; perché si sentono riconosciute; perché Francesco guarda il mondo
dalla parte di Dio: a partire dalla Croce evidenza di un amore più forte della
morte, più tenace degli inferi.
Questa tela è promessa di un compimento: l'amorevole cura con cui la
mano dell'artista ha dipinto ogni uccello, rende i volatili lievi e sereni
araldi dell'annuncio della salvezza. Essi poggiano su un ramo o girano intorno
alla figura del Santo; cercano rifugio accogliente tra i rami, tessono una danza
di colori, cantano una melodia di paradiso. I tratti delicati del volto del
Santo lo vedono già icona di Cristo. Nella aurea pace che spira da ogni ramo, da
ogni tratto, sospensione estatica in cui l'eternità entra nel tempo, tutto è
silente inafferrabile. Il non-finito, quasi imposto all'artista -nel
concepimento iniziale non era previsto- apre al divenire, senza rinchiudere il
tutto in una perfezione forzata: la perfezione della forma, come la claritas
perfetta, è dono e Grazia: <<et nullu homo ene dignu Te mentovare>> (v. 4).
Francesco che eleva il suo canto dagli abissi della sofferenza, ha
appreso l'indicibilità di Dio e il vaniloquio dei teologi e dei filosofi che
pretendono di rinchiudere l'Altissimo nelle formule raziocinanti delle scuole. A
costoro ricorda che alla fine solo il canto, la poesia, l'Arte sono in grado di
dire meno infedelmente il Vero poiché accedono al Silenzio del Principio. Solo
così si mostra, avviene la Verità, non quella del mondo del concetto: la Verità
come Amore. Ma per dire questa verità occorre essere un Santo o un artista
perché: limitate sono le nostre parole ed esposte al logorio dell'uso; limitata
è la nostra ragione finita. Solo l'Amore non si consuma e non si arrende. L'Arte
che nasce dalla rivoluzione di Francesco ha nello sguardo dell'artista la luce
dell'amore di Dio e nel cuore quella misteriosa armonia, quella che faceva dire
a van Gogh: <<...alla fine è sempre una serena armonia, una musica dentro di
me>>.
Rosa
Morelli
Note:
[1]
Cf. , STRINATI C. , Il mestiere dell'artista. Da Giotto a Leonardo,
Sellerio, Palermo 2007, in part. : 23-26
[2]
Summa Theologiae II II, , q. 145, a 2 c; II II, q. 180, a. 3 ad 3um
[3]
CACCIARI M. “Ouverture”-Lo scandalo della Croce, la gioia del
Paradiso, in BERTOGLIO C. , Per sorella Musica. San Francesco, il
Cantico delle Creature e la musica del Novecento, Effatà, Cantalupa
(To) 2009, 154.
[4]
Sui rapporti tra il movimento francescano e l’Umanesimo-Rinascimento:
THODE H. , Francesco d’Assisi e le origini dell’arte del Rinascimento
in Italia, Donzelli, Roma 2003.
[5]
La tradizione vuole che Francesco abbia composto il Cantico dopo una
notte di atroci sofferenze. Malato e quasi cieco, accolto nel giardino
del convento di Chiara, egli giace in una solitudine infinita,
sperimenta l'angoscia e il senso di abbandono. Dei topi completano in
peggio la situazione; i dolori agli occhi sono ormai lancinanti e la
luce del sole aumenta la sofferenza dilatandola. Messer lo Frate Sole
non riscalda ma è fonte di dolori inesprimibili, Legenda p. 43,
FF. , 1591
[6]
Lo sguardo dello spettatore non è un sguardo asetticamente oggettivo.
Colui che guarda porta con sé una storia. E’ un universo e da questo
universo lo spettatore poggia il suo sguardo sulla cosa ammirata,
scrutata, osservata. Cf. SOMAINI M. (a cura di), Il luogo dello
spettatore. Forme dello sguardo nella cultura delle immagini, Vita e
Pensiero, Milano 2005.
[7]
DONA' M. , La “Resurrezione” di Piero della Francesca, Mimesis,
Milano-Udine 2009, 7.
[8]
Forte B. , La porta della Bellezza. Per un'estetica teologica,
Morcelliana, Brescia 2000, 23.
[9]
Il rapporto fra l'Uno e il molteplice è la grande questione della
filosofia greca. Anche il tema della Bellezza viene a situarsi in questo
rapporto ed il pensiero greco riconduce il bello del frammento,
attraverso un movimento ascendente, alla totalità dell'Uno. La Bellezza,
in tal contesto, è frammento e nostalgia dell'Uno. Il Bello del
frammento anela all'abisso della totalità come ad un approdo. In questa
prospettiva l'orizzonte storico del frammento viene a perdere
consistenza e spessore. La riflessione di Tommaso, pur valorizzando il
pensiero classico, eredità inalienabile della riflessione cristiana,
parte da quel frammento che è il Verbo crocifisso e Risorto, in cui la
Totalità è pienamente presente. Il cambiamento di ottica, meglio, la
rielaborazione dell'eredità greca, è resa possibile dalla rivelazione di
Dio come Trinità. Cf. ECO U. , Il problema estetico in Tommaso
d'Aquino, Bompiani, 1982, 91ss.
[10]
Cf. MORELLI R. , Teologia delle icone e la “Trinità” di Masaccio.
Ipotesi di lettura per una teologia della visione, Segno, Tavagnacco
(Ud) 2008; cf. DONA' M. , cit. ; cf. CACCIARI M. , Tre icone,
Adelphi, Milano 2007, in part. : “Il Risorto di Sansepolcro”, 31-42.
[11]
VAN GOGH V. , Lettere a un amico pittore, Rizzoli, Milano 2008,
60.
[12]
Ibi.
[13]
VAN GOGH V. , Lettere a Theo sulla pittura, TEA, Milano 1984, 28.
Su Van Gogh ed la sostanza teologica della sua arte: MORELLI R. ,
Vincent van Gogh. Un'ipotesi di lettura teologica, Segno, Tavagnacco
(Ud) 2009.
[14]
CACCIARI M. , Ouverture..., cit, 155.
[15]
SCHNITTKE, in BERTOGLIO, cit. , 84.
[16]
Cf. , VAN GOGH V. , Lettere a Theo..., cit. , 52-56.
[17]
Lettere a Theo..., cit. ibi.
[18]
RAPELLI- PALLAVISINI, Van Gogh, Mondadori, Milano 2008, 120.
[19]
VAN GOGH V. , Lettere a un amico pittore, BUR, Milano 2008, 53: è
un lettera del giugno 1888.
[20]
<<Il Tutto si fa presente nel Verbo non solo come integritas e
proportio, ma anche come claritas>>: FORTE B. La porta...,
cit. , 26
[21]
LEONARDO da VINCI, Trattato della pittura, TEA, Milano 1995, 6.
[22]
CACCIARI M. , Ouverture..., cit. , 155.
Fonte : La
Redazione di ARTCUREL ringrazia la prof.ssa Rosa Morelli che ha
gentilmente fornito la documentazione per l'articolo (relazione tenuta il 10
settembre 2010 per il Terzo Ordine Francescano e pubblicato in CAPYS - Rivista
di storia e scienze religiose 1/20) .
E-mail della Prof. Rosa
Morelli : morelli.rosa2003@libero.it
.
Nessun commento:
Posta un commento