domenica 14 luglio 2019

L'ILLUSTRAZIONE DEL LIBRO DELL'APOCALISSE POST-RINASCIMENTALE L'Apocalisse figurata : eclisse e ritorno di una fortuna, di Alessio Varisco



L'ILLUSTRAZIONE DEL LIBRO DELL'APOCALISSE POST-RINASCIMENTALE
L'Apocalisse figurata : eclisse e ritorno di una fortuna

di Alessio Varisco

 


A questo punto del nostro lavoro ci troviamo a dover riprendere una tesi che avevamo enunciata nel primo capitolo: la relazione privilegiata tra l’illustrazione incisoria dell’Apocalisse e l’arte rinascimentale. Questo nostro compito è dettato dal desiderio di spiegare anche il perché di un’assenza di Apocalissi figurate significative nei secoli immediatamente successivi al periodo rinascimentale.
È certamente un dato di fatto che le Apocalissi di Dürer e di Duvet sono superiori a qualsiasi elaborazione incisoria successiva in questo campo, anche se certamente non sono mancate dopo opere di vero pathos e approfondimenti di particolare interesse.
Tornare sul binomio Apocalisse-Rinascimento significa ribadirne le componenti cultuali, storiche e culturali intrinseche.
«L’information essentielle qu’il faut apporter ici est que la plus grande époque de diffusion dans l’Europe latine des craintes et des espérances eschatologiques se situe entre le milieu du XIVème siècle et le milieu du XVIIème: elles ont accompagné la naissance du monde moderne»[1].
Le ragioni che Jean Delumeau porta, per avvalorare la propria affermazione, nascono dall’esame di tutti i complessi ambiti della storia: da quello politico a quello sociale, dal culturale allo spirituale.
In primo luogo alla radice del fenomeno troviamo alcuni fattori storici:
«Des malheurs en chaîne s’abattirent sur l’Occident: retour de la peste, multiplication des disettes et des révoltes, des sorcières et blasphèmes, avance turque, Grand Schisme, le “scandale des scandales”, péniblement colmaté, mais suivi au début di XVlème siècle par la cassure de la Réforme. Tous ces faits, en s’additionnant, créèrent dans le psychisme collectif un climat d’angoisse et d’attente inquiète»[2].
Tra questi fattori lo storico sottolinea i movimenti di Riforma e di Controriforma, per l’enorme carico di incomprensioni, di odio e dì fanatismo che feriscono aspramente la Cristianità.
«Cette remise en lumière des angoisses eschatologiques que connut l’Europe de la Renaissance aide à comprendre pourquoi les principaux Réformateurs ne cherchèrent pas à se réconcilier avec Rome. Pour eux, et notamment pour Luther, Rome était la “grande prostituée” e la “Babylone” dont pane l’Apocalypse, et le pape était t’Antéchrist»[3].
La lettura storicistica dell’Apocalisse che con Gioachino da Fiore, Tommaso di Lyra, Alessandro di Brema e altri si afferma in questo periodo si porge se non come l’unica, certo come la più accattivante esegesi del testo proprio per il disperato bisogno di giustizia e di sicurezza degli uomini del tempo. Ma non si comprenderebbe tanto interesse per l’Apocalisse se non si considerasse la rivoluzione operata nel Rinascimento, in campo culturale, dai nuovi mass-media.
«Par mass media de l’époque, il faut entendre notamment la prédication (par exemple celle, au début du XVème siècle, d’un saint Vincent Ferrier qui s’identifiait lui-même à l’ange annonciateur du Jugement évoqué ou ch. XIVème de l’Apocalypse»[4]
Non soltanto l’opera dei grandi predicatori costituisce però il mezzo per veicolare il pensiero apocalittico del tempo:
«A la prédication s’ajoute l’impact du theàtre religieux, et bientôt celui de la gravure et de l’imprimerie. Le ròle de cette dernière a été évidemment capital! à cet égard. On connait quelque 337 éditions de la Bible de Luther publiées du vivant mme du Réformateur (ce qui correspond a au moins 350.000 volumes). Jamais par conséquent le texte de l’Apocalypse n’avait connu une telle diffusion. Mais, en autre, la Bible de Wittenberg et les éditions faites d’après cile comportaient une copie légèrement modifiée de 1’Apocalypse gravée par Dürer en 1498»[5].
Se il teatro religioso, l’invenzione della stampa e la diffusione dell’incisione veicolano il Libro di Giovanni ad un pubblico sempre più vasto, l’illustrazione di Dürer, di grande impatto emotivo e di estrema modernità, fornisce certamente un buon appoggio a tale diffusione.
La conclusione è chiara:
«Les plus puissantes et les plus nombreuses réalisations iconographiques consacrées à l’Apocalypse, à l’Antéchrist et au Jugement dernier datent toutes du temps de la Pré réforme et de la Réforme, depuis la tapisserie d’Angers (seconde moitié du XIVème siècle) jusqu’à la grande fresque de Michel-Ange au mur de fond la Sixtine (milieu du XVIème siècle»[6].
Motivare il “silenzio” nei confronti dell’Apocalisse da parte dell’arte dei secoli XVII e XVIII è il compito non semplice del secondo punto di questo paragrafo. Anche per mancanza di studi critici su tale fenomeno possiamo soltanto limitarci ad alcune ipotesi, servendoci di quanto detto sul Rinascimento per cercare di capire che cosa, e in che misura, è mutato nei secoli successivi.
Dicevamo sopra di Dürer. Ironia della sorte: il grande veicolatore dell’Apocalisse è anche uno dei primi responsabili di questo successivo “silenzio” dell’arte nei confronti del testo giovanneo; è cosa certa infatti che le Apocalissi figurate del ‘600 e del ‘700, quasi soggiogate dal genio norimberghese, ricalcano pedestremente la sua illustrazione:
«Les artistes a court d’invention se sont immédiatement emparés de ces gravures»[7].
Ma tale generale appiattimento dell’illustrazione dell’Apocalisse sul modello düreriano, così come esso è ripreso dalla Bibbia di Wittenberg, non è solo frutto del valore intrinseco di tale modello. Basterebbe considerare l’originalissima opera di Jean Duvet per dimostrare che Dürer può essere ripreso in modo altamente creativo. I motivi di tale mancanza di nuove rielaborazioni iconografiche sono dunque altri; a noi pare di intravederne alcuni.
Innanzitutto l’incisione del600 e del ‘700 si prefigge fini ormai molto diversi rispetto al suo sorgere; legata all’editoria essa nei secoli XV e XVI vuole esprimere figurativamene un’idea, veicolare un messaggio filosofico o teologico: essa è ricerca di un significato spirituale assoluto. Quanto ciò sia vero lo si deduce senz’altro dall’originale rapporto tra acquaforte ed alchimia di cui parla Calvesi nell’articolo già citato nel capitolo IV di questa tesi:
«Il concetto dell’arte come “imitazione della natura” teorizzato nel Rinascimento è stato inteso riduttivamente come imitazione delle apparenze esterne: ma era in realtà più profondo, trattandosi di “imitazione” come aderenza ad un modello operativo (nel senso, appunto, che la parola assume nel pensiero dell’Imitatio Christi) ovvero come emulazione dei “processi” creativi della natura.
Nell’ambito dì particolari tecniche, come l’acquaforte, le analogie diventano persino sorprendenti. Il procedimento trasfigurativo della memoria ovvero il mitico Mercurio o argento vivo, o “acqua mercuriale”, e che era poi idealmente e fisicamente un solvente, assumeva vari nomi, tra cui quello, proprio di “acquafortis”. Nel procedimento, poi, le suggestive coincidenze possono essere numerose: abbiamo una lastra di metalli, un acido che la corrode (come l’acqua mercuriale dissolve la “materia prima”), abbiamo il fuoco che scalda e affumica il metallo, abbiamo le fasi, le attese, i misteriosi passaggi della materia alla “forma”»[8].
Con il600 le cose cambiano: nascono i “generi artistici”:
«Per la vastità dei suoi assunti ideologici e la molteplicità delle sue funzioni, nonché per la composizione della società cui si rivolge, l’arte del seicento presenta una larghissima gamma di fenomeni fortemente differenziati. Poiché non si tratta più di realizzare forme che abbiano un valore assoluto ed eterno»[9].
Nasce anche, con il barocco, un nuovo concetto di “mimesi” della realtà:
«Le poetiche barocche riprendono, rivalutano e sviluppano la concezione classica dell’arte come “mimesi” o imitazione; l’arte è rappresentazione, ma lo scopo della rappresentazione non è di meglio conoscere l’oggetto che si rappresenta, bensì di impressionare, commuovere, persuadere. A che cosa? A nulla di preciso: né la verità di fede né la bontà di una concezione politica si possono dimostrare o imporre con un dipinto o un edificio»[10].
Certamente un’arte che presuppone la realtà fisica come modello unico, e che non abbia comunque in sé la ricerca di un assoluto, è ben lontana dal poter e voler illustrare l’Apocalisse di Giovanni che presuppone una presa di distanza dal visibile e dal contingente per giudicarlo alla luce dell’eterno.
Nel700 l’arte si presenta, se possibile, ancor più incompatibile con l’illustrazione di questo Testo.
«Il pensiero illuministico pone come suo fondamento primo la ragione, la cui forma perfetta è la scienza [...]. Nei confronti della scienza, che diventa l’attività-pilota, l’arte ha tre possibilità: 1) differenziarsi, seguitando e portando alle ultime conseguenze le proprie tecniche tradizionali; 2) adeguarsi, adottando metodo di ricerca di tipo scientifico; 3) fondarsi, essa stessa, come scienza autonoma, cioè scienza del bello, estetica»[11].
Nessuna di queste tre vie può essere idonea a rappresentare figurativamente l’Apocalisse: essa non può essere illustrata da un’arte totalmente fantastica, essendo l’Apocalisse lettura simbolica di una realtà assoluta; essa non può essere illustrata da un’arte di tipo “scientifico” essendo l’Apocalisse superamento metafisico di ogni scienza umana; essa infine non può piegarsi ad esigenze puramente estetiche in quanto la bellezza della Sposa dell’Agnello è ultraterrena e non sensorialmente fruibile.
Con tali argomenti abbiamo esaurito il discorso? Certamente no. Motivi sociali e religiosi hanno contribuito ad ostacolare l’avvicinamento dell’artista al testo dell’Apocalisse nel ‘600 e nel ‘700.
Le motivazioni di ordine sociale non sono certo da ricercarsi in un’assenza di quelle calamità che nel Rinascimento avevano spinto il popolo alla ricerca di speranze escatologiche e di profezie liberatorie; si tratta però di una diversa lettura che ditali calamità offre proprio la religione. Riportiamo, a questo proposito, un significativo brano di Sciolla:
«Tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, l’iconografia della guerra viene anche utilizzata per rappresentazioni di significato devozionale. Due sono le tipologie della guerra a sfondo devozionale: la rievocazione della battaglia sacra, veterotestamentaria, e la ricostruzione dell’episodio bellico storicamente accaduto, nello svolgimento del quale è ritenuto però determinante l’intervento divino. La rievocazione della battaglia sacra illustra di preferenza quegli episodi biblici dove è descritto l’intervento dell’angelo del Signore che capovolge l’esito della guerra. Questo episodio significa con molta chiarezza la vittoria sul male, l’intervento del divino nell’umano e la necessità di mantenere il timore di Dio, gli episodi biblici prediletti dagli artisti, tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, sono quelli di Giosué (in particolare quelli descritti da Giosué, 12) e quelli di Sennacherib (Isaia 36-37). Queste tematiche, come dimostrano le opere pittoriche (tra le altre: Taddeo Zuccari, Caprarola, Palazzo Farnese; Antonio Tempesta, incisione; Onofrio di Lione, Napoli, Chiesa dei Santi Severino e Sossio; Pietro Paolo Rubens, Monaco, alte Pinakotek; Nicolas Cochin, incisione) si prestano a visioni apocalittiche, fortemente drammatiche e coinvolgenti»[12].
Ciò che allontana gli artisti dal Libro dell’Apocalisse non è dunque la mancanza di una concezione della storia in linea con la teologia di Giovanni, ma la lontananza dalla forma estetica di tale teologia. Quando al simbolo si preferisce una lettura diretta e morale della realtà, non ci si accosta all’Apocalisse ma a testi meno criptici, più chiaramente esemplari ed etici.
Tutta la Chiesa controriformista prende inoltre in questo periodo le distanze da una diffusione, accompagnata da libere interpretazioni, del Libro dell’Apocalisse, interpretazioni che spesso sfociano in profezie arbitrarie e anticlericali. L’intento dei grandi pastori della Chiesa del600 e del ‘700 è di fornire messaggi semplici ma rigorosi al popolo di Dio che, in balia dei potenti della terra, della fame, della peste e delle varie eresie, ha bisogno di una guida spirituale chiara e concreta.
«Giorno per giorno l’azione più continua dei parroci della controriforma è l’assistenza ai parrocchiani nelle loro attività più umili. Così la sorveglianza dei costumi, la riprovazione dei recalcitranti di ogni risma i giocatori, danzatori, bevitori, e persino spiriti forti che non temevano di affrontare il parroco»[13].
Un testo come l’Apocalisse non sembra servire, in quest’epoca, come adeguato catechismo dei poveri e dei semplici. I Gesuiti, che si impegnano ad una lettura più scientifica del testo giovanneo, pongono un’ulteriore distanza tra esso e la sua fruizione popolare. Per i teologi l’Apocalisse è un’impresa esegetica impegnativa e delicata, volta a depurarla dai vari storicismi; per la gente comune sempre più questo libro diventa uno scrigno proibito di cui si è persa la chiave. A questo punto è chiaro che, per l’artista, l’illustrazione dell’Apocalisse non trova più un pubblico al quale rivolgersi né un terreno culturale propizio ad un’opera d’arte interprete della complessa simbologia giovannea.
Non abbiamo, con queste brevi osservazioni, certamente esaurito l’argomento circa il vuoto di apocalissi figurative nei secolo XVII e XVIII, ma abbiamo almeno ipotizzato alcune possibili cause. Passiamo quindi a considerare che cosa sia successo nel XIX secolo, quali fatti storici, culturali ed artistici tali da provocare un ritorno dell’arte all’Apocalisse.
L’evento storico che segna la fine di un’epoca è sicuramente la Rivoluzione Francese. Nel 1789 succede qualcosa senza precedenti nella storia francese, la cui portata ha ripercussioni in tutta Europa, a livello anche spirituale, difficilmente calcolabili.
«Si delineano già un insieme di problemi e alcune piste da seguire. Così il problema delle forme specifiche della religiosità rivoluzionaria partendo dai culti civili popolari (la triade Marat-Lepeletier-Chalier, gli eroi bambini) come quella del millenarismo e del profetismo rivoluzionario, da riprendersi non soltanto basandosi sui noti dossier di Catherine Théot, Dom Gerle, o Suzanne Labrousse, ma anche sulla base degli esempi minori, come quello della famiglia dei Bonjour, giansenisti ostinati di Fareins vicino a Lione, per i quali la Rivoluzione ha realizzato l’arrivo dell’evento atteso.
[...] Questo per gli atteggiamenti di fronte alla vita ... ma non si potrebbe dire altrettanto circa gli atteggiamenti di fronte alla morte? Anche qui la distruzione momentanea del cerimoniale tradizionale, ma anche il contatto quotidiano, tra gli ardori di quel tempo, con gli ideali rivoluzionari della morte eroica o del coraggio civile di fronte alla morte stessa, non hanno potuto che aprire la via al culto laicizzato dei morti, che cercava la sua affermazione fin dall’orizzonte neoclassico degli anni ‘70 e che dominerà il XIX secolo» [14].
La coscienza degli artisti, durante il periodo successivo alla Rivoluzione Francese, si caratterizza inoltre come una riflessione sulla fugacità degli ideali umani:
«Se i rivoluzionari del 1789 erano stati guidati dai dettami rousseauiani di cui erano pieni i loro cuori, gli agitatori politici del XIX secolo andavano imparando un nuovo linguaggio. Gli avvenimenti che avevano caratterizzato gli anni ‘90 e in particolare il regno giacobino del terrore in Francia, se non avevano distrutto il credo nella libertà e perfino la fede nelle virtù innate dell’uomo, avevano reso impossibile pensare che tali virtù potessero essere liberate da una semplice rimozione delle limitazioni esistenti. Ciò che Baudelaire descrisse come un “senso di perdita irreparabile” ebbe un significato vero e proprio allorquando venne riferito al ricordo dei sogni utopistici del secolo precedente. Per coloro che credevano ancora in ciò che il poeta Keats descrisse come la “sacralità degli affetti del cuore” vi era un senso persistente di disillusione di fronte al corso degli avvenimenti. Essi erano diventati più consapevoli della tragedia e della miseria di guerre e rivoluzioni che non dei risultati da queste ottenuti»[15].
Se questo è lo stato d’animo e lo spessore esistenziale dell’artista, nell’Ottocento, legato alla storia e alla cultura, l’arte muta anch’essa i propri presupposti. All’Illuminismo segue il Neoclassicismo; a questo il Romanticismo. Comune agli ultimi due il desiderio di una realtà “altra” dalla presente, o comunque una visione dell’arte come suscitatrice di verità eterne, al di là del corso quotidiano degli eventi.
«Il Neoclassicismo non è un riallacciarsi alle fonti della storia, al classico: è invece la coscienza dell’impossibilità del recupero del classico come storia, e la malinconia, il senso del presente come vuoto che ne discendono»[16].
Il Romanticismo fa proprio il carico di questa malinconia: sentimento dell’infinito contrapposto con struggimento alla finitudine umana. L’uomo che lotta per dare un senso alla storia è l’eroe. Tale eroe, al di là dei grandi sogni risorgimentali, non può mutare gli eventi. Se lo può è solo a patto di un sacrificio totale: spesso ciò che rimane è soltanto la bellezza di un gesto che fa dell’eroe il protagonista di una tragedia.
L’artista si pone inoltre un vero e proprio problema di identità.
«Come disse il paesaggista Caspar David Friedrich “l’artista non dovrebbe dipingere solo quello che vede davanti a sé, ma anche quello che vede all’interno di sé. Se egli tuttavia non vede niente all’interno di sé, allora dovrebbe fare a meno di dipingere anche ciò che vede davanti a sé”. Per conservare questa ispirazione interiore l’artista doveva prepararsi a correre il rischio dell’isolamento, e questo fu certamente il prezzo pagato da Friederich e Blake»[17].
La solitudine come premessa per la realizzazione di un’arte vera sembra scontrarsi con il desiderio dell’artista di incidere nella storia. Nell’Ottocento enorme importanza assumono infatti le mostre organizzate dalle accademie.
«In questo periodo la committenza privata non scomparve, ma diventò senza dubbio uno sbocco meno significativo della mostra»[18].
Sorge quindi un interrogativo sull’identità dell’artista: riesce egli a rimanere sé stesso presentandosi ad un vasto pubblico? Ma, soprattutto, come viene recepita la sua opera?
«Se anche un artista raggiungeva il successo, egli non poteva più essere certo di quale tipo di successo si trattasse e di quale uso si facesse del suo lavoro.
Il destino dell’artista poteva essere quello del poeta descritto da Kierkegaard in Aut-Aut (1843). Qui il poeta è colui che “assomiglia alle vittime sventurate che il tiranno Falaride imprigionò in un toro di ottone e torturò a fuoco lento. Le loro grida non potevano giungere alle orecchie del tiranno per riempire di terrore il suo cuore, giacché, per lui avevano il suono di una dolce musica”»[19].
L’artista comprende che ogni tipo di denuncia, di ricerca sofferta, di visione interiore può non giungere a dire ciò per cui, e da cui, essa è nata. Alla luce di questa riflessione, e degli altri motivi cui abbiamo accennato, una ripresa del testo dell’Apocalisse come libro da tradurre in figura è fenomeno comprensibile. Ciò che però muta radicalmente rispetto al Medioevo e al Rinascimento è lo spirito, e l’intenzione, con cui l’illustratore si accosta al testo: egli non desidera più spiegarlo agli altri, ma misurarsi con esso in una ricerca solitaria di identità spirituale. Se l’arte è misura dell’invisibile, l’Apocalisse che ci parla di realtà escatologiche è per l’artista una Parola che lo sprona a cercare nuove forme di espressione e una ritrovata vena simbolista.
Se in questo stesso periodo Vogel, Bleek, Schleiermacher, Vòlter e tutta la Forrnegeschichte analizzano il testo di Giovanni alla ricerca di ipotetiche fonti letterarie cui ricondurre la Parola; se Drietrich, Gurgkel, Bousset e tutta la Religions geschichte pongono dei confronti fra l’Apocalisse e le varie mitologie ricavate dalle diverse culture religiose, l’arte, non potendo appellarsi ad un’esegesi biblica più immediata e aderente alle attese vitali del popolo cui essa si rivolge, non ha altra scelta che quella di porsi in modo soggettivo davanti al mistero dell’ultimo libro della Bibbia. Ogni risultato esegetico che ne derivi può essere discutibile, ma nasce senz’altro da una ricerca autentica e sofferta.
 
 



[1] JEAN DELUMEAU, Prefazione di F. Van der Meer, op. cit., p. 9.
«L’informazione essenziale che bisogna dare qui è che la più grande epoca di diffusione nell’Europa latina delle paure e delle speranze escatologiche si situa entro la metà del XIV secolo e la metà del XVII: esse hanno accompagnato la nascita del mondo moderno».
[2] Ibidem.
«Dei disastri a catena s’abbatterono sull’Occidente: ritorno della peste, moltiplicazione delle carestie e delle rivolte, delle streghe e degli eretici, avanzata turca, il Grande Scisma, lo ‘scandalo degli scandali”, a stento colmato, ma seguito all’inizio del XVI secolo dalla frattura della Riforma. Tutti questi fatti, sommandosi, crearono nell’inconscio collettivo un clima di angoscia e di attesa inquieta».
[3] Ibidem.
«Questa rimessa in luce delle angosce escatologiche che conobbe l’Europa del Rinascimento aiuta a comprendere perché i principali riformatori non cercarono di riconciliarsi con Roma. Per essi, e soprattutto per Lutero, Roma era la “grande prostituta” e la “Babilonia” di cui parla l’Apocalisse, e il papa era l’Anticristo».
[4] Ibidem.
«Per mass-media dell’epoca bisogna intendere soprattutto la predicazione (per esempio quella, all’inizio del XV secolo, di un san Vincenzo Ferreri che si identificava nell’angelo annunziatore del Giudizio evocato in Ap. 14».
[5] Ibidem.
«Alla predicazione si aggiunge l’impatto del teatro religioso, e presto quello dell’incisione e della stampa. 11 ruolo di quest’ultima è stato evidentemente di importanza capitale al riguardo. Si conoscono 337 edizioni della Bibbia di Lutero pubblicate lui vivente (ciò corrisponde ad almeno 350.000 volumi). Mai per conseguenza il testo dell’Apocalisse aveva conosciuto una tale diffusione. Ma, inoltre, la Bibbia di Wittenberg, e le edizioni dopo di essa, comportavano una copia leggermente modificata dell’Apocalisse incisa da Dùrer nel 1498».
[6] Ibidem.
«Le più possenti e numerose realizzazioni iconografiche consacrate all’Apocalisse, all’Anticristo e al Giudizio finale sono datate tutte al tempo della Preriforma e della Riforma, dopo l’arazzo d’Angers (seconda metà del XIV secolo) fino al grande affresco di Michelangelo sul muro di fondo della Sistiria (metà del XVI secolo)».
[7] 7Louis REAU, op. cit. p. 679. «Gli artisti a corto d’ispirazione si sono immediatamente impadroniti di queste incisioni».
[8] Maurizio CALVESI, op. cit., p. 10.
[9] Giulio CARLO ARGAN, Storia dell’arte italiana, Voi. III, Sansoni, Firenze 1968, p. 259.
[10] Ibidem, p. 258.
[11] Ibidem, p. 375.
[12] Gianni C. SCIOLLA, Farne, epidemie, guerre e pietà nell’iconografia religiosa tra Cinquecento e Seicento, contributo al volume a cura di Jean Delumeau, Storia vissuta del popolo cristiano, SEI, Torino 1985, p. 559.
[13] ALAIN MOLINIER, Parroci e parrocchiani della Controriforma, Ibidem, p. 596.
[14]  Michel V0VELLE, Da Vendernrniaio a Fruttidoro anno 11. L’altra “scristianizzazione”, Ibidem, p. 690.
[15] William VAUGHAN, L’arte romantica, Mazzotta, Milano 1982, pp. 31-32.
[16] Giulio CARLO ARGAN, op. cii., p. 456.
[17] William VAUGHAN, op. Cit., p. 34.
[18] Ibidem, p. 35.
[19] Ibidem.






Fonte :   scritti dell'artista prof. Alessio Varisco , Técne Art Studio .
Prof. ALESSIO VARISCO
Designer - Magister Artium
Art Director Técne Art Studio
http://www.alessiovarisco.it


Fonte immagini : www.racine.ra.it/curba/giornale_storico/index.htm 





























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