domenica 14 luglio 2019

Il Cantico delle Creature nell'arte: Francesco e Van Gogh, di Rosa Morelli



IL " CANTICO DELLE CREATURE " NELL'ARTE
FRANCESCO E VAN GOGH


di Rosa Morelli


 


Laudes Creaturarum
di Giovanni di Bernardone (San Francesco d'Assisi)
 
Altissimu, onnipotente bon Signore,
Tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione.
Ad Te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.

Laudato sie, mi' Signore cum tucte le Tue creature,
spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione.

Laudato si', mi Signore, per sora Luna e le stelle:
in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle.

Laudato si', mi' Signore, per frate Vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento.

Laudato si', mi Signore, per sor'Acqua.
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.

Laudato si', mi Signore, per frate Focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.

Laudato si', mi Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti fior et herba.

Laudato si', mi Signore, per quelli che perdonano per lo Tuo amore
et sostengono infrmitate et tribulatione.

Beati quelli ke 'l sosterranno in pace,
ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.

Laudato s' mi Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no 'l farrà male.

Laudate et benedicete mi Signore et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.





Introduzione

Il Cantico più bello della letteratura di tutto il mondo è  la Laude medioevale di Francesco d'Assisi. In questo testo l'Arte occidentale ha il suo manifesto[1]; con esso tutti i rapporti tra proporzione, integrità e claritas, elencati da Tommaso quali elementi della Bellezza[2],   dal campo della pura riflessione teoretica si traducono nella concreta forma di  un'opera d'arte.
Intimamente legato alla figura e all'opera del Poverello, il testo ha il fascino ineguagliato di un candore primitivo, espressione di un'ispirazione autentica. I versi, che si succedono con il sapiente utilizzo delle regole metriche, risultano a tal punto perfetti nella loro semplicità e perciò stesso: profondità, che ogni tentativo di tradurli in una prosa chiarificatrice finisce col distruggerne l'incanto. Tale incanto è nella capacità di Francesco di andare, tramite il verso, al di là del verso, per condurre gli ascoltatori nel luogo della Visione: nel Mistero stesso del Dio trinitario; tramite la cosa, oltre la cosa: <<Quella francescana è la mistica dell'amore omni accogliente, la mistica che esalta -proprio nell'evento dell'apparire della cosa nella sua miracolosa singolarità- la infinita Bontà (Bonum effusivum sui) del Fattore>>[3].


1. Nel mondo per il mondo amato dal Padre

Tutta la vicenda di Francesco e lo stile che inaugura nei rapporti con gli uomini e col mondo, nella Chiesa e tra la Chiesa e il mondo, ha la taglia di un'operazione rivoluzionaria. Ben rendono il cambiamento introdotto dall'Assisiate le parole con cui Cennino Cennini parla dell'arte giottesca rispetto ai capolavori bizantini[4]: 'mutò l'arte del dipinger di greco in latino e ridusse al moderno'.
Francesco non è interessato alla vita in monastero ma alle vie del mondo. L'Occidente, che pur nel monachesimo benedettino ha individuato uno stile che lo distingue dal monachesimo orientale, aderente alla propria tradizione culturale -con l'attenzione alla concretezza ed alla soggettività- non offre al Santo di Assisi quel che avverte come importante nel più profondo di se stesso.
Giovane spensierato prima, poi pensoso ed alla ricerca di un senso che renda la vita sapida, crede di trovare nella Cavalleria il modo per vivere la sua crociata, per incarnare l'immagine di Cristo, cavaliere vittorioso, e per vivere la sua Chanson de géste simile a tanti giovani del suo tempo. Invece l'indifferenza lo invade, la ricerca diventa silenziosa e muta.
Il bacio al lebbroso e l'incontro con il Crocifisso di San Damiano parlano dell'incontro con un Dio che fa la differenza nell'esistenza del giovane di Assisi.
La Croce del Cristo non è però sugli altari e tra i fumi odorosi dell'incenso. Essa giace tra le rovine, si eleva dal centro del mondo, è radicata nel cuore della storia. Eppure è qui che inizia l'avventura di un uomo che muterà la rotta di un Occidente troppo impegnato nei giochi di potere -smarrito tra i distinguo di una Scolastica decadente ed infedele alle proprie origini- con la pretesa di una Verità astratta, esclusivo e geloso  possesso della Gerarchia,  immerso in un grave oblio sul senso e sul modo dell'annuncio evangelico. Quel Crocifisso di San Damiano sarà il cuore di tutta la vita di Francesco: sarà la  Croce, sempre più pesante e lieve, che attira e include nel suo abbraccio tutto il mondo: Croce da cui sgorgherà il Cantico di Frate Sole[5].
Ciò che  Francesco metterà in atto  è dunque  la possibilità concreta di vivere come Cristo: tra la gente, per la gente; nella storia, per la storia; nel mondo, per il mondo. La Chiesa, laica per costituzione - perché, prima di ogni altra distinzione, è: laos, popolo di Dio (cf. LG, 1-3)-, ritorna alle origini, è mondana: nel mondo ma non del mondo. Il primo artista dell'Occidente, Francesco, inverte in tal maniera i canoni prospettici.
Ben lo comprende Giotto  che nei suoi lavori utilizza sia la prospettiva rovesciata -tipica dell'Oriente bizantino- indice dell'avvento divino nel mondo, sia quella moderna: 'rinascimentale' -in cui il punto di fuga converge davanti all'immagine-. Giotto che traduce in immagini la verità del messaggio di Francesco, sa, con il Poverello, che lo spettatore, colui che guarda, il soggetto che è dinanzi al quadro, è colui che, in sintonia con l'opera dell'artista, guarda la cosa da un oltre[6], <<poiché non può esservi alcuna realitas […] che non parli infine del ri-nascere, in ogni sua creatura, […] del medesimo Principio creatore>>[7] . L'artista occidentale Francesco, e con lui tutti quelli che verranno, conduce, attraverso le realtà create, fino a compromettersi con esse, gli uomini al Principio. Tutto questo sarà possibile a Francesco, e a tutti quelli che faranno dell'Arte la loro vocazione,  esclusivamente -lo sappia o no l'artista- a partire dal Mistero della Croce in cui il Crocifisso, il Redentore, restituisce alla creazione tutta la sua prossimità al Creatore. Lui, l'agonizzante, con-creatore col Padre (Col 15, 1ss) riconduce, nella 'consegna' dello Spirito, dall'esilio del peccato, il mondo intero nel  grembo accogliente della Trinità.
Tutto è Grazia: il mondo, la storia col suo spessore, le sue contraddizioni e le sue piaghe; tutto merita lo sguardo amoroso e accogliente del Santo che guarda con gli occhi del Padre che, per Cristo, nello Spirito riconduce il mondo all'origine. Nella storia con gli occhi rivolti al cielo, segnato dalle stigmate del Figlio crocifisso, Francesco ama la creazione di un amore autentico e appassionato, quello della Passione del Figlio di Dio. Come già in Tommaso: <<Qui la bellezza viene ad affacciarsi in un frammento: qui essa si nasconde sub contraria specie nel volto di Colui davanti al quale ci si copre la faccia, e che pure è il volto del più bello dei figli degli uomini (cf. Is 53, 3; Ps 44, 3)>>[8]
L'Umanesimo italiano nasce da questa rivoluzione ecclesiale: rivoluzione di modi e di costumi, ri-nascita perché ritorno al Principio,  passando per l'evento della Croce[9]. Il grande Umanesimo, che vede l'Arte regina tra le scienze, lo esprime con  forza  nella Trinità di Masaccio[10] e nella Resurrezione di Piero della Francesca. In una dialettica storica segnata da un ottimismo tragico, gli umanisti come i Valla,  gli Alberti e i Cusano indagheranno il mistero di una humanitas grande e fragile insieme, agli antipodi dell'uomo cantato da Pico della Mirandola.
 Quando la filosofia dimenticherà, per un ingenuo ottimismo, questa verità sull'uomo e sul mondo; quando, illudendo se stessa e gli altri, negherà quel Principio in nome degli iuxta propria principia; quando la teologia, preoccupata di guadagnar terreno sui moderni, inseguirà la Rivoluzione scientifica sul terreno del certo e del verificabile – allontanandosi dal Mistero che illumina la conoscenza, perdendo in tal maniera ogni efficacia nell'annuncio e rinunciando ad incidere nel cuore degli uomini- l'arte continuerà  a raccontare lo stupore di una realtà che custodisce il dono prezioso della Croce: Amore infinito del Dio Infinito verso tutte le sue creature.


Il Seminatore , di Van Gogh.


2. L'Arte nel Cantico delle creature; il Cantico nell'Arte: la pittura di Van Gogh

Vincent van Gogh nella sua pittura si presenta così prossimo a Francesco da diventarne, nel nostro tempo, il più fedele interprete. Oltre la sua esistenza, vissuta in un pauperismo voluto e patito; oltre le scelte che lo porteranno a tentare il recupero di una prostituta, a redimere un ubriacone, ad assistere la madre con una devozione ineguagliabile; oltre i singoli episodi di una vita di dolore e afflitta da una malattia diagnosticata tardi e curata male, Vincent ci viene incontro nella quiete armoniosa dei Mangiatori di patate e nella luce radiosa dei Girasoli; nei cieli stellati e nelle infermità dei Caffé di notte. Parla del suo desiderio di infinito nelle altezze vertiginose dei cipressi, nello slancio dei campanili e nelle nuvole animate, come tutta la natura, dalla vita che riesce a  rendere con pennellate piene, mosse e ondulate accogliendo la lezione dell'arte giapponese. Il tono squillante dei colori non nasce però da un animo leggero ed infantile. La fanciullezza dell'animo è in certi adulti un dono e non una qualità. Così la sua fanciullezza dello spirito, letta in una vita segnata dal dolore, è il dono fatto all'artista da Colui che per Vincet è la più alta espressione dell'amore e dell'arte, -che per van Gogh si identificano- : <<Cristo solo -fra tutti i filosofi, maghi etc.- ha affermato come certezza prima la vita eterna, l'infinito del tempo, il nulla della morte, la necessità e la ragion d'essere della serenità e della dedizione>>[11] . Studente di teologia, desideroso di intraprendere la via percorsa dal padre che è un pastore della chiesa riformata, a causa degli scarsi successi e per un conflitto sempre presente col genitore, che incide sulla sua autostima, lascerà lo studio ma, votatosi alla pittura, trasfonderà il senso mistico che lo abita in tutte le sue opere. Sarà un predicatore sulla scia di Cristo ma mentre Cristo non dipinge e realizza uomini veri con cuori di carne[12], lui dipingerà cercando di manifestare il senso nascosto delle cose per riabilitare la creazione tutta dal peccato in cui l'ha costretta l'uomo.  
E’ seguendo Francesco e Vincent che si cercherà di scorgere la consanguineità tra la spiritualità del Cantico e l’arte in alcune significative opere di Van Gogh. Tra la ricerca estetica di un artista conosciuto male e un Santo amato da tutti –credenti e non credenti- ma forse da restituire alla sua esperienza primigenia: quella della Croce.

          a. Il 'Cantico'. La dossologia: vv 1. 27.   <<Altissimo Onnipotente Bon Signore >>: è la prima nota del canto. Nota che risuona grave e profonda:  pura, priva di ogni estetizzante accidente. Essa sgorga dal punto più remoto dell'animo umano ed è simile alla preghiera più autentica, quella del cuore che si arrende e si abbandona, sfiancato dalla lotta e dalla sofferenza, al Dio che tutto può nella sua bontà. Conosce la forza dell'abbandono del Crocifisso -Padre nelle tue mani consegno il mio spirito- e la tensione del grido dell'Abbandonato. Conosce le tenebre del Venerdì santo e  la luce  splendente della Speranza che, dalla notte più buia della storia, notte mistica -quando tutto e tutti sono lontani o nemici, anche Dio che non mostra più il suo Volto-, conduce alla Resurrezione.
Questa nota iniziale,  dossologia che sostiene ed interpreta tutto il Cantico, che ha la sua sorgente nella notte della sofferenza e della solitudine -perfecta laetitia-  è già evocazione  del mistero della morte - << sora nostra morte corporale>>-. Essa è il canto che vede trasfigurare la derelizione -Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato- in gioia. Perciò, dovendo individuare una relazione che sia, più che un'affinità, una sororità  con l'Arte, il  rimando più immediato, -quello verso cui va il cuore e la mente mentre risuonano le note di questa Ouverture-, con i capolavori dell'arte occidentale, è quello che scorge  nella Pietà l'immagine più fedele a tanta onnipotenza crocifissa. Infatti, dal Compianto sul Cristo morto di Giotto -agli Scrovegni- alle Pietà michelangiolesche, fino a quella, meno conosciuta, che Van Gogh dipinge quale omaggio a Delacroix,  tutte custodiscono il mistero di un Silenzio da cui solo può sgorgare la lode. Esse, imponendo all'osservatore lo stesso mistico silenzio, aprono con tremore alla lode all'Altissimo.

b. La concezione estetica di Van Gogh.  Van Gogh, come egli stesso attesta, ha dell'arte una idea precisa che leggiamo nella fitta corrispondenza con l'amatissimo fratello Teo: <<Voglio che tu capisca bene la mia concezione dell'arte [...]Voglio fare dei disegni che vadano al cuore della gente. […] Sia nella figura  che nel paesaggio vorrei esprimere non una malinconia sentimentale ma il dolore vero. […] che la gente possa dire delle mie opere: “sente profondamente, sente con tenerezza” - malgrado la mia cosiddetta rozzezza e forse perfino a causa di essa>>[13].
Il dolore vero, soglia del Mistero, tanto acuto da lasciare gli occhi senza lacrime, Vincent lo realizza ne La Pietà, una delle sue ultime opere. Qui,  il dramma del Calvario, il dolore per la morte dell'Innocente, il silenzio che subentra al clamore della Crocifissione, emanano con forza  da tutta l'opera e conoscono la stessa nota grave e pura della dossologia che apre il Cantico. Il mistero della morte del Verbo, il silenzio del Sabato santo, la discesa agli inferi, porta stretta per la  Resurrezione, vengono rese dal rilassamento del corpo del Figlio tra le braccia della Madre, dall'inquadratura prospettica che quasi fa precipitare le figure verso l'osservatore, -sì che questi venga coinvolto nell'irreale silenzio della Parola-, dalla reale umanità del Figlio -rappresentato con il volto dell'artista- e dal giallo solare che invade le figure:  mistica della luce,  anticipo e promessa della Resurrezione.


 
Campo di grano con mietitore , di Vincent Van Gogh.


c. Dalla Croce la perfetta letizia <<sora nostra morte corporale>>. Se hilaris è sempre Francesco, mai nubilosus, <<Laetum deve sempre suonare il carmen francescano, ma proprio nel contemplare e rivivere l'estremo della Croce>>[14]. E la Croce è: morte, limite  a cui giunge il Figlio di Dio per amore degli uomini. Senza la Croce, l'Incarnazione sarebbe stata una recita; come senza la Resurrezione, la Croce non risplenderebbe di alcuna forza.
Alla nota della dossologia iniziale fa dunque rimando la <<sora nostra morte corporale>>. Sorella: perché ci conduce verso l'eterna vita, ne è la porta e l'inizio come è stato il fine di tutta la vita: <<Ogni volta la coda, ciò che generalmente chiude l'opera, appare d'improvviso, come un regalo inatteso, ma appare sempre alla fine del lavoro. Io stesso sono costretto a percorrere l'intero cammino, a viverlo soprattutto>>[15], così Schnittke (1934-1998) - compositore di origine russa, cattolico, alla ricerca di uno stile musicale essenziale e non ridondante, in grado di parlare con confidenza amicale all'ascoltatore-,   si esprime sulla “sorella morte”. All'onnipotenza divina si oppone quell'estremo senza il quale il Cantico sarebbe solo un'esercitazione retorica senz'anima. Amare la creazione significa per Francesco: amare quella cosa mortale che, perché mortale, per un dono meraviglioso e stupendo, è significazione di quella stessa onnipotenza esposta alla debolezza ed alla sofferenza.
Nella tela Campo di grano con mietitore  Van Gogh ben interpreta la lezione di Francesco.
Vincent è un animo mistico. Ce lo attesta, tra le altre, la lettera datata  novembre 1883, in cui racconta al fratello una giornata a Zweeloo, dove abitò Liebermann (1847-1935), ed il ritorno a casa[16].
Al primo bagliore dell'alba, quando i galli presero a cantare dappertutto, accanto alle capanne sparse per tutta la brughiera […] tutto allora divenne identico ai più bei Corot. Una tranquillità, un mistero, una pace come solo lui ha dipinto.
L'ingresso al villaggio era magnifico: enormi tetti di muschio, stalle, pastori e pollai. […] Il cielo era terso, luminoso, non bianco ma di un color lilla difficile a cogliersi, bianco a bagliori rossi, blu e gialli in cui tutto si rifletteva; lo si sentiva dappertutto sopra ogni cosa, vaporoso, si confondeva con la nebbiolina leggera sottostante […] l'intera campagna […] è completamente coperta […] da grano giovane, del verde più tenero che abbia mai visto. […] Quando si cammina per ore e ore per questa campagna, davvero si sente che non esiste altro […] Non ci si accorge di nulla […] si sa solo che c'è la terra e il cielo […] Poi venne il crepuscolo -pensa che pace, che tranquillità! […] (Il) ritorno  del gregge al crepuscolo è stato l finale della sinfonia che ieri ho udito.
Il rapporto che van Gogh ha con la creazione è segnato da un tale amore appassionato e profondo, da esigere da lui -<<l'arte è esigente>> scrive al fratello[17]-  una ricerca capace di  coglierne,  nell'opera pittorica, l'essenza, quel mistero che egli avverte presente nelle le cose, presente negli uomini: i più umili. Eppure, questo amore appassionato non è mai idolatria delle cose terrestri. Vincent le ama perché segnate da quella caducità e limite che è la morte. Le ama perché oltre il limite temporale,  avverte il senso dell'eterno, dell'infinito, di quel Dio che le ha create,  e,  nel suo Amore crocifisso,  le ricreerà.
Il Seminatore  e Campo di grano con mietitore si fanno parabola del tempo e della fine della vita: irradiato dalla luce di un sole enorme ma al tramonto, il primo; splendente, col disco solare alto nel cielo, il secondo. Ma è il Mietitore che per Vincent evoca l'immagine della morte: nel grano mietuto egli vede l'umanità: <<...il contrario del seminatore […] Ma in quella morte non si nasconde nulla di triste, avviene in pieno giorno, sotto un sole che immerge tutto in una luce d'oro>>[18].

d. Il sole e le stelle: il creato
Compare così, tra l'illimitato infinito del primo verso e il limite finito del ventisettesimo, messor lo frate sole (v. 6),  e col sole le altre creature: la creazione si 'squaderna' ed il Cantico si scioglie.
Francesco è un mistico e il mistico guarda mettendosi dalla prospettiva di Dio. Questo Dio non smette mai di stupirsi e amare ciò che ha tratto dal nulla e che è perciò esposto alla fragilità, caducità. E ama, e perciò custodisce fino alla morte di Croce, questo frammento, così diverso da Lui, così limitato. Poiché questo limite, che pone l'uomo e il mondo di fronte all'Infinito in posizione di apparente inferiorità, è l'unica, autentica garanzia dell'Amore. Il Dio di Francesco non è il dio dei catari -una delle cangianti facce dello gnosticismo-. Il Dio di Francesco è vero Amore perché l'Amore vero è quello capace d'amare il totalmente diverso da sé: anzi proprio per questo lo ama di amore autentico e non come una proiezione di se stesso.
Il sole è segno dell'Altissimo: bello, raggiante,  aggiorna -iorna-  e <<allumini noi per lui>> (vv 6-8).
Nel volgare di Francesco allumini conosce una forza espressiva paragonabile solo alla lingua napoletana: allummare è più che illuminare. E'  la forza di una luce interiore, un fuoco che infiamma e rivela.  Allumini noi per lui è dunque, visto il legame simbolico -la -significazione – tra il disco solare e Dio stesso caro a tutto il Medioevo e non solo, equiparabile solo al calore della vita, all’azione dello Spirito.
 Se il riferimento immediato di questo verso del Cantico è in Gen 1, 1ss, il Santo lo rende ancor più denso di significati biblici, lo rende sintesi mirabile del dono della vita fatto dal Dio della vita non limitato ad un lontano inizio, bensì percepito costantemente nel quotidiano dell'esistenza.
Quando van Gogh dipinge il sole lo vuole e realizza esattamente così: bello, grande, 'significazione' di Dio. Dal momento del suo arrivo in Provenza, la luce del Meridione lo apre al colore, lo apre alla vita. Il suo percorso artistico diviene così un viaggio verso la luce.
I campi di grano e i covoni -per lui simbolo dell'infinito :<<aspirazioni verso quell'infinito di cui il seminatore, il covone sono simboli, mi incantano ancora, come un tempo>>[19] - sono un profluvio di giallo cromo, che attestano la ritrovata luce interiore. Alle sue spalle è Parigi e la lezione degli Impressionisti: una Parigi nebbiosa, tra tendenze alla moda che nulla hanno da dire al suo cuore. Egli trova qui l'<<alta nota gialla>> che dona il sole e la interpreterà in tutta la sua ampiezza e sontuosità.
Ma il desiderio d'infinito, il desiderio del cielo egli lo testimonia nei cieli stellati, in cui la luminosa bellezza delle stelle viene resa coi toni del rosa e dell'arancio e la relazione con  il Cantico di frate sole continua a proporsi nelle stelle <<clarite e belle>>.
Francesco utilizza il termine  claritas, e suggella ulterirmente l'alleanza, la consanguineità tra l'opera degli artisti e la preghiera, la lode e il canto. 
La claritas  è luce, che, aggiungendosi all'estetica classica,  nella concezione estetica dell'Aquinate Tommaso,  dice quella particolare luminosità che è più e oltre la luce naturale[20] : essa è l'irruzione del Bello nella sua totalità e non solo come rimando proporzionale, nostalgia di un abisso in cui il singolare si smarrisce. Tutta l'arte dell'Occidente – un esempio è Caravaggio- interpreterà come claritas proveniente dal Principio la luce che fa splendere la forma. Essa    rende l'arte -la pittura- parente di Dio: << è scienza e legittima figlia di natura; ma per dir più corretto, diremo nipote di natura, perché tutte le cose evidenti sono state partorite dalla natura, dalle quali cose è nata la pittura. Adunque rettamente la chiameremo nipote di essa natura e parente d'Iddio>>[21].

 
 
La "Predica agli uccelli" , di Lavinio Sceral.


 La 'Predica agli uccelli' di Lavinio Sceral: verso una Conclusione

C'è una tela che ci mostra Francesco mentre predica agli uccelli. E' un quadro dell'artista napoletano Lavinio Sceral.
Imponente per le dimensioni, vede il Santo circondato dagli uccelli che l'artista ha studiato e riprodotto con una fedeltà alla natura ben coniugata con la sua ispirazione artistica: nessun 'naturalismo' materialista inquina la purezza del dipinto.
Un Francesco dal volto disteso sereno ed intenso si offre allo sguardo dello spettatore mentre gira il volto  di tre quarti per accogliere una preghiera  un sussurro  un richiamo. L'abito francescano è simile ad una corteccia d'albero.
Tutto è soffuso da un'estatica pace, I piccoli cantori della natura stanno, indaffarati e sereni, intorno alla figura di Francesco; qualcuno riposa tra i rami nell'atteggiamento di chi si sente  avvolto dalla tenerezza rassicurante della presenza umana.
 Il Santo porge l'orecchio all'ascolto; le mani ed i piedi  -volutamente- più grandi di quanto le regole anatomiche imporrebbero, parlano della sua vita peregrinante, della sua accoglienza. Egli è l'uomo che  ha calcato le strade del mondo, che ha accolto tutto e tutti, che ha vissuto, come una continua lode, la sua creaturalità.  Questa consapevolezza creaturale, che gli ha fatto avvertire la solidarietà di tutto il creato e,  perciò, lui e la creazione tutta  nel seno del Padre,  lo ha elevato alle altezze di Dio perché: <<L'unio mystica non avviene de-creandoci , svuotandoci del nostro esserci creaturale>>[22].
E' già il Paradiso! Il cinguettio silente degli uccelli, le parole d'amore sigillate da questo eloquente silenzio, che Francesco, l'alter Christus , pronuncia, conoscono, nella tela di Sceral, la stessa forza espressiva delle parole promananti dal Crocifisso di San Damiano. Anche lì, le labbra sigillate nel Silenzio del Cristo crocifisso e risorto, emanano parole mai udite prima: parlate al cuore di Gerusalemme e ditele che è finita la sua schiavitù.
Gli animali, il creato sono nel giardino dell'Eden prossimi a Dio. Quando l'uomo impone loro il nome li rende anche prossimi a sé. In quel giardino è l'uni-verso: l'umanità e la creazione vanno  verso quell'Uno che ama la molteplicità del creato. Ed ogni cosa creata manifesta un aspetto del Fattore, ogni cosa ne è significazione. Il Creatore 'scrive' nella realtà creata, rivelandola, una sua caratteristica: <<Non si bada al fatto che le bestie sono altrettanto misteriose dell'uomo e si ignora assolutamente che la loro storia è una Scrittura per immagini, in cui risiede il segreto divino. Ma non si è ancora presentato nessun genio per decifrare l'alfabeto simbolico della creazione>> (Léon Bloy, La femme pauvre, Mercure de France, Paris 1956).
 Il giardino delle origini è il Paradiso.  Simbolo di Cristo, rivelazione piena dell'amore trinitario Il Figlio irradia il suo amore totale, esistente ancor prima della fondazione del mondo, e sazia i pellegrini di una storia non ancora segnata dal peccato eppur storia vera, limitata, caduca.
Il peccato di Genesi 3 allontana l'uomo dal Paradiso e la creazione resta come sospesa tra la prossimità a Dio e la prossimità all'uomo. Sospesa tra la lontananza derivata dal peccato dell'uomo e la vicinanza al Dio che l'ha creata e l'ama. La somiglianza divina nell'uomo,  attestata dalla dedizione degli animali,  rivela  il desiderio di un ritorno, la nostalgia di un origine a cui tutto il creato è stato strappato.
Ma se l'uomo si allontana dal Paradiso, il Dio Tre volte Santo non si allontana dall'uomo né dalla creazione tutta. Se l'uomo, indifferente al desiderio di Dio – essere simili a Lui-, con un atto che sa di rapina ha inteso realizzare, nell'intervallo di un attimo, quanto di crescita e attesa richiedeva diventare come Lui, -precipitando il mondo in una lontananza dolorosa-, il Dio che ha creato tutte le cose non poteva abbandonare alla deriva quella realtà che è frutto del suo amore. Si dimentica una donna del suo bambino?
L'Incarnazione del Verbo è l'amore che viene a cercarci per ricondurre tutte le cose al loro Principio. La nascita, la crescita, l'adolescenza e la giovinezza del Verbo incarnato, l'umiltà -inaudita per Colui che è  da sempre nella Trinità-, l'obbedienza fino alla morte e alla morte di Croce, compiono per noi quel che i Progenitori non avevano voluto attendere. E poiché sulla Croce c'è il Figlio infinito del Dio infinito, infinita è la sofferenza del Figlio: il Silenzio del Padre è esperienza di un abbandono senza confini. Questa s-confinata scelta d'amore apre definitivamente il cielo alla terra: perché la terra appartiene al cielo e nel cielo del Dio trinitario c'è tanto spazio che tutta la creazione vi trova posto (A. von Speyer).
Nella tela di Sceral l'abito simile ad un albero parla di Francesco come di colui che  riavvicina la creazione all'albero della vita. Francesco, che canta la sua lode, sa che questo canto può essere di riconciliazione solo passando per la porta stretta. Ha seguito il Signore sulla via dolorosa del Calvario, ha allargato il suo cuore, gli ha tolto i confini angusti della sua umanità precedente e lo ha reso simile al cuore del Crocifisso. Ed ora la creazione gli è intorno perché le creature si sentono amate con lo stesso amore del Creatore; perché si sentono riconosciute; perché Francesco guarda il mondo dalla parte di Dio: a partire dalla Croce evidenza di un amore più forte della morte, più tenace degli inferi.
Questa tela è promessa di un compimento: l'amorevole cura con cui la mano dell'artista ha dipinto ogni uccello, rende i volatili lievi e sereni araldi dell'annuncio della salvezza. Essi poggiano su un ramo o girano intorno alla figura del Santo; cercano rifugio accogliente tra i rami, tessono una danza di colori, cantano una melodia di paradiso. I tratti delicati del volto del Santo lo vedono già icona di Cristo. Nella aurea pace che spira da ogni ramo, da ogni tratto, sospensione estatica in cui l'eternità entra nel tempo, tutto è silente  inafferrabile. Il non-finito, quasi imposto all'artista -nel concepimento iniziale non era previsto-  apre al divenire, senza rinchiudere il tutto in una perfezione forzata: la perfezione della forma, come la claritas perfetta, è dono e Grazia: <<et nullu homo ene dignu Te mentovare>> (v. 4).
Francesco che eleva il suo canto dagli abissi della sofferenza, ha appreso l'indicibilità di Dio e il vaniloquio dei teologi e dei filosofi che pretendono di rinchiudere l'Altissimo nelle formule raziocinanti delle scuole. A costoro ricorda che alla fine solo il canto, la poesia, l'Arte sono in grado di dire meno infedelmente il Vero poiché accedono al Silenzio del Principio. Solo così  si mostra, avviene la Verità, non quella del mondo del concetto: la Verità come Amore. Ma per dire questa verità occorre essere un Santo o un artista perché: limitate sono le nostre parole ed esposte al logorio dell'uso; limitata è la nostra ragione finita. Solo l'Amore non si consuma e non si arrende. L'Arte che nasce dalla rivoluzione di Francesco ha nello sguardo dell'artista la luce dell'amore di Dio e nel cuore quella misteriosa armonia, quella che faceva dire a van Gogh: <<...alla fine è sempre una serena armonia, una musica dentro di me>>.  
 
Rosa Morelli
 



 


Note:

[1]    Cf. , STRINATI C. , Il mestiere dell'artista. Da Giotto a Leonardo, Sellerio, Palermo 2007, in part. : 23-26
[2]    Summa Theologiae II II, , q. 145, a 2 c; II II, q. 180, a. 3 ad 3um
[3]    CACCIARI M.  “Ouverture”-Lo scandalo della Croce, la gioia del Paradiso, in BERTOGLIO C. , Per sorella Musica. San Francesco, il Cantico delle Creature e la musica del Novecento, Effatà, Cantalupa (To) 2009, 154.
[4] Sui rapporti tra il  movimento francescano e l’Umanesimo-Rinascimento: THODE H. , Francesco d’Assisi e le origini dell’arte del Rinascimento in Italia, Donzelli, Roma 2003.
[5]    La tradizione vuole che Francesco abbia composto il Cantico dopo una notte di atroci sofferenze. Malato e quasi cieco, accolto nel giardino del convento di Chiara, egli giace in una solitudine infinita,  sperimenta l'angoscia e il senso di abbandono. Dei topi completano in peggio la situazione; i dolori agli occhi sono ormai lancinanti e la luce del sole aumenta la sofferenza dilatandola. Messer lo Frate Sole non riscalda ma è fonte di dolori inesprimibili,  Legenda p. 43, FF. , 1591
[6] Lo sguardo dello spettatore non è un sguardo asetticamente oggettivo. Colui che guarda porta con sé una storia. E’ un universo e da questo universo lo spettatore poggia il suo sguardo sulla cosa ammirata, scrutata, osservata. Cf.  SOMAINI M. (a cura di), Il luogo dello spettatore. Forme dello sguardo nella cultura delle immagini, Vita e Pensiero,  Milano 2005.
[7]    DONA' M. , La “Resurrezione” di Piero della Francesca, Mimesis, Milano-Udine 2009, 7.
[8]    Forte B. , La porta della Bellezza. Per un'estetica teologica, Morcelliana, Brescia 2000, 23.
[9]    Il rapporto fra l'Uno e il molteplice è la grande questione della filosofia greca. Anche il tema della Bellezza viene a situarsi in questo rapporto ed il pensiero greco riconduce il bello del frammento, attraverso un movimento ascendente, alla totalità dell'Uno. La Bellezza, in tal contesto, è frammento e nostalgia dell'Uno. Il Bello del frammento anela all'abisso della totalità come ad un approdo. In questa prospettiva l'orizzonte storico del frammento viene a perdere consistenza e spessore. La riflessione di Tommaso, pur valorizzando il pensiero classico, eredità inalienabile della riflessione cristiana, parte da quel frammento che è il Verbo crocifisso e Risorto, in cui la Totalità è pienamente presente. Il cambiamento di ottica, meglio, la rielaborazione dell'eredità greca, è resa possibile dalla rivelazione di Dio come Trinità. Cf. ECO U. , Il problema estetico in Tommaso d'Aquino, Bompiani, 1982, 91ss.
[10]  Cf. MORELLI R. , Teologia delle icone e la “Trinità” di Masaccio. Ipotesi di lettura per una teologia della visione, Segno, Tavagnacco (Ud) 2008; cf. DONA' M. , cit. ; cf. CACCIARI M. , Tre icone, Adelphi, Milano 2007, in part. : “Il Risorto di Sansepolcro”, 31-42.
[11]  VAN GOGH V. , Lettere a un amico pittore, Rizzoli, Milano 2008, 60.
[12]  Ibi.
[13]  VAN GOGH V. , Lettere a Theo sulla pittura, TEA, Milano 1984, 28. Su Van Gogh ed la sostanza teologica della sua arte: MORELLI R. , Vincent van Gogh. Un'ipotesi di lettura teologica, Segno, Tavagnacco (Ud) 2009.
[14]  CACCIARI M. , Ouverture..., cit, 155.
[15]  SCHNITTKE, in BERTOGLIO, cit. , 84.
[16]  Cf. , VAN GOGH V. , Lettere a Theo..., cit. , 52-56.
[17]  Lettere a Theo..., cit. ibi.
[18]  RAPELLI- PALLAVISINI, Van Gogh, Mondadori, Milano 2008, 120.
[19]  VAN GOGH V. , Lettere a un amico pittore, BUR, Milano 2008, 53: è un lettera del giugno 1888.
[20]  <<Il Tutto si fa presente nel Verbo non solo come integritas e proportio, ma anche come claritas>>: FORTE B. La porta..., cit. , 26
[21]  LEONARDO da VINCI, Trattato della pittura, TEA, Milano 1995, 6.
[22]  CACCIARI M. , Ouverture..., cit. , 155.








Fonte : La Redazione di ARTCUREL ringrazia la prof.ssa Rosa Morelli che ha gentilmente fornito la documentazione per l'articolo (relazione tenuta il 10 settembre 2010 per il Terzo Ordine Francescano e pubblicato in CAPYS - Rivista di storia e scienze religiose 1/20) . E-mail della Prof. Rosa Morelli : morelli.rosa2003@libero.it   .
























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