UN VIAGGIO NEL CANTICO
DEI CANTICI
di Padre Maurizio Buioni
Introduzione
“Il
mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei Cantici è
stato donato a Israele”
(Rabbi Aqiba, citato in Mishnah Jadajim 3,5). Queste parole di uno
dei grandi maestri della tradizione ebraica dicono incisivamente
quanto il Cantico sia stato considerato e amato da essa. Il testo è
una delle Meghillot,
uno dei rotoli, cioè, da leggere nella liturgia sinagogale: il
fatto che venga proclamato a Pasqua, la festa centrale fra tutte che
celebra la liberazione dalla schiavitù d’Egitto e il
passaggio del Mar Rosso, testimonia di quale considerazione goda
Shir Ha Shirim,
שיר
השירים
(questo
il nome ebraico: il Cantico dei Cantici, il «Cantico sublime»).
Ancora oggi nelle famiglie ebree il sabato è accolto come la
sposa del Cantico (in ebraico «shabbat» è
femminile).
Il
Libro
dello splendore
o Zohar
riconosce nel Cantico l’intera rivelazione di Dio: «Questo
cantico comprende tutta la Torah; comprende tutta l’opera della
creazione; comprende il mistero dei Padri; comprende l’esilio
d’Israele in Egitto e il canto del mare; comprende l’essenza
del Decalogo e il patto del monte Sinai e il peregrinare d’Israele
nel deserto, fino all’ingresso nella terra promessa e alla
costruzione del Tempio; comprende l’incoronazione del santo
nome celeste nell’amore e nella gioia; comprende l’esilio
d’Israele fra le nazioni e la sua redenzione; comprende la
risurrezione dei morti fino al giorno che è il sabato del
Signore» (Libro
dello splendore,
Teruma 144a). Nella tradizione cristiana il Cantico gode di una stima
non minore: «Beato
chi comprende e canta i cantici della Sacra Scrittura – afferma
Origene
–, ma ben più beato chi canta e comprende il Cantico dei
Cantici»
(Omelia
sul Cantico
l,l: Pg 13,37).
Attraverso
l’uso dell’interpretazione allegorica, tutto il Cantico
appare come un paradigma del Cristo: così, l’Amato che
viene saltando sopra i monti di Ct 2,8 è riconosciuto sin dal
primo commento cristiano come «il
Verbo, saltato dal cielo fin nel corpo della Vergine, dal sacro
ventre sul legno della Croce, dal legno negli inferi, di là
nella carne (della risurrezione)... infine, dalla terra al cielo»
(Ippolito di Roma, Commento
al Cantico,
XXI, 2). Le descrizioni del Cantico vengono interpretate come
metafore della vita della Chiesa: «Se
tu senti nominare le membra dello sposo, cerca di capire che in
realtà sono evocati i membri della Chiesa» (Origene,
Commento
al Cantico,
libro II, su Ct 4). Muovendo dal Cantico sviluppa la sua riflessione
sui gradi della «violenta
carità»
Riccardo di San Vittore, combinando genialmente teologia ed
esperienza spirituale per sottolineare come il rapporto d’amore
con Dio non lasci nessuno come lo ha trovato, ma al contrario segni
in modo indelebile la sua anima: «Grande
è la forza dell’amore, meravigliosa la potenza della
carità»
(I
quattro gradi della violenta carità,
2).
Al
Cantico si ispira la mistica cristiana, celebrando il rapporto
d’amore con Dio: basti pensare ai versi di San Giovanni della
Croce: «In
una notte oscura / con ansie di amor tutta infiammata, / o felice
ventura!, / uscii, né fui notata, / stando già la mia
casa addormentata. / ... / Notte che mi guidasti! /oh, notte amabile
più che l’aurora / oh, notte che hai congiunto / l’Amato
con l’amata / l’amata nell’Amato trasformata»
(San
Giovanni della Croce, Noche
oscura,
Strofe l e 5).
Il
contesto
Queste
pagine sono un piccolo assaggio su come è considerato e
interpretato, all’interno della tradizione ebraico-cristiana,
il Cantico. Occorre, a tal fine, offrire delle coordinate che ci
aiutino, dapprima, a capire il contesto in cui è utilizzato
all’interno della liturgia ebraica. Teniamo presente che,
tradizionalmente, è letto durante la Pasqua ebraica, e nella
tradizione askenazita
dell’Est europeo, nella liturgia dello Shabbat.
Nel
canone è entrato senza grandi difficoltà, rispetto al
canone cristiano, nel primo secolo dopo Cristo, quando la Bibbia
ebraica non ha alcun problema a considerarlo libro sacro, anzi è
il “distillato”, la parte migliore della farina
setacciata più volte perché
diventi sempre più raffinata.
Ricordiamo
brevemente come la parola Bibbia deriva dal greco tà
biblìa, «i
libri» per eccellenza; è originariamente un plurale,
come la trascrizione latina Biblia,
da
cui deriva il termine italiano. Passando dal latino all’italiano
la parola venne intesa al singolare, nel senso che tutti i libri che
la compongono hanno in comune di essere ispirati
da Dio e
quindi Parola
di Dio. Gli
ebrei ordinano i libri della Bibbia in modo diverso da quello usato
dai cristiani e naturalmente considerano solo i libri dell’Antico
Testamento. Le tre parti, in cui sono divisi i 24 libri, stabilite
dal sinodo giudaico del 90 d.C. a Javnè, sono: la Torah
(i
cinque libri del Pentateuco), i Nebiìm
(gli
otto libri dei Profeti) e i Ketubìm
(gli
undici libri Agiografi). I più antichi manoscritti di testi
biblici, ritrovati finora, risalgono all’incirca al periodo che
va dal III secolo a.C. al I secolo d.C. (Rotoli del mar Morto).
Rabbi
Aqiba, contemporaneo all’incirca di Origene, afferma che il
testo “sporca le mani”; sporca le mani ciò che è
sacro, nel senso positivo del termine, in quanto indica il contatto
col sacro perché l’umano è entrato nel divino. Il
Cantico introduce nella trascendenza; Rabbi Aqiba lo equipara al
Santo
dei Santi,
del Tempio di Gerusalemme.
Rashi
di Troyes commentando il Cantico, scrisse: ”Disse
Rabbi El’azar ben ‘Azaryà: A che cosa si può
paragonare? Ad un re che prese uno staio di grano e lo diede al
mugnaio, dicendogli: "Fammene uscire tanto fior di farina, tanto
di farina, tanto di crusca, poi separami da tutto questo un pane
raffinato ed eccellente." Così tutti gli Scritti sono
santi ma il Cantico dei Cantici è il Santo dei Santi poiché
è tutto quanto timore del Cielo ed accettazione del giogo del
Suo Regno e del Suo amore”.
Perché
un testo dove non compare mai il termine Dio può essere
paragonato al Santo dei santi?
Innanzitutto,
nella tradizione ebraica, il matrimonio, il fidanzamento e
l’innamoramento, sono considerati la massima realizzazione
umana e spirituale dell’uomo e della donna, essi sono creati a
immagine e somiglianza di Dio come coppia. Un fondamento, a quanto
stiamo dicendo, lo troviamo in Genesi 5,2 che la tradizione ebraica
legge “un
uomo che non ha una moglie non è un vero uomo… maschio
e femmina li creò Dio e diede loro il nome Adamo”;
solo nella coppia uomo donna riunita dall’amore si esprime
questa unicità umana di cui l’Adamo è segno, che
rimanda all’unicità di Dio. Questo spiega perché
nella tradizione ebraica non abbia trovato grande rilievo ciò
che potremmo definire “tradizione monastica”, se non
presso Qumran o nei
“Terapeuti”
di cui parla Filone di Alessandria d’Egitto, nel De
vita contemplativa,
proprio perché il matrimonio è considerato un atto
sacro che realizza l’essere creati a immagine di Dio come
coppia.
In
ebraico, matrimonio si esprime col termine kiddushin,
da kadosh,
sacro, santo. Esso è la consacrazione dell’amore
ricondotto alla sua origine, a Dio stesso. C’è un
simpatico commento di Louis Ginzsberg, raccolto nel testo La
leggenda degli ebrei,
dove si narra come possa essere avvenuto il matrimonio della prima
coppia umana. Si narra come Dio stesso ha provveduto a tali nozze
così importanti, perché il mondo poggia sugli atti
d’amore che sono graditi a Dio più dei sacrifici
compiuti sull’altare da Israele.
L’amore
umano consacrato nelle nozze, nozze che lo trasformano quale atto
sacro, sono care a Dio più dei sacrifici del Tempio. Un altro
commento rabbinico, presente nel Bereshit
Rabba
(commento al libro di Genesi) dice che l’occupazione principale
di Dio, dalla creazione in poi, è quella di combinare
matrimoni e un altro commento aggiunge che questa occupazione è
più difficile e impegnativa della separazione delle acque del
Mar Rosso.
Un
altro elemento è rappresentato da quei commenti che
evidenziano la radice trascendente dell’amore esaminando i
termini Dio e amore:
Jhwh
יהוה
Ahavah אוהבה
Questo
è un metodo rabbinico per evidenziare una regola di
interpretazione: se due termini hanno una medesima corrispondenza
consonantica tra loro hanno, dunque, una stretta relazione, come in
questo caso, tra Dio e amore.
Pertanto,
l’amore autentico ha la sua radice nella trascendenza divina,
l’amore autentico mostra perciò la trascendenza divina.
La reciprocità di un amore vissuto in maniera autentica
diventa segno della trascendenza.
A
questo proposito c’è un midrash
che commenta Gn 2,18 “non
è bene che l’Adam resti solo, voglio fare un aiuto che
gli sia contrapposto”
(ke-negddo),
cioè, uno di fronte l’altro; nel testo ebraico non si
fa menzione di simile,
come nel testo CEI. Ciò vuol dire che possiamo essere di
fronte
per ascoltarci o perché ci fronteggiamo; la spiegazione
rabbinica, in una cultura maschilista, è a favore della donna
e in questo caso dispiega il seguente concetto: quando il marito è
degno di sua moglie, questa è per lui un aiuto, viceversa
quando il marito non è degno il fuoco li consuma.
uomo: איש
donna: אשה
י
(jod)
+ ה
(he)
esprime la differenza uomo-donna
Una
suggestiva lettura è quella relativa al valore numerico delle
lettere ebraiche. Ad ogni lettera corrisponde un numero. Ne
scaturisce che il valore numerico della I coppia, Adamo ed Eva, adam
wechavah,
coincide con 70 come, del resto, la differenza tra maschio (zakhar,
227) e femmina (neqevah,
157) dà ugualmente 70. Adamo ed Eva equivalgono numericamente
alla differenza maschile/femminile
ed è significativo come abbia precisa corrispondenza con le 70
interpretazioni della Torah ricevuta sul monte Sinai da Mosè.
“È
stato insegnato nella scuola di Rabbì Ishmael: “Un
maestro della scuola di Rabbì Ismael ha insegnato: Non è
forse così la mia parola: come il fuoco, oracolo del Signore,
e come un martello che frantuma la roccia (Geremia. 23,29) Come
questo martello sprigiona molte scintille, così pure un solo
passo scritturistico dà luogo a sensi molteplici”
(Sanhedrin,
34; “Come
questo martello sprigiona molte scintille, così pure ogni
parola che usciva dalla bocca della Potenza si divideva in 70
lingue”,
Shabbat 88b).
La
I coppia, allora, è la radice del mondo, che viene creato
mediante la stessa Torah.
Secondo
il commentatore dell’esegesi ebraica Rashi il versetto della
Torah
Deut 27.8 che afferma “E
tu scrivi sulle pietre tutte le parole di questa Torah”,
spiegato bene, si riferisce alla traduzione della Torah
nelle 70 lingue delle 70 Nazioni fatta dal Capo dei Profeti Mosè;
lo stesso Rashi afferma che ciò avvenne per gli Ebrei quando
poi fossero giunti in Diaspora. Sono le iscrizioni sulle pietre
menzionate nella Parashah
Ki Tavò.
Secondo il Talmud era iscritto tutto il testo, ma Rav Saadiah Gaon
insegna che sono stati iscritti solo i 613 precetti. Il Talmud
afferma che erano incluse in tutte le 70 lingue, ma una fonte
midrashica indica che erano iscritte solo in ebraico.
Ma
torniamo al nostro discorso. Quando l’uomo e la donna vivono
una relazione dove la reciprocità non è sempre
autentica che cosa prevale in loro? La parte comune dei due nomi, che
dopo essere stata scomposta, per poi essere riunita, forma il
termine fuoco,
אש,
(esh) che è una realtà ambivalente. Il fuoco del roveto
ardente dal quale Dio si mostra a Mosè o il fuoco di Sodoma,
il fuoco della passione e il fuoco della distruzione; questo quanto
evoca il termine fuoco in ebraico (אש).
La
seconda parte del commento rabbinico afferma: quando la reciprocità
tra l’uomo e la donna è autentica prevalgono le lettere
che fanno la differenza, dunque la jod
e la he,
che riunite formano Jah,
forma abbreviata del nome di Dio, l’unica che è
possibile pronunciare è quella dell’Alleluia
הללויה
(che
ritroviamo estesa nei Salmi). Cosa vuol dire questo? Quella
differenza tra l’uomo e la donna, che Dio nella creazione ha
voluto, vissuta nella reciprocità di un amore corrisposto,
rende presente Dio, יה,
nella storia, viceversa quando la reciprocità viene a mancare,
subentra la realtà del fuoco poiché l’uno vuole
avere il sopravvento sull’altro, dunque subentra la
distruzione.
Quest’attitudine
alla percezione e alla comunicazione dell’amore è intesa
dalla tradizione ebraica come risultante naturale dell’essere
la donna sorgente della vita: se vivere veramente è amare,
colei che nella casa accende la candela del sabato per introdurre la
famiglia intera nella vita nuova del riposo divino, la donna, è
anche quella che in generale saprà meglio accendere e
alimentare la fiamma dell’amore.
Questi
testi sostanzialmente ci ricordano una dinamica basilare: mostrare
come nell’amore, anche nella dimensione erotica, se tutto
avviene in un contesto di reciprocità, si rende attuale la
presenza
di Dio nella storia degli uomini, la Shekinah, שכינה.
Questa è la prima fecondità umana; quando Dio benedice
la prima coppia umana dicendo “siate
fecondi e moltiplicatevi”
questo siate fecondi che viene prima della congiunzione, viene inteso
come “realizzate il nome di Dio fra di voi”. È la
prima fecondità di cui il moltiplicatevi
è
la logica conseguenza.
Inoltre
sta a significare che non è il numero dei figli che fa la
fecondità in una coppia, ma la capacità di rendere
presente Dio nella relazione tra i due, dove la prole sarà una
conseguenza.
Questo,
allora, ci aiuta a comprendere come un amore umano inteso in questo
modo non può che essere la chiave di lettura per considerare
Santo, meglio ancora Santo
dei Santi, il
Cantico dei Cantici, all’interno del canone biblico.
L’amore
umano così vissuto rende presente Dio e il Cantico è il
testo sacro per eccellenza nel canone. In altri termini, non è
necessario che il nome di Dio sia presente nel Cantico in maniera
estesa, scritta, perché è già presente nella
reciprocità dell’amore che dei due personaggi viene
narrato.
Andando
all’interno del testo cosa dire? È uno dei dieci cantici
indicato in molti Targumim
(o parafrasi aramaica dei testi ebraici all’indomani del
ritorno dall’esilio di Babilonia dove non si comprendeva più
l’ebraico biblico non parlandolo più, dunque all’interno
della sinagoga si avvertiva il bisogno di una traduzione, spesso
glossata, che diventava una forma di commento rabbinico al testo
originale noto nell’ambito della parafrasi).
Il
Cantico è fra i cantici più importanti del popolo
ebraico ed è quello che “il
popolo d’Israele canterà assieme agli angeli
dell’Altissimo”,
il cantico che unisce cielo e terra poiché lo canterà
il popolo con gli angeli di Dio secondo un commento rabbinico.
In
un contesto di questo genere è chiaro che tutto ciò che
nel Cantico, descritto come caratteristica dell’amore umano,
anche nella dimensione erotica, dove l’accezione eros
è positiva, espressione di quella passionalità che
appartiene alle potenzialità umane, è evidente che
tutto viene letto non solo come via di santità, ma anche come
esperienza mistica. Ancora oggi nelle comunità ebraiche
osservanti si insegna che il modo migliore per concludere una festa è
il momento del rapporto coniugale nella camera nuziale; quindi il
rapporto coniugale vissuto nella reciprocità diventa il
momento culminante della liturgia della festa, perché
esperienza mistica, che introduce nella sfera di Dio diventando il
canale con cui Dio continua a darsi nella storia degli uomini. Ecco
perché lo stato matrimoniale è così importante
nella tradizione ebraica in quanto l’uomo che vive senza moglie
vive senza bene.
Come
considerare la vicenda di Shulamit di cui si narra questo amore che
passa dal desiderio di reciprocità, alla ricerca di due, al
trovarsi-non trovarsi e ritrovarsi nuovamente? È noto che dove
ci sono due ebrei, ci sono due idee diverse ed interpretazioni
diverse. Salvo restando letture positive dell’amore, le
differenze più profonde sono tra coloro che interpretano come
protagonisti Shulamit e il suo compagno o chi la vede come la sola
protagonista. Amos Luzzatto, ad esempio, vede Shulamit come singola
protagonista di cui, peraltro, non se ne conoscono le origini.
Secondo
Amos Luzzatto, la voce dell’amato esiste solo nelle sue attese
più che nella realtà dell’amato, che le resta
contrapposto, non se ne conosce il nome, se ne menziona solamente la
voce.
In
ogni caso: sia che vogliamo considerare i due come protagonisti, o
sola la ragazza con la voce di lui nelle attese di lei, siamo nella
presenza di un dialogo di amore, che sembrerebbe scritto per una
rappresentazione teatrale: abbiamo i dialoghi tra i due, il coro
delle ragazze di Gerusalemme e alla fine il coro dei fratelli.
Si
possono offrire diverse interpretazioni, che possono essere anche
legate al modo con cui questo testo si è fissato nel corso dei
secoli, testo che probabilmente affonda le radici nei canti d’amore
dell’antico Egitto. Al di là, comunque, dei dati
appartenenti alle indagini e all’analisi storico-critica, è
interessante sapere che il coro delle ragazze di Gerusalemme, dal
punto di vista ebraico, rimanda ad una precisa tradizione che si è
fissata sia nella Mishna
(Torah orale codificata nel I sec. d.C.) sia nel Talmud
(fonte rabbinica). Ora del coro delle ragazze di Gerusalemme, in età
da marito, se ne parla in relazione ad alcune feste, in particolare
modo alla festa di Yom
Kippur ,
grande giorno del Perdono, con cui si inaugura dopo Rosh
Hoshanah,
il capodanno, l’inizio del nuovo anno ebraico. Cosa succedeva
in queste occasioni alla fine delle celebrazioni all’uscita del
cortile del Tempio? Le ragazze, in età di marito, piuttosto
giovani in quei tempi, si vestivano di abiti bianchi, tutte allo
stesso modo, senza distinzioni fra povere e ricche, senza differenze,
e si recavano nelle vigne attorno a Gerusalemme dove facevano danze
di corteggiamento, in cerchio, secondo la tradizione ebraica, al
cospetto dei giovani, cantando l’ultima parte del libro dei
Proverbi (Pr 31), dove si parla della donna di valore: “non
guardare alla bellezza esteriore, ma ai valori della famiglia”
ed erano i momenti dove si combinavano i matrimoni. Questo perché
il matrimonio era una realtà così importante da essere
posto al di là di tutto, quindi all’uscita delle feste
più importanti la prima cosa che si faceva era la danza di
corteggiamento.
Pertanto,
secondo l’interpretazione ebraica, il coro delle ragazze di
Gerusalemme rimanderebbe a questo tipo di danze. Oggi è
rimasto un eco di tutto questo in un canto popolare chiamato Nelle
vigne,
Bachranim.
Spostiamo
la nostra attenzione al Cantico dei Cantici, c. 1, 2-4. Shulamit
parla dell’amato e del desiderio di amore dicendo: “egli
mi conceda i baci della sua bocca che il tuo amore (dodekha)
ebbe meglio del vino… sento il profumo dei tuoi deliziosi
unguenti il tuo stesso nome effonde (turaq)
profumo, per questo le ragazze ti amano, trascinami con te corriamo”.
La
traduzione non rende la musicalità di queste bellissime parole
d’amore: essa gioca sull’assonanza fra il termine shem,
nome, e il termine shemen,
profumo. Lo
sconosciuto, presenza inafferrabile, non viene ancora nominato.
Eppure quella presenza si esprime con un linguaggio inconfondibile.
Nel v. 3 il linguaggio del profumo viene messo in evidenza in modo
straordinariamente efficace. Non riusciamo a vederlo, non riusciamo
ad afferrarlo, non siamo in grado di determinare la sua presenza, ma
il suo profumo già ci avvolge, ci riempie, già ci
attraversa. Certo, il profumo è inafferrabile, ma è
anche vero che passa dentro di noi, attraverso di noi, in modo tale
da invadere l’intimità più profonda.
Il
solo nome dell’amato riempie l’aria di profumo, che
incanta lei, come incantò altre. Nel versetto seguente,
all’olfatto si unisce il gusto: «Ricorderemo
i tuoi amori più del vino»
(v. 4: cfr. v. 2). È come se il ricordo dell’amato abbia
un sapore, forte come quello del vino. Tutti i sensi sono convocati
per descrivere l’attrazione che lui esercita su tutto l’essere
di lei, passando attraverso l’udito, la visione, il tatto:
«Attirami
dietro a te, corriamo!»
(v. 4). Così lei si mette alla ricerca di lui, abbandonando la
vigna sicura dei suoi fratelli per cercare lui nel rischio e
nell’insicurezza (v. 6). E la ragione di questa scelta è
che lui è l’amore dell’anima sua (v. 7).
Tutto
il Cantico
dei Cantici conferisce
un risalto particolarmente significativo al senso dell’odorato.
«Per
la fragranza sono inebrianti i tuoi profumi».
Non so come rivolgermi a te, non so come inserirti nel mio cosmo
linguistico, nei miei pensieri, ma il tuo profumo mi invade. Non so
da dove venga e dove vada, ma mi attraversa, raggiungendo la
profondità più inesplorata di me stesso.
Il
versetto prosegue: «profumo
olezzante è il tuo nome».
Pertanto, se Shulamit deve chiamarlo per nome, essendo innominabile e
sconosciuto, lo avverte come profumo olezzante (in greco: miron
ekkenothen,
“unguento svuotato”). La traduzione greca richiama
Filippesi 2, il cantico cristologico, “colui che svuotò
se stesso”: ekenosen
eauton,
è questo verbo, è l’“unguento svuotato”,
“svuotò se stesso” dice Paolo. “Tu sei un
unguento svuotato”, ecco il tuo nome. Noi siamo in relazione di
vita con Lui: relazione di respiro, di fiato, di soffio; relazione di
spirito con Colui che è unguento versato, svuotato, che è
spirito effuso.
Nei
racconti della passione, in modi diversi, si attribuisce all’atto
di spirare sulla croce di Gesù, il Figlio, l’effusione
del profumo: hai effuso il tuo profumo; spirò, consegnò
lo spirito, consegnò il suo respiro. Cristo è profumato
ed è da lui a noi trasmesso il profumo, lo spirito soffiato su
di noi, trasmissione di vita, sigillo di comunione indissolubile.
Proprio là dove la situazione empirica della nostra esistenza
denuncia una lontananza incolmabile, quella lontananza è
colmata dall’unguento versato, quella lontananza viene colmata
in modo tale da stabilire una comunicazione di vita, che ci invade,
prende, conquista, trasforma, rigenera, aprendo gli orizzonti della
vita, quella vita verso la quale forse sospiravamo in modo confuso,
caotico, disordinatissimo: quella vita a cui finalmente siamo
condotti.
Il
versetto si conclude con una dichiarazione, nella sua semplicità,
solennissima: «Per
questo le giovinette ti amano».
Il tuo profumo per me è stato offerto anche all’umanità
intera. Vale per tutti gli uomini: le giovinette ti amano, per
questo.
A
quella nostalgia, di cui ci siamo resi conto leggendo il versetto 2,
si congiunge nel versetto 3 un presentimento infallibile: è
passato di qua, ha lasciato dietro un’onda di profumo, non
sappiamo come afferrarlo, come raggiungerlo, ma è passato di
qua. Cristo, l’Unto, ha lasciato una traccia inconfondibile nel
creato, nella storia degli uomini, in ogni persona, in ogni angolo
del mio vissuto, in ogni respiro per quanto affannoso sia. È
passato attraverso la morte, certo. Dovunque mi volga, in qualunque
direzione proceda, a qualunque creatura mi accosti, quale che sia la
realtà con la quale devo fare i conti, quale passaggio sia
necessario che io affronti nel tempo e nello spazio della mia
esistenza, fino alla morte: il suo profumo mi precede, il suo profumo
mi avvolge, mi viene incontro, anzi mi attende, mi invade e già
spalanca dinanzi a me e per me e per il mondo gli orizzonti di una
infinita capienza di amore. Per questo le giovinette lo amano.
Ora
evidenziamo i due termini: tuo amore, dodekha,
effondere, turaq.
Il termine amore non è espresso con ahavah,
ma attraverso una configurazione di Dod,
amato, diletto, molto ricorrente nel Cantico. All’inizio di
questo dialogo di amore si preferisce utilizzare il termine amore
come configurazione di Dod,
amato, compagno, zio. In qualche modo il Cantico vuole passare da un
amore genericamente inteso ad un amore, o meglio, ad un’espressione
di amore più intima tra i due amanti, dove l’eros ha una
parte importante.
Un
indizio importante per cogliere nel Cantico la pluralità di
sensi riferiti all’amore è il termine Dodi
= «amato mio»: esso contiene le lettere del nome David.
Già così, rimanda contemporaneamente al singolo
innamorato di Dio, di cui Davide, il cantore dei salmi, è
figura, e al popolo messianico, costitutivamente legato alla
discendenza davidica. In quanto poi il termine ricorre ventisei volte
nel Cantico, e ventisei è un numero sacro per la Ghematria
ebraica perché è il valore numerale del tetragramma
Jhwh, è possibile riconoscervi anche il riferimento all’Amato
divino.
Dodekha,
il tuo amore, è relazionato al verbo effondere, turaq,
la cui radice indica la capacità di svuotamento. Dunque,
l’amato è percepito come desiderabile poiché
capace di riversare l’amore all’esterno. Poiché è
chiamato, Dodi,
il mio amato, è compagno capace di manifestare, nel senso di
riversare all’esterno l’amore, quindi è capace di
amore in maniera radicale, fino al dono totale di sé.
Si
capisce, allora, perché all’interno del Cantico la
ricerca diventi così appassionata, anzi frenetica, tanto che
Shulamit si dichiarerà “malata di amore”.
Nel
Cantico al terzo capitolo, leggiamo: “nelle
notti (la
notte fa pensare al desiderio di unione intima)
sul mio giaciglio cerco colui che ama l’animo mio (la
mia persona),
lo cerco e non lo trovo” e
al quinto capitolo
“io dormo, ma il mio cuore è desto, se trovate il mio
amore ditegli che sono malata di amore”.
Ora
la serie dei termini usati è significativa. Ritorna il termine
ahavah,
amore, posto in relazione con nafshi,
il mio essere. Nefesh,
indica stretta relazione tra corpo e spirito, cioè l’intera
persona) al cuore, lev,
centro vitale della persona, sede dei sentimenti, della volontà
e della ragione. La relazione tra questi elementi fondamentali della
relazionalità umana vuole affermare l’impossibilità
di
vivere senza relazioni autentiche espressa con “aiutatemi
a trovare il mio amore perché sono ammalata di amore”.
Dunque Shulamit percepisce, sperimenta la mancanza dell’amato.
In altri termini, Dio ci ha creato come esseri in relazione e la
relazione tra uomo e donna realizza la persona così come
voluta da Dio.
Nel
cap. 1,8, del Cantico, il coro delle ragazze di Gerusalemme canta:
“esci,
segui le orme dei greggi e fai pascolare le tue stesse caprette nei
pressi delle dimore dei pastori”.
Cosa vuol dirci il testo?
Shulamit,
che all’inizio del testo si è definita bruna, ma bella,
cosa vuole mettere in risalto? Le ragazze nobili non pascolavano le
greggi sotto il sole e non si abbronzavano, questo era un segno di
povertà e basso rango sociale, ma Shulamit inizierà la
sua ricerca frenetica di colui per il quale si è ammalata di
amore e il coro gli fa capire che se vuol trovare chi sta cercando
non deve far altro che essere se stessa, cioè essere pastora
tra i pastori, uscire per far pascolare le sue capre nei pressi delle
dimore di pastori (forse l’amante è un pastore?). In
ultima analisi, ella deve comprendere che se vuole vivere una
relazione autentica, reciproca non deve cercare di essere qualcosa
d’altro, ma essere se stessa cosicché anche la sua
capacità di amore, il suo eros, saranno incanalati in una
relazione equilibrata.
Al
cap. 8, 6-7 del Cantico leggiamo: “mettimi
come sigillo sul tuo cuore (lev)
come sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è
l’amore (ahavah),
tenace come gli inferi è la passione, le sue vampe sono vampe
di fuoco, una fiamma potente”,
shalchetjah,
(shalchet,
fiamma + jah).
Qualcuno ha inteso la possibile presenza del termine Dio nella
desinenza, ma in questo caso se aggiunta ad un termine singolare
indica la collettività del nome, dunque la raccolta delle
fiamme. È la potenza di una fiamma che esprime la grandezza di
un amore; il fuoco ha perso la realtà ambivalente, è un
fuoco della passione autentica che non ha bisogno di usare il nome di
Dio poiché in questo rapporto di reciprocità e
autentico esprime già la realtà intima di Dio.
L’amore
del Cantico è allora al tempo stesso quello dell’amato
per l’amata, quello di Dio per il Suo popolo e del popolo per
Dio, e infine quello del singolo credente per il Signore. Che l’amore
in tutta la ricchezza del suo significato sia il tema dominante del
Cantico, è mostrato anche dal fatto che il testo si preoccupa
di presentare sin dall’inizio i due protagonisti come l’amata
e l’amato. È interessante notare che a pronunciare il
maggior numero di parole nel Cantico sia la donna (una sessantina di
versetti), mentre all’uomo ne sono riservate poco più
della metà (trentasei versetti). È questo un implicito
riconoscimento dell’inclinazione che la donna ha verso la
sapienza dell’amore, non solo nel senso della capacità
oblativa che dimostra, ma anche della disponibilità a intuire,
presentire ed evocare la presenza dell’Amato. Quest’attitudine
alla percezione e alla comunicazione dell’amore è intesa
dalla tradizione ebraica come risultante naturale dell’essere
la donna sorgente della vita. Se vivere veramente è amare,
colei che nella casa accende la candela del sabato per introdurre la
famiglia intera nella vita nuova del riposo divino, la donna, è
anche quella che in generale saprà meglio accendere e
alimentare la fiamma dell’amore.
Pertanto,
è il nome collettivo a sottolineare la grandezza dell’amore
che neanche le acque possono spegnere. Questo amore così
bello, così grande, che finalmente si è ritrovato dopo
una serie di alterne vicende, anche violente per Shulamit (guardie),
ci spiazza quando al capitolo 8,14 dice “fuggi
quale cerbiatto su per i monti”.
Una tradizione ebraica lo legge come rifiuto per un matrimonio
formale che i fratelli stanno preparando per lei, altri dicono che
questo amore deve ancora crescere per esprimersi al meglio.
Un’altra
interpretazione è quella offerta da Luzzatto che pone in
relazione il Cantico con le altre Meghillot
(Rotoli)
che fanno parte dei Ketubim,
scritti agiografici del canone ebraico che si leggono durante le
feste.
Il
Cantico è il primo rotolo, lo leggiamo a Pesah,
prima grande festa del nuovo anno, festa fondante rispetto alle
altre, e se guardiamo la sequenza dei Rotoli all’interno del
canone ebraico, cosa troviamo? Il Cantico esprime l’amore
giovanile, il fidanzamento ormai prossimo al matrimonio, legato alla
festa di Pasqua.
Dopo
la Pasqua, abbiamo la Pentecoste, Shavuot,
dono della Torah al Sinai e si legge il libro di Ruth,
dunque un amore più maturo. Si narra di Rut e Noemi; Rut è
una vedova che vive i suoi affetti non solo in relazione all’amato
che fu, ma anche con la suocera. E sarà in nome di questo
amore che sarà riscattata, da Booz, parente di Noemi.
Poi,
nel mese di Av, in estate, Le
Lamentazioni,
in ricordo delle sciagure nazionali, dalla caduta del Tempio in poi
(coincidenza vuole che tutte le disgrazie di Israele siano accadute
nel periodo estivo: pensiamo alla cacciata dalla Spagna e alla Shoah.
Le Lamentazioni sono il segno di come l’amore si misuri con il
dolore; nelle contraddizioni della storia qualsiasi storia di amore
anche bella si confronta con il dolore. È un amore che va
verso una maturità sempre più piena.
Nel
rotolo di Qohelet,
festa delle Capanne, Sukkot,
il testo ci ricorda che tutto è relativo, la vita è
precarietà. È il ricordo dell’Esodo, delle tende
nel deserto prima di entrare nella terra promessa. Qohelet, dunque,
in questo contesto ci mostra come l’amore non solo si rapporta
col dolore, ma anche con la precarietà della vita, anche per
una storia d’amore seppure bella.
Nell’ultimo
rotolo: Ester,
festa di Purim,
dove l’amore di una donna è il segno di un amore
particolare, che partendo da un matrimonio discutibile col re
Assuero, evidenzia l’amore di Ester che arriva a rischiare la
sua vita per il suo popolo.
Questo
vuol dire che la comprensione del Cantico, meglio la non conclusione
del Cantico stesso, va ricercata nelle cinque Meghillot
che leggiamo nelle feste successive alla Pasqua, che all’interno
dell’anno liturgico completano il ciclo. Le stagioni dell’amore
umano sono quelle che ricordiamo nella lettura progressiva di questi
testi all’interno dell’anno liturgico.
Consideriamo,
infine, al capitolo 7,11 del Cantico, la sinossi legata al termine
desiderio: “io
sono del mio amato ed egli mi desidera il suo desiderio (teshuqahto)
è per me”.
In Gen 3, come conseguenza del peccato, Dio dice a Eva: “verso
tuo marito sarà il tuo desiderio (teshuqahtek),
ma egli ti dominerà”.
La
tradizione rabbinica osserva come qui abbiamo lo stesso termine
configurato in due frasi che richiedono desinenze diverse. Ora col
peccato la reciprocità è venuta meno e il desiderio è
diventato dominio (verso
il tuo marito sarà il tuo desiderio ma egli ti dominerà).
Nel
Cantico, il desiderio diventa aspirazione che rende possibile la
presenza di Dio nella storia “io
sono del mio amato e il suo desiderio è per me”.
Questo vuol dire che il problema non è il desiderio, ma il
contesto in cui esso è vissuto. Si sottolinea il valore
positivo dell’eros vissuto nel giusto alveo, che secondo la
tradizione, vuol dire, l’autenticità della relazione
matrimoniale, segno che nella tradizione ebraica è
rappresentato dal baldacchino nuziale (chuppah),
che indica la presenza di Dio. Dunque, un amore consacrato, reso
anche dal Tallit
dello
sposo retto dai testimoni, sotto il quale stanno gli sposi, che
rappresenta la nube dell’esodo, la presenza di Dio che dei due
farà una cosa sola. È il segno del desiderio che è
passato dal dominio alla reciprocità, che rende presente Dio
nella storia. Tanto che nella I
Benedizione,
letta nelle nozze ebraiche, si dice: “Col
permesso dei maestri, per la vita, Benedetto sei tu, o Signore,
nostro, re del mondo, che ci ha santificato con i suoi precetti, che
ci ha raccomandato di non contrarre matrimoni illeciti, che ci ha
vietato l’unione prima del matrimonio e che consacra il suo
popolo attraverso il rito matrimoniale”.
La
reciprocità dell’amore e la dimensione erotica così
intese e vissute, diventano la modalità con cui Dio ancora
oggi continua a santificare il suo popolo. Questo vuol dire vivere
l’eros in maniera positiva: non solo non è un ostacolo
al cammino di santità, ma ne è la via. Per questo in
Geremia, al cap. 33, 10-11, laddove il profeta parla della nuova
alleanza, della Gerusalemme rinnovata, il segno del ritorno
dall’esilio saranno proprio le voci dello sposo e della sposa
nuovamente per le vie di Gerusalemme, segno che non solo si è
ristabilito il rapporto tra l’uomo e Dio, ma che tale relazione
continua a passare dell’amore umano.
In
altri termini, i simboli allegorici del rapporto tra Dio è il
suo popolo sono veri, perché vero è l’amore
umano. Dunque, se in certi contesti si è potuto leggere il
Cantico in quanto riferito ad una lettura allegorica, la tradizione
rabbinica afferma che si può parlare di lettura allegorica in
quanto l’amore umano autentico rende presente Dio nella storia.
Ulteriori
riprese e specificazioni
Chi
è capace di simili slanci e attenzioni propostici dal Cantico?
Secondo l’intera rivelazione biblica solo Dio ne è
capace. La gioia, la passione, l’intensità emotiva e la
piena capacità del dono reciproco sono le caratteristiche
della relazione fra un uomo e una donna che esprimono l’immagine
più bella ed efficace del rapporto uomo-Dio. Non facciamo del
Cantico l’unica parola dell’amore, ma se esso non fosse
presente nella Bibbia rischieremmo di ridurre il relativo discorso ai
suoi aspetti morali e religiosi. Ma il Cantico è presente e
questo ci basta.
L’interpretazione
letterale del Cantico dei Cantici è aperta a un senso
spirituale, proprio perché l’amore sponsale è
opera di Dio, è realtà santa che rimanda a Dio.
Colpisce che nel Cantico non sono nominate le grandi realtà
che costituiscono il nucleo della fede ebraica come il tempio, la
legge, l’alleanza, il sacerdozio, il messianismo, ma in realtà
questo poema celebra l’amore degli sposi come un dono fatto dal
Dio dell’alleanza. Il Cantico parla dell’amore sponsale
non sulla base della legge che consente il ripudio (Dt 24,1-4), la
poligamia o il concubinato (Dt 21,15-17), ma sulla base dell’amore
di Dio per il suo popolo e ispirandosi al progetto creativo espresso
in Gen 2,23-24. L’alleanza di Dio con il suo popolo e il
progetto di Dio al momento della creazione fanno riscoprire la natura
e i valori dell’alleanza sponsale. Nel Cantico l’amore
sponsale è celebrato sul modello dell’alleanza sponsale
di Dio e nel linguaggio dell’amore divino: l’amore
reciproco degli sposi è il riflesso di quello sponsale di Dio
per Israele al quale deve ispirarsi, del quale è chiamato a
diventare segno. Nel Cantico l’amore divino modella l’amore
umano in monogamia indissolubile e questo è straordinario in
una società, dove la poligamia e il ripudio erano ammessi come
un dato di fatto.
È
l’intero contesto della Bibbia che ci aiuta ad andare oltre al
senso letterario del Cantico. L’Antico Testamento parla del
rapporto di Dio col suo popolo mediante l’immagine della
sponsalità. Da secoli gli ebrei vedono nel Cantico
un’esposizione della storia di Israele nei suoi tre grandi
momenti: l’esodo dall’Egitto e il periodo fino alla
distruzione del tempio, la deportazione in esilio, la restaurazione
messianica dopo l’esilio. Nel Cantico vedono la celebrazione
mistica dell’amore di Dio per Israele nel succedersi della sua
rivelazione. Nel Nuovo Testamento il ruolo di Dio si incarna in Gesù
quello di Israele nella Chiesa: Gesù è lo sposo della
Chiesa. Noi cristiani scopriamo, quindi, nel Cantico anche un
riferimento all’amore sponsale di Gesù per la Chiesa,
celebriamo le nozze di Cristo con la Chiesa, realizzate mediante
l’incarnazione e il mistero pasquale.
Il
Cantico celebra anche il desiderio dell’umanità,
dell’intera creazione, della singola persona di essere baciate
da Dio stesso. Il
bacio nell’ebraismo era il segno della comunione più
intima, il sacramento della fedeltà fondata nell’amore:
“Salutatevi
gli uni gli altri con il bacio santo” (Rom
16,16). Non a caso il Cantico dei Cantici inizia: “Mi
baci con i baci della sua bocca!
Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino…
Attirami dietro a te, corriamo!
M’introduca
il re nelle sue stanze:
gioiremo e ci rallegreremo per te, ricorderemo le tue tenerezze più
del vino”
(Ct 1, 2-3). Lo
Zohar
si domanda: "Perché
mai Salomone ha voluto introdurre espressioni di amore tra il mondo
di Dio e quello degli uomini e ha usato, iniziando la lode all'amore
tra di loro, il termine "Mi baci!"? Invero si è già
spiegato, e così è in realtà, che non esiste
amore tra due che aderiscono l'un l'altro se non nel bacio ed il
bacio si dà con la bocca, che è la sorgente del soffio
e il luogo da cui esso esce. Quando si baciano l'un con l'altro i
soffi aderiscono questi a quelli e diventano una sola cosa. Allora
l'amore è uno!"
(Zohar Terumà).
Un
poeta ebreo russo, Zalman Schneur, scriveva: “Mia
colomba, tu non sai come ci baciamo noi ebrei. Fino a che, petto
contro petto, nessuno dei due sappia qual è il suo cuore, né
distingua il cuore dell’altro. Materia e corpo sono spariti.
Non resta che un soffio e un’anima: non esistono più
parole, solo esiste il parlare della pupilla degli occhi”.
Per questo, secondo la tradizione ebraica, “Dio
ha parlato con noi faccia a faccia, come un uomo che bacia il proprio
amico”
(Targum
Shir Ha-Shirim),
mentre “le
parole della legge furono date attraverso un bacio”
(Cantico Rabba).
E
in Cristo il bacio diviene sacramento per tutta l'umanità,
risposta al desiderio che tiene nel gemito tutte le genti: "Il
bacio è segno dell'amore: il popolo dell'Alleanza non diede a
Dio il bacio perché si rifiutò di amarlo attraverso
l'amore dopo averlo servito nel timore. Per questo attraverso la voce
della sposa sta scritto del Redentore nel Cantico dei cantici: "Mi
baci con il bacio della sua bocca (1,1)"…
"I
pagani, chiamati alla salvezza, non cessano di baciare le orme del
Redentore perché sospirano continuamente d'amore per lui"
(Gregorio Magno, Omelia XXXI,6).
In
filigrana tornano alle mente le parole che Maria dirige ai servitori
presenti a Cana; Ella, con una fede incrollabile, desidera
quello che desiderano gli sposi,
essendo oltre che Madre anche la Sposa perfetta dello Sposo più
bello: “Ti
scongiuro – pare dire la sposa – perché finalmente
tu lo mandi a me… venga proprio lui e mi baci con i baci della
sua bocca, cioè infonda nella mia bocca le parole della sua
bocca ed io lo ascolti parlare o lo veda insegnare – in che
modo si compia la profezia di Isaia: Non un inviato né un
angelo, ma il Signore stesso salva”
(Origene, Commento al Cantico dei Cantici).
Il
Cantico proclama questo anelito infinito, proclama la fame divina di
essere amati e completati da Dio, proclama le nozze della famiglia
umana e della singola persona con Gesù.
Il
Cantico celebra la nascita, la crisi e il trionfo dell’amore.
Questo è il motivo per cui quest’opera consente una
molteplicità di interpretazioni: è un canto di amore
sponsale, è un canto dell’amore tra Dio e Israele, è
un canto dell’amore tra Cristo e la Chiesa, è un canto
al creatore che si unisce alla persona singola, è un canto
della creazione che attende il suo compimento. Per cogliere queste
interpretazioni il Cantico va letto con umiltà e con
assiduità, ricordando che ogni versetto può avere
molteplici sensi, può emanare molte scintille. Il Cantico va
letto con amore e a ogni rilettura ci si rende conto che non si
finirà mai di comprenderlo in tutta la sua ricchezza. Vale
anche per il Cantico quanto scrive Lutero: Omnis
locus Scripturae est infinitae intelligentiae
(Ogni passo della Scrittura è aperto a una comprensione
infinita). Il Cantico è uno scrigno di gioielli e sboccia tra
le mani di chi lo scruta. Non è solo il canto dell’amore
sponsale umano, perché celebra anche l’amore sponsale
tra il Tu che è Dio e l’io che è Israele, tra il
Tu che è Cristo e l’io che è la Chiesa, tra il Tu
che è Dio o Gesù Cristo e l’io che è la
singola persona.
Per
questo motivo gli ebrei hanno inserito il Cantico tra i cinque rotoli
che vengono letti nelle grandi feste. Alla solennità più
grande, alla pasqua, è riservata la lettura del Cantico. In
esso Israele celebra tutta la storia della salvezza: dall’esodo,
all’esilio, al ritorno in patria, alla venuta finale del
Messia. È una storia fatta di amore, di separazione, di
ricerca, di incontro definitivo. Per questo motivo Rabbi Aqiba, morto
nel 135 d.C., ha difeso l’origine divina e quindi la canonicità
del Cantico dei Cantici con le parole rimaste celebri: «Il
mondo intero non aveva senso né valore prima che fosse stato
dato a Israele il Cantico dei Cantici. Il mondo intero non è
degno del giorno in cui il Cantico è stato donato a Israele.
Tutti i libri della Bibbia sono santi, ma il Cantico è il più
santo di tutti».
Un secolo più tardi Origene fa eco a queste parole e inizia
così le sue omelie sul Cantico: «Beato
colui che penetra nel santo, ma ben più beato colui che
penetra nel santo dei santi. Beato chi comprende e canta i cantici
della Scrittura, ma ben più beato chi canta e comprende il
Cantico dei Cantici».
Di
conseguenza due sono le vie principali che fin dall’antichità
sono state prese, sia dagli ebrei sia dai cristiani, per interpretare
il cantico dei Cantici: la spiegazione letterale e quella allegorica.
La prima è stata rarissima fra gli antichi ed è invece
sostenuta da moltissimi moderni. Essa vede in questo poema
l’esaltazione dell’amore tra un uomo e una donna e la
celebrazione positiva del corpo: è quella chi qui seguiamo
maggiormente. La via allegorica, adottata in passato, legge nel
Cantico l’amore di JHWH e del popolo di Israele, l’amore
di Cristo e della Chiesa.
La
scrittrice americana Susan Sonntag nel saggio Contro
l’interpretazione
ha scritto che: «l’interpretazione
è la vendetta dell’intelligenza sull’arte».
D’altra parte è solo attraverso la fatica
dell’interpretazione, attraverso una paziente analisi del testo
che si possono mettere in luce alcuni dei suoi tesori, si può
far intuire il molteplice volto, la molteplice ricchezza di ogni
espressione, di ogni parola. Dopo aver accennato al fatto che l’amore
è una fiamma divina e che l’amore sponsale è
segno dell’amore di Dio per il suo popolo, ci soffermiamo su
alcune altre caratteristiche dell’amore sponsale, celebrate nel
Cantico dei Cantici.
L’amore
sponsale è una scelta libera
L’amore
coniugale nel Cantico è anzitutto frutto di una scelta libera.
Il Cantico celebra l’amore nato dalla libera scelta dei due
giovani sposi. Il matrimonio non è fatto su indicazione dei
genitori o direttamente da loro (come si dice in Gen 24 per il
matrimonio di Isacco, in Gen 28 per il matrimonio di Giacobbe, in Ger
29,6 per i genitori in Babilonia), ma direttamente dai due sposi. La
sposa parla per prima, dando espressione al suo desiderio: «Mi
baci con i baci della sua bocca!» (Ct 1,2). Con queste parole
la donna mette in moto tutta l’azione del poema, infrangendo
l’ordinamento allora stabilito da quella che possiamo chiamare
«la legge del padre». La donna esprime la grandezza
dell’amore, la sua ebbrezza, la sua ricerca, la sua pienezza
mai raggiunta, la fame e sete che esso suscita. Alla donna appartiene
anche l’ultima parola del Cantico (Ct 8,14); sulla sua bocca si
trova l’affermazione estrema che l’amore è forte
come la morte e che è una fiamma divina (Ct 8,6); è la
donna che grida per tre volte la reciproca appartenenza esclusiva dei
due sposi (Ct 2,16; 6,3;7,11) e sempre la donna pronuncia la frase
sul desiderio (Ct 7,11) che appare come un rovesciamento del
predominio dell’uomo sulla donna, come conseguenza del peccato
Gen 3,16). Per dodici volte la donna esprime la sua personalità,
presentandosi col pronome «io», che non sempre è
tradotto in italiano (Ct 1,5.6; 2,1.5.16; 5,2.5.16; 5,2.5.6.8; 6,3;
7,11; 8,10).
Dopo
le parole iniziali, la sposa si proclama matura e arresasi
liberamente all’amore (Ct 1,6): la sposa ha lasciato
incustodita la sua vigna nel senso che è totalmente dedicata e
offerta allo sposo. La sposa confessa l’esplodere del suo
amore; il controllo e l’opposizione della famiglia sono stati
inutili; lei ha spezzato i legami e corre dietro il suo amore. Il suo
è un amore spontaneo: i due sposi non possono sopportare le
convenzioni e le costrizioni esterne, le ingerenze dei fratelli. Nel
mondo antico i fratelli avevano un controllo sulla sorella; qui la
donna afferma la sua libertà di vivere nell’amore. La
vigna allude alla femminilità della donna, ma essa può
alludere anche all’intero popolo (Is 5,1.7). L’amore è
il compimento della libertà e la libertà dona senso
all’amore. Esso, infatti, nasce dal cuore e non può
essere vincolato da costrizioni esterne. Subito dopo il coro invita
la donna a uscire (Ct 1,8): proprio perché è una scelta
che rimane costantemente libera, l’amore è sempre un
esodo verso una meta misteriosa.
A
sua volta lo sposo chiama più volte la sposa con le parole
«amica mia» (Ct 1,9.15; 2,2.10.13; 4,1.7; 5,2; 6,4),
sottolineando in tal modo la libertà dell’amore della
sposa.
Alla
fine della composizione la donna dice che l’amore non lo si può
comprare nemmeno con un intero patrimonio, perché il suo
valore è la gratuità (Ct 8,7). Incontrando colui che
lei ama e dal quale è riamata, la sposa ha trovato il suo
compimento, la sua pienezza; avendoli trovati, li può
procurare a colui che lei ama (Ct 8,10): essa è veramente la
Shulamit,
la sposa della pace.
A
sua volta il coro afferma che non c’è nessun denaro che
paghi l’amore dell’amata: Salomone ha affidato la sua
vigna a dei custodi, cioè ha affidato il suo harem
a degli eunuchi e ciascuno di questi custodi doveva portare al re una
cifra enorme, mille pezzi d’argento (Ct 8,11).
Al
coro risponde la sposa con fierezza: lei non è proprietà
di nessuno; è a disposizione soltanto dell’amato perché
liberamente decide di donarsi a lui. Il re si può tenere tutte
le sue proprietà, perché l’amore dell’amata
per il suo amato è disinteressato e vale molto di più
di ogni proprietà: non c’è nessun prezzo che lo
possa comperare e non c’è bisogno che venga custodito
con la forza (Ct 8,12).
è
monogamico
L’amore
sponsale nel Cantico è caratterizzato dalla monogamia; così
si supera il costume della poligamia, che era in uso all’epoca
dei patriarchi, dei giudici e dei re, anche se era diminuita
notevolmente dopo l’esilio, si supera il costume del divorzio,
che allora era molto frequente, e si contrasta la caduta
nell’adulterio. Per tre volte, con leggere variazioni, la sposa
grida il gioioso esclusivismo dell’appartenenza di lui a lei e
di lei a lui: «Il mio amato è mio e io sono sua»
(Ct 2,16); «Io sono del mio amato e il mio amato è mio»
(Ct 6,3); «Io sono del mio amato e il suo desiderio è
verso di me» (Ct 7,11). «Amato», lo abbiamo già
precedentemente in ebraico, è detto dodì,
termine che ricorre trentun volte nel Cantico dei Cantici e che è
la definizione quasi obbligata che la donna usa nei confronti del suo
sposo. La precedente versione della CEI, forse per ragioni di lettura
formale all’interno della liturgia, usava l’espressione
molto ricercata «mio diletto», ma difficilmente nessuna
innamorata si rivolge con questo vezzeggiativo al suo amato;
eventualmente direbbe «mio tesoro». Il vezzeggiativo dodì
è intraducibile, è simile a quei nomi affettuosi che
gli innamorati coniugano segretamente per sé stessi. Ma il
termine dodì
è composto delle stesse consonanti del nome Davide: l’amato
è visto dall’amata come il proprio re o principe. In
tutto il Cantico la sposa usa sempre questo titolo per il suo amato e
questo nome della tenerezza diventa implicitamente il nome delle
speranze messianiche. Anche le tenerezze reciproche, le carezze sono
espresse quattro volte col termine dodim,
plurale di dod
(Ct 1,2; 4,10; 5,1; 7,13). Così questo termine è quasi
il filo musicale ininterrotto del Cantico sulle labbra della sposa.
Nello stesso tempo dodì
è un termine di mutua appartenenza o di reciprocità,
molto simile alla formula di alleanza tra Dio e il suo popolo.
La
sposa chiama il suo sposo sempre dodì,
amato. Lui invece usa una varietà di titoli, una ventina, per
indicare la sua sposa nella sua ardente bellezza, nei suoi tormenti
di amore, ed esprimerle il suo amore: affascinante, incantevole, mia
amata, mia amica, mia sorella, mia sposa, amore dell’anima mia,
mia unica, bella, rosa, colomba, giardino recintato, fontana
sigillata, meravigliosa, terribile, eguale all’aurora, alla
luna, al sole, narciso di Saron, giglio delle valli.
Leggiamo
le tre dichiarazione di amore, fatte dalla sposa, che sono state
chiamate «formule di mutua appartenenza».
«Il
mio amato è mio e io sono sua»
(Ct 2,16)
Queste
parole esprimono la totalità dell’amore: l’amore è
un possesso reciproco che nasce dalla donazione reciproca. Queste
parole sono un canto di mistica unitiva. L’amato è per
l’amata e l’amata è per lui; l’amato è
con l’amata e l’amata è con lui per sempre. Lei lo
sa con una certezza che esplode: l’amato la desidera e la
accoglierà in un’unione indissolubile e lei proclama
questa certezza assoluta a sé stessa e al mondo. Lei non si
rivolge a lui, ma canta la sua intuizione, alimentata dalla visione
di amore. La differenza tra i due non è un ostacolo, ma
contribuisce a rafforzare il dono che uno è per l’altra
e con l’altra e viceversa.
L’amata
grida che il suo amato, benché assente, è vivo in lei e
che lei lo sa con sicurezza. Anche se è nera, un po’
bruciata dalla fatica del lavoro, dall’ingiuria della storia,
della vita passata, sa di essere amata dal suo re, dal suo amato; sa
che per lui è bella. La verità del proprio amore rende
l’amata eguale all’amato: egli è di lei e lei è
di lui. Il suo amato è un dono assoluto e primo, è
offerta di sé a lei e lei trova qui la sorgente per donarsi a
lui nella purezza di un dono totale.
Queste
parole sono pronunciate dalla donna subito dopo quelle con le quali
il suo amato lascia trasparire un bagliore di paura, la possibilità
di una tragedia (Ct 2,15). La donna è paragonata a una vigna
in fiore: è tutta vita, freschezza, splendore, floridezza,
profumo. Ma contro di lei può attentare il male, incarnato qui
dalla volpe o dallo sciacallo e dai loro piccoli; contro la purezza
dell’amore si possono scatenare forze avverse (la lussuria, la
violenza, l’ingordigia, la trascuratezza) che ne possono fare
scempio: ogni amore ha i suoi nemici e perciò va sempre
custodito con cura, per renderlo più forte delle volpi o degli
sciacalli, capace di vincere le insidie o le aggressioni che può
incontrare.
Il
sospiro di amore «Il
mio amato è mio e io sono sua»
ha anche una sottile, ma grandiosa carica allusiva. Nell’Antico
Testamento questa formula ricorre più volte per indicare
l’appartenenza di Israele a Dio, per descrivere la relazione di
alleanza che intercorre tra Dio e il suo popolo: «Il
Signore sarà Dio per te… e tu sarai il suo popolo
particolare»
(Dt 26,17-18; 29,12; Os 2,21-25; Ger 7,23; 11,4; 24,7; 31,33; Ez
34,30-31; 36,28; 37,23.27; Sal 95,7; 100,3). L’autore del
Cantico prende la formula della reciproca appartenenza tra Dio e
Israele e la applica ai due sposi: l’amore divino per Israele e
l’amore coniugale si illuminano a vicenda.
«Io
sono del mio amato e il mio amato è mio»
(Ct 6,3)
Per
capire meglio questa affermazione è opportuno tenere presente
il contesto in cui è inserita. Il sonno e il risveglio si
contendono la coscienza dell’amata. L’amore l’ha
tirata fuori dalla incoscienza del sonno, ma non al punto da essere
pienamente disponibile. C’è in lei ancora il sonno, il
legame con la notte e questo le impedisce il dono totale di sé
a colui che ama. L’amato sopraggiunge improvvisamente, a notte
fonda, al colmo del sonno di colei che ama. La pioggia e la rugiada,
segni della notte, gli inondano il capo. Si rivolge all’amata
con quattro appelli, chiamandola «sorella
mia, mia amica, mia colomba, mio tutto»
(Ct 5,2). Ma lei non è pronta al dono totale di sé.
Nonostante l’ardore della passione che è in lei, lei
conserva zone di ombra e di rifiuto che le impediscono di aderire in
verità e pienezza a tutte le esigenze dell’amore.
Qui
c’è un’allusione, in forma stupenda, anche alla
realtà del peccato: è mancanza di prontezza a
rispondere all’amore. Questa mancanza di prontezza è
provocata dal sonno, dalla notte, e vengono addotti motivi futili per
giustificarla: «Mi
sono tolta la veste: come indossarla di nuovo? Mi sono lavata i
piedi: come sporcarli di nuovo?»
(Ct 5,3). Mancanza di amore è il peccato della donna che così
resta dentro, chiusa nel suo isolamento. L’amato cerca di
aprire, di liberarla, ma non usa violenza.
L’amato
cerca di introdurre la mano e quella mano che cerca di introdursi
risveglia l’amata, la restituisce a sé stessa,
all’amore, la libera dalle sue esitazioni, la fa vibrare, si
presenta al dono, ma l’amato è già scomparso. Lei
vive il dramma della solitudine, dell’esilio che si apre e si
acuisce quando l’amata, finalmente del tutto sveglia, si
accorge che l’amato non c’è più. La
solitudine porta l’amata alla ricerca dell’amato e questa
non è altro che la ricerca autentica di sé stessa.
L’amore mancato o perduto va cercato di nuovo, va inseguito,
superando ogni ostacolo. L’amore è una conquista
perenne. La ricerca si trasforma in sofferenza e purificazione.
La
ricerca avviene nella notte. Le guardie scambiano l’amata per
una prostituta: le tolgono il mantello e la percuotono e la
feriscono; l’amata è disonorata, sola, prigioniera,
battuta, ferita e nuda; ma così è anche l’anima,
così è la figlia di Sion, così è la
Chiesa, così è la creazione intera, quando sono
estraniate all’amore (Ct 5,7). Qui si allude ancora alla
tragedia del peccato.
La
donna si libera dalla solitudine in cui è caduta con il
proprio rifiuto dell’amore e affranta fa appello alla
intercessione delle figlie di Gerusalemme: dicano all’amato che
lei è malata di amore (Ct 5,8). Privata del suo amato, lei è
assente a se stessa, è privata della sua anima, è come
in balìa a un’agonia senza fine. Il suo amato è
presente nella sua coscienza, ma è assente nella sua vita; lei
è tutta concentrata su colui del quale si ricorda e sul quale
ha posto tutte le sue speranze, ma lui non è più
presente. Incomincia così la conversione dell’amata.
L’amata
traccia il ritratto del suo amato: si distingue da tutti gli altri, è
il più incantevole di tutti. Inizia così il canto per
l’amato assente, il canto del principe scomparso, di colui che
lei ha momentaneamente perso per colpa sua (Ct 5,9-16). Questa
descrizione dell’amato è una litania di amore, è
un’offerta di amore, è il cantico di Israele e della
Chiesa al Signore assente. Sebbene sia assente, lui è l’unico,
è l’incarnazione della bellezza assoluta. Ventidue
termini di paragone sono usati dall’amata per ricostruire il
volto dell’amato e poi conclude tutti i paragoni affermando:
«egli
è tutto delizie» (Ct
5,16).
L’amata
è la sposa crocifissa dell’amato assente, ma da lei
cercato e cantato. La fede trasforma il suo amore in un canto al suo
amato re assente. L’amata diventa simile all’orante che
si rivolge a Dio e gli dice: «Il
mio Signore sei tu, solo in te è il mio bene»
(Sal 16,2), «O
Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te
l’anima mia»
(Sal 63,2). La sofferenza dell’amata, la sua contemplazione
crocifissa e ammirata, il suo amore assoluto uniscono a lei le figlie
di Gerusalemme nella ricerca.
Sboccia
allora questa seconda professione di amore: «Io sono del mio
amato e il mio amato è mio». Lei è di lui e per
lui, lei è dono assoluto, offerta pura come aveva detto
precedentemente (Ct 2,16). Questa professione di amore, al termine di
un’assenza e di una ricerca, acquista un sapore più
intenso: l’amore ritrovato ha un gusto ancora superiore
rispetto all’amore scoperto per la prima volta. L’amata
non si è arresa al silenzio, al gelo dell’assenza, al
suo momentaneo fallimento: ora possiede l’amato totalmente e
immutabilmente; lei è per lui e lui appartiene a lei.
«Io
sono del mio amato e il suo desiderio è verso di me»
(Ct 7,11)
In
questa terza espressione di amore c’è un’aggiunta
significativa: «il
suo desiderio è verso di me».
La donna parla della pulsione, della passione del suo amato e così
afferma coscientemente non solo di amare («Io sono del mio
amato»), ma anche di essere da lui amata, desiderata, attesa
(«il suo desiderio è verso di me»). La parità
delle due persone, la certezza del loro reciproco donarsi e
possedersi sono ormai la celebrazione di un amore sponsale maturo.
Abbiamo
già presentato l’espressione «il suo desiderio è
verso di me» che richiama, per contrasto, le parole rivolte da
Dio alla donna dopo la prima colpa (Gen 3,16). Nella Genesi si
parlava della tensione sessuale disordinata, inseritasi nella coppia:
l’impulso della donna verso l’uomo è come un’arma
sospetta nella mano dell’uomo; egli ne può approfittare
per la sua brama di dominio e di prepotenza. Nel Cantico, invece, la
consapevolezza di essere ardentemente desiderata da colui che lei ama
serve solo ad aumentare nella donna la purezza della sua donazione:
il desiderio di entrambi è alimentato e purificato dal lievito
dell’amore. Qui l’uomo e la donna si considerano come
desiderio uno dell’altra. La donna può esprimere il
desiderio amoroso del suo amato perché lei è diventata
consapevole della sua dignità pari a quella dell’uomo:
l’amore è diventato secondo il progetto iniziale di Dio.
Dopo
il peccato, vivere l’amore non è così facile come
sembra. Per il fatto che tutti cercano l’amore, non è
detto che tutti lo vivano. Spesso l’uomo chiama amore un
sentimento che invece è tutt’altra cosa: ama in modo
scorretto, perché gli piace, perché si sente
momentaneamente realizzato, padrone; ama con calcolo e questo amore
in realtà è egoismo. L’amore interessato è
una forma di violenza, forse la peggiore di tutte, perché
camuffa la brama di possesso con gesti di tenerezza, tesi in realtà
allo scopo di conquistare, sfruttare, dimostrare diritti di
proprietà. La cultura dell’amore diffusa oggi tra noi è
piena di contraddizioni, perché non riesce a far vivere quella
libertà che promette, e spesso quello che è
propagandato come libertà diventa oppressione. Ci si indigna
per le vittime di questa oppressione, ma pochi se ne sentono
responsabili.
La
sposa del Cantico si sente invece attratta dallo sposo e a lui si
offre, perché sa di essere accolta e amata veramente. Così
è anche lo sposo: è attratto dalla sposa e la chiama
senza farle violenza. Vuole il suo consenso e non approfitta di lei.
Tra lo sposo e la sposa c’è un reciproco consenso: la
sposa acconsente di essere amata e lo sposo le dà il suo
consenso. Un consenso non condizionato dall’imposizione, ma
dato liberamente, perché chi ama veramente lascia l’altro
sempre libero di corrispondere.
«Tutta
la storia dell’umanità è la storia del bisogno di
amare e di essere amati»
(Giovanni Paolo II). Questa storia è presente anche nel
Cantico dei Cantici, nell’amore tra la sposa e lo sposo che lì
viene celebrato. La donna, la sposa sta davanti al suo uomo non come
una serva, ma come una compagna, messa lì da Dio per
completare l’uomo e per essere da lui completata. L’attrazione
riguarda entrambi e non è umiliante o schiavizzante per
nessuno dei due. Ognuno dei due è chiamato a ricordare
all’altro la sua origine da Dio, la sua somiglianza con lui, il
suo essere segno di una realtà più grande e nello
stesso tempo il proprio bisogno di aiuto, di completamento.
In
quest’atmosfera di reciproca donazione e accoglienza la donna è
felice di potersi dare al suo sposo: «là
ti darò il mio amore» (Ct
7,13), fatto di carezze e di tenerezze. Per celebrare questo amore ha
preparato frutti freschi e frutti secchi (Ct 7,14). Questi frutti
esprimono la concezione che lei ha dell’amore: sarà
eterno e felice come i frutti nuovi, che contengono intatto il loro
pieno sapore, sarà come i frutti stagionati i quali, dopo aver
perduto un certo quantitativo di acqua, serbano ancora più
viva tutta la loro forza e dolcezza.
Anche
lo sposo pensa a una sponsalità monogamica e fedele. L’harem
del re può essere fatto di sessanta mogli, di ottanta
concubine e di innumerevoli fanciulle in attesa di entrare nelle sue
grazie, ma lo sposo del Cantico non invidia quell’harem.
Cantando il corpo della sua amata (Ct 4,1-5,1), l’amato
proclama con fierezza l’unione monogamica con la sua amata: lei
è «un giardino chiuso, una sorgente chiusa, una fontana
sigillata» (Ct 4,12). Le immagini indicano un’alternanza
tra olfatto e gusto; sono un’allusione al giardino della
creazione, sono soprattutto allusioni alla sessualità
femminile, presentata come bella, dissetante, esclusiva, chiusa agli
estranei e fedele unicamente allo sposo. L’amato allude in
forma nitida alla fedeltà della sua amata, all’esclusività
del possesso reciproco. Nemmeno lui però può forzare e
ancor meno violentare l’amore della sposa. La pienezza
dell’amore è donazione, è comunione totale. In Ct
4,15 lui dice che la sua amata è una fontana che irrora i
giardini: ha un’acqua che deborda e che fa vivere. In qualche
modo l’amata prende il posto di Dio stesso e diventa per
l’amato segno sovrabbondate della presenza di Dio.
Questa
idea fondamentale di mutua appartenenza, che attraversa tutto il
Cantico, ci fa comprendere che l’amore è la trasfusione
totale di due persone l’una nell’altra, è la loro
comunione. In un successivo canto del corpo dell’amata (Ct
6,4-10), l’amato esclama: «Siano
pure sessanta le mogli del re, ottanta le concubine, innumerevoli le
ragazze! Ma unica è la mia colomba, il mio tutto» (Ct
6,8-9). L’harem
del re può essere immenso; nel rango più alto stanno le
sessanta mogli, le principesse di sangue reale, al secondo livello
stanno le ottanta concubine, sterminato è il livello delle
ragazze. Eppure tutta questa corte non può sostituire lei,
l’unica, la donna amata. Per una mamma suo figlio è la
creatura più bella del mondo, per l’innamorato la sua
donna è la più splendida delle donne, è l’unica
al mondo. Ci può essere anche un riferimento anche alla
preghiera quotidiana dello Shema‘
(Dt 5,4-5): mille dèi morti non possono sostituire il Dio
vivente che resta sempre l’unico Dio.
sponsalità
indissolubile e feconda
La
donna, protagonista del Cantico, al vertice del suo amore esclama:
«Mettimi
come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio»
(Ct 8,6). È uno dei più celebri versetti del Cantico.
Qui abbiamo il trionfo dell’amore coniugale. La coppia è
finalmente unita, ma ha bisogno di un continuo compimento, espresso
con l’immagine del sigillo. Il sigillo è un oggetto di
metallo o di pietra che permette di identificare la persona o di
autenticare i documenti; per l’orientale equivale alla nostra
carta d’identità. Esso veniva portato con una catenella
al collo, e quindi batteva sul petto, oppure era inserito in un
bracciale, oppure era portato al dito (Gen 38,18; 41,42; Ger 22,24).
Metterlo sul cuore è inusuale, ma in esso dimora la sede della
libertà.
La
sposa dice al suo amato: «Tu
devi porre me come tuo sigillo», «sono io che do
l’identità a te e viceversa».
La sposa supplica lo sposo di considerarla tutta e sempre sua, perché
lei, a somiglianza del sigillo che lo sposo ha sul cuore, sede dei
pensieri e degli affetti, e sul braccio, simbolo dell’azione,
vuole pensare e agire come pensa e agisce lui, vuole che lui pensi e
agisca tenendo presente lei. La donna vuole essere il sigillo che
autentica il cuore di lui, il braccio di lui, vuole che pensiero e
azione siano uno scambio reciproco. Niente nella vita dei due potrà
essere progettato o attuato senza l’autenticazione che proviene
dalla persona amata. Ogni divisione o separazione sarà
impossibile; la sposa vuole essere come un timbro, un marchio a fuoco
sul braccio e sul cuore dello sposo: vuole essere inseparabile da
lui, una sola carne con lui.
Questa
appartenenza non può essere infranta neppure dall’avversario
per eccellenza: dalla morte, che sembra divori tutto (Ct 8,6-8).
Quello della sposa e dello sposo è un amore che resiste anche
alle grandi acque, cioè alle sciagure: le grandi acque
richiamano il Nilo e l’Eufrate, l’Egitto e Babilonia (Is
8,6-8; 17,13; 42,15; 44,27; Ger 46,7-8; 51,55). L’amore supera
la veemenza della morte, ha l’ardore del fulmine che nessuno
riesce a spegnere. L’amore è come la roccia contro cui
si infrange la forza dei fiumi avversi. Per questo riesce a vincere
le grandi acque e la morte, cioè ogni avversità. In
questa luce riusciamo a capire che la relazione dell’amore
nuziale è veramente la relazione della totalità, della
pienezza. L’amore dei due sposi non potrà essere spento:
al termine del Cantico l’unione si fa dunque definitiva. In tal
modo essa diventa anche una rappresentazione di ciò che va
oltre, dell’unione con l’Altro, dell’amore di Dio.
Perciò
nell’interpretazione più profonda la sposa è
Israele, è la Chiesa. Essa si rivolge a Dio, suo sposo, a
Cristo, suo sposo, e gli dice: «Mettimi
come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio. Tienimi
sempre per mano».
La sposa può essere l’immagine di Israele e della Chiesa
che, avendo scoperto per rivelazione l’amore di Dio, sente di
non aver sempre corrisposto alla propria elezione. Dopo tante
peripezie, ricerche, richiami, torna finalmente a Dio, a Cristo,
vuole diventare sposa definitivamente unita allo sposo
Allora
si rivolge allo sposo e gli dice: «Portami
sempre con te!».
Il simbolo del sigillo sembra alluda alla preghiera che l’ebreo
ripete cinque volte il giorno: i precetti del Signore devono essere
fissi nel cuore e legati alla mano. La sposa vuole che
l’intelligenza, la volontà, l’azione,
l’affettività sua e quella dello sposo costituiscano
sempre una reciproca appartenenza.
A
queste parole della sposa del Cantico si può dare un’altra
lettura più personale. La coppia protagonista indica anche
l’unione di Dio o di Cristo con la singola persona; il Cantico
celebra le nozze della persona con l’amore assoluto di Dio o di
Cristo. La storia della singola persona è santa non perché
è sempre edificante, ma perché è resa tale
dall’amore misericordioso di Dio, dalla sua passione ardente
per ciascuno di noi, dalla sua fedeltà, dalla sua pazienza. La
sposa del Cantico rappresenta ciascuno di noi, col proprio cammino di
amore nel quale diciamo a Dio: «Mettimi
come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio. Tienimi
sempre con te, dentro di te, portami con te, perché io sono
parte di te».
Questa esperienza è espressa molto bene dall’apostolo
Paolo: «Non
vivo più io, ma Cristo vive in me»
(Gal 2,20). Nemmeno le acque della morte possono rompere questo
legame: Dio non sarebbe tale se permettesse alla morte di separarci
da lui. Anche Paolo esprime la stessa certezza (Rm 8,35-39; 2Tm
2,11).
L’amore
dei due protagonisti del Cantico vuole essere anche fecondo. La
fecondità degli sposi non è nominata esplicitamente nel
Cantico, però la sposa è paragonata più volte
alla vigna (Ct 1,6; 8,12); si parla del profumo della mandragola, che
si pensava avesse capacità fecondatrice (Ct 7,14; cfr. Gen
30,14-16); lo sposo è paragonato al melo tra gli alberi del
bosco e in oriente il melo è la pianta dell’amore
fecondo (Ct 2,3); la sposa è un giardino di melagrane (Ct
4,13) e dà allo sposo il succo della sua melagrana (Ct 8,2).
Oggi è messa in crisi anche la fecondità dell’amore;
non tanto per quanto riguarda il numero dei figli, ma soprattutto per
quanto riguarda la stima, la valutazione che accompagna l’amore.
Oggi idoli frequenti sono l’ossessione della crescita, il
totalitarismo della comunicazione. L’amore spesso ha un peso
inferiore al denaro, al successo, alla carriera, al desiderio di
essere presenti nell’ambito dei mezzi di comunicazione. Si
pensa che con queste realtà si può avere anche l’amore,
ma non viceversa, e questo inganno fa molte vittime, lascia molti
senza un vero futuro.
corrispondenza
e diversità
La
sponsalità vive di una perfetta valorizzazione del rapporto
interpersonale. Tra i due sposi c’è un’omogeneità,
una comunione così profonda da renderli un’unica
esistenza, una sola carne. Le esperienze, le emozioni, i pensieri
dell’uno diventano quelli dell’altra in un dialogo che
non si spegne neppure con la morte. A differenza di Gen 2,23-24 dove
c’era solo la voce dello sposo, qui si sente anche la voce
della sposa che guarda l’uomo, avanza verso di lui con gioia,
con libertà, con sofferenza. La parità è piena e
il dialogo è completo. Anzi, è la donna che comincia
per prima, che canta per prima l’amore: «Mi
baci con i baci della sua bocca! Sì, le tue tenerezze sono più
dolci del vino»
(Ct 1,2). «Si
manifesta così la quasi impossibilità di appropriarsi e
impossessarsi della persona da parte dell’altra»
(Giovanni
Paolo II). Il coro dei pastori che raccolgono l’invocazione
della donna è molto significativo (Ct 1,8). Il dono libero da
persona a persona supera l’impossibilità di appropriarsi
dell’altro coniuge. L’unione profonda dei due sposi
rispetta sempre l’identità di lei e l’identità
di lui, a partire dal rispetto della loro diversa corporeità:
la fusione creata dall’amore non diventa mai con-fusione.
Il
Cantico ripete più volte che la dinamica amorosa conosce la
sapienza di far coincidere o per lo meno di far convivere gli
opposti: unione e separazione, comunione e alterità, possesso
e rispetto. La grande difficoltà che oggi conosce l’educazione
all’amore deriva dal fatto che si vuol sopprimere ogni
dialettica e si vuole subito fare la sintesi, si vuole arrivare
subito e con totalità alla pienezza. Si rifiuta la crescita,
la fatica, si teme, non si capisce il senso dei momenti di oscurità.
L’amore vero nasce quando si comprendono e si accettano insieme
la differenza e l’unità. Senza differenze non c’è
relazione, senza comunione rimane una grande solitudine. L’educazione
a una eguaglianza tra due persone differenti è difficile,
perché comporta imparare, rispettare la libertà
dell’altro che deve apparire ancora più preziosa della
propria. Il vero possesso lo si ottiene solo con il paradosso
evangelico della donazione e dello spogliamento: chi perde la propria
vita, la troverà (Mc 8,35).
valore
e bellezza della corporeità
Il
corpo è profondamente unito all’anima, è
inscindibile da essa ed ha una funzione decisiva. Il corpo nel
matrimonio diventa il punto di partenza e di arrivo di un insieme
vivissimo di relazioni. Il corpo ha un suo linguaggio che il Cantico
cerca di decifrare nei suoi segreti. La conoscenza reciproca dei due
innamorati non avviene solo attraverso la mente, ma anche attraverso
i sensi, attraverso la corporeità. «Tanto
il punto di partenza quanto il punto di arrivo del fascino –
reciproco stupore e ammirazione – sono la femminilità
della sposa e la mascolinità dello sposo nella esperienza
diretta della loro visibilità»
(Giovanni Paolo II). La corporeità di lei e di lui è
presente quindi con tutta la sua forza, il suo splendore, i suoi
segreti.
In
Ct 1,13 la sposa contempla il suo amato teneramente abbandonato sul
proprio corpo, mentre pernotta adagiato sui propri seni, percepiti da
lui come un rifugio sereno e dolcissimo in cui le paure si cancellano
e si prova l’impressione di vivere in un giardino di delizie e
di profumi. La tradizione cristiana non ha mai rifiutato la bontà
del corpo e della sessualità, tuttavia talvolta l’ha
velata anche pesantemente attraverso un clima di sospetto e
diffidenza. La sessualità è stata vista spesso con la
paura del puritanesimo, come un pericolo, un rischio, creando
sospetto anche su ciò che è naturale; di conseguenza
gli altri peccati sono stati visti più perdonabili, mentre
quelli della carne sono stati presentati come trasgressioni gravi.
Quasi per reazione, la cultura attuale sta perdendo o ha già
perso il significato del corpo, della sessualità e fa del
corpo uno strumento da usare senza nessun criterio che non sia quello
dell’immediatezza e del godimento. Il corpo rischia di
diventare una cosa, quasi altro da sé. Il Cantico ci dice che
occorre sempre imparare il valore del corpo e della sessualità
per giungere a una visione bella e nello stesso tempo non ingenua; i
condizionamenti, i problemi anche in questo ambito ci sono e tutti lo
sanno: basta pensare a come i ragazzi oggi nel vivere la corporeità
sono suggestionati da tutto ciò che vedono e sentono.
In
Ct 4,1-6 il corpo della donna è descritto partendo dalla
testa, dai capelli, dagli occhi; si passa poi al collo e ai seni.
Questa descrizione in un certo senso prosegue in Ct 7,2-10: qui la
donna è presentata nell’ebbrezza della danza per cui si
sale dai suoi piedi fino al suo volto. Il coro rivolge all’amata
una domanda impertinente: «Ma
che cos’ha di così straordinario il tuo amato» (Ct
5,9): lei approfitta della domanda per slanciarsi in una descrizione
del corpo dell’amato (Ct 5,10-17). Abbiamo così un nuovo
canto, una nuova rappresentazione del corpo dell’uomo rivolta
non a lui, ma agli altri. Questo inno al corpo è ricco di
immagini che ci autorizzano a essere creativi, a intravedere simboli
e significati. Si parla di un volto che è inconfondibile,
unico, irripetibile, ricco di mistero. Il portamento è
stabile, sicuro, completo. Molte volte ritornano espressioni di
questo tenore: «quanto
sei incantevole, amica mia, quanto sei incantevole»; «quanto
sei affascinante, amato mio, quanto sei affascinante».
Per i due innamorati i loro corpi sono bellissimi, perché il
loro amore è bellissimo.
Il
corpo nella nostra cultura è apparentemente esaltato. In
realtà lo è solo ad alcune condizioni: deve essere
giovane, bello secondo i canoni della moda, prestante, capace di
suscitare emozioni incontenibili. Ben pochi corpi e per poco tempo
soddisfano questi requisiti e allora il corpo viene coperto di
tatuaggi, diventa uno spazio per lanciare messaggi, per descrivere
altro da quello che si è o che non si è capaci di dire,
oppure il corpo rischia di essere abbandonato. Il corpo rimane sempre
persona che rimanda a Dio. Non esiste un corpo brutto e non possiamo
andare a Dio senza il corpo. La stessa struttura sacramentale della
Chiesa lo insegna. Il Cantico ci rivolge l’accorato appello a
salvare il corpo e con il corpo salvare l’amore. Ci invita a
chiederci quale volto, quale portamento ha assunto nel tempo il
nostro modo di amare, riconoscendo che forse rispondere è
difficile. Vivere la corporeità non è facile, perché
è sempre in agguato un’adolescenza che non finisce mai.
Oggi uno degli idoli più frequente è la fissazione
della giovinezza. Il corpo, che dovrebbe essere amato, viene
disprezzato, temuto, mercanteggiato con disinvoltura. Veniamo da
secoli di diffidenza verso il corpo e non è facile per nessuno
un equilibrio. La strada peggiore è passare da un eccesso
all’altro, quasi per una legge del bilanciamento, ma così
dalla repressione moralistica si passa alla banalizzazione vuota di
senso.
Il
Cantico aiuta a stabilire un rapporto naturale col corpo, col sesso,
con l’eros. Questo significa anzitutto rallegrarsi che ci sia
la realtà dell’amore. Questo piacere, che è una
delle più belle e potenti sensazioni che esistano, è un
magnifico dono del Creatore. Guardiamo, ascoltiamo i due innamorati
del Cantico, come si rallegrano ciascuno per il corpo dell’altro
nella sua diversità, vediamo come si contemplano estasiati,
dalla testa ai piedi, come anelano alle carezze e all’amplesso.
Sono Adamo ed Eva nel paradiso terrestre, senza vergogna del corpo e
della sessualità. Non si può cadere in errore al punto
di equiparare sempre la sessualità all’immoralità.
Non siamo costretti a cercare di diventare puri spiriti, come
vorrebbero gli influssi provenienti dal neoplatonismo.
Non
ringrazieremo mai abbastanza lo Spirito Santo per aver fatto posto
nella parola di Dio alla celebrazione dell’amore, dell’eros,
fatto anche di corporeità. Questi due giovani che si amano
intensamente avranno poi anche dei figli, non potranno vivere il
Cantico in ogni momento della loro vita. Però l’amore
che hanno vissuto, sperimentato, li aiuterà sempre a compiere
una crescita, li sosterrà sempre.
Intimamente
connesso col corpo umano c’è anche quello che potremmo
chiamare il corpo del mondo: il corpo ha la stessa bellezza della
creazione. Esso rifiorisce, risplende, diventa un paradiso, quando
l’uomo e la donna vivono nell’amore (Ct 4,13-16). Per
questo tutto il libro è ambientato nella primavera che ha alle
spalle il freddo dell’inverno e non conosce ancora
l’incandescenza dell’estate.
Una
Ricerca continua
Il
Cantico celebra due sposi che si cercano, si guardano, si
contemplano, si struggono di amore, si smarriscono, si cercano di
nuovo, si ritrovano, ricordano, sperano e si promettono fedeltà.
L’uno per l’altra sono re e regina. Il Cantico è
percorso come da un filo rosso: la scoperta dell’amato e del
suo splendore avviene solo dopo una ricerca prolungata instancabile.
L’amore è come una battaglia da vincere e l’innamorato,
dopo la conquista dell’amata, innalza su di lei il vessillo che
è solo l’amore (Ct 2,4). Il premio della battaglia è
l’amore stesso. La battaglia dell’amore è sempre
contro l’insidia del capriccio che lo svilisce; ogni amore è
una conquista perché, come dice l’amata con finissimo
realismo, l’amore è una malattia e solo l’amore
può curare la malattia d’amore, è capace di
costruire legami che durano sempre, perché permette di
arrivare all’alterità della persona amata nel sonno,
cioè con sorpresa, gustandola come un dono non meritato e sul
quale non si possono mettere le mani (Ct 2,5-7).
Il
Cantico conosce momenti nei quali l’amore è in crisi,
nei quali l’unione tra i due attraversa un periodo di
difficoltà, nei quali si insinua quasi la mano gelida della
negazione (Ct 2,8-9; 3,1-4; 5,2-6,3). L’amore attraversa anche
momenti di buio, di notte; può darsi che vengano momenti nei
quali l’amore, per così dire, si è seduto e vive
solo di rendita: quello deve diventare il momento della ripresa,
della ricerca, dell’uscita da se stessi. Nella sua ricerca
notturna insistente dell’amato la donna trova purtroppo delle
sentinelle che sanno ben poco dell’amore e che quindi non le
danno nessuna indicazione (Ct 3,3). La ricerca dell’amore si
trova anche davanti a prove tremende: l’amata nella sua ricerca
notturna dell’amato è addirittura pesantemente
fraintesa, è scambiata per una prostituta e le guardie della
città vedono in lei un’occasione per sfogare i loro
istinti, ma lei non cessa di cercare, disposta anche a rischiare la
vita, perché è malata d’amore; questa malattia si
cura non abbandonando l’amore, ma mettendosi alla sua ricerca
(Ct 5,7-8). La presenza dell’amato è gustata dopo
l’amaro della sua assenza, dopo l’esilio del distacco,
dopo l’angoscia del vuoto, dopo la ricerca insistente. La
ricerca instancabile e il gioco dell’amore sono basati sulla
indistruttibile speranza che colui che viene amato c’è,
ama a sua volta e lo si troverà. Il desiderio, la ricerca sono
l’essenza dell’amore.
La
ricerca può diventare ansia, sofferenza, delusione che però
non si dà per vinta, ma è descritta soprattutto come un
gioco continuo: l’amato viene, chiama, ma poi non c’è
all’incontro; allora è invocato, sfugge, si perde e alla
fine l’amata lo trova e lo trattiene. Il ritrovamento suscita
pace, gioia, entusiasmo, ma subito dopo avviene la perdita e questa
suscita desiderio, domanda, implorazione. L’amore chiede
assenza e presenza, nascondimento e ricerca, per aumentare la
sorpresa e il gaudio. L’amore sponsale è conquista
quotidiana: va cercato e inseguito, superando ogni giorno gli
ostacoli. Ogni volta il desiderio deve diventare più forte,
l’unione più intima. Lo sa bene la mamma che si nasconde
al suo bambino per dargli la gioia e l’entusiasmo del
ritrovamento. Così viene descritta la caratteristica più
profonda dell’amore: non afferra mai totalmente il suo amato,
non è mai sicuro e pacificato nel suo riposo per molto tempo,
perché l’amore sfugge sempre, è più grande
di noi, è libero, è divino. L’amore è
nutrito di vagheggiamento e di sguardi. Anche le parole conclusive
che la donna rivolge al suo amato sono un invito a correre, a
fuggire, a mettersi in ricerca del corpo della sua amata: l’amore
non finisce mai, non può essere posseduto una volta per tutte;
l’amore ricomincia sempre, perché è gioia, è
vita, rimanda sempre oltre, alla possibilità di sperimentare
un amore più grande (Ct 8,14). È essenziale che i due
innamorati continuino a volersi reciprocamente, ancor più di
come si sono voluti il primo giorno. Il Cantico non presenta, quindi,
un cammino verso un’unione finale compiuta, non termina, come
fanno molte favole, con una vita felice e contenta, perché
l’unione sponsale è un punto di partenza sempre nuovo.
Per questo nel Cantico del Cantici i momenti di amore felice e di
pace sono piuttosto rari (Ct 1,15-17; 2,6; 6,3; 8,3).
Mediante
il tema della ricerca il Cantico ci ricorda che Dio stesso affronta
la possibilità di essere respinto, pur di entrare in un
rapporto di amore autentico. Dio si nasconde, per farsi cercare e
trovare. Egli si comunica in una ricerca intessuta di luci e di
ombre, di manifestazione e di nascondimento, come ci ricorda molto
bene anche la ricerca dei magi (Mt 2,1-12). Pure Gesù si
comunica nei miracoli e si nasconde nella umiliazione della croce, il
Risorto si manifesta a pochi intimi, poi scompare dalla loro vista e
si nasconde sempre alle attese spettacolari di ogni tempo. Il
desiderio e la ricerca sono l’anima dell’amore: «Ho
cercato non qualche premio all’infuori di te, ma il tuo volto»
(s. Agostino); «Il
tuo volto è la mia patria»
(s. Teresa di Lisieux).
Un
testo della tradizione giudaica può compendiare la ricchezza,
il significato e il messaggio del Cantico dei Cantici: «Quando
Adamo peccò, Dio si ritirò nel primo cielo,
allontanandosi dalla terra e dagli uomini. Quando peccò Caino,
Dio sdegnato si ritirò nel secondo cielo. Quando peccarono i
figli di Enoch, Dio impaurito si ritirò nel terzo cielo.
Quando i figli degli uomini divennero corrotti e Dio dovette mandare
su di loro il diluvio, si ritirò nel quarto cielo. Quando gli
uomini oppressero altri uomini, erigendo la torre di Babele, Dio si
ritirò al quinto cielo. Quando Israele fu schiavo
nell’oppressione d’Egitto e soffrì molto sotto la
mano del faraone, Dio
si ritirò nel sesto prima e poi nel settimo cielo. Dio però
ritornò sulla terra il giorno in cui fu donato a Israele il
Cantico dei Cantici»
(Genesi Rabbà 19
ss.).
Per
concludere…
Chiudiamo
con un brano di colui che rilegge il Cantico con una lettura
personale: Giovanni, il teologo dell’amore.
Egli
gioca con allusioni al testo, laddove narra l’incontro tra Gesù
e Maria Maddalena. Il Messia sposo si sottrae non per scomparire, ma
per offrire all’amore l’opportunità di trovarlo.
11Maria
invece stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva.
Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro 12e
vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del
capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di
Gesù. 13Ed
essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Rispose
loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno
posto». 14Detto
questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non
sapeva che fosse Gesù. 15Le
disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?».
Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse:
«Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai
posto e io andrò a prenderlo». 16Gesù
le disse: «Maria!». Ella si voltò e gli disse in
ebraico: «Rabbunì!» - che significa: «Maestro!».
17Gesù
le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora
salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro:
«Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro».
Enzo
Bianchi afferma: «Nell'A-T.
è Dio lo sposo fedele. Ricordiamo Osea, Geremia, il Cantico
dei Cantici. Si diceva che il Messia sarebbe stato lo sposo. Quando
Giovanni scrive, ha coscienza che nella tradizione paolina Gesù
è chiamato sposo:
Gesù sposo - la Chiesa sposa. Giovanni applica a Gesù
la teologia di Dio-sposo. La comunità è sposa del
Signore. E
Origene scrive:
«Ecco l'atteggiamento di chi ha nella chiesa una
responsabilità: condurre la sposa allo sposo, favorire
l'incontro e poi ritirarsi. Questo perché le persone - la
sposa - sono dello sposo».
L’evangelista
aveva, probabilmente, già fatto ricorso al tema nuziale in
occasione della sepoltura di Gesù con riferimento ai profumi
aromatici con cui Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo vanno al
sepolcro per imbalsamare il corpo di Gesù. Portano cento
libbre (una quantità smisurata: 32 Kg.) di profumi usati
tradizionalmente per i riti funerari, ma la precisione di Giovanni
nell’elencarli (mirra e aloe) rivela forse un’intenzione
teologica e catechistica; sono anche profumi sponsali. La mirra e
l’aloe sono profumi per il letto matrimoniale (In Proverbi
7,17-19 una donna dice al proprio amante: «ho
profumato il mio letto di mirra, di aloè e di cinnamòmo.
Vieni, inebriamoci d'amore fino al mattino»);
sono profumi per i vestiti del re sposo (Salmo 44,9 «Le
tue vesti profumano tutte di mirra, aloè e cassia»);
sono profumi ricorrenti sempre in contesti nuziali (Cantico dei
Cantici 3,6; 4,6.14; 5, 1. 13).
L’evangelista
aveva, probabilmente, già fatto ricorso al tema nuziale con
riferimento alle bende (in greco: othonìois)
con cui Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo avvolgono il corpo di
Gesù; sono le stesse lenzuola matrimoniali a cui accenna il
profeta Osea (2, 7.11) o vesti matrimoniali a cui fa cenno il Libro
dei Giudici (14,13) in occasione del banchetto di matrimonio di
Sansone. Il termine greco usato in tutti questi testi è sempre
in greco othònia
= lenzuolo o veste matrimoniale. Dunque, mentre Giovanni pare
descrivere un particolare di cronaca di fatto sembra fare teologia e
catechesi: Gesù è lo sposo rivestito di vesti sponsali
e la tomba diventa la stanza e il letto matrimoniale. La descrizione
della tomba con le bende e il sudario piegato corrisponde a molti
testi dove si parla della stanza da nozze, il talamo. Nella stanza da
nozze c’erano sempre le lenzuola da una parte e un panno
piegato dall’altra. Era il panno con cui poi si constatava che
la sposa era arrivata vergine al matrimonio. Giovanni insiste su
questi particolari per dire che siamo in un clima nuziale dove il
sepolcro è diventato la camera nuziale.
In
Ct 3, 1 abbiamo il dramma della sposa che di notte va a cercare lo
sposo e non lo trova: nella
notte ho cercato l’amato del mio cuore; l’ho cercato e
non l’ho trovato. La risposta di Maria per
giustificare il pianto
(«Hanno tolto il mio Signore
e
non so dove l’hanno posto») può
trovare un
parallelo
dal Ct. 3, 2 : Mi
alzerò, farò il giro della città, voglio cercare
l’amato del mio cuore. L’ho cercato e non l’ho
trovato...
Mi
hanno incontrato i custodi della città che fanno la ronda:
Avete visto l’amato del mio cuore?
… Avevo
appena oltrepassato i custodi, che ho incontrato l’amato del
mio cuore. L’ho abbracciato e non lo lascerò mai più
finché non lo porterò nella mia casa.
La sposa del Cantico trova, dopo avere oltrepassato i custodi della
città, l’amato del suo cuore. Maria sente pronunciare il
proprio nome: Maria!
Ella, voltandosi, le dice : Rabbuni
- in ebraico - che
significa mio maestro!
La risveglia la voce dello sposo. Geremia 33, 11 per indicare i tempi
messianici scrive: «Grida
di gioia e grida di allegria, la voce dello sposo e la voce della
sposa».
Gesù in Gv 10, 3 aveva detto «le
mie pecore conoscono la mia voce».
Il pastore dà un nome ad ogni pecora e le chiama ciascuna per
nome e queste riconoscono la voce del pastore: ecco l’incontro,
ecco le nozze messianiche. Rabbuni
è anche il termine che viene dato dalla sposa al marito. Ad
esempio Sara chiama Abramo, quando lo incontra: mio Signore, mio
maestro.
Ha
scritto Karl Rahner: «Nel futuro il Cristianesimo sarà
mistico o sparirà». Alla Maddalena, che cerca il corpo
del suo Signore nel suo «dove», il Risorto si fa vedere
come vivente che «sale al Padre», il suo «dove»
più vero, trascinando in questa ascesa la comunità che,
iniziando dalla Maddalena stessa, si trasmette – di bocca in
bocca – la «voce» e la visione di Lui. Quello di
Giovanni è il vangelo della fede che rimane, della fede
matura. In questo senso, allora, è il vangelo di chi non si
accontenta di una fede “efficientistica”, fatta di
decisione, di conoscenza, di testimonianza: la fede ha bisogno anche
della dimensione mistica, che mette dimora là dove Gesù
ha la sua dimora.
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- ALONSO SCHÖKEL
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Inoltre
le catechesi sul Cantico dei Cantici di Giovanni Paolo II del 2, 9,
16, 23, 30 maggio e 6 giugno 1984 che sono reperibili sul sito web
del Vaticano e quella correlata sui capp. 1 e 2 della Genesi del 15
novembre 1979 (anch’essa reperibile sul sito del Vaticano).
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