IL CAVALLO METONIMIA DEL SIMBOLO CRISTICO IN FATTORI E SEGANTINI
di Alessio Varisco
L’Ottocento italiano e il cavallo
In Italia, durante il
secolo XIX, a differenza dell’Impressionismo francese si sviluppano correnti
autoctone significative che influenzeranno il
linguaggio del Novecento.
Tra le tante figure
presenti sul panorama italiano spiccano: Hayez,
Fattori ed i divisionisti di fine secolo. Tutti appartenenti alla seconda metà
dell’Ottocento e attivi nell’area del centro-nord; la pittura italiana è
segnata dalle vicende anche politiche dell’unificazione del Regno d’Italia. Il
processo di unificazione è molto sentito in ambito
artistico poiché riscontriamo grossi centri di produzione artistica ed aree
specializzate nella produzione della ricerca accademica.
L’arte rimane
comunque legata a modelli classici e per questo
-soprattutto per tale motivazione- mi accingo ad esaminare due “figure
controcorrenti” presenti nel panorama artistico di quei tempi, aliene alle
Accademie.
Due pittori “scomodi”,
lontani dagli ambienti accademici -anche se formati dalle accademie- per i
loro stilemi ed ambiti di ricerca.
In entrambi l’attenzione al lavoro è il comune denominatore: sentimento della
“volontà di costruire”[i],
molto
sviluppato in ambito letterario-musicale.
Per entrambi,
Giovanni Fattori e Giovanni Segantini, l’immagine del “cavallo” è metafora
della storia umana, paradigma della vicenda personale
di ciascuno[ii],
misura correttiva
della condizione servile inflitta all’uomo a causa del Peccato Originale. Il
cavallo è l’aiutante, il compagno, a volte il conducente del cavaliere; il
destriero allevia quella pesantissima condanna inflitta da JHWH nel Paradiso
terrestre:
«...
con dolore ne trarrai cibo per tutti i giorni della tua vita. [....]
Il cavallo diviene il
“cardine” della pittura fattoriana e segantiniana,
esso con mistico realismo affronterà la Natura nella quale il posto servile
dell’uomo è fondamentale alla costruzione della società.
Il macchiaiolo Giovanni Fattori
Mandrie maremmane , 1893 , Giovanni Fattori.
Giovanni Fattori
è stato senza dubbio uno dei maggiori pittori
italiani dell’Ottocento. Semplice e schivo, livornese, partecipa ai moti
rivoluzionari del 1848 forse più per gioco, con un candore fanciullesco come
quello che lo spinge a cercare di entrare nel chiuso ambiente fiorentino.
L’esordio dell’arte
pittorica di Fattori si situa nell’alveo della pittura
romantico celebrativa in accordo con gli ambienti più accademici.
Ma già dai primi anni Cinquanta frequenta il
Caffè Michelangelo dove incontra
«una
classe di giovani, i quali erano divenuti nemici dei professori accademici:
guerra all’arte classica!»[iv].
Ed insieme a Signorini,
Sernesi, al pisano Borrani
e Costa danno seguito ad un gruppo in controtendenza, capitanati dal critico
ed ideologo Diego Martelli, sincero amico del Fattori
che di lui dirà:
«un
uomo di vero cuore, un amico».
Fattori
aderisce alla macchia spontaneamente, a livello
quasi fisiologico. Ora la sua ritrosia verso la pittura storico-celebrativa
aveva un nome. Una forza di indagine lo spinge a
formare una pittura rispondente alla realtà secondo un “puro verismo” ove
l’input è dato da quello
«stimolo
acuto di fare studi di animali e paesaggio, cercando di mettere sulla tela
tutte le sofferenze fisiche e morali di tutto quello che disgraziatamente
accade»[v].
Sono gli anni migliori in
cui, sulla scorta delle esperienze francesi della Scuola di
Corot, si esercita “en plein air” nella sua
Toscana ripensando al compito dell’arte nella prospettiva
della modernità quale sfida alla classicità.
«Quando
all’arte si leva il “verismo” che resta? Il “verismo”
porta lo studio accurato della Società presente, il verismo manderà
alla posterità i nostri costumi e le nostre abitudini»[vi].
Singolare modo di
intendere l’arte in disaccordo con l’ideale classicheggiante di
primarietà nelle fonti ed insuperabilità nell’arte
antico-classica.
Un urlo nel panorama artistico che esprime la ricerca del
senso. E’ la macchia lo strumento mediante cui l’artista livornese
riesce a raggiungere il risultato di verismo ricercato, base della
manifestazione pittorica. Ciò premesso apparirà scontato l’interesse
del Fattori macchiaiolo per i temi della vita
contadina e militare; il lavoro dell’uomo in ogni sua forma.
Differentemente
dal maestro Bezzuòli, primo insegnante e poco
stimato dall’allievo -da cui si discosta in brevissimo-, e dagli accademici a
quei tempi in voga, i quali prediligevano rappresentare le grandi battaglie
storiche per esaltare i sentimenti dell’amor di Patria e del coraggio virile[vii],
Fattori
indaga la quotidianità più scontata, spesso
dolorosa, ma reale. I suoi soldati sono l’antitesi
dell’eroicità dei personaggi di David, in loro il pittore colloca
contadini ed operai strappati al loro lavoro, alla loro terra, alle loro
famiglie e costretti a morire, a perdere la vita senza conoscerne spesso il
perché.
Il secondo soggetto
dell’arte di Fattori è quello del lavoro dell’uomo,
in particolar modo i contadini e le loro fatiche. In quest’ottica si collocano
i numerosi studi al tratto eseguiti dal vero di cavalli e buoi maremmani dei
quali la Toscana della seconda metà del XIX secolo
era ricchissima. Fattori è il cantore della terra
inaridita dal sole, irrorata dalle fronti dei contadini curvi al loro lavoro,
dei buoi bianchi che trascinano enormi carri di legno faticando e soffrendo
insieme al contadino.
Uomini e animali uniti da
un medesimo destino di sofferenza, povertà e fame.
Fattori
è indirizzato da Nino
Costa, pittore romano, allo studio meticoloso del vero e incoraggiato a
partecipare al concorso di pittura Bettino Ricasoli
del 1859 allora reggente il governo della Toscana. Di
questo periodo le quattro enormi tele di battaglie equestri che con crudezza
esprimono la sconfitta, l’inquietudine reale delle milizie, di battaglioni
scomposti e sparsi nelle piane, bersagli mobili pronti all’attacco scomposto.
I cavalli esprimono la fatica della battaglia, l’agitazione, la fremente
attesa, spasmodica e interrotta da qualche fragore di mortaio. Più intimoriti
e rassegnati di un modello düreriano, immoti,
sempre al passo o fermi, una sorta di prolunga degli ufficiali per scorgere la
nuvola di terra sollevata dal nemico per costruirne la difesa.
Vigilanza e preparazione alla difesa in “Curtatone”,
“Palestro”, “San Martino” e “Magenta”.
Le epiche
visioni delle rinascimentali battaglie sfrenate di
Paolo Uccello sono sovvertite dalla mesta e consueta ritirata dei feriti sul
campo di battaglia: vince nel ‘62 il concorso proprio col “Campo italiano alla
battaglia di Magenta”. Attorno si prodigano le monache
infermiere ad apprestare gli aiuti, a soccorrere dal loro carro scortate
da ufficiali a cavallo.
Di
epoca successiva, del
1872, “In vedetta, il muro bianco”, in perfetta sintonia coi cardini della
pittura macchiaiola. Il senso prospettico è reso
visivamente dalla parete di destra, la cui perfetta geometria interrompe,
tagliandola, la linea dell’orizzonte -leggermente ascendente- dove l’ocra
della brulla pianura si confonde con il celeste viola del cielo.
«Il
giorno si è scaldato. Il sentiero davanti a noi mentre ci
muoviamo verso casa. é
una bella sensazione avere qualcosa di vivo e caldo sotto di me. Le sue
orecchie sono distese e l’andatura sciolta, sembra all’erta più di me ad ogni
minimo movimento. Io cerco di vedere e non c’è niente»[viii].
La figura del cavallo
bianco dal bevente roseo, pigmentato, mostra lo sguardo verso sinistra a noi
spettatori ed il soldato compostamente di vedetta si stagliano sulla luce del
bianco-giallo muro descrivendo anche l’ombra del calcinato irraggiato dal
sole.
«Soltanto
luce del sole ed acqua... Do un colpetto con gli
speroni sui fianchi di Bird e lui riprende ad
andare. Ci vuole meno di un’ora per arrivare ai recinti»[ix].
Altri due
cavalieri compaiono sullo sfondo equilibrando la composizione: il primo
cavallo bianco a sinistra col capo leggermente reclinato e le briglie sciolte,
calmo osserva il campo polveroso; energico e frenato dal morso il secondo
cavallo sullo sfondo dal mantello nero, un mantello
tipico -quello morello- della razza maremmana. La testa di questo cavallo
scuro è più pesante rispetto quella degli altri, più irrequieta con le
orecchie più piccole e nevrilmente in difesa[x].
L’intera scena del primo,
bianco, in primo piano e degli altri sullo sfondo descrive
una costruzione abile, spazialmente articolata
giocata su contrasti forti di macchie e ombre a suggerire l’afosità della
giornata e la sonnolenta reazione dei militari e degli equini stremati
dall’afa litoranea estiva.
A differenza di molti suoi
coevi Fattori non è decisamente un
insipido-contemplativo e lo dimostra “lo
staffato”, un quadro estremamente crudo dipinto con ogni probabilità nel 1880,
conservato alla Galleria d’Arte Moderna di Firenze. Il realismo della scena è
dato anche dal movimento in essa esageratamente
espresso. Il quadro mostra spietatamente un cavallo forse spaventato da uno
sparo che si lancia in un galoppo sfrenato col povero cavaliere disarcionato e
ferito, rimasto saldamente attaccato alla staffa della sella, incastrato
mortalmente col piede. La critica del tempo così apostrofa la tela
«Una
scena triste che fa rabbrividire che ispira orrore e ripugnanza».
Il dipinto è diviso in due
parti orizzontali che tendono a fondersi in una confusa linea di orizzonte.
Nella parte inferiore la terra polverosa e giallastra di una strada di
campagna vuota, non transitata da nessun altro, riempita
dal fragore del moto del cavallo imbizzarrito. Nella parte
superiore il biancastro livido di un cielo senza sole pieno di cirri.
Contro quest’opaco fondo la criniera e la coda del cavallo imbizzarritosi si
stagliano con violenza sonora. Nonostante queste
siano rese in macchie sfumate, per dare significato al movimento impazzito e
alla polvere sollevata, la scena appare solennemente profonda e composta per
la mestizia della crudezza.
Fattori ci
fa partecipi del dramma cui ha assistito, inerme ed
impotente, che rivela l’imprevedibilità della vita; una metafora cruda del
verismo da lui espresso in tutta la sua poetica in cui la natura diviene
spettatrice silente e ingiusta del dramma.
é una tela che evoca la
tragedia umana nello scorrere di una vita che pare inficiata della punizione
inflitta da Dio nel libro della Genesi:
«Maledetto
sia il suolo per causa tua! [...]
Con il sudore del tuo
volto mangerai il pane;
finché
tornerai alla terra,
perchè
da essa sei stato tratto:
La scena è brutale perchè
la direttività del galoppo verso l’orizzonte
aumenta il pathos rendendoci ancor più angosciati per il dramma che si sta
completando. Così pensiamo, quando il cavallo sarà scomparso all’orizzonte,
infuriato e folle per lo spavento con quel macabro fardello di soldato,
l’unica traccia della tragedia sarà una striscia di sangue impolverata sulla
via.
Il dipinto, tanto caro
all’artista, incontra il disappunto dei coevi e dei critici che lo
apostrofano, come già detto “scena triste d’orrore “, mentre esprime il dolore
del singolo uomo.
«è
proprio mentre affrontiamo la cresta che il cavallo
s’inarca e ci scaraventa in aria, scappandoci di sotto.
è un trucco che mette in atto
non appena può, ed è il genere di animale che sa
scegliere il giorno sbagliato; è un po’ un monello, non è cattivo. Domattina
quando gli darò la biada mi strofinerà il naso contro il mio petto. Oggi
invece aspetta quella curva secca e ripida. Mi coglie impreparato -in verità,
mi coglie mentre sto fissando il mio stivale
destro, con il peso tutto caricato sulla spalla destra- e scarta dalla pista,
scalcia in aria sollevando le gambe sopra la testa e si dilegua sulla mia
sinistra»[xiii].
Ben più tragica è la fine
dello sventurato ritratto. “Lo staffato” è l’emblema di questa nostra stessa
vita, in una corsa. é per
questo motivo che l’opera risulta tanto cara al
maestro che non se ne priverà mai in vita e così lo definisce:
Giovanni Segantini
Giovanni Segantini
Primavera sulle Alpi, 1897
«Le
province dell’Italia Settentrionale sono le prime in cui,
alla fine secolo, comincia a svilupparsi un’economia industriale: ciò
che spiega il determinarsi, anche nell’arte, di interessi tecnico-scientifici,
di slanci progressisti e, nello stesso tempo, di preoccupazioni sociali.
L’ultimo decennio del secolo, a Milano, è caratterizzato dal Divisionismo di
Gaetano Previati, di Giovanni Segantini, di Victor
Grubicy, di Giuseppe Pellizza da Volpedo»[xv].
Giovanni Segantini
nasce in Trentino, cresce orfano a Milano accudito
dallo zio, sperimenta il carcere minorile per vagabondaggio, impara a
dipingere per un cartellonista che lo spinge a proseguire gli studi presso i
corsi serali all’Accademia di Brera. E’ con
Pellizza di Volpedo uno dei massimi esponenti del
“divisionismo”, corrente che esaspera la resa della luce.
«Si
tratta di un’evidente ripercussione del Neo-Impressionismo francese, di cui
Previati riprende i fondamenti
teorico-scientifici, ma purtroppo, soltanto questi»[xvi].
Negativa l’immagine del
movimento tracciato dall’analisi seppur autorevole dello storico dell’arte
Giulio Carlo Argan
«Il
guaio, infatti, è che non si tratta di vero interesse, ma
di entusiasmo per la scienza; e l’entusiasmo diventa ideologia
romantica della scienza e del progresso»[xvii].
Argan
rivolge la polemica verso l’utilizzo della nuova poetica artistica
-divisionismo- solo come strumento empirico-tecnico
e non accettando che l’arte è soprattutto “ricerca” come per
Seurat e Signac ed il
“puntinismo” che applica la tecnica ottica scandagliando anche -con
lo strumento dell’arte ora scienza- le profondità ricercando il vero
senso.
Non mi trovo totalmente in
accordo con questa critica poiché nel caso del
Segantini notiamo uno spiccato interesse per la sacralità della vita, per
quello che Argan riferisce “tecnica al servizio
dello spirito”, ma non solo. Concordo nell’affermare che il Divisionismo
-matrice italiana dell’Ottocento come il movimento dei “macchiaioli”- è
rivolto ad un’attenzione per -cito Argan- una
«ideologia
politico-sociale»,
riferendosi al Volpedo[xviii];
vorrei però notare che in Segantini vi sono
moltissime vite agresti di agricoltori della Brianza e dell’Alta Engadina
curvi nel loro “quotidiano” nelle tematiche profondissime del pittore, oltre
ai cicli della vita e della morte visibili nei suoi stupendi oli di notevoli
dimensioni carichi dell’impressione della luce, tutta italiana, e non
inficiata di stilemi francesi. Insomma, trovo nella lettura del Divisionismo
da più parti, soprattutto nel più autorevole e abile manualista, una certa
sbrigatività nell’apostrofare “retorica
storico-allegorica di Previati, dello
spiritualismo e simbolismo di Segantini”. Il secondo in Engadina costruirà la
sua vita tra le nevi per studiarne la luce[xix],
scarnificando
l’ipocrisia e inseguendo la sensazione della luce.
«E,
ciò che è più grave, non hanno compiuto l’esperienza dell’Impressionismo, che
è appunto l’oggetto della ricerca “scientifica” del Neo-impressionismo»[xx].
Credo invece che
l’autonomia di questo Movimento abbia dato un notevole apporto alla storia
dell’arte italiana, proprio per lo sforzo ad elaborare un nuovo metodo;
analogo il percorso di Paolo Uccello già citato
rispetto l’utilizzo della tecnica prospettica.
I cavalli di
Segantini esprimono il dolore e la fatica della vita.
Misticamente compagni dell’uomo ad alleviarne i dolori inflitti dalla condanna
di Dio della fatica nel sudore. Sicuramente cavalli “norici”
-questa la razza alpina tipica- mansueti, dalla forte muscolatura, presenti
nella zona dei Grigioni[xxi].
La silente scena
di “Ritorno al paese natio” propone l’incedere lento di un carro recante
spoglie mortali evocatore di quel
Questa visione del mondo
ritratto, già sperimentata da Fattori, comune a tutti gli aderenti al
Divisionismo italiano, riprende la fatica cagionata dalla colpa per la
“caduta”. A conclusione dell’analisi della dialettica segantiniana è utile
citare ciò che un esegeta, a circa un secolo di distanza, riferisce in merito
al significato dei cavalli dell’Apocalisse
«Raccogliendo le
fila delle osservazioni fatte possiamo vedere nel simbolo del cavallo […]
rappresentata la natura umana, e nelle modifiche a cui va soggetta (vari
colori e diversi cavalieri), adombrati i momenti e le fasi della sua vicenda
storica. E’ possibile, allora, vedere nella serie che si snoda dal primo al
quarto cavaliere un’allegoria della storia spirituale dell’umanità prima
di Cristo»[xxiii].
E’ la storia
genesiaca della Creazione e conseguente
caduta. Il cavallo esprime dunque questo “medium” ed è metafora della nostra
storia (come già in Fattori), interessante notare come la pittura
divenga strumento per denunciare che l’uomo creato
a somiglianza di Dio, degno della signoria sull’Universo e della familiarità
con Dio abusò peccando volendo essere Dio. Questo comportò la
«perdita della felice
condizione originaria, l’esilio in una terra divenuta ostile ed arida, dove
l’uomo deve procurarsi con aspro disagio il proprio sostentamento e, dopo una
vita di stenti, soggiacere alla morte»[xxiv].
La metafora del cavallo
che traina il feretro e dirige il corteo funebre è comune nella pittorica di
Segantini ed esprime proprio l’ineludibilità della capacità umana di fronte
alla Maestà Divina. Una pittura, quella segantiniana, che esprime il concetto
di umiltà e di conoscenza dei propri limiti a
dispetto dell’esasperata ricerca di voler emulare e superare Dio: quest’ostinata
arroganza frutta la “caduta”.
Il pittore non può che
testimoniare la permanenza nell’umanità di questa
incapace e ostile ricerca di “esser Dio” e lo fa proponendo scene struggenti
che rendono testimonianza a questa fatica di vivere cagionata dall’uomo;
creando una pittura estremamente spirituale.
[«Sviluppo
in arte del simbolismo teriomorfo del cavallo in Apocalisse
Il cavallo bianco metonimia del simbolo cristico»
di
ALESSIO VARISCO, 2002 Monza, Técne Art Studio]
[i]
Sentimento molto più sentito in ambito letterario
si pensi ai cori dell’Adelchi
di A.
Manzoni oppure al Nabucco
di G. Verdi.
[ii]
Sia nelle “Ronde” o nello “Staffato” di Fattori che negli imponenti e
mansuetissimi cavalli del “Ritorno al paese
natio” di Segantini.
[iii]
Gn 3, 17.19.
[iv]
G. Fattori,
Diario.
Firenze, 1905, 10.
[v]
G. Fattori,
op. cit.,
16.
[vi]
G. Fattori,
op. cit.,
29.
[vii]
Si pensi all’influsso francese dell’arte epica di David.
[viii]
M.
Spagg, Where
the rivers change direction.
University of Utah Press, 1999.
125.
[ix]
M.
Spagg, op.
cit., 126.
[x]
Come gran parte dei
«maremmani
puri»:
soggetti ostili e “difficili”, rinominati
«balzani»,
dalla struttura molto imponente, ottimi per la montagna e per la guerra
(detti anche “rustici”).
[xi]
M. Roberts,
The man who listens to horses.
New York, Random House, 1996. 203.
[xii]
Gn 3, 17.19.
[xiii]
M.
Spagg, Where
the rivers change direction.
University of Utah Press, 1999.
44-45.
[xiv]
G.
Fattori,
op. cit., 58.
[xv]
G. C. Argan,
Arte Moderna.
152.
[xvi]
G. C.
Argan,
op. cit, 152.
[xvii]
G. C.
Argan,
op. cit., 153.
[xviii]
L’introspezione di “Ritorno al paese natio”, i cicli della natura di
Segantini poi ripresi dallo Jugenstyle?
la manualistica è assai tagliente poiché troppo
frettolosa, oltre al socialismo del “Quarto stato”.
[xix]
A 2700 metri s.l.m. troverà la morte a soli 43 anni per una peritonite non
curata in Alta Engadina presso il Muottas
Muragl (oggi il suo capanno-atelier è denominato
“Segantini-Hut”) sopra
Pontresina, alle pendici del Piz
Muragl. Muore sospirando:
«Voglio
farmi monte!».
[xx]
G. C. Argan,
op. cit.,
152.
[xxi]
I “norici” sono imponenti cavalli utilizzati
come destrieri da tiro, provenienti dalle regioni alpine, un tempo impiegati
soprattutto nei campi per dissodare i terreni.
[xxii]
Gn 3,19.
[xxiii]
E. Corsini,
Apocalisse prima e dopo.
SEI, Torino, 1980. 206.
[xxiv]
E. Corsini,
op cit. 207.
Fonte : scritti del prof. Alessio Varisco , Técne Art Studio , sito web www.alessiovarisco.it .
Fonte foto : Fattori, www.museodeibozzetti.com/Fattori%20mandrie.htm ; Segantini, http://digilander.libero.it/villanet/MART/spedizione%20su%20mart%20files/segantini.jpg
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