L'ILLUSTRAZIONE DEL LIBRO DELL'APOCALISSE POST-RINASCIMENTALE
L'Apocalisse figurata : eclisse e ritorno di una fortuna
di Alessio Varisco
A questo punto
del nostro lavoro ci troviamo a dover riprendere una tesi che
avevamo enunciata nel primo capitolo: la relazione
privilegiata tra l’illustrazione incisoria dell’Apocalisse e l’arte
rinascimentale. Questo nostro compito è dettato dal desiderio di spiegare
anche il perché di un’assenza di Apocalissi
figurate significative nei secoli immediatamente successivi al periodo
rinascimentale.
È certamente un
dato di fatto che le Apocalissi di
Dürer
e di Duvet sono superiori a qualsiasi elaborazione incisoria successiva in
questo campo, anche se certamente non sono mancate dopo opere di vero
pathos e approfondimenti di
particolare interesse.
Tornare
sul binomio Apocalisse-Rinascimento significa
ribadirne le componenti cultuali, storiche e culturali intrinseche.
«L’information essentielle qu’il faut apporter ici est que la plus grande
époque de diffusion dans l’Europe latine des craintes et des espérances
eschatologiques se situe entre le milieu du XIVème
siècle et le milieu du XVIIème: elles
ont accompagné la naissance du monde moderne»[1].
Le ragioni che
Jean Delumeau porta,
per avvalorare la propria affermazione, nascono dall’esame di tutti i
complessi ambiti della storia: da quello politico a quello sociale, dal
culturale allo spirituale.
In primo luogo
alla radice del fenomeno troviamo alcuni fattori storici:
«Des
malheurs en chaîne s’abattirent sur l’Occident: retour de la peste,
multiplication des disettes et des révoltes, des sorcières et blasphèmes,
avance turque, Grand Schisme, le “scandale des scandales”, péniblement
colmaté, mais suivi au début di XVlème
siècle par la cassure de la Réforme. Tous ces faits, en s’additionnant,
créèrent dans le psychisme collectif un climat d’angoisse et d’attente
inquiète»[2].
Tra questi
fattori lo storico sottolinea i movimenti di
Riforma e di Controriforma, per l’enorme carico di incomprensioni, di odio e
dì fanatismo che feriscono aspramente la Cristianità.
«Cette remise en lumière des angoisses eschatologiques que connut l’Europe de
la Renaissance aide à comprendre pourquoi les principaux Réformateurs ne
cherchèrent pas à se réconcilier avec Rome. Pour eux, et notamment pour
Luther, Rome était la “grande prostituée” e la “Babylone” dont pane
l’Apocalypse, et le pape était t’Antéchrist»[3].
La lettura
storicistica dell’Apocalisse che con Gioachino da
Fiore, Tommaso di Lyra, Alessandro di Brema e
altri si afferma in questo periodo si porge se non come l’unica, certo come la
più accattivante esegesi del testo proprio per il disperato bisogno di
giustizia e di sicurezza degli uomini del tempo.
Ma non si comprenderebbe tanto interesse per
l’Apocalisse se non si considerasse la rivoluzione operata nel Rinascimento,
in campo culturale, dai nuovi mass-media.
«Par
mass media de l’époque, il faut
entendre notamment la prédication (par exemple celle, au début du
XVème siècle, d’un saint Vincent
Ferrier qui s’identifiait lui-même à l’ange annonciateur du Jugement évoqué ou
ch.
XIVème
de l’Apocalypse»[4]
Non soltanto
l’opera dei grandi predicatori costituisce però il mezzo per
veicolare il pensiero apocalittico del tempo:
«A la
prédication s’ajoute l’impact du theàtre
religieux, et bientôt celui de la gravure et de l’imprimerie. Le
ròle de cette dernière a été évidemment capital!
à cet égard. On connait
quelque 337 éditions de la Bible de Luther publiées du vivant mme du
Réformateur (ce qui correspond a au moins 350.000 volumes). Jamais par
conséquent le texte de l’Apocalypse n’avait connu une telle diffusion. Mais,
en autre, la Bible de Wittenberg et les éditions faites d’après
cile comportaient une copie légèrement modifiée de
1’Apocalypse gravée par
Dürer
en 1498»[5].
Se il teatro
religioso, l’invenzione della stampa e la diffusione dell’incisione
veicolano il Libro di Giovanni ad un pubblico
sempre più vasto, l’illustrazione di Dürer, di grande impatto emotivo e di
estrema modernità, fornisce certamente un buon appoggio a tale diffusione.
La
conclusione è chiara:
«Les
plus puissantes et les plus nombreuses réalisations iconographiques consacrées
à l’Apocalypse, à l’Antéchrist et au Jugement dernier datent toutes du temps
de la Pré réforme et de la Réforme, depuis la tapisserie d’Angers (seconde
moitié du XIVème siècle)
jusqu’à la grande fresque de Michel-Ange au mur de fond la
Sixtine (milieu du
XVIème siècle»[6].
Motivare il
“silenzio” nei confronti dell’Apocalisse da parte dell’arte
dei secoli XVII e XVIII è il compito non semplice
del secondo punto di questo paragrafo. Anche per
mancanza di studi critici su tale fenomeno possiamo soltanto limitarci ad
alcune ipotesi, servendoci di quanto detto sul Rinascimento per cercare di
capire che cosa, e in che misura, è mutato nei secoli successivi.
Dicevamo sopra
di Dürer.
Ironia della sorte: il grande
veicolatore dell’Apocalisse è anche uno dei primi responsabili di
questo successivo “silenzio” dell’arte nei confronti del testo giovanneo; è
cosa certa infatti che le Apocalissi figurate del ‘600 e del ‘700, quasi
soggiogate dal genio norimberghese, ricalcano
pedestremente la sua illustrazione:
«Les
artistes a court d’invention se sont immédiatement emparés de ces gravures»[7].
Ma
tale generale appiattimento dell’illustrazione dell’Apocalisse sul modello
düreriano, così come esso è ripreso dalla Bibbia di
Wittenberg, non è solo frutto del valore intrinseco di tale modello.
Basterebbe considerare l’originalissima opera di Jean Duvet per dimostrare che
Dürer può essere ripreso in modo altamente creativo. I motivi di tale mancanza
di nuove rielaborazioni iconografiche sono dunque altri; a noi pare di
intravederne alcuni.
Innanzitutto
l’incisione del ‘600 e del ‘700 si prefigge fini
ormai molto diversi rispetto al suo sorgere; legata all’editoria essa nei
secoli XV e XVI vuole esprimere figurativamene
un’idea, veicolare un messaggio filosofico o teologico: essa è ricerca di un
significato spirituale assoluto. Quanto ciò sia vero lo si
deduce senz’altro dall’originale rapporto tra acquaforte ed alchimia di cui
parla Calvesi nell’articolo già citato nel
capitolo IV di questa tesi:
«Il concetto
dell’arte come “imitazione della natura” teorizzato nel Rinascimento è stato
inteso riduttivamente come imitazione delle
apparenze esterne: ma era in realtà più profondo,
trattandosi di “imitazione” come aderenza ad un modello operativo (nel senso,
appunto, che la parola assume nel pensiero
dell’Imitatio
Christi) ovvero come emulazione dei
“processi” creativi della natura.
Nell’ambito dì particolari tecniche, come
l’acquaforte, le analogie diventano persino sorprendenti. Il procedimento
trasfigurativo della memoria ovvero il mitico
Mercurio o argento vivo, o “acqua mercuriale”, e che era poi idealmente e
fisicamente un solvente, assumeva vari nomi, tra cui quello, proprio di “acquafortis”.
Nel procedimento, poi, le suggestive
coincidenze possono essere numerose: abbiamo una lastra di metalli, un acido
che la corrode (come l’acqua mercuriale dissolve la “materia prima”), abbiamo
il fuoco che scalda e affumica il metallo, abbiamo le fasi, le attese, i
misteriosi passaggi della materia alla “forma”»[8].
Con il
‘600 le cose cambiano: nascono i “generi artistici”:
«Per la vastità dei suoi assunti ideologici e la
molteplicità delle sue funzioni, nonché per la
composizione della società cui si rivolge, l’arte del seicento presenta una
larghissima gamma di fenomeni fortemente differenziati. Poiché non si tratta
più di realizzare forme che abbiano un valore
assoluto ed eterno»[9].
Nasce anche,
con il barocco, un nuovo concetto di “mimesi” della realtà:
«Le poetiche barocche riprendono, rivalutano e
sviluppano la concezione classica dell’arte come “mimesi” o imitazione; l’arte
è rappresentazione, ma lo scopo della rappresentazione non è di meglio
conoscere l’oggetto che si rappresenta, bensì di impressionare, commuovere,
persuadere. A che cosa? A nulla di preciso: né la verità di fede né la bontà
di una concezione politica si possono dimostrare o imporre con un dipinto o un
edificio»[10].
Certamente
un’arte che presuppone la realtà fisica come modello unico, e che non abbia
comunque in sé la ricerca di un assoluto, è ben
lontana dal poter e voler illustrare l’Apocalisse di Giovanni che presuppone
una presa di distanza dal visibile e dal contingente per giudicarlo alla luce
dell’eterno.
Nel
‘700 l’arte si presenta, se possibile, ancor più incompatibile con
l’illustrazione di questo Testo.
«Il pensiero illuministico pone come suo
fondamento primo la ragione, la cui forma perfetta è la scienza [...]. Nei
confronti della scienza, che diventa l’attività-pilota, l’arte ha tre
possibilità: 1) differenziarsi, seguitando e portando alle ultime conseguenze
le proprie tecniche tradizionali; 2) adeguarsi, adottando metodo di ricerca di
tipo scientifico; 3) fondarsi, essa stessa, come scienza autonoma,
cioè scienza del bello, estetica»[11].
Nessuna di
queste tre vie può essere idonea a rappresentare figurativamente l’Apocalisse:
essa non può essere illustrata da un’arte totalmente fantastica, essendo
l’Apocalisse lettura simbolica di una realtà assoluta; essa non può essere
illustrata da un’arte di tipo “scientifico” essendo l’Apocalisse superamento
metafisico di ogni scienza umana; essa infine non
può piegarsi ad esigenze puramente estetiche in quanto la bellezza della Sposa
dell’Agnello è ultraterrena e non sensorialmente fruibile.
Con tali
argomenti abbiamo esaurito il discorso? Certamente
no. Motivi sociali e religiosi hanno
contribuito ad ostacolare l’avvicinamento dell’artista al testo
dell’Apocalisse nel ‘600 e nel ‘700.
Le motivazioni
di ordine sociale non sono certo da ricercarsi in
un’assenza di quelle calamità che nel Rinascimento avevano spinto il popolo
alla ricerca di speranze escatologiche e di profezie liberatorie; si tratta
però di una diversa lettura che ditali calamità offre proprio la religione.
Riportiamo, a questo proposito, un significativo
brano di Sciolla:
«Tra la fine del Cinquecento e gli inizi del
Seicento, l’iconografia della guerra viene anche utilizzata per
rappresentazioni di significato devozionale. Due
sono le tipologie della guerra a sfondo devozionale:
la rievocazione della battaglia sacra,
veterotestamentaria, e la ricostruzione dell’episodio bellico
storicamente accaduto, nello svolgimento del quale
è ritenuto però determinante l’intervento divino. La rievocazione della
battaglia sacra illustra di preferenza quegli episodi biblici dove è descritto
l’intervento dell’angelo del Signore che capovolge l’esito della guerra.
Questo episodio significa con molta chiarezza la vittoria
sul male, l’intervento del divino nell’umano e la necessità di mantenere il
timore di Dio, gli episodi biblici prediletti dagli artisti, tra la fine del
Cinquecento e gli inizi del Seicento, sono quelli di Giosué (in
particolare quelli descritti da Giosué, 12) e quelli di
Sennacherib (Isaia 36-37). Queste tematiche,
come dimostrano le opere pittoriche (tra le altre: Taddeo
Zuccari, Caprarola, Palazzo
Farnese; Antonio Tempesta, incisione; Onofrio di
Lione, Napoli, Chiesa dei Santi Severino e Sossio; Pietro Paolo Rubens,
Monaco, alte Pinakotek; Nicolas
Cochin, incisione) si prestano a visioni
apocalittiche, fortemente drammatiche e coinvolgenti»[12].
Ciò che
allontana gli artisti dal Libro dell’Apocalisse non
è dunque la mancanza di una concezione della storia in linea con la teologia
di Giovanni, ma la lontananza dalla forma estetica di tale teologia.
Quando al simbolo si preferisce una lettura diretta e
morale della realtà, non ci si accosta all’Apocalisse ma a testi meno
criptici, più chiaramente esemplari ed etici.
Tutta la Chiesa
controriformista prende inoltre in questo periodo le distanze da una
diffusione, accompagnata da libere interpretazioni, del Libro dell’Apocalisse,
interpretazioni che spesso sfociano in profezie
arbitrarie e anticlericali. L’intento dei grandi pastori della Chiesa del
‘600 e del ‘700 è di fornire messaggi semplici ma rigorosi al popolo di
Dio che, in balia dei potenti della terra, della fame, della peste e delle
varie eresie, ha bisogno di una guida spirituale chiara e concreta.
«Giorno per giorno
l’azione più continua dei parroci della controriforma è l’assistenza ai
parrocchiani nelle loro attività più umili. Così la sorveglianza dei costumi,
la riprovazione dei recalcitranti di ogni risma i
giocatori, danzatori, bevitori, e persino spiriti forti che non temevano di
affrontare il parroco»[13].
Un testo come
l’Apocalisse non sembra servire, in quest’epoca, come adeguato catechismo dei
poveri e dei semplici. I Gesuiti, che si impegnano
ad una lettura più scientifica del testo giovanneo, pongono un’ulteriore
distanza tra esso e la sua fruizione popolare. Per i
teologi l’Apocalisse è un’impresa esegetica impegnativa e delicata,
volta a depurarla dai vari storicismi; per la gente comune sempre più questo
libro diventa uno scrigno proibito di cui si è persa la chiave. A questo punto
è chiaro che, per l’artista, l’illustrazione dell’Apocalisse non trova più un
pubblico al quale rivolgersi né un terreno culturale propizio ad un’opera
d’arte interprete della complessa simbologia giovannea.
Non abbiamo,
con queste brevi osservazioni, certamente esaurito l’argomento circa il vuoto
di apocalissi figurative nei secolo XVII e XVIII,
ma abbiamo almeno ipotizzato alcune possibili cause. Passiamo quindi a
considerare che cosa sia successo nel XIX secolo,
quali fatti storici, culturali ed artistici tali da provocare un ritorno
dell’arte all’Apocalisse.
L’evento
storico che segna la fine di un’epoca è sicuramente
la Rivoluzione Francese. Nel 1789 succede qualcosa senza precedenti nella
storia francese, la cui portata ha ripercussioni in tutta Europa, a livello
anche spirituale, difficilmente calcolabili.
«Si
delineano già un insieme di problemi e alcune piste
da seguire. Così il problema delle forme specifiche della religiosità
rivoluzionaria partendo dai culti civili popolari (la triade
Marat-Lepeletier-Chalier, gli eroi bambini) come
quella del millenarismo e del profetismo
rivoluzionario, da riprendersi non soltanto basandosi sui noti dossier di
Catherine Théot,
Dom Gerle, o Suzanne
Labrousse, ma anche sulla base degli esempi
minori, come quello della famiglia dei Bonjour,
giansenisti ostinati di Fareins
vicino a Lione, per i quali la Rivoluzione ha
realizzato l’arrivo dell’evento atteso.
[...] Questo per gli atteggiamenti di fronte alla
vita ... ma non si potrebbe dire altrettanto circa gli atteggiamenti di fronte
alla morte? Anche qui la distruzione momentanea del cerimoniale tradizionale,
ma anche il contatto quotidiano, tra gli ardori di quel tempo, con gli ideali
rivoluzionari della morte eroica o del coraggio civile di fronte alla morte
stessa, non hanno potuto che aprire la via al culto laicizzato dei morti, che
cercava la sua affermazione fin dall’orizzonte
neoclassico degli anni ‘70 e che dominerà il XIX secolo»
[14].
La coscienza
degli artisti, durante il periodo successivo alla Rivoluzione Francese, si
caratterizza inoltre come una riflessione sulla fugacità degli ideali umani:
«Se i rivoluzionari del 1789 erano stati guidati
dai dettami rousseauiani di cui erano pieni i loro
cuori, gli agitatori politici del XIX secolo
andavano imparando un nuovo linguaggio. Gli avvenimenti
che avevano caratterizzato gli anni ‘90 e in particolare il regno giacobino
del terrore in Francia, se non avevano distrutto il credo nella libertà e
perfino la fede nelle virtù innate dell’uomo, avevano reso impossibile pensare
che tali virtù potessero essere liberate da una semplice rimozione delle
limitazioni esistenti. Ciò che Baudelaire
descrisse come un “senso di perdita irreparabile” ebbe un significato vero e
proprio allorquando venne riferito al ricordo dei
sogni utopistici del secolo precedente. Per coloro che credevano ancora in ciò
che il poeta Keats descrisse come la “sacralità
degli affetti del cuore” vi era un senso persistente di disillusione di fronte
al corso degli avvenimenti. Essi erano diventati
più consapevoli della tragedia e della miseria di guerre e rivoluzioni che non
dei risultati da queste ottenuti»[15].
Se questo è lo
stato d’animo e lo spessore esistenziale dell’artista, nell’Ottocento, legato
alla storia e alla cultura, l’arte muta anch’essa i propri presupposti.
All’Illuminismo segue il Neoclassicismo; a questo il Romanticismo. Comune agli
ultimi due il desiderio di una realtà “altra” dalla presente, o
comunque una visione dell’arte come suscitatrice di
verità eterne, al di là del corso quotidiano degli eventi.
«Il Neoclassicismo non è un riallacciarsi alle
fonti della storia, al classico: è invece la coscienza dell’impossibilità del
recupero del classico come storia, e la malinconia,
il senso del presente come vuoto che ne discendono»[16].
Il Romanticismo
fa proprio il carico di questa malinconia: sentimento dell’infinito
contrapposto con struggimento alla finitudine umana. L’uomo che lotta per dare
un senso alla storia è l’eroe. Tale eroe,
al di là dei grandi sogni risorgimentali, non può
mutare gli eventi. Se lo può è solo a patto di un
sacrificio totale: spesso ciò che rimane è soltanto la bellezza di un gesto
che fa dell’eroe il protagonista di una tragedia.
L’artista si
pone inoltre un vero e proprio problema di
identità.
«Come disse il paesaggista
Caspar David Friedrich “l’artista non
dovrebbe dipingere solo quello che vede davanti a
sé, ma anche quello che vede all’interno di sé. Se
egli tuttavia non vede niente all’interno di sé, allora dovrebbe fare a meno
di dipingere anche ciò che vede davanti a sé”. Per conservare
questa ispirazione interiore l’artista doveva
prepararsi a correre il rischio dell’isolamento, e questo fu certamente il
prezzo pagato da Friederich e
Blake»[17].
La solitudine
come premessa per la realizzazione di un’arte vera
sembra scontrarsi con il desiderio dell’artista di incidere nella storia.
Nell’Ottocento enorme importanza assumono infatti
le mostre organizzate dalle accademie.
«In questo periodo la committenza privata non
scomparve, ma diventò senza dubbio uno sbocco meno
significativo della mostra»[18].
Sorge quindi un
interrogativo sull’identità dell’artista: riesce egli a rimanere sé stesso
presentandosi ad un vasto pubblico? Ma, soprattutto, come
viene recepita la sua opera?
«Se anche un
artista raggiungeva il successo, egli non poteva più essere certo di quale
tipo di successo si trattasse e di quale uso si
facesse del suo lavoro.
Il destino dell’artista poteva essere quello del
poeta descritto da Kierkegaard in Aut-Aut (1843).
Qui il poeta è colui che “assomiglia alle vittime
sventurate che il tiranno Falaride imprigionò in un toro di ottone e torturò a
fuoco lento. Le loro grida non potevano giungere alle
orecchie del tiranno per riempire di terrore il suo cuore, giacché, per lui
avevano il suono di una dolce musica”»[19].
L’artista
comprende che ogni tipo di denuncia, di ricerca sofferta, di visione interiore
può non giungere a dire ciò per cui, e da cui, essa
è nata. Alla luce di questa riflessione, e degli altri motivi cui
abbiamo accennato, una ripresa del testo
dell’Apocalisse come libro da tradurre in
figura è fenomeno comprensibile. Ciò che però muta radicalmente
rispetto al Medioevo e al Rinascimento è lo spirito, e l’intenzione, con cui
l’illustratore si accosta al testo: egli non desidera più spiegarlo agli
altri, ma misurarsi con esso in una ricerca
solitaria di identità spirituale. Se l’arte è misura dell’invisibile,
l’Apocalisse che ci parla di realtà escatologiche è per l’artista una Parola
che lo sprona a cercare nuove forme di espressione
e una ritrovata vena simbolista.
Se in questo
stesso periodo Vogel, Bleek,
Schleiermacher, Vòlter
e tutta la
Forrnegeschichte
analizzano il testo di Giovanni alla ricerca di
ipotetiche fonti letterarie cui ricondurre la Parola; se
Drietrich, Gurgkel,
Bousset e tutta la
Religions
geschichte pongono dei confronti fra
l’Apocalisse e le varie mitologie ricavate dalle diverse culture religiose,
l’arte, non potendo appellarsi ad un’esegesi biblica più immediata e aderente
alle attese vitali del popolo cui essa si rivolge, non ha altra scelta che
quella di porsi in modo soggettivo davanti al mistero dell’ultimo libro della
Bibbia. Ogni risultato esegetico che ne derivi può essere discutibile, ma
nasce senz’altro da una ricerca autentica e sofferta.
[1]
JEAN DELUMEAU, Prefazione di F.
Van der
Meer, op.
cit., p.
9.
«L’informazione essenziale che bisogna dare qui
è che la più grande epoca di diffusione
nell’Europa latina delle paure e delle speranze escatologiche si situa entro
la metà del XIV secolo e la metà del XVII: esse hanno accompagnato la
nascita del mondo moderno».
[2]
Ibidem.
«Dei disastri a catena s’abbatterono
sull’Occidente: ritorno della peste, moltiplicazione delle carestie e delle
rivolte, delle streghe e degli eretici, avanzata turca, il Grande Scisma, lo
‘scandalo degli scandali”, a stento colmato, ma
seguito all’inizio del XVI secolo dalla frattura della Riforma. Tutti questi
fatti, sommandosi, crearono nell’inconscio collettivo un clima
di angoscia e di attesa inquieta».
[3]
Ibidem.
«Questa rimessa in luce delle angosce
escatologiche che conobbe l’Europa del Rinascimento
aiuta a comprendere perché i principali riformatori non cercarono di
riconciliarsi con Roma. Per essi, e soprattutto
per Lutero, Roma era la “grande prostituta” e la “Babilonia” di cui parla
l’Apocalisse, e il papa era l’Anticristo».
[4]
Ibidem.
«Per mass-media dell’epoca bisogna intendere
soprattutto la predicazione (per esempio quella, all’inizio
del XV secolo, di un san Vincenzo
Ferreri che si identificava nell’angelo
annunziatore del Giudizio evocato in
Ap. 14».
[5]
Ibidem.
«Alla predicazione si aggiunge l’impatto del
teatro religioso, e presto quello dell’incisione e della stampa. 11 ruolo di
quest’ultima è stato evidentemente di importanza
capitale al riguardo. Si conoscono 337 edizioni della
Bibbia di Lutero pubblicate lui vivente (ciò corrisponde ad almeno
350.000 volumi). Mai per conseguenza il testo dell’Apocalisse aveva
conosciuto una tale diffusione. Ma, inoltre, la Bibbia di
Wittenberg, e le edizioni dopo di
essa, comportavano una copia leggermente
modificata dell’Apocalisse incisa da Dùrer nel
1498».
[6]
Ibidem.
«Le più possenti e numerose realizzazioni
iconografiche consacrate all’Apocalisse, all’Anticristo e al Giudizio finale
sono datate tutte al tempo della Preriforma e
della Riforma, dopo l’arazzo d’Angers (seconda metà
del XIV secolo) fino al grande affresco di
Michelangelo sul muro di fondo della Sistiria
(metà del XVI secolo)».
[7]
7Louis REAU, op. cit.
p. 679. «Gli artisti a corto d’ispirazione si sono
immediatamente impadroniti di queste incisioni».
[8]
Maurizio CALVESI, op.
cit.,
p. 10.
[9]
Giulio CARLO ARGAN,
Storia dell’arte italiana, Voi.
III, Sansoni, Firenze 1968, p. 259.
[10]
Ibidem, p. 258.
[11]
Ibidem, p. 375.
[12]
Gianni C. SCIOLLA, Farne, epidemie, guerre e pietà nell’iconografia
religiosa tra Cinquecento e Seicento, contributo al volume a cura di Jean
Delumeau, Storia vissuta del popolo cristiano,
SEI, Torino 1985, p. 559.
[13]
ALAIN MOLINIER, Parroci e parrocchiani
della Controriforma, Ibidem, p. 596.
[14]
Michel V0VELLE,
Da Vendernrniaio
a Fruttidoro anno 11. L’altra “scristianizzazione”,
Ibidem, p. 690.
[15]
William VAUGHAN, L’arte romantica,
Mazzotta, Milano 1982, pp. 31-32.
[16]
Giulio CARLO ARGAN, op.
cii., p.
456.
[17]
William VAUGHAN, op.
Cit., p. 34.
[18]
Ibidem, p. 35.
[19]
Ibidem.
Fonte : scritti dell'artista prof. Alessio Varisco , Técne Art Studio .
Prof. ALESSIO VARISCO
Designer - Magister Artium
Art Director Técne Art Studio
http://www.alessiovarisco.it
Fonte immagini : www.racine.ra.it/curba/giornale_storico/index.htm
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