L'ILLUSTRAZIONE DELL'APOCALISSE
Dal libro miniato ai libri tabellari
di Alessio Varisco
Apocalisse , Beatus di Liébana, miniatura.
In articolo
iniziamo finalmente ad occuparci dell’illustrazione dell’Apocalisse, e
precisamente dei libri miniati medievali e dei primi testi tabellari o
xilografici del XV
secolo.
Dopo una breve
introduzione volta a spiegare il perché della nostra breve digressione
fuori dal campo dell’incisione, in quello della
miniatura medievale, ci occuperemo nel primo paragrafo dell’illustrazione
miniata dell’Apocalisse. Di questa presenteremo le principali edizioni,
cercando di comprenderne la proposta iconografica, soprattutto la resa
spaziale e la scansione del racconto. Tale ricerca è premessa al secondo
paragrafo nel quale, presentando in generale le prime Apocalissi xilografiche,
e in particolare l’esemplare della Biblioteca estense di Modena, inizieremo un
confronto fra l’illustrazione dell’Apocalisse nel Medioevo e quella del
Rinascimento per poter accedere poi alla
presentazione della svolta düreriana con maggior consapevolezza iconografica.
1.
INTRODUZIONE
Già nel primo
capitolo abbiamo parlato del passaggio dall’illustrazione dei codici
all’illustrazione xilografica del libro, passaggio che si è verificato
nel XV secolo con l’invenzione della stampa e,
ancor prima o per lo meno contemporaneamente, con il diffondersi del metodo
d’incisione xilografica. Vogliamo riprendere qui il discorso.
Il libro
tipografico, con la relativa illustrazione, non nasce dal nulla: il
manoscritto, e in particolare il manoscritto
miniato, precedendolo, ne influenza i caratteri.
«L’iconographie des premiers livres imprimés s’inspire souvent directement de
celle des manuscrits. En France, les livres de luxe sont mme pourvus d’une
décoration marginal de feuilles d’acanthe, mêlées de grattes ou sont ornés de
bordures historiées. En outre, pendant tout le
xv siècle, libraires, éditeur
ou possesseurs de livres feront le plus souvent colorier les gravures
d’illustration. Dans les exemplaires de luxe, tirés sur parchemin, les
gravures sont parfois entièrement recouvertes par de véritables miniatures,
peintes à la gouache. En cela, on voit que les imprimeurs du XV siècle
essayaient de donner aux produits de la presse l’apparence le plus proche
possible de celle des manuscrits»[1].
Se tanto
stretti sono i legami, storici e formali, tra libro tipografico e libro
miniato, parlare dell’illustrazione dell’Apocalisse all’interno del libro a
stampa senza tener conto della miniatura medievale sarebbe non voler prendere
visione della radice dalla quale esso deriva.
Nel dare un giudizio sulle varie opere d’arte incisoria che illustrano
l’ultimo libro della Bibbia ci sembra importante
poter rimandare a talune risoluzioni grafiche dei miniaturisti medievali.
Quand’anche infatti gli artisti incisori non
abbiano conosciuto i codici miniati che presentiamo, il fatto che sia la
miniatura che l’incisione abbiano in comune il problema di tradurre
figurativamente il testo dell’Apocalisse in una serie di tavole tra loro
legate in un libro, rende il confronto tra i due campi dell’illustrazione una
ricca occasione di analisi critica. Se è vero che il miniaturista ha a sua
disposizione la gamma dei colori della quale è
invece privato l’incisore, è anche vero che il problema della resa strutturale
del racconto e della resa spaziale delle visioni apocalittiche all’interno
della pagina sono comuni ad entrambi.
Parlare
di illustrazione miniata medievale significa
parlare di un mondo, per tanti aspetti, opposto a quello rinascimentale, come
opposte sono le due ricerche estetiche. Confrontare le illustrazioni miniate
dell’Apocalisse dell’età medievale con le incisioni che accompagnano
l’Apocalisse a stampa dell’era moderna significa
allora anche porre in relazione tra loro due modi di contemplare Dio, di
vivere la storia della salvezza e di meditare sul destino ultimo dell’umanità
e del cosmo secondo due diverse, a volta opposte, prospettive.
Apocalisse , Beatus di Liébana, miniatura.
2. L’APOCALISSE NELLA
MINIATURA MEDIEVALE
Otto Pächt
nella sua opera dedicata alla miniatura medievale, riserva all’illustrazione
dell’Apocalisse un intero capitolo. Egli motiva così questa sua scelta:
«Il prototipo delle visioni mistiche della monaca
renana Ildegarda, cioè
l’Apocalisse di Giovanni esiliato
a Patmos, ha un contenuto che trascende in gran
parte la sfera dell’esperienza visibile, ma la sua origine è affatto diversa:
essa non va ricercata nella freddezza razionale della speculazione teologica,
e sia pure di una teologia con forti venature mistiche, ma nel clima peculiare
di una civiltà senza immagini. Un clima che accomuna l’autore dell’Apocalisse
agli altri visionari ebraici vissuti prima di lui, come gli autori dei libri
di Daniele, di Enoch e così via. Le fantasie
surriscaldate di questo tipo di letteratura non conoscevano i limiti del
visibile. E fu proprio questa sospensione della logica ordinaria, la
sfrenatezza di questi sogni ad occhi aperti e di queste fantasie febbrili a
stimolare per tutto il Medioevo — e significativamente non nell’Oriente greco
ma nell’Occidente latino — la fantasia creatrice di
immagini. Poiché questo contenuto visionario si
ritrova in molti libri illustrati di specifica impronta medievale, tra i quali
non mancano importanti capolavori, non possiamo fare a meno di esaminare l’irrealismo
fantastico di queste creazioni figurative»[2]
Da questa lunga
citazione vogliamo isolare alcuni punti.
L’Apocalisse
nasce da una cultura, quella ebraica, che si
configura come priva di immagini; le visioni dei mistici ebraici sono dunque
«fantasie surriscaldate» che non conoscono i «limiti del visibile».
Ma, nel recepire queste visioni, l’uomo del
Medioevo occidentale, incapace di pura astrazione, si precipita a
concretizzare quelle fantasie, nel tentativo di ricondurre al visibile quanto
con il visibile non ha mai avuto nulla a che fare.
Ciò risponde in
pieno all’estetica medievale, sforzo disperato di visualizzare l’assoluto
tramite la creazione di un universo composito di forme “surreali”.
«Che significano le
comiche mostruosità, le bellezze sorprendentemente orride e gli orrori
mirabilmente belli che si presentano nel chiostro alla vista dei fratelli che
leggono e osservano? A che servono quelle scimmie immonde,
quei leoni inferociti, quegli orribili centauri, quegli uomini
selvaggi, quelle tigri maculate, quei guerrieri in lotta, quei cacciatori che
strepitano? Vedi una testa con molti corpi e un corpo
con molte teste. Qui si mostra un quadrupede con la coda di serpente, là un
pesce con il capo di un quadrupede. Da quella parte una
bestia che davanti è cavallo e dietro capra, da questa un animale con
le corna che ha il posteriore di un cavallo. In breve, dappertutto si mostra
una tale varietà molteplice e meravigliosa a un
tempo, di forme disparate, che si legge con miglior diletto nelle pietre che
nei libri, e tutto il giorno si ammirano quelle stranezze più volentieri di
quanto si osservino i comandamenti di Dio. Gran Dio, se
non ci si vergogna delle buffonate, perché almeno non se ne valutano le
conseguenze?»[3].
In questo
brano, tratto dalla lettera di Bernardo di Chiaravalle
(+ 1153) all’abate Guglielmo di St.
Thierry, e ripreso da Gerd
Heinz-Mohr proprio all’inizio della sua
introduzione al Lessico
di iconografia cristiana, leggiamo un
giudizio severo sulle decorazioni della chiesa abbaziale di
Cluny e una domanda: «A che servono?». Se è vero
che l’Occidente medievale si diletta con queste fantasie più di quanto
«osservi i comandamenti di Dio», ciò è dovuto al
barbarico desiderio di cibarsi di Dio e del suo regno, già fin d’ora.
Un po’ come voler alzare furtivamente il velo che ancora
separa questo dall’altro mondo. Forse tutto ciò serve ad alleviare
l’angoscia di uomini che, volti a Dio, se ne
sentono ancora separati, terrestri come essi sono.
Da quanto si è detto si
comprende che all’illustrazione medievale dell’Apocalisse non è certo mancata
quella “diffusa sensibilità popolare” nella quale, all’inizio del li capitolo
di questa tesi, avevamo stabilito trovarsi la sorgente prima di illustrazioni
con la qualità di capolavoro artistico. Tale sensibilità è poi
nel Medioevo supportata da una lettura
spiritualizzante dell’ Apocalisse (vedi Metodio, Ticonio,
Agostino, Primasio e Beda)[4].
Per l’uomo
medievale l’Apocalisse è un libro di teologia della
storia, espressa attraverso un linguaggio simbolico, e a tale linguaggio si
richiamano gli artisti del tempo che traducono in figure tale libro.
Il
Commentario all’Apocalisse del
Beatus di Liébana sembra nascere proprio come
libro illustrato e si trova al centro di uno dei più importanti cicli
figurativi dell’Apocalisse. Il testo si presenta come commento
spiritualizzante all’ultimo libro della Bibbia: in esso
vengono citate le esegesi di Girolamo, Agostino, Ambrogio, Fulgenzio,
Gregorio, Ticonio, Ireneo,
Apringio, Isidoro e Vittorino. Siamo in Spagna, alla fine dell’VIII
secolo. Prima di allora,
«gli esempi classici erano ancora troppo forti
perché il contenuto metafisico dell’Apocalisse potesse esprimersi in forme
originali: gli illustratori si limitano a mettere in scena il tramonto della
logica intuitiva naturale, propria del mondo antico, come
risulta per esempio dalle Apocalissi di Cambrai
e di Treviri, copie di manoscritti paleocristiani»[5].
Nelle miniature
del Beatus di Liébana succede qualcosa di nuovo:
in esse avviene l’abbandono della rappresentazione
naturalistica romana ed ellenistica, con il raggiungimento di una forma
espressiva totalmente cristiana, per la quale la natura trasfigurata rivela lo
Spirito.
«On
veut conférer à l’art une mission nouvelle: celle de traduire la dimension
spirituelle de l’homme chrétien. On cherche à représenter le sacré. Or, de cet
art pour lequel les apparences sensibles n’ont plus cours, de cette peinture
qui n’a que faire du naturalisme, les miniatures du cycle de
Béatus son peut-étre
l’exemple le plus spectaculaire, pour ne pas dire le plus accompli.
Ou y trouve, à l’état pur, cette quête qui vise à
dématérialiser les images, afin de les réduire à une sémiotique, à une
“figuration abstraite”»[6].
Tralasciando di
approfondire qui la storia complessa dei diversi manoscritti del Beatus, il
cui originale, come già abbiamo detto, risale all’vili
secolo e i cui sei principali esemplari pervenutici sono stati eseguiti
tra il X e il XII secolo, ci preme qui sottolineare alcuni risultati
stilistici generali dì questa famiglia di manoscritti mimati.
Il primo e
principale risultato che intendiamo sottolineare è
l’urgenza, avvertita dall’illustratore, di creare uno stile atto ad esprimere
la peculiarità delle visioni apocalittiche.
«Au
mme titre que l’auteur de l’Apocalypse avait créé un style en réduisant son
écriture à une squelette de syntaxe, d’où était bannie toute rhétorique, de
méme les peintres de premiers
Béatus vont-ils dépouiller le dessin jusqu’à ne conserver qu’une
schématisation hautement semplifiée»[7].
Questa
semplificazione e schematizzazione del disegno è il veicolo attraverso il
quale la realtà naturale viene sintetizzata ad
esprimere il segno dello Spirito. A «une graphie
simplifiée et
volontairement inexpressive»[8]
nelle figure e nei panneggi, corrisponde in generale un particolare
grafismo pittorico, per il quale:
«Tout
le registre de l’expression graphique se fonde sur la ligne et le pointillé,
plus que sur la couleur, laquelle fait une apparition assez sommaire, mais
puissante»
[9].
Si tratta di
una raffinatissima ricerca di rarefazione della
materia, ben lontana da qualsiasi forma di primitivismo.
«En
réalité, malgré l’aspect schématique et la simplification des formes, on
comprend qu’il faut se garder de parler de maladresse face à cet art. Pas plus
qu’on ne doit y chercher ni une ressemblance, une vérité des gestes, il ne
faut évoquer une qualité du rendu ni un modelé quelconque. Nous sommes
résolument dans une expression conceptuelle, bidimensionnelle et dans un
espace qui récuse toute perspective optique, pour le remplacer par une
perspective spirituelle»[10].
La
rappresentazione dell’invisibile può avvenire solo per via di simbolo. Per
diventare simbolica la figura deve perdere la sua valenza di rappresentazione
naturalistica di realtà terrene tridimensionali.
Conclude
lo Stierlin:
«On a
quitté notre espace tridimensionnel autant que notre temps historique, pour
entrer dans l’éternité de la Révélation»[11].
E,
sempre riferendosi al ciclo del Beatus, Pächt, a proposito dell’Adorazione
dell’Agnello di Santo Domingo de Silos parla di «sostanziale novità
dell’invenzione figurativa spagnola»[12].
Con la posizione centrale dell’agnello, fulcro
compositivo dello schema a raggiera della tavola, e attraverso la
contemporanea, contraddittoria, visione frontale della gloria in alto,
l’artista spagnolo raggiunge il suo scopo: «la teofania dell’Apocalisse
Spagnola si svolge in nessun luogo e dappertutto»[13].
La pagina
miniata, luogo non più di una mimesi della realtà, ma
contemplazione di una idea, è l’esito di una sublimazione figurativa che fa
della famiglia spagnola del Beatus una tradizione visiva del non-spazio e
non-tempo del racconto giovanneo, di cui non si potrà non tener conto
analizzando tutte le altre successive illustrazioni dell’Apocalisse. Il Pächt
in ciò è molto chiaro:
«Se le confrontiamo con
l’illustrazione dell’Apocalisse spagnola, tutte le versioni successive di
questo tema visionario rappresentano compromessi con l’esperienza naturale»[14].
Così avviene
senz’altro per l’Apocalisse di Bamberga,
«chef-d’oeuvre
de la miniature ottonienne, d’une grandeur épique, enluminé au début du xylème
siècle dans le scriptorium d’une des abbayes
bénédictines de l’ile de
Reichenau, sur le lac de Constance»[15].
Ritenuta
dal Réau «la plus remarquable des visions de Saint
Jean qui existe dans l’art allemand avant les gravures sur bois de Dürer»[16],
questa illustrazione
rende il carattere sacro
dell’Apocalisse attraverso «une peinture
plate, sans modelé et sans perspective»[17].
Tuttavia, confrontando la
Teofania dell’Agnello del Beatus
spagnolo (Fig. 1) con
l’Adorazione dell’Agnello
dell’Apocalisse di Bamberga (Fig.
2), il Pächt fa notare il
legame di quest’ultima con lo schema dell’Ascensione, con ciò
ribadendo il concetto di una presenza ancora viva
del terreno, seppure contrapposto all’ultra-terreno e al sovra-sensibile. Ci
troviamo davanti, ciò vale per tutte le cinquanta tavole che compongono questa
serie miniata, a figure che poggiano su di una linea orizzontale parallela al
bordo inferiore del foglio, la terra. Gli occhi e il gesto
di queste figure sono rivolte in alto, al cielo; al contrario del
Beatus, che eliminava ogni rapporto tra cielo e terra, creando nella pagina un
campo di forze completamente avulso da ogni ricordo spazio-temporale, qui la
visione si costruisce tutta sulla tensione del binomio terra-cielo.
Eppure,
scorrendo le cinquanta tavole dell’Apocalisse di Bamberga,
si ha il senso che il tempo si sia fermato e lo spazio fissato in una serie di
quadri recitati su di un palcoscenico. La messa in scena della
rappresentazione sacra è curata all’estremo, con l’eliminazione
di ogni particolare meno che essenziale: ogni gesto
ha qui il carattere sacrale dell’atto ineluttabile. Avanzando un confronto tra
questa Apocalisse di Bamberga
(Fig. 3) e quella del Dürer, il Réau nota:
«L’avantage n’appartient pas toujours au maître graveur de Nuremberg. Très
sagement le miniaturiste ottonien renonce à représenter littéralement la
Déglutition du Livre par saint Jean: l’ange se borne à tendre le Livre au
visionnaire inspiré qui le revoit sans l’avaler»[18].
Questa
semplificazione del racconto si spiega con la ricerca di una chiarezza della
rappresentazione che mette in secondo piano sia fedeltà letterale allo
scritto, sia la ricerca di effetti surreali, cui il
testo dell’Apocalisse certo invita.
Spesso le
tavole comprendono due scene, l’una sopra l’altra; anche questo contribuisce a
porre in primo piano il significato del racconto rispetto all’effetto
pittorico d’insieme.
La
lezione stilistica dell’Apocalisse di
Bamberga è certo la ricerca del massimo rigore formale e
dell’estrema misura negli effetti cromatici e grafici. Le tavole scorrono
uniformi lungo le cinquanta pagine che la loro estensione comporta. Nulla
indica che le prime tavole siano da collocarsi in
tale sede, se non i fatti rappresentati in essi. Non certamente effetti
di attesa emotiva: non esiste qui una ricerca di
tensione drammatica o di dinamicità nell’addipanarsi
del racconto. Tale assenza concorre però a creare un capolavoro di classicità,
collocando la serie tra le illustrazioni più riuscite del testo apocalittico.
Concludiamo
questo paragrafo dedicato all’illustrazione dell’Apocalisse da parte della
miniatura medioevale con un cenno alle Apocalissi
angio-normanne.
Queste
rivestono per
noi un interesse
particolare, infatti:
«Au
XV siècle, la première Apocalypse xylographique est encore une copie fidèle du
cycle anglo-normand. Elle reproduit un manuscrit de la première heure, puisque
elle contient la vie de Jean et les épisodes de I’Antéchrist»
[19]
«Verso la metà del XIII un nuovo tipo di
manoscritto miniato apparve in Inghilterra, come anche in Francia, divenendo
subitamente molto popolare: l’Apocalisse, cioè un
breve testo in latino o in francese che spiegava le scene illustrate nelle
miniature»
[20]
Siamo nel tardo
medioevo; sono già apparsi Gioachino da Fiore e
Berengaudo, il cui commento accompagna il
testo.
«Peut-être cette préférence montrée pour les scènes de
gioire
explique-t-elle aussi le choix du commentaire positif et spiritualisant de
Berengaudus, auteur un peu obscur. Comme les
ìmages le commentaire veut élever au lieu
d’effrayer»[21].
Il Pächt riconosce un’indubbia novità alle
Apocalissi miniate inglesi, nelle quali «si arriva per la prima volta a
concepire quelle visioni come eventi luminosi»[22].
All’interno del
ciclo anglo-normanno segnaliamo i due principali manoscritti: l’Apocalisse
oggi conservata al Trinity College di Cambridge e
la famosa Bodleiana
Douce
180 della Biblioteca
di Oxford, miniate rispettivamente nel 1230 per la
regina Eleonora dall’Abbazia di Saint-Alban e nel
1270 per suo figlio Edoardo I dall’Abbazia di Sant’Agostino
a Canterbury. È tale l’eccezionalità di queste due opere, soprattutto della
prima, che sarà essa a creare «la
vogue
d’une Apocalypse
en images,
accompagnée
d’un
texte
en latin ou
en anglo-français»[23]
«en
fin de compte, consciemment ou non, le roi Henri II, la reine Eléonore et leur
fils Edouard l ont causé ce raz de marée apocalyptique qui n’a reflué que si
lentement puisque, jusqu’à Albert Dürer, il a, l’Italie mise à part, fixé pour
presque deux siècles et demi l’iconographie du livre de Saint Jean»[24].
Se
confrontiamo l’Apocalisse del Trinity College (Fig.
4) con quella di Bamberga, ritroviamo anche qui
l’uso di porre due scene, l’una sopra l’altra, in una tavola; come anche qui
ritroviamo la linea del terreno sul quale poggiano i personaggi. Due
indicazioni, queste, che stanno ad indicare da una parte l’intento didascalico
dell’opera (rafforzato anche dalla comparsa del cartiglio), dall’altra il
carattere interlocutorio, dialogo tra terra e
cielo, di questa Apocalisse. Se «les
grandes théophanies dominent-elles
le manuscrit,
et par
leur
format et par l’ampleur
de la mise en scène»[25],
ciò è dovuto proprio all’intensità ditale rapporto,
una vera e propria spia di quel clima di attesa messianica che permea questi
secoli posti all’alba dell’umanesimo europeo. Tale aura rende l’Apocalisse
miniata del ciclo anglo-normanno vera epigone dell’Apocalisse incisoria, non
solo per l’effettiva influenza iconografica esercitata su di
essa, come vedremo nel prossimo paragrafo, ma per
la medesima fonte da cui traggono origine, la ricerca cioè del Sacro a partire
da esperienze e prospettive terrene. A differenza infatti
dell’Apocalisse di Bamberga, queste Apocalissi
angio-normanne ricercano la resa luministica
dell’ultraterreno, tentativo questo di impossessarsi del Sacro; è in esse
assente la compostezza severa del ciclo ottoniano,
l’atemporale sinteticità del gesto, in favore di
una resa della intensità emotiva del testo, tradotta qui come luce e
vibrazione timbrica.
«Per quanto strano possa
apparire, la fantasia figurativa aveva quasi sempre ignorato questo aspetto
così peculiare e suggestivo della sua fonte letteraria. [...] Solo i cicli
pittorici inglesi della fine del XIII secolo si sforzano di portare
l’atmosfera del racconto nel cuore stesso della raffigurazione, anticipando
così gli sviluppi della pittura moderna»[26].
Ma
anche, aggiungiamo noi, anticipando la conquista stilistica di
Jean Duvet, che nel contrasto luce-ombra vorrà
porre il perno stilistico della propria Apocalisse, due secoli più tardi.
[1]
AA.VV., Le livre illustré en Occident du
Haut Moyen Age à nos jours, Bibliothèque Royale Albert
I , Bruxelles 1977, p. 50.
«L’iconografia dei primi libri stampati
si ispira sovente a quella dei manoscritti. In
Francia, anche i libri di lusso sono provvisti ai margini della pagina di
una decorazione di foglie di acanto, mescolata a
grottesche o sono ornati di bordi istoriati. Inoltre, durante tutto
il xv
secolo, librai, editori o bibliofili fanno spesso colorare le incisioni
d’illustrazione. Negli esemplari di lusso, tirate su carta pergamena, le
incisioni sono a volte interamente ricoperte da vere e proprie miniature
dipinte a tempera. Da ciò si comprende che gli incisori
del xv secolo
cercavano di dare ai loro prodotti l’apparenza il più vicino possibile a
quella dei manoscritti».
[2]
Otto
Pächt,
La miniatura medioevale, Bollati
Boringhieri, Torino 1987, p. 161.
[3]
Heinz-Mohr
Gerd,
Lessico di
iconografia cristiana., p.
1.
[4]
Henry
Stierlin,
Le livre de feu. L’Apocalypse et l’art mozarabe, Editions Sigma,
Genève 1978, p. 84.
[5]
Otto
Pächt,
op. cit.,
p. 161.
[6]
Henry
Stierlin,
op cit.,
p.175.
«Si vuole conferire all’arte una nuova missione:
quella di tradurre la dimensione spirituale dell’uomo cristiano. Si cerca di
rappresentare il sacro. Ora, di questa arte per
la quale le apparenze sensibili non hanno più valore, di questa pittura che
non ha nulla a che spartire con il naturalismo, le miniature del ciclo del
Beato sono forse l’esempio più spettacolare, per non dire il più compiuto.
Vi si trova, allo stato puro, quella calma volta
a smaterializzare le immagini, al fine di ridurle ad una strutturazione
segnica, ad una “figurazione astratta”.
[7]
Ibidem
«Con la stessa autorità per
cui l’autore dell’Apocalisse aveva creato uno stile riducendo la sua
scrittura ad una struttura sintattica scheletrica, dalla quale era bandita
ogni forma di retorica, allo stesso modo i pittori dei primi
Beatus spogliano il disegno fino
a non conservare che una schematizzazione altamente semplificata».
[8]
lbidem,
p182.
«Una grafia semplificata e volontariamente
inespressiva».
[9]
Henry
Stierlin, op.
cit., p.
182.
«Tutto il registro dell’espressione grafica si
fonda sulla linea e sul puntinismo, più che sul colore, il quale appare in
modo abbastanza sommario, ma potente».
[10]
Ibidem, p188.
«In realtà, malgrado
l’aspetto schematico e la semplificazione delle forme, si comprende che
bisogna guardarsi dal parlare di mancanza di mestiere davanti a quest’arte.
Né si deve cercarvi una rassomiglianza
naturalistica, una verosimiglianza della gestualità, non bisogna evocare una
qualità della resa plastica nè un modellato
qualsiasi. Ci troviamo decisamente in
un’espressione concettuale, bidimensionale e in uno spazio che rifiuta ogni
prospettiva ottica per rimpiazzarla con una prospettiva spirituale».
[11]
Ibidem, p. 190.
[12]
Otto Pächt,
op. cit.,
p. 162.
[13]
Ibidem.
[14]
Ibidem, p. 164.
[15]
Louis
Réau, op.
cit.,
p. 675.
«Capolavoro della miniatura
ottoniana, di una grandezza epica, miniato all’inizio
dell’XI secolo nello
scriptorium
di una abbazia benedettina dell’isola di
Reichenan, sul lago di Costanza».
[16]
Louis
Réau,
Histoire de la peinture au Moyen Age. La miniature,
Librérie d’Argences,
Melun 1946, p. 92.
«La più notevole delle Apocalissi di San
Giovanni che esiste nell’arte germanica prima
delle incisioni xilografiche di Dürer».
[17]
Ibidem.
«Una pittura piatta, senza modellato e senza
prospettiva».
[18]
Ibidem
«Il vantaggio non è sempre del maestro incisore
di Norimberga. Molto saggiamente il miniaturista
ottoniano rinuncia a rappresentare alla lettera
la scena in cui San Giovanni divora il libro: l’angelo si limita a tendere
il Libro al profeta che lo riceve senza divorarlo».
[19]
Frederic
Van
Der Meer,
op. cit.,
p. 173.
«Nel XV secolo la
prima Apocalisse xilografica è ancora una copia fedele del ciclo
angio-normanno. Essa riproduce un manoscritto
del primo periodo, dato che contiene la vita di San Giovanni e gli episodi
dell’Anticristo».
[20]
Marret
Rjckert,
La miniatura inglese dal XIII
al XV secolo,
Electa, Milano 1961, p. 9.
[21]
Frederic
Van
Der Meer,
op. cit, p.
158.
«Forse questa preferenza mostrata per le scene
gloriose spiega anch’essa la scelta del commentario
positivo e spiritualizzante di Berengando,
autore un po’ oscuro. Come le immagini il commentario
vuole elevare lo spirito al posto di deprimerlo».
[22]
Otto Pächt, op.
cit., pp.
165-166.
[23]
Frederic
Van
Der Meer,
op. cit.,
p. 172.
«La moda di un’Apocalisse illustrata,
accompagnata da un testo in latino o in angio-francese».
[24]
Ibidem, p. 175.
«In fin dei conti, coscientemente o no, il re
Enrico n, la regina Eleonora e il loro figlio Edoardo I
hanno provocato questa marea apocalittica che non ha defluito se non
molto lentamente dato che, fino ad Alberto Dùrer
essa ha fissato, Italia a parte, per circa due secoli e mezzo, l’iconografia
del libro di San Giovanni».
[25]
Ibidem.
«Le grandi teofanie dominano il manoscritto, sia
per il formato che per l’ampiezza delle scene».
[26]
Otto Pächt,
op. cit.,
pp. 165-1 66.
Fonte : scritti dell'artista prof. Alessio Varisco , Técne Art Studio .
Prof. ALESSIO VARISCO
Designer - Magister Artium
Art Director Técne Art Studio
http://www.alessiovarisco.it
Fonte immagini : http://casal.upc.es/~ramon25/beatus/imatges.htm
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