mercoledì 24 luglio 2019

UN VIAGGIO NEL CANTICO DEI CANTICI , di Padre Maurizio Buioni



UN VIAGGIO NEL CANTICO DEI CANTICI
 
di Padre Maurizio Buioni
                           
 



 













 
Introduzione


Il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei Cantici è stato donato a Israele” (Rabbi Aqiba, citato in Mishnah Jadajim 3,5). Queste parole di uno dei grandi maestri della tradizione ebraica dicono incisivamente quanto il Cantico sia stato considerato e amato da essa. Il testo è una delle Meghillot, uno dei rotoli, cioè, da leggere nella liturgia sinagogale: il fatto che venga proclamato a Pasqua, la festa centrale fra tutte che celebra la liberazione dalla schiavitù d’Egitto e il passaggio del Mar Rosso, testimonia di quale considerazione goda Shir Ha Shirim, שיר השירים (questo il nome ebraico: il Cantico dei Cantici, il «Cantico sublime»). Ancora oggi nelle famiglie ebree il sabato è accolto come la sposa del Cantico (in ebraico «shabbat» è femminile).
Il Libro dello splendore o Zohar riconosce nel Cantico l’intera rivelazione di Dio: «Questo cantico comprende tutta la Torah; comprende tutta l’opera della creazione; comprende il mistero dei Padri; comprende l’esilio d’Israele in Egitto e il canto del mare; comprende l’essenza del Decalogo e il patto del monte Sinai e il peregrinare d’Israele nel deserto, fino all’ingresso nella terra promessa e alla costruzione del Tempio; comprende l’incoronazione del santo nome celeste nell’amore e nella gioia; comprende l’esilio d’Israele fra le nazioni e la sua redenzione; comprende la risurrezione dei morti fino al giorno che è il sabato del Signore» (Libro dello splendore, Teruma 144a). Nella tradizione cristiana il Cantico gode di una stima non minore: «Beato chi comprende e canta i cantici della Sacra Scrittura – afferma Origene –, ma ben più beato chi canta e comprende il Cantico dei Cantici» (Omelia sul Cantico l,l: Pg 13,37).
Attraverso l’uso dell’interpretazione allegorica, tutto il Cantico appare come un paradigma del Cristo: così, l’Amato che viene saltando sopra i monti di Ct 2,8 è riconosciuto sin dal primo commento cristiano come «il Verbo, saltato dal cielo fin nel corpo della Vergine, dal sacro ventre sul legno della Croce, dal legno negli inferi, di là nella carne (della risurrezione)... infine, dalla terra al cielo» (Ippolito di Roma, Commento al Cantico, XXI, 2). Le descrizioni del Cantico vengono interpretate come metafore della vita della Chiesa: «Se tu senti nominare le membra dello sposo, cerca di capire che in realtà sono evocati i membri della Chiesa» (Origene, Commento al Cantico, libro II, su Ct 4). Muovendo dal Cantico sviluppa la sua riflessione sui gradi della «violenta carità» Riccardo di San Vittore, combinando genialmente teologia ed esperienza spirituale per sottolineare come il rapporto d’amore con Dio non lasci nessuno come lo ha trovato, ma al contrario segni in modo indelebile la sua anima: «Grande è la forza dell’amore, meravigliosa la potenza della carità» (I quattro gradi della violenta carità, 2).
Al Cantico si ispira la mistica cristiana, celebrando il rapporto d’amore con Dio: basti pensare ai versi di San Giovanni della Croce: «In una notte oscura / con ansie di amor tutta infiammata, / o felice ventura!, / uscii, né fui notata, / stando già la mia casa addormentata. / ... / Notte che mi guidasti! /oh, notte amabile più che l’aurora / oh, notte che hai congiunto / l’Amato con l’amata / l’amata nell’Amato trasformata» (San Giovanni della Croce, Noche oscura, Strofe l e 5).
Il contesto
Queste pagine sono un piccolo assaggio su come è considerato e interpretato, all’interno della tradizione ebraico-cristiana, il Cantico. Occorre, a tal fine, offrire delle coordinate che ci aiutino, dapprima, a capire il contesto in cui è utilizzato all’interno della liturgia ebraica. Teniamo presente che, tradizionalmente, è letto durante la Pasqua ebraica, e nella tradizione askenazita dell’Est europeo, nella liturgia dello Shabbat.
Nel canone è entrato senza grandi difficoltà, rispetto al canone cristiano, nel primo secolo dopo Cristo, quando la Bibbia ebraica non ha alcun problema a considerarlo libro sacro, anzi è il “distillato”, la parte migliore della farina setacciata più volte perché diventi sempre più raffinata.
Ricordiamo brevemente come la parola Bibbia deriva dal greco tà biblìa, «i libri» per eccellenza; è originariamente un plurale, come la trascrizione latina Biblia, da cui deriva il termine italiano. Passando dal latino all’italiano la parola venne intesa al singolare, nel senso che tutti i libri che la compongono hanno in comune di essere ispirati da Dio e quindi Parola di Dio. Gli ebrei ordinano i libri della Bibbia in modo diverso da quello usato dai cristiani e naturalmente considerano solo i libri dell’Antico Testamento. Le tre parti, in cui sono divisi i 24 libri, stabilite dal sinodo giudaico del 90 d.C. a Javnè, sono: la Torah (i cinque libri del Pentateuco), i Nebiìm (gli otto libri dei Profeti) e i Ketubìm (gli undici libri Agiografi). I più antichi manoscritti di testi biblici, ritrovati finora, risalgono all’incirca al periodo che va dal III secolo a.C. al I secolo d.C. (Rotoli del mar Morto).
Rabbi Aqiba, contemporaneo all’incirca di Origene, afferma che il testo “sporca le mani”; sporca le mani ciò che è sacro, nel senso positivo del termine, in quanto indica il contatto col sacro perché l’umano è entrato nel divino. Il Cantico introduce nella trascendenza; Rabbi Aqiba lo equipara al Santo dei Santi, del Tempio di Gerusalemme.
Rashi di Troyes commentando il Cantico, scrisse: ”Disse Rabbi El’azar ben ‘Azaryà: A che cosa si può paragonare? Ad un re che prese uno staio di grano e lo diede al mugnaio, dicendogli: "Fammene uscire tanto fior di farina, tanto di farina, tanto di crusca, poi separami da tutto questo un pane raffinato ed eccellente." Così tutti gli Scritti sono santi ma il Cantico dei Cantici è il Santo dei Santi poiché è tutto quanto timore del Cielo ed accettazione del giogo del Suo Regno e del Suo amore”.
Perché un testo dove non compare mai il termine Dio può essere paragonato al Santo dei santi?
Innanzitutto, nella tradizione ebraica, il matrimonio, il fidanzamento e l’innamoramento, sono considerati la massima realizzazione umana e spirituale dell’uomo e della donna, essi sono creati a immagine e somiglianza di Dio come coppia. Un fondamento, a quanto stiamo dicendo, lo troviamo in Genesi 5,2 che la tradizione ebraica legge “un uomo che non ha una moglie non è un vero uomo… maschio e femmina li creò Dio e diede loro il nome Adamo”; solo nella coppia uomo donna riunita dall’amore si esprime questa unicità umana di cui l’Adamo è segno, che rimanda all’unicità di Dio. Questo spiega perché nella tradizione ebraica non abbia trovato grande rilievo ciò che potremmo definire “tradizione monastica”, se non presso Qumran o neiTerapeuti” di cui parla Filone di Alessandria d’Egitto, nel De vita contemplativa, proprio perché il matrimonio è considerato un atto sacro che realizza l’essere creati a immagine di Dio come coppia.
In ebraico, matrimonio si esprime col termine kiddushin, da kadosh, sacro, santo. Esso è la consacrazione dell’amore ricondotto alla sua origine, a Dio stesso. C’è un simpatico commento di Louis Ginzsberg, raccolto nel testo La leggenda degli ebrei, dove si narra come possa essere avvenuto il matrimonio della prima coppia umana. Si narra come Dio stesso ha provveduto a tali nozze così importanti, perché il mondo poggia sugli atti d’amore che sono graditi a Dio più dei sacrifici compiuti sull’altare da Israele.
L’amore umano consacrato nelle nozze, nozze che lo trasformano quale atto sacro, sono care a Dio più dei sacrifici del Tempio. Un altro commento rabbinico, presente nel Bereshit Rabba (commento al libro di Genesi) dice che l’occupazione principale di Dio, dalla creazione in poi, è quella di combinare matrimoni e un altro commento aggiunge che questa occupazione è più difficile e impegnativa della separazione delle acque del Mar Rosso.
Un altro elemento è rappresentato da quei commenti che evidenziano la radice trascendente dell’amore esaminando i termini Dio e amore:


Jhwh יהוה Ahavah אוהבה


Questo è un metodo rabbinico per evidenziare una regola di interpretazione: se due termini hanno una medesima corrispondenza consonantica tra loro hanno, dunque, una stretta relazione, come in questo caso, tra Dio e amore.
Pertanto, l’amore autentico ha la sua radice nella trascendenza divina, l’amore autentico mostra perciò la trascendenza divina. La reciprocità di un amore vissuto in maniera autentica diventa segno della trascendenza.
A questo proposito c’è un midrash che commenta Gn 2,18 “non è bene che l’Adam resti solo, voglio fare un aiuto che gli sia contrapposto” (ke-negddo), cioè, uno di fronte l’altro; nel testo ebraico non si fa menzione di simile, come nel testo CEI. Ciò vuol dire che possiamo essere di fronte per ascoltarci o perché ci fronteggiamo; la spiegazione rabbinica, in una cultura maschilista, è a favore della donna e in questo caso dispiega il seguente concetto: quando il marito è degno di sua moglie, questa è per lui un aiuto, viceversa quando il marito non è degno il fuoco li consuma.


uomo: איש donna: אשה
י (jod) + ה (he) esprime la differenza uomo-donna


Una suggestiva lettura è quella relativa al valore numerico delle lettere ebraiche. Ad ogni lettera corrisponde un numero. Ne scaturisce che il valore numerico della I coppia, Adamo ed Eva, adam wechavah, coincide con 70 come, del resto, la differenza tra maschio (zakhar, 227) e femmina (neqevah, 157) dà ugualmente 70. Adamo ed Eva equivalgono numericamente alla differenza maschile/femminile ed è significativo come abbia precisa corrispondenza con le 70 interpretazioni della Torah ricevuta sul monte Sinai da Mosè. È stato insegnato nella scuola di Rabbì Ishmael: Un maestro della scuola di Rabbì Ismael ha insegnato: Non è forse così la mia parola: come il fuoco, oracolo del Signore, e come un martello che frantuma la roccia (Geremia. 23,29) Come questo martello sprigiona molte scintille, così pure un solo passo scritturistico dà luogo a sensi molteplici” (Sanhedrin, 34; “Come questo martello sprigiona molte scintille, così pure ogni parola che usciva dalla bocca della Potenza si divideva in 70 lingue”, Shabbat 88b).
La I coppia, allora, è la radice del mondo, che viene creato mediante la stessa Torah.
Secondo il commentatore dell’esegesi ebraica Rashi il versetto della Torah Deut 27.8 che afferma “E tu scrivi sulle pietre tutte le parole di questa Torah”, spiegato bene, si riferisce alla traduzione della Torah nelle 70 lingue delle 70 Nazioni fatta dal Capo dei Profeti Mosè; lo stesso Rashi afferma che ciò avvenne per gli Ebrei quando poi fossero giunti in Diaspora. Sono le iscrizioni sulle pietre menzionate nella Parashah Ki Tavò. Secondo il Talmud era iscritto tutto il testo, ma Rav Saadiah Gaon insegna che sono stati iscritti solo i 613 precetti. Il Talmud afferma che erano incluse in tutte le 70 lingue, ma una fonte midrashica indica che erano iscritte solo in ebraico.
Ma torniamo al nostro discorso. Quando l’uomo e la donna vivono una relazione dove la reciprocità non è sempre autentica che cosa prevale in loro? La parte comune dei due nomi, che dopo essere stata scomposta, per poi essere riunita, forma il termine fuoco, אש, (esh) che è una realtà ambivalente. Il fuoco del roveto ardente dal quale Dio si mostra a Mosè o il fuoco di Sodoma, il fuoco della passione e il fuoco della distruzione; questo quanto evoca il termine fuoco in ebraico (אש).
La seconda parte del commento rabbinico afferma: quando la reciprocità tra l’uomo e la donna è autentica prevalgono le lettere che fanno la differenza, dunque la jod e la he, che riunite formano Jah, forma abbreviata del nome di Dio, l’unica che è possibile pronunciare è quella dell’Alleluia הללויה (che ritroviamo estesa nei Salmi). Cosa vuol dire questo? Quella differenza tra l’uomo e la donna, che Dio nella creazione ha voluto, vissuta nella reciprocità di un amore corrisposto, rende presente Dio, יה, nella storia, viceversa quando la reciprocità viene a mancare, subentra la realtà del fuoco poiché l’uno vuole avere il sopravvento sull’altro, dunque subentra la distruzione.
Quest’attitudine alla percezione e alla comunicazione dell’amore è intesa dalla tradizione ebraica come risultante naturale dell’essere la donna sorgente della vita: se vivere veramente è amare, colei che nella casa accende la candela del sabato per introdurre la famiglia intera nella vita nuova del riposo divino, la donna, è anche quella che in generale saprà meglio accendere e alimentare la fiamma dell’amore.
Questi testi sostanzialmente ci ricordano una dinamica basilare: mostrare come nell’amore, anche nella dimensione erotica, se tutto avviene in un contesto di reciprocità, si rende attuale la presenza di Dio nella storia degli uomini, la Shekinah, שכינה. Questa è la prima fecondità umana; quando Dio benedice la prima coppia umana dicendo “siate fecondi e moltiplicatevi” questo siate fecondi che viene prima della congiunzione, viene inteso come “realizzate il nome di Dio fra di voi”. È la prima fecondità di cui il moltiplicatevi è la logica conseguenza.
Inoltre sta a significare che non è il numero dei figli che fa la fecondità in una coppia, ma la capacità di rendere presente Dio nella relazione tra i due, dove la prole sarà una conseguenza.
Questo, allora, ci aiuta a comprendere come un amore umano inteso in questo modo non può che essere la chiave di lettura per considerare Santo, meglio ancora Santo dei Santi, il Cantico dei Cantici, all’interno del canone biblico.
L’amore umano così vissuto rende presente Dio e il Cantico è il testo sacro per eccellenza nel canone. In altri termini, non è necessario che il nome di Dio sia presente nel Cantico in maniera estesa, scritta, perché è già presente nella reciprocità dell’amore che dei due personaggi viene narrato.
Andando all’interno del testo cosa dire? È uno dei dieci cantici indicato in molti Targumim (o parafrasi aramaica dei testi ebraici all’indomani del ritorno dall’esilio di Babilonia dove non si comprendeva più l’ebraico biblico non parlandolo più, dunque all’interno della sinagoga si avvertiva il bisogno di una traduzione, spesso glossata, che diventava una forma di commento rabbinico al testo originale noto nell’ambito della parafrasi).
Il Cantico è fra i cantici più importanti del popolo ebraico ed è quello che “il popolo d’Israele canterà assieme agli angeli dell’Altissimo”, il cantico che unisce cielo e terra poiché lo canterà il popolo con gli angeli di Dio secondo un commento rabbinico.
In un contesto di questo genere è chiaro che tutto ciò che nel Cantico, descritto come caratteristica dell’amore umano, anche nella dimensione erotica, dove l’accezione eros è positiva, espressione di quella passionalità che appartiene alle potenzialità umane, è evidente che tutto viene letto non solo come via di santità, ma anche come esperienza mistica. Ancora oggi nelle comunità ebraiche osservanti si insegna che il modo migliore per concludere una festa è il momento del rapporto coniugale nella camera nuziale; quindi il rapporto coniugale vissuto nella reciprocità diventa il momento culminante della liturgia della festa, perché esperienza mistica, che introduce nella sfera di Dio diventando il canale con cui Dio continua a darsi nella storia degli uomini. Ecco perché lo stato matrimoniale è così importante nella tradizione ebraica in quanto l’uomo che vive senza moglie vive senza bene.
Come considerare la vicenda di Shulamit di cui si narra questo amore che passa dal desiderio di reciprocità, alla ricerca di due, al trovarsi-non trovarsi e ritrovarsi nuovamente? È noto che dove ci sono due ebrei, ci sono due idee diverse ed interpretazioni diverse. Salvo restando letture positive dell’amore, le differenze più profonde sono tra coloro che interpretano come protagonisti Shulamit e il suo compagno o chi la vede come la sola protagonista. Amos Luzzatto, ad esempio, vede Shulamit come singola protagonista di cui, peraltro, non se ne conoscono le origini.
Secondo Amos Luzzatto, la voce dell’amato esiste solo nelle sue attese più che nella realtà dell’amato, che le resta contrapposto, non se ne conosce il nome, se ne menziona solamente la voce.
In ogni caso: sia che vogliamo considerare i due come protagonisti, o sola la ragazza con la voce di lui nelle attese di lei, siamo nella presenza di un dialogo di amore, che sembrerebbe scritto per una rappresentazione teatrale: abbiamo i dialoghi tra i due, il coro delle ragazze di Gerusalemme e alla fine il coro dei fratelli.
Si possono offrire diverse interpretazioni, che possono essere anche legate al modo con cui questo testo si è fissato nel corso dei secoli, testo che probabilmente affonda le radici nei canti d’amore dell’antico Egitto. Al di là, comunque, dei dati appartenenti alle indagini e all’analisi storico-critica, è interessante sapere che il coro delle ragazze di Gerusalemme, dal punto di vista ebraico, rimanda ad una precisa tradizione che si è fissata sia nella Mishna (Torah orale codificata nel I sec. d.C.) sia nel Talmud (fonte rabbinica). Ora del coro delle ragazze di Gerusalemme, in età da marito, se ne parla in relazione ad alcune feste, in particolare modo alla festa di Yom Kippur , grande giorno del Perdono, con cui si inaugura dopo Rosh Hoshanah, il capodanno, l’inizio del nuovo anno ebraico. Cosa succedeva in queste occasioni alla fine delle celebrazioni all’uscita del cortile del Tempio? Le ragazze, in età di marito, piuttosto giovani in quei tempi, si vestivano di abiti bianchi, tutte allo stesso modo, senza distinzioni fra povere e ricche, senza differenze, e si recavano nelle vigne attorno a Gerusalemme dove facevano danze di corteggiamento, in cerchio, secondo la tradizione ebraica, al cospetto dei giovani, cantando l’ultima parte del libro dei Proverbi (Pr 31), dove si parla della donna di valore: “non guardare alla bellezza esteriore, ma ai valori della famiglia” ed erano i momenti dove si combinavano i matrimoni. Questo perché il matrimonio era una realtà così importante da essere posto al di là di tutto, quindi all’uscita delle feste più importanti la prima cosa che si faceva era la danza di corteggiamento.
Pertanto, secondo l’interpretazione ebraica, il coro delle ragazze di Gerusalemme rimanderebbe a questo tipo di danze. Oggi è rimasto un eco di tutto questo in un canto popolare chiamato Nelle vigne, Bachranim.
Spostiamo la nostra attenzione al Cantico dei Cantici, c. 1, 2-4. Shulamit parla dell’amato e del desiderio di amore dicendo: “egli mi conceda i baci della sua bocca che il tuo amore (dodekha) ebbe meglio del vino… sento il profumo dei tuoi deliziosi unguenti il tuo stesso nome effonde (turaq) profumo, per questo le ragazze ti amano, trascinami con te corriamo”. La traduzione non rende la musicalità di queste bellissime parole d’amore: essa gioca sull’assonanza fra il termine shem, nome, e il termine shemen, profumo. Lo sconosciuto, presenza inafferrabile, non viene ancora nominato. Eppure quella presenza si esprime con un linguaggio inconfondibile. Nel v. 3 il linguaggio del profumo viene messo in evidenza in modo straordinariamente efficace. Non riusciamo a vederlo, non riusciamo ad afferrarlo, non siamo in grado di determinare la sua presenza, ma il suo profumo già ci avvolge, ci riempie, già ci attraversa. Certo, il profumo è inafferrabile, ma è anche vero che passa dentro di noi, attraverso di noi, in modo tale da invadere l’intimità più profonda.
Il solo nome dell’amato riempie l’aria di profumo, che incanta lei, come incantò altre. Nel versetto seguente, all’olfatto si unisce il gusto: «Ricorderemo i tuoi amori più del vino» (v. 4: cfr. v. 2). È come se il ricordo dell’amato abbia un sapore, forte come quello del vino. Tutti i sensi sono convocati per descrivere l’attrazione che lui esercita su tutto l’essere di lei, passando attraverso l’udito, la visione, il tatto: «Attirami dietro a te, corriamo!» (v. 4). Così lei si mette alla ricerca di lui, abbandonando la vigna sicura dei suoi fratelli per cercare lui nel rischio e nell’insicurezza (v. 6). E la ragione di questa scelta è che lui è l’amore dell’anima sua (v. 7).
Tutto il Cantico dei Cantici conferisce un risalto particolarmente significativo al senso dell’odorato. «Per la fragranza sono inebrianti i tuoi profumi». Non so come rivolgermi a te, non so come inserirti nel mio cosmo linguistico, nei miei pensieri, ma il tuo profumo mi invade. Non so da dove venga e dove vada, ma mi attraversa, raggiungendo la profondità più inesplorata di me stesso.
Il versetto prosegue: «profumo olezzante è il tuo nome». Pertanto, se Shulamit deve chiamarlo per nome, essendo innominabile e sconosciuto, lo avverte come profumo olezzante (in greco: miron ekkenothen, “unguento svuotato”). La traduzione greca richiama Filippesi 2, il cantico cristologico, “colui che svuotò se stesso”: ekenosen eauton, è questo verbo, è l’“unguento svuotato”, “svuotò se stesso” dice Paolo. “Tu sei un unguento svuotato”, ecco il tuo nome. Noi siamo in relazione di vita con Lui: relazione di respiro, di fiato, di soffio; relazione di spirito con Colui che è unguento versato, svuotato, che è spirito effuso.
Nei racconti della passione, in modi diversi, si attribuisce all’atto di spirare sulla croce di Gesù, il Figlio, l’effusione del profumo: hai effuso il tuo profumo; spirò, consegnò lo spirito, consegnò il suo respiro. Cristo è profumato ed è da lui a noi trasmesso il profumo, lo spirito soffiato su di noi, trasmissione di vita, sigillo di comunione indissolubile. Proprio là dove la situazione empirica della nostra esistenza denuncia una lontananza incolmabile, quella lontananza è colmata dall’unguento versato, quella lontananza viene colmata in modo tale da stabilire una comunicazione di vita, che ci invade, prende, conquista, trasforma, rigenera, aprendo gli orizzonti della vita, quella vita verso la quale forse sospiravamo in modo confuso, caotico, disordinatissimo: quella vita a cui finalmente siamo condotti.
Il versetto si conclude con una dichiarazione, nella sua semplicità, solennissima: «Per questo le giovinette ti amano». Il tuo profumo per me è stato offerto anche all’umanità intera. Vale per tutti gli uomini: le giovinette ti amano, per questo.
A quella nostalgia, di cui ci siamo resi conto leggendo il versetto 2, si congiunge nel versetto 3 un presentimento infallibile: è passato di qua, ha lasciato dietro un’onda di profumo, non sappiamo come afferrarlo, come raggiungerlo, ma è passato di qua. Cristo, l’Unto, ha lasciato una traccia inconfondibile nel creato, nella storia degli uomini, in ogni persona, in ogni angolo del mio vissuto, in ogni respiro per quanto affannoso sia. È passato attraverso la morte, certo. Dovunque mi volga, in qualunque direzione proceda, a qualunque creatura mi accosti, quale che sia la realtà con la quale devo fare i conti, quale passaggio sia necessario che io affronti nel tempo e nello spazio della mia esistenza, fino alla morte: il suo profumo mi precede, il suo profumo mi avvolge, mi viene incontro, anzi mi attende, mi invade e già spalanca dinanzi a me e per me e per il mondo gli orizzonti di una infinita capienza di amore. Per questo le giovinette lo amano.
Ora evidenziamo i due termini: tuo amore, dodekha, effondere, turaq. Il termine amore non è espresso con ahavah, ma attraverso una configurazione di Dod, amato, diletto, molto ricorrente nel Cantico. All’inizio di questo dialogo di amore si preferisce utilizzare il termine amore come configurazione di Dod, amato, compagno, zio. In qualche modo il Cantico vuole passare da un amore genericamente inteso ad un amore, o meglio, ad un’espressione di amore più intima tra i due amanti, dove l’eros ha una parte importante.
Un indizio importante per cogliere nel Cantico la pluralità di sensi riferiti all’amore è il termine Dodi = «amato mio»: esso contiene le lettere del nome David. Già così, rimanda contemporaneamente al singolo innamorato di Dio, di cui Davide, il cantore dei salmi, è figura, e al popolo messianico, costitutivamente legato alla discendenza davidica. In quanto poi il termine ricorre ventisei volte nel Cantico, e ventisei è un numero sacro per la Ghematria ebraica perché è il valore numerale del tetragramma Jhwh, è possibile riconoscervi anche il riferimento all’Amato divino.
Dodekha, il tuo amore, è relazionato al verbo effondere, turaq, la cui radice indica la capacità di svuotamento. Dunque, l’amato è percepito come desiderabile poiché capace di riversare l’amore all’esterno. Poiché è chiamato, Dodi, il mio amato, è compagno capace di manifestare, nel senso di riversare all’esterno l’amore, quindi è capace di amore in maniera radicale, fino al dono totale di sé.
Si capisce, allora, perché all’interno del Cantico la ricerca diventi così appassionata, anzi frenetica, tanto che Shulamit si dichiarerà “malata di amore”.
Nel Cantico al terzo capitolo, leggiamo: “nelle notti (la notte fa pensare al desiderio di unione intima) sul mio giaciglio cerco colui che ama l’animo mio (la mia persona), lo cerco e non lo trovo” e al quinto capitolo “io dormo, ma il mio cuore è desto, se trovate il mio amore ditegli che sono malata di amore”.
Ora la serie dei termini usati è significativa. Ritorna il termine ahavah, amore, posto in relazione con nafshi, il mio essere. Nefesh, indica stretta relazione tra corpo e spirito, cioè l’intera persona) al cuore, lev, centro vitale della persona, sede dei sentimenti, della volontà e della ragione. La relazione tra questi elementi fondamentali della relazionalità umana vuole affermare l’impossibilità di vivere senza relazioni autentiche espressa con “aiutatemi a trovare il mio amore perché sono ammalata di amore”. Dunque Shulamit percepisce, sperimenta la mancanza dell’amato. In altri termini, Dio ci ha creato come esseri in relazione e la relazione tra uomo e donna realizza la persona così come voluta da Dio.
Nel cap. 1,8, del Cantico, il coro delle ragazze di Gerusalemme canta: “esci, segui le orme dei greggi e fai pascolare le tue stesse caprette nei pressi delle dimore dei pastori”. Cosa vuol dirci il testo?
Shulamit, che all’inizio del testo si è definita bruna, ma bella, cosa vuole mettere in risalto? Le ragazze nobili non pascolavano le greggi sotto il sole e non si abbronzavano, questo era un segno di povertà e basso rango sociale, ma Shulamit inizierà la sua ricerca frenetica di colui per il quale si è ammalata di amore e il coro gli fa capire che se vuol trovare chi sta cercando non deve far altro che essere se stessa, cioè essere pastora tra i pastori, uscire per far pascolare le sue capre nei pressi delle dimore di pastori (forse l’amante è un pastore?). In ultima analisi, ella deve comprendere che se vuole vivere una relazione autentica, reciproca non deve cercare di essere qualcosa d’altro, ma essere se stessa cosicché anche la sua capacità di amore, il suo eros, saranno incanalati in una relazione equilibrata.
Al cap. 8, 6-7 del Cantico leggiamo: “mettimi come sigillo sul tuo cuore (lev) come sigillo sul tuo braccio, perché forte come la morte è l’amore (ahavah), tenace come gli inferi è la passione, le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma potente”, shalchetjah, (shalchet, fiamma + jah). Qualcuno ha inteso la possibile presenza del termine Dio nella desinenza, ma in questo caso se aggiunta ad un termine singolare indica la collettività del nome, dunque la raccolta delle fiamme. È la potenza di una fiamma che esprime la grandezza di un amore; il fuoco ha perso la realtà ambivalente, è un fuoco della passione autentica che non ha bisogno di usare il nome di Dio poiché in questo rapporto di reciprocità e autentico esprime già la realtà intima di Dio.
L’amore del Cantico è allora al tempo stesso quello dell’amato per l’amata, quello di Dio per il Suo popolo e del popolo per Dio, e infine quello del singolo credente per il Signore. Che l’amore in tutta la ricchezza del suo significato sia il tema dominante del Cantico, è mostrato anche dal fatto che il testo si preoccupa di presentare sin dall’inizio i due protagonisti come l’amata e l’amato. È interessante notare che a pronunciare il maggior numero di parole nel Cantico sia la donna (una sessantina di versetti), mentre all’uomo ne sono riservate poco più della metà (trentasei versetti). È questo un implicito riconoscimento dell’inclinazione che la donna ha verso la sapienza dell’amore, non solo nel senso della capacità oblativa che dimostra, ma anche della disponibilità a intuire, presentire ed evocare la presenza dell’Amato. Quest’attitudine alla percezione e alla comunicazione dell’amore è intesa dalla tradizione ebraica come risultante naturale dell’essere la donna sorgente della vita. Se vivere veramente è amare, colei che nella casa accende la candela del sabato per introdurre la famiglia intera nella vita nuova del riposo divino, la donna, è anche quella che in generale saprà meglio accendere e alimentare la fiamma dell’amore.
Pertanto, è il nome collettivo a sottolineare la grandezza dell’amore che neanche le acque possono spegnere. Questo amore così bello, così grande, che finalmente si è ritrovato dopo una serie di alterne vicende, anche violente per Shulamit (guardie), ci spiazza quando al capitolo 8,14 dice “fuggi quale cerbiatto su per i monti”. Una tradizione ebraica lo legge come rifiuto per un matrimonio formale che i fratelli stanno preparando per lei, altri dicono che questo amore deve ancora crescere per esprimersi al meglio.
Un’altra interpretazione è quella offerta da Luzzatto che pone in relazione il Cantico con le altre Meghillot (Rotoli) che fanno parte dei Ketubim, scritti agiografici del canone ebraico che si leggono durante le feste.
Il Cantico è il primo rotolo, lo leggiamo a Pesah, prima grande festa del nuovo anno, festa fondante rispetto alle altre, e se guardiamo la sequenza dei Rotoli all’interno del canone ebraico, cosa troviamo? Il Cantico esprime l’amore giovanile, il fidanzamento ormai prossimo al matrimonio, legato alla festa di Pasqua.
Dopo la Pasqua, abbiamo la Pentecoste, Shavuot, dono della Torah al Sinai e si legge il libro di Ruth, dunque un amore più maturo. Si narra di Rut e Noemi; Rut è una vedova che vive i suoi affetti non solo in relazione all’amato che fu, ma anche con la suocera. E sarà in nome di questo amore che sarà riscattata, da Booz, parente di Noemi.
Poi, nel mese di Av, in estate, Le Lamentazioni, in ricordo delle sciagure nazionali, dalla caduta del Tempio in poi (coincidenza vuole che tutte le disgrazie di Israele siano accadute nel periodo estivo: pensiamo alla cacciata dalla Spagna e alla Shoah. Le Lamentazioni sono il segno di come l’amore si misuri con il dolore; nelle contraddizioni della storia qualsiasi storia di amore anche bella si confronta con il dolore. È un amore che va verso una maturità sempre più piena.
Nel rotolo di Qohelet, festa delle Capanne, Sukkot, il testo ci ricorda che tutto è relativo, la vita è precarietà. È il ricordo dell’Esodo, delle tende nel deserto prima di entrare nella terra promessa. Qohelet, dunque, in questo contesto ci mostra come l’amore non solo si rapporta col dolore, ma anche con la precarietà della vita, anche per una storia d’amore seppure bella.
Nell’ultimo rotolo: Ester, festa di Purim, dove l’amore di una donna è il segno di un amore particolare, che partendo da un matrimonio discutibile col re Assuero, evidenzia l’amore di Ester che arriva a rischiare la sua vita per il suo popolo.
Questo vuol dire che la comprensione del Cantico, meglio la non conclusione del Cantico stesso, va ricercata nelle cinque Meghillot che leggiamo nelle feste successive alla Pasqua, che all’interno dell’anno liturgico completano il ciclo. Le stagioni dell’amore umano sono quelle che ricordiamo nella lettura progressiva di questi testi all’interno dell’anno liturgico.
Consideriamo, infine, al capitolo 7,11 del Cantico, la sinossi legata al termine desiderio: “io sono del mio amato ed egli mi desidera il suo desiderio (teshuqahto) è per me”. In Gen 3, come conseguenza del peccato, Dio dice a Eva: “verso tuo marito sarà il tuo desiderio (teshuqahtek), ma egli ti dominerà”.
La tradizione rabbinica osserva come qui abbiamo lo stesso termine configurato in due frasi che richiedono desinenze diverse. Ora col peccato la reciprocità è venuta meno e il desiderio è diventato dominio (verso il tuo marito sarà il tuo desiderio ma egli ti dominerà).
Nel Cantico, il desiderio diventa aspirazione che rende possibile la presenza di Dio nella storia “io sono del mio amato e il suo desiderio è per me”. Questo vuol dire che il problema non è il desiderio, ma il contesto in cui esso è vissuto. Si sottolinea il valore positivo dell’eros vissuto nel giusto alveo, che secondo la tradizione, vuol dire, l’autenticità della relazione matrimoniale, segno che nella tradizione ebraica è rappresentato dal baldacchino nuziale (chuppah), che indica la presenza di Dio. Dunque, un amore consacrato, reso anche dal Tallit dello sposo retto dai testimoni, sotto il quale stanno gli sposi, che rappresenta la nube dell’esodo, la presenza di Dio che dei due farà una cosa sola. È il segno del desiderio che è passato dal dominio alla reciprocità, che rende presente Dio nella storia. Tanto che nella I Benedizione, letta nelle nozze ebraiche, si dice: “Col permesso dei maestri, per la vita, Benedetto sei tu, o Signore, nostro, re del mondo, che ci ha santificato con i suoi precetti, che ci ha raccomandato di non contrarre matrimoni illeciti, che ci ha vietato l’unione prima del matrimonio e che consacra il suo popolo attraverso il rito matrimoniale”.
La reciprocità dell’amore e la dimensione erotica così intese e vissute, diventano la modalità con cui Dio ancora oggi continua a santificare il suo popolo. Questo vuol dire vivere l’eros in maniera positiva: non solo non è un ostacolo al cammino di santità, ma ne è la via. Per questo in Geremia, al cap. 33, 10-11, laddove il profeta parla della nuova alleanza, della Gerusalemme rinnovata, il segno del ritorno dall’esilio saranno proprio le voci dello sposo e della sposa nuovamente per le vie di Gerusalemme, segno che non solo si è ristabilito il rapporto tra l’uomo e Dio, ma che tale relazione continua a passare dell’amore umano.
In altri termini, i simboli allegorici del rapporto tra Dio è il suo popolo sono veri, perché vero è l’amore umano. Dunque, se in certi contesti si è potuto leggere il Cantico in quanto riferito ad una lettura allegorica, la tradizione rabbinica afferma che si può parlare di lettura allegorica in quanto l’amore umano autentico rende presente Dio nella storia.


Ulteriori riprese e specificazioni
Chi è capace di simili slanci e attenzioni propostici dal Cantico? Secondo l’intera rivelazione biblica solo Dio ne è capace. La gioia, la passione, l’intensità emotiva e la piena capacità del dono reciproco sono le caratteristiche della relazione fra un uomo e una donna che esprimono l’immagine più bella ed efficace del rapporto uomo-Dio. Non facciamo del Cantico l’unica parola dell’amore, ma se esso non fosse presente nella Bibbia rischieremmo di ridurre il relativo discorso ai suoi aspetti morali e religiosi. Ma il Cantico è presente e questo ci basta.
L’interpretazione letterale del Cantico dei Cantici è aperta a un senso spirituale, proprio perché l’amore sponsale è opera di Dio, è realtà santa che rimanda a Dio. Colpisce che nel Cantico non sono nominate le grandi realtà che costituiscono il nucleo della fede ebraica come il tempio, la legge, l’alleanza, il sacerdozio, il messianismo, ma in realtà questo poema celebra l’amore degli sposi come un dono fatto dal Dio dell’alleanza. Il Cantico parla dell’amore sponsale non sulla base della legge che consente il ripudio (Dt 24,1-4), la poligamia o il concubinato (Dt 21,15-17), ma sulla base dell’amore di Dio per il suo popolo e ispirandosi al progetto creativo espresso in Gen 2,23-24. L’alleanza di Dio con il suo popolo e il progetto di Dio al momento della creazione fanno riscoprire la natura e i valori dell’alleanza sponsale. Nel Cantico l’amore sponsale è celebrato sul modello dell’alleanza sponsale di Dio e nel linguaggio dell’amore divino: l’amore reciproco degli sposi è il riflesso di quello sponsale di Dio per Israele al quale deve ispirarsi, del quale è chiamato a diventare segno. Nel Cantico l’amore divino modella l’amore umano in monogamia indissolubile e questo è straordinario in una società, dove la poligamia e il ripudio erano ammessi come un dato di fatto.
È l’intero contesto della Bibbia che ci aiuta ad andare oltre al senso letterario del Cantico. L’Antico Testamento parla del rapporto di Dio col suo popolo mediante l’immagine della sponsalità. Da secoli gli ebrei vedono nel Cantico un’esposizione della storia di Israele nei suoi tre grandi momenti: l’esodo dall’Egitto e il periodo fino alla distruzione del tempio, la deportazione in esilio, la restaurazione messianica dopo l’esilio. Nel Cantico vedono la celebrazione mistica dell’amore di Dio per Israele nel succedersi della sua rivelazione. Nel Nuovo Testamento il ruolo di Dio si incarna in Gesù quello di Israele nella Chiesa: Gesù è lo sposo della Chiesa. Noi cristiani scopriamo, quindi, nel Cantico anche un riferimento all’amore sponsale di Gesù per la Chiesa, celebriamo le nozze di Cristo con la Chiesa, realizzate mediante l’incarnazione e il mistero pasquale.
Il Cantico celebra anche il desiderio dell’umanità, dell’intera creazione, della singola persona di essere baciate da Dio stesso. Il bacio nell’ebraismo era il segno della comunione più intima, il sacramento della fedeltà fondata nell’amore: “Salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo” (Rom 16,16). Non a caso il Cantico dei Cantici inizia: “Mi baci con i baci della sua bocca! Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino… Attirami dietro a te, corriamo! M’introduca il re nelle sue stanze: gioiremo e ci rallegreremo per te, ricorderemo le tue tenerezze più del vino (Ct 1, 2-3). Lo Zohar si domanda: "Perché mai Salomone ha voluto introdurre espressioni di amore tra il mondo di Dio e quello degli uomini e ha usato, iniziando la lode all'amore tra di loro, il termine "Mi baci!"? Invero si è già spiegato, e così è in realtà, che non esiste amore tra due che aderiscono l'un l'altro se non nel bacio ed il bacio si dà con la bocca, che è la sorgente del soffio e il luogo da cui esso esce. Quando si baciano l'un con l'altro i soffi aderiscono questi a quelli e diventano una sola cosa. Allora l'amore è uno!" (Zohar Terumà).
Un poeta ebreo russo, Zalman Schneur, scriveva: “Mia colomba, tu non sai come ci baciamo noi ebrei. Fino a che, petto contro petto, nessuno dei due sappia qual è il suo cuore, né distingua il cuore dell’altro. Materia e corpo sono spariti. Non resta che un soffio e un’anima: non esistono più parole, solo esiste il parlare della pupilla degli occhi”. Per questo, secondo la tradizione ebraica, “Dio ha parlato con noi faccia a faccia, come un uomo che bacia il proprio amico” (Targum Shir Ha-Shirim), mentre “le parole della legge furono date attraverso un bacio” (Cantico Rabba).
E in Cristo il bacio diviene sacramento per tutta l'umanità, risposta al desiderio che tiene nel gemito tutte le genti: "Il bacio è segno dell'amore: il popolo dell'Alleanza non diede a Dio il bacio perché si rifiutò di amarlo attraverso l'amore dopo averlo servito nel timore. Per questo attraverso la voce della sposa sta scritto del Redentore nel Cantico dei cantici: "Mi baci con il bacio della sua bocca (1,1)""I pagani, chiamati alla salvezza, non cessano di baciare le orme del Redentore perché sospirano continuamente d'amore per lui" (Gregorio Magno, Omelia XXXI,6).
In filigrana tornano alle mente le parole che Maria dirige ai servitori presenti a Cana; Ella, con una fede incrollabile, desidera quello che desiderano gli sposi, essendo oltre che Madre anche la Sposa perfetta dello Sposo più bello: “Ti scongiuro – pare dire la sposa – perché finalmente tu lo mandi a me… venga proprio lui e mi baci con i baci della sua bocca, cioè infonda nella mia bocca le parole della sua bocca ed io lo ascolti parlare o lo veda insegnare – in che modo si compia la profezia di Isaia: Non un inviato né un angelo, ma il Signore stesso salva” (Origene, Commento al Cantico dei Cantici).
Il Cantico proclama questo anelito infinito, proclama la fame divina di essere amati e completati da Dio, proclama le nozze della famiglia umana e della singola persona con Gesù.
Il Cantico celebra la nascita, la crisi e il trionfo dell’amore. Questo è il motivo per cui quest’opera consente una molteplicità di interpretazioni: è un canto di amore sponsale, è un canto dell’amore tra Dio e Israele, è un canto dell’amore tra Cristo e la Chiesa, è un canto al creatore che si unisce alla persona singola, è un canto della creazione che attende il suo compimento. Per cogliere queste interpretazioni il Cantico va letto con umiltà e con assiduità, ricordando che ogni versetto può avere molteplici sensi, può emanare molte scintille. Il Cantico va letto con amore e a ogni rilettura ci si rende conto che non si finirà mai di comprenderlo in tutta la sua ricchezza. Vale anche per il Cantico quanto scrive Lutero: Omnis locus Scripturae est infinitae intelligentiae (Ogni passo della Scrittura è aperto a una comprensione infinita). Il Cantico è uno scrigno di gioielli e sboccia tra le mani di chi lo scruta. Non è solo il canto dell’amore sponsale umano, perché celebra anche l’amore sponsale tra il Tu che è Dio e l’io che è Israele, tra il Tu che è Cristo e l’io che è la Chiesa, tra il Tu che è Dio o Gesù Cristo e l’io che è la singola persona.
Per questo motivo gli ebrei hanno inserito il Cantico tra i cinque rotoli che vengono letti nelle grandi feste. Alla solennità più grande, alla pasqua, è riservata la lettura del Cantico. In esso Israele celebra tutta la storia della salvezza: dall’esodo, all’esilio, al ritorno in patria, alla venuta finale del Messia. È una storia fatta di amore, di separazione, di ricerca, di incontro definitivo. Per questo motivo Rabbi Aqiba, morto nel 135 d.C., ha difeso l’origine divina e quindi la canonicità del Cantico dei Cantici con le parole rimaste celebri: «Il mondo intero non aveva senso né valore prima che fosse stato dato a Israele il Cantico dei Cantici. Il mondo intero non è degno del giorno in cui il Cantico è stato donato a Israele. Tutti i libri della Bibbia sono santi, ma il Cantico è il più santo di tutti». Un secolo più tardi Origene fa eco a queste parole e inizia così le sue omelie sul Cantico: «Beato colui che penetra nel santo, ma ben più beato colui che penetra nel santo dei santi. Beato chi comprende e canta i cantici della Scrittura, ma ben più beato chi canta e comprende il Cantico dei Cantici».
Di conseguenza due sono le vie principali che fin dall’antichità sono state prese, sia dagli ebrei sia dai cristiani, per interpretare il cantico dei Cantici: la spiegazione letterale e quella allegorica. La prima è stata rarissima fra gli antichi ed è invece sostenuta da moltissimi moderni. Essa vede in questo poema l’esaltazione dell’amore tra un uomo e una donna e la celebrazione positiva del corpo: è quella chi qui seguiamo maggiormente. La via allegorica, adottata in passato, legge nel Cantico l’amore di JHWH e del popolo di Israele, l’amore di Cristo e della Chiesa.
La scrittrice americana Susan Sonntag nel saggio Contro l’interpretazione ha scritto che: «l’interpretazione è la vendetta dell’intelligenza sull’arte». D’altra parte è solo attraverso la fatica dell’interpretazione, attraverso una paziente analisi del testo che si possono mettere in luce alcuni dei suoi tesori, si può far intuire il molteplice volto, la molteplice ricchezza di ogni espressione, di ogni parola. Dopo aver accennato al fatto che l’amore è una fiamma divina e che l’amore sponsale è segno dell’amore di Dio per il suo popolo, ci soffermiamo su alcune altre caratteristiche dell’amore sponsale, celebrate nel Cantico dei Cantici.


L’amore sponsale è una scelta libera
L’amore coniugale nel Cantico è anzitutto frutto di una scelta libera. Il Cantico celebra l’amore nato dalla libera scelta dei due giovani sposi. Il matrimonio non è fatto su indicazione dei genitori o direttamente da loro (come si dice in Gen 24 per il matrimonio di Isacco, in Gen 28 per il matrimonio di Giacobbe, in Ger 29,6 per i genitori in Babilonia), ma direttamente dai due sposi. La sposa parla per prima, dando espressione al suo desiderio: «Mi baci con i baci della sua bocca!» (Ct 1,2). Con queste parole la donna mette in moto tutta l’azione del poema, infrangendo l’ordinamento allora stabilito da quella che possiamo chiamare «la legge del padre». La donna esprime la grandezza dell’amore, la sua ebbrezza, la sua ricerca, la sua pienezza mai raggiunta, la fame e sete che esso suscita. Alla donna appartiene anche l’ultima parola del Cantico (Ct 8,14); sulla sua bocca si trova l’affermazione estrema che l’amore è forte come la morte e che è una fiamma divina (Ct 8,6); è la donna che grida per tre volte la reciproca appartenenza esclusiva dei due sposi (Ct 2,16; 6,3;7,11) e sempre la donna pronuncia la frase sul desiderio (Ct 7,11) che appare come un rovesciamento del predominio dell’uomo sulla donna, come conseguenza del peccato Gen 3,16). Per dodici volte la donna esprime la sua personalità, presentandosi col pronome «io», che non sempre è tradotto in italiano (Ct 1,5.6; 2,1.5.16; 5,2.5.16; 5,2.5.6.8; 6,3; 7,11; 8,10).
Dopo le parole iniziali, la sposa si proclama matura e arresasi liberamente all’amore (Ct 1,6): la sposa ha lasciato incustodita la sua vigna nel senso che è totalmente dedicata e offerta allo sposo. La sposa confessa l’esplodere del suo amore; il controllo e l’opposizione della famiglia sono stati inutili; lei ha spezzato i legami e corre dietro il suo amore. Il suo è un amore spontaneo: i due sposi non possono sopportare le convenzioni e le costrizioni esterne, le ingerenze dei fratelli. Nel mondo antico i fratelli avevano un controllo sulla sorella; qui la donna afferma la sua libertà di vivere nell’amore. La vigna allude alla femminilità della donna, ma essa può alludere anche all’intero popolo (Is 5,1.7). L’amore è il compimento della libertà e la libertà dona senso all’amore. Esso, infatti, nasce dal cuore e non può essere vincolato da costrizioni esterne. Subito dopo il coro invita la donna a uscire (Ct 1,8): proprio perché è una scelta che rimane costantemente libera, l’amore è sempre un esodo verso una meta misteriosa.
A sua volta lo sposo chiama più volte la sposa con le parole «amica mia» (Ct 1,9.15; 2,2.10.13; 4,1.7; 5,2; 6,4), sottolineando in tal modo la libertà dell’amore della sposa.
Alla fine della composizione la donna dice che l’amore non lo si può comprare nemmeno con un intero patrimonio, perché il suo valore è la gratuità (Ct 8,7). Incontrando colui che lei ama e dal quale è riamata, la sposa ha trovato il suo compimento, la sua pienezza; avendoli trovati, li può procurare a colui che lei ama (Ct 8,10): essa è veramente la Shulamit, la sposa della pace.
A sua volta il coro afferma che non c’è nessun denaro che paghi l’amore dell’amata: Salomone ha affidato la sua vigna a dei custodi, cioè ha affidato il suo harem a degli eunuchi e ciascuno di questi custodi doveva portare al re una cifra enorme, mille pezzi d’argento (Ct 8,11).
Al coro risponde la sposa con fierezza: lei non è proprietà di nessuno; è a disposizione soltanto dell’amato perché liberamente decide di donarsi a lui. Il re si può tenere tutte le sue proprietà, perché l’amore dell’amata per il suo amato è disinteressato e vale molto di più di ogni proprietà: non c’è nessun prezzo che lo possa comperare e non c’è bisogno che venga custodito con la forza (Ct 8,12).


è monogamico
L’amore sponsale nel Cantico è caratterizzato dalla monogamia; così si supera il costume della poligamia, che era in uso all’epoca dei patriarchi, dei giudici e dei re, anche se era diminuita notevolmente dopo l’esilio, si supera il costume del divorzio, che allora era molto frequente, e si contrasta la caduta nell’adulterio. Per tre volte, con leggere variazioni, la sposa grida il gioioso esclusivismo dell’appartenenza di lui a lei e di lei a lui: «Il mio amato è mio e io sono sua» (Ct 2,16); «Io sono del mio amato e il mio amato è mio» (Ct 6,3); «Io sono del mio amato e il suo desiderio è verso di me» (Ct 7,11). «Amato», lo abbiamo già precedentemente in ebraico, è detto dodì, termine che ricorre trentun volte nel Cantico dei Cantici e che è la definizione quasi obbligata che la donna usa nei confronti del suo sposo. La precedente versione della CEI, forse per ragioni di lettura formale all’interno della liturgia, usava l’espressione molto ricercata «mio diletto», ma difficilmente nessuna innamorata si rivolge con questo vezzeggiativo al suo amato; eventualmente direbbe «mio tesoro». Il vezzeggiativo dodì è intraducibile, è simile a quei nomi affettuosi che gli innamorati coniugano segretamente per sé stessi. Ma il termine dodì è composto delle stesse consonanti del nome Davide: l’amato è visto dall’amata come il proprio re o principe. In tutto il Cantico la sposa usa sempre questo titolo per il suo amato e questo nome della tenerezza diventa implicitamente il nome delle speranze messianiche. Anche le tenerezze reciproche, le carezze sono espresse quattro volte col termine dodim, plurale di dod (Ct 1,2; 4,10; 5,1; 7,13). Così questo termine è quasi il filo musicale ininterrotto del Cantico sulle labbra della sposa. Nello stesso tempo dodì è un termine di mutua appartenenza o di reciprocità, molto simile alla formula di alleanza tra Dio e il suo popolo.
La sposa chiama il suo sposo sempre dodì, amato. Lui invece usa una varietà di titoli, una ventina, per indicare la sua sposa nella sua ardente bellezza, nei suoi tormenti di amore, ed esprimerle il suo amore: affascinante, incantevole, mia amata, mia amica, mia sorella, mia sposa, amore dell’anima mia, mia unica, bella, rosa, colomba, giardino recintato, fontana sigillata, meravigliosa, terribile, eguale all’aurora, alla luna, al sole, narciso di Saron, giglio delle valli.
Leggiamo le tre dichiarazione di amore, fatte dalla sposa, che sono state chiamate «formule di mutua appartenenza».
«Il mio amato è mio e io sono sua» (Ct 2,16)
Queste parole esprimono la totalità dell’amore: l’amore è un possesso reciproco che nasce dalla donazione reciproca. Queste parole sono un canto di mistica unitiva. L’amato è per l’amata e l’amata è per lui; l’amato è con l’amata e l’amata è con lui per sempre. Lei lo sa con una certezza che esplode: l’amato la desidera e la accoglierà in un’unione indissolubile e lei proclama questa certezza assoluta a sé stessa e al mondo. Lei non si rivolge a lui, ma canta la sua intuizione, alimentata dalla visione di amore. La differenza tra i due non è un ostacolo, ma contribuisce a rafforzare il dono che uno è per l’altra e con l’altra e viceversa.
L’amata grida che il suo amato, benché assente, è vivo in lei e che lei lo sa con sicurezza. Anche se è nera, un po’ bruciata dalla fatica del lavoro, dall’ingiuria della storia, della vita passata, sa di essere amata dal suo re, dal suo amato; sa che per lui è bella. La verità del proprio amore rende l’amata eguale all’amato: egli è di lei e lei è di lui. Il suo amato è un dono assoluto e primo, è offerta di sé a lei e lei trova qui la sorgente per donarsi a lui nella purezza di un dono totale.
Queste parole sono pronunciate dalla donna subito dopo quelle con le quali il suo amato lascia trasparire un bagliore di paura, la possibilità di una tragedia (Ct 2,15). La donna è paragonata a una vigna in fiore: è tutta vita, freschezza, splendore, floridezza, profumo. Ma contro di lei può attentare il male, incarnato qui dalla volpe o dallo sciacallo e dai loro piccoli; contro la purezza dell’amore si possono scatenare forze avverse (la lussuria, la violenza, l’ingordigia, la trascuratezza) che ne possono fare scempio: ogni amore ha i suoi nemici e perciò va sempre custodito con cura, per renderlo più forte delle volpi o degli sciacalli, capace di vincere le insidie o le aggressioni che può incontrare.  
Il sospiro di amore «Il mio amato è mio e io sono sua» ha anche una sottile, ma grandiosa carica allusiva. Nell’Antico Testamento questa formula ricorre più volte per indicare l’appartenenza di Israele a Dio, per descrivere la relazione di alleanza che intercorre tra Dio e il suo popolo: «Il Signore sarà Dio per te… e tu sarai il suo popolo particolare» (Dt 26,17-18; 29,12; Os 2,21-25; Ger 7,23; 11,4; 24,7; 31,33; Ez 34,30-31; 36,28; 37,23.27; Sal 95,7; 100,3). L’autore del Cantico prende la formula della reciproca appartenenza tra Dio e Israele e la applica ai due sposi: l’amore divino per Israele e l’amore coniugale si illuminano a vicenda.
«Io sono del mio amato e il mio amato è mio» (Ct 6,3)
Per capire meglio questa affermazione è opportuno tenere presente il contesto in cui è inserita. Il sonno e il risveglio si contendono la coscienza dell’amata. L’amore l’ha tirata fuori dalla incoscienza del sonno, ma non al punto da essere pienamente disponibile. C’è in lei ancora il sonno, il legame con la notte e questo le impedisce il dono totale di sé a colui che ama. L’amato sopraggiunge improvvisamente, a notte fonda, al colmo del sonno di colei che ama. La pioggia e la rugiada, segni della notte, gli inondano il capo. Si rivolge all’amata con quattro appelli, chiamandola «sorella mia, mia amica, mia colomba, mio tutto» (Ct 5,2). Ma lei non è pronta al dono totale di sé. Nonostante l’ardore della passione che è in lei, lei conserva zone di ombra e di rifiuto che le impediscono di aderire in verità e pienezza a tutte le esigenze dell’amore.
Qui c’è un’allusione, in forma stupenda, anche alla realtà del peccato: è mancanza di prontezza a rispondere all’amore. Questa mancanza di prontezza è provocata dal sonno, dalla notte, e vengono addotti motivi futili per giustificarla: «Mi sono tolta la veste: come indossarla di nuovo? Mi sono lavata i piedi: come sporcarli di nuovo?» (Ct 5,3). Mancanza di amore è il peccato della donna che così resta dentro, chiusa nel suo isolamento. L’amato cerca di aprire, di liberarla, ma non usa violenza.
L’amato cerca di introdurre la mano e quella mano che cerca di introdursi risveglia l’amata, la restituisce a sé stessa, all’amore, la libera dalle sue esitazioni, la fa vibrare, si presenta al dono, ma l’amato è già scomparso. Lei vive il dramma della solitudine, dell’esilio che si apre e si acuisce quando l’amata, finalmente del tutto sveglia, si accorge che l’amato non c’è più. La solitudine porta l’amata alla ricerca dell’amato e questa non è altro che la ricerca autentica di sé stessa. L’amore mancato o perduto va cercato di nuovo, va inseguito, superando ogni ostacolo. L’amore è una conquista perenne. La ricerca si trasforma in sofferenza e purificazione.
La ricerca avviene nella notte. Le guardie scambiano l’amata per una prostituta: le tolgono il mantello e la percuotono e la feriscono; l’amata è disonorata, sola, prigioniera, battuta, ferita e nuda; ma così è anche l’anima, così è la figlia di Sion, così è la Chiesa, così è la creazione intera, quando sono estraniate all’amore (Ct 5,7). Qui si allude ancora alla tragedia del peccato.
La donna si libera dalla solitudine in cui è caduta con il proprio rifiuto dell’amore e affranta fa appello alla intercessione delle figlie di Gerusalemme: dicano all’amato che lei è malata di amore (Ct 5,8). Privata del suo amato, lei è assente a se stessa, è privata della sua anima, è come in balìa a un’agonia senza fine. Il suo amato è presente nella sua coscienza, ma è assente nella sua vita; lei è tutta concentrata su colui del quale si ricorda e sul quale ha posto tutte le sue speranze, ma lui non è più presente. Incomincia così la conversione dell’amata.
L’amata traccia il ritratto del suo amato: si distingue da tutti gli altri, è il più incantevole di tutti. Inizia così il canto per l’amato assente, il canto del principe scomparso, di colui che lei ha momentaneamente perso per colpa sua (Ct 5,9-16). Questa descrizione dell’amato è una litania di amore, è un’offerta di amore, è il cantico di Israele e della Chiesa al Signore assente. Sebbene sia assente, lui è l’unico, è l’incarnazione della bellezza assoluta. Ventidue termini di paragone sono usati dall’amata per ricostruire il volto dell’amato e poi conclude tutti i paragoni affermando: «egli è tutto delizie» (Ct 5,16).
L’amata è la sposa crocifissa dell’amato assente, ma da lei cercato e cantato. La fede trasforma il suo amore in un canto al suo amato re assente. L’amata diventa simile all’orante che si rivolge a Dio e gli dice: «Il mio Signore sei tu, solo in te è il mio bene» (Sal 16,2), «O Dio, tu sei il mio Dio, dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia» (Sal 63,2). La sofferenza dell’amata, la sua contemplazione crocifissa e ammirata, il suo amore assoluto uniscono a lei le figlie di Gerusalemme nella ricerca.
Sboccia allora questa seconda professione di amore: «Io sono del mio amato e il mio amato è mio». Lei è di lui e per lui, lei è dono assoluto, offerta pura come aveva detto precedentemente (Ct 2,16). Questa professione di amore, al termine di un’assenza e di una ricerca, acquista un sapore più intenso: l’amore ritrovato ha un gusto ancora superiore rispetto all’amore scoperto per la prima volta. L’amata non si è arresa al silenzio, al gelo dell’assenza, al suo momentaneo fallimento: ora possiede l’amato totalmente e immutabilmente; lei è per lui e lui appartiene a lei.
«Io sono del mio amato e il suo desiderio è verso di me» (Ct 7,11)
In questa terza espressione di amore c’è un’aggiunta significativa: «il suo desiderio è verso di me». La donna parla della pulsione, della passione del suo amato e così afferma coscientemente non solo di amare («Io sono del mio amato»), ma anche di essere da lui amata, desiderata, attesa («il suo desiderio è verso di me»). La parità delle due persone, la certezza del loro reciproco donarsi e possedersi sono ormai la celebrazione di un amore sponsale maturo.
Abbiamo già presentato l’espressione «il suo desiderio è verso di me» che richiama, per contrasto, le parole rivolte da Dio alla donna dopo la prima colpa (Gen 3,16). Nella Genesi si parlava della tensione sessuale disordinata, inseritasi nella coppia: l’impulso della donna verso l’uomo è come un’arma sospetta nella mano dell’uomo; egli ne può approfittare per la sua brama di dominio e di prepotenza. Nel Cantico, invece, la consapevolezza di essere ardentemente desiderata da colui che lei ama serve solo ad aumentare nella donna la purezza della sua donazione: il desiderio di entrambi è alimentato e purificato dal lievito dell’amore. Qui l’uomo e la donna si considerano come desiderio uno dell’altra. La donna può esprimere il desiderio amoroso del suo amato perché lei è diventata consapevole della sua dignità pari a quella dell’uomo: l’amore è diventato secondo il progetto iniziale di Dio.
Dopo il peccato, vivere l’amore non è così facile come sembra. Per il fatto che tutti cercano l’amore, non è detto che tutti lo vivano. Spesso l’uomo chiama amore un sentimento che invece è tutt’altra cosa: ama in modo scorretto, perché gli piace, perché si sente momentaneamente realizzato, padrone; ama con calcolo e questo amore in realtà è egoismo. L’amore interessato è una forma di violenza, forse la peggiore di tutte, perché camuffa la brama di possesso con gesti di tenerezza, tesi in realtà allo scopo di conquistare, sfruttare, dimostrare diritti di proprietà. La cultura dell’amore diffusa oggi tra noi è piena di contraddizioni, perché non riesce a far vivere quella libertà che promette, e spesso quello che è propagandato come libertà diventa oppressione. Ci si indigna per le vittime di questa oppressione, ma pochi se ne sentono responsabili.
La sposa del Cantico si sente invece attratta dallo sposo e a lui si offre, perché sa di essere accolta e amata veramente. Così è anche lo sposo: è attratto dalla sposa e la chiama senza farle violenza. Vuole il suo consenso e non approfitta di lei. Tra lo sposo e la sposa c’è un reciproco consenso: la sposa acconsente di essere amata e lo sposo le dà il suo consenso. Un consenso non condizionato dall’imposizione, ma dato liberamente, perché chi ama veramente lascia l’altro sempre libero di corrispondere.
«Tutta la storia dell’umanità è la storia del bisogno di amare e di essere amati» (Giovanni Paolo II). Questa storia è presente anche nel Cantico dei Cantici, nell’amore tra la sposa e lo sposo che lì viene celebrato. La donna, la sposa sta davanti al suo uomo non come una serva, ma come una compagna, messa lì da Dio per completare l’uomo e per essere da lui completata. L’attrazione riguarda entrambi e non è umiliante o schiavizzante per nessuno dei due. Ognuno dei due è chiamato a ricordare all’altro la sua origine da Dio, la sua somiglianza con lui, il suo essere segno di una realtà più grande e nello stesso tempo il proprio bisogno di aiuto, di completamento.
In quest’atmosfera di reciproca donazione e accoglienza la donna è felice di potersi dare al suo sposo: «là ti darò il mio amore» (Ct 7,13), fatto di carezze e di tenerezze. Per celebrare questo amore ha preparato frutti freschi e frutti secchi (Ct 7,14). Questi frutti esprimono la concezione che lei ha dell’amore: sarà eterno e felice come i frutti nuovi, che contengono intatto il loro pieno sapore, sarà come i frutti stagionati i quali, dopo aver perduto un certo quantitativo di acqua, serbano ancora più viva tutta la loro forza e dolcezza.
Anche lo sposo pensa a una sponsalità monogamica e fedele. L’harem del re può essere fatto di sessanta mogli, di ottanta concubine e di innumerevoli fanciulle in attesa di entrare nelle sue grazie, ma lo sposo del Cantico non invidia quell’harem. Cantando il corpo della sua amata (Ct 4,1-5,1), l’amato proclama con fierezza l’unione monogamica con la sua amata: lei è «un giardino chiuso, una sorgente chiusa, una fontana sigillata» (Ct 4,12). Le immagini indicano un’alternanza tra olfatto e gusto; sono un’allusione al giardino della creazione, sono soprattutto allusioni alla sessualità femminile, presentata come bella, dissetante, esclusiva, chiusa agli estranei e fedele unicamente allo sposo. L’amato allude in forma nitida alla fedeltà della sua amata, all’esclusività del possesso reciproco. Nemmeno lui però può forzare e ancor meno violentare l’amore della sposa. La pienezza dell’amore è donazione, è comunione totale. In Ct 4,15 lui dice che la sua amata è una fontana che irrora i giardini: ha un’acqua che deborda e che fa vivere. In qualche modo l’amata prende il posto di Dio stesso e diventa per l’amato segno sovrabbondate della presenza di Dio.
Questa idea fondamentale di mutua appartenenza, che attraversa tutto il Cantico, ci fa comprendere che l’amore è la trasfusione totale di due persone l’una nell’altra, è la loro comunione. In un successivo canto del corpo dell’amata (Ct 6,4-10), l’amato esclama: «Siano pure sessanta le mogli del re, ottanta le concubine, innumerevoli le ragazze! Ma unica è la mia colomba, il mio tutto» (Ct 6,8-9). L’harem del re può essere immenso; nel rango più alto stanno le sessanta mogli, le principesse di sangue reale, al secondo livello stanno le ottanta concubine, sterminato è il livello delle ragazze. Eppure tutta questa corte non può sostituire lei, l’unica, la donna amata. Per una mamma suo figlio è la creatura più bella del mondo, per l’innamorato la sua donna è la più splendida delle donne, è l’unica al mondo. Ci può essere anche un riferimento anche alla preghiera quotidiana dello Shema‘ (Dt 5,4-5): mille dèi morti non possono sostituire il Dio vivente che resta sempre l’unico Dio.


sponsalità indissolubile e feconda
La donna, protagonista del Cantico, al vertice del suo amore esclama: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio» (Ct 8,6). È uno dei più celebri versetti del Cantico. Qui abbiamo il trionfo dell’amore coniugale. La coppia è finalmente unita, ma ha bisogno di un continuo compimento, espresso con l’immagine del sigillo. Il sigillo è un oggetto di metallo o di pietra che permette di identificare la persona o di autenticare i documenti; per l’orientale equivale alla nostra carta d’identità. Esso veniva portato con una catenella al collo, e quindi batteva sul petto, oppure era inserito in un bracciale, oppure era portato al dito (Gen 38,18; 41,42; Ger 22,24). Metterlo sul cuore è inusuale, ma in esso dimora la sede della libertà.
La sposa dice al suo amato: «Tu devi porre me come tuo sigillo», «sono io che do l’identità a te e viceversa». La sposa supplica lo sposo di considerarla tutta e sempre sua, perché lei, a somiglianza del sigillo che lo sposo ha sul cuore, sede dei pensieri e degli affetti, e sul braccio, simbolo dell’azione, vuole pensare e agire come pensa e agisce lui, vuole che lui pensi e agisca tenendo presente lei. La donna vuole essere il sigillo che autentica il cuore di lui, il braccio di lui, vuole che pensiero e azione siano uno scambio reciproco. Niente nella vita dei due potrà essere progettato o attuato senza l’autenticazione che proviene dalla persona amata. Ogni divisione o separazione sarà impossibile; la sposa vuole essere come un timbro, un marchio a fuoco sul braccio e sul cuore dello sposo: vuole essere inseparabile da lui, una sola carne con lui.
Questa appartenenza non può essere infranta neppure dall’avversario per eccellenza: dalla morte, che sembra divori tutto (Ct 8,6-8). Quello della sposa e dello sposo è un amore che resiste anche alle grandi acque, cioè alle sciagure: le grandi acque richiamano il Nilo e l’Eufrate, l’Egitto e Babilonia (Is 8,6-8; 17,13; 42,15; 44,27; Ger 46,7-8; 51,55). L’amore supera la veemenza della morte, ha l’ardore del fulmine che nessuno riesce a spegnere. L’amore è come la roccia contro cui si infrange la forza dei fiumi avversi. Per questo riesce a vincere le grandi acque e la morte, cioè ogni avversità. In questa luce riusciamo a capire che la relazione dell’amore nuziale è veramente la relazione della totalità, della pienezza. L’amore dei due sposi non potrà essere spento: al termine del Cantico l’unione si fa dunque definitiva. In tal modo essa diventa anche una rappresentazione di ciò che va oltre, dell’unione con l’Altro, dell’amore di Dio.
Perciò nell’interpretazione più profonda la sposa è Israele, è la Chiesa. Essa si rivolge a Dio, suo sposo, a Cristo, suo sposo, e gli dice: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio. Tienimi sempre per mano». La sposa può essere l’immagine di Israele e della Chiesa che, avendo scoperto per rivelazione l’amore di Dio, sente di non aver sempre corrisposto alla propria elezione. Dopo tante peripezie, ricerche, richiami, torna finalmente a Dio, a Cristo, vuole diventare sposa definitivamente unita allo sposo
Allora si rivolge allo sposo e gli dice: «Portami sempre con te!». Il simbolo del sigillo sembra alluda alla preghiera che l’ebreo ripete cinque volte il giorno: i precetti del Signore devono essere fissi nel cuore e legati alla mano. La sposa vuole che l’intelligenza, la volontà, l’azione, l’affettività sua e quella dello sposo costituiscano sempre una reciproca appartenenza.
A queste parole della sposa del Cantico si può dare un’altra lettura più personale. La coppia protagonista indica anche l’unione di Dio o di Cristo con la singola persona; il Cantico celebra le nozze della persona con l’amore assoluto di Dio o di Cristo. La storia della singola persona è santa non perché è sempre edificante, ma perché è resa tale dall’amore misericordioso di Dio, dalla sua passione ardente per ciascuno di noi, dalla sua fedeltà, dalla sua pazienza. La sposa del Cantico rappresenta ciascuno di noi, col proprio cammino di amore nel quale diciamo a Dio: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio. Tienimi sempre con te, dentro di te, portami con te, perché io sono parte di te». Questa esperienza è espressa molto bene dall’apostolo Paolo: «Non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Nemmeno le acque della morte possono rompere questo legame: Dio non sarebbe tale se permettesse alla morte di separarci da lui. Anche Paolo esprime la stessa certezza (Rm 8,35-39; 2Tm 2,11).
L’amore dei due protagonisti del Cantico vuole essere anche fecondo. La fecondità degli sposi non è nominata esplicitamente nel Cantico, però la sposa è paragonata più volte alla vigna (Ct 1,6; 8,12); si parla del profumo della mandragola, che si pensava avesse capacità fecondatrice (Ct 7,14; cfr. Gen 30,14-16); lo sposo è paragonato al melo tra gli alberi del bosco e in oriente il melo è la pianta dell’amore fecondo (Ct 2,3); la sposa è un giardino di melagrane (Ct 4,13) e dà allo sposo il succo della sua melagrana (Ct 8,2). Oggi è messa in crisi anche la fecondità dell’amore; non tanto per quanto riguarda il numero dei figli, ma soprattutto per quanto riguarda la stima, la valutazione che accompagna l’amore. Oggi idoli frequenti sono l’ossessione della crescita, il totalitarismo della comunicazione. L’amore spesso ha un peso inferiore al denaro, al successo, alla carriera, al desiderio di essere presenti nell’ambito dei mezzi di comunicazione. Si pensa che con queste realtà si può avere anche l’amore, ma non viceversa, e questo inganno fa molte vittime, lascia molti senza un vero futuro.


corrispondenza e diversità
La sponsalità vive di una perfetta valorizzazione del rapporto interpersonale. Tra i due sposi c’è un’omogeneità, una comunione così profonda da renderli un’unica esistenza, una sola carne. Le esperienze, le emozioni, i pensieri dell’uno diventano quelli dell’altra in un dialogo che non si spegne neppure con la morte. A differenza di Gen 2,23-24 dove c’era solo la voce dello sposo, qui si sente anche la voce della sposa che guarda l’uomo, avanza verso di lui con gioia, con libertà, con sofferenza. La parità è piena e il dialogo è completo. Anzi, è la donna che comincia per prima, che canta per prima l’amore: «Mi baci con i baci della sua bocca! Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino» (Ct 1,2). «Si manifesta così la quasi impossibilità di appropriarsi e impossessarsi della persona da parte dell’altra» (Giovanni Paolo II). Il coro dei pastori che raccolgono l’invocazione della donna è molto significativo (Ct 1,8). Il dono libero da persona a persona supera l’impossibilità di appropriarsi dell’altro coniuge. L’unione profonda dei due sposi rispetta sempre l’identità di lei e l’identità di lui, a partire dal rispetto della loro diversa corporeità: la fusione creata dall’amore non diventa mai con-fusione.
Il Cantico ripete più volte che la dinamica amorosa conosce la sapienza di far coincidere o per lo meno di far convivere gli opposti: unione e separazione, comunione e alterità, possesso e rispetto. La grande difficoltà che oggi conosce l’educazione all’amore deriva dal fatto che si vuol sopprimere ogni dialettica e si vuole subito fare la sintesi, si vuole arrivare subito e con totalità alla pienezza. Si rifiuta la crescita, la fatica, si teme, non si capisce il senso dei momenti di oscurità. L’amore vero nasce quando si comprendono e si accettano insieme la differenza e l’unità. Senza differenze non c’è relazione, senza comunione rimane una grande solitudine. L’educazione a una eguaglianza tra due persone differenti è difficile, perché comporta imparare, rispettare la libertà dell’altro che deve apparire ancora più preziosa della propria. Il vero possesso lo si ottiene solo con il paradosso evangelico della donazione e dello spogliamento: chi perde la propria vita, la troverà (Mc 8,35).


valore e bellezza della corporeità
Il corpo è profondamente unito all’anima, è inscindibile da essa ed ha una funzione decisiva. Il corpo nel matrimonio diventa il punto di partenza e di arrivo di un insieme vivissimo di relazioni. Il corpo ha un suo linguaggio che il Cantico cerca di decifrare nei suoi segreti. La conoscenza reciproca dei due innamorati non avviene solo attraverso la mente, ma anche attraverso i sensi, attraverso la corporeità. «Tanto il punto di partenza quanto il punto di arrivo del fascino – reciproco stupore e ammirazione – sono la femminilità della sposa e la mascolinità dello sposo nella esperienza diretta della loro visibilità» (Giovanni Paolo II). La corporeità di lei e di lui è presente quindi con tutta la sua forza, il suo splendore, i suoi segreti.
In Ct 1,13 la sposa contempla il suo amato teneramente abbandonato sul proprio corpo, mentre pernotta adagiato sui propri seni, percepiti da lui come un rifugio sereno e dolcissimo in cui le paure si cancellano e si prova l’impressione di vivere in un giardino di delizie e di profumi. La tradizione cristiana non ha mai rifiutato la bontà del corpo e della sessualità, tuttavia talvolta l’ha velata anche pesantemente attraverso un clima di sospetto e diffidenza. La sessualità è stata vista spesso con la paura del puritanesimo, come un pericolo, un rischio, creando sospetto anche su ciò che è naturale; di conseguenza gli altri peccati sono stati visti più perdonabili, mentre quelli della carne sono stati presentati come trasgressioni gravi. Quasi per reazione, la cultura attuale sta perdendo o ha già perso il significato del corpo, della sessualità e fa del corpo uno strumento da usare senza nessun criterio che non sia quello dell’immediatezza e del godimento. Il corpo rischia di diventare una cosa, quasi altro da sé. Il Cantico ci dice che occorre sempre imparare il valore del corpo e della sessualità per giungere a una visione bella e nello stesso tempo non ingenua; i condizionamenti, i problemi anche in questo ambito ci sono e tutti lo sanno: basta pensare a come i ragazzi oggi nel vivere la corporeità sono suggestionati da tutto ciò che vedono e sentono.
In Ct 4,1-6 il corpo della donna è descritto partendo dalla testa, dai capelli, dagli occhi; si passa poi al collo e ai seni. Questa descrizione in un certo senso prosegue in Ct 7,2-10: qui la donna è presentata nell’ebbrezza della danza per cui si sale dai suoi piedi fino al suo volto. Il coro rivolge all’amata una domanda impertinente: «Ma che cos’ha di così straordinario il tuo amato» (Ct 5,9): lei approfitta della domanda per slanciarsi in una descrizione del corpo dell’amato (Ct 5,10-17). Abbiamo così un nuovo canto, una nuova rappresentazione del corpo dell’uomo rivolta non a lui, ma agli altri. Questo inno al corpo è ricco di immagini che ci autorizzano a essere creativi, a intravedere simboli e significati. Si parla di un volto che è inconfondibile, unico, irripetibile, ricco di mistero. Il portamento è stabile, sicuro, completo. Molte volte ritornano espressioni di questo tenore: «quanto sei incantevole, amica mia, quanto sei incantevole»; «quanto sei affascinante, amato mio, quanto sei affascinante». Per i due innamorati i loro corpi sono bellissimi, perché il loro amore è bellissimo.
Il corpo nella nostra cultura è apparentemente esaltato. In realtà lo è solo ad alcune condizioni: deve essere giovane, bello secondo i canoni della moda, prestante, capace di suscitare emozioni incontenibili. Ben pochi corpi e per poco tempo soddisfano questi requisiti e allora il corpo viene coperto di tatuaggi, diventa uno spazio per lanciare messaggi, per descrivere altro da quello che si è o che non si è capaci di dire, oppure il corpo rischia di essere abbandonato. Il corpo rimane sempre persona che rimanda a Dio. Non esiste un corpo brutto e non possiamo andare a Dio senza il corpo. La stessa struttura sacramentale della Chiesa lo insegna. Il Cantico ci rivolge l’accorato appello a salvare il corpo e con il corpo salvare l’amore. Ci invita a chiederci quale volto, quale portamento ha assunto nel tempo il nostro modo di amare, riconoscendo che forse rispondere è difficile. Vivere la corporeità non è facile, perché è sempre in agguato un’adolescenza che non finisce mai. Oggi uno degli idoli più frequente è la fissazione della giovinezza. Il corpo, che dovrebbe essere amato, viene disprezzato, temuto, mercanteggiato con disinvoltura. Veniamo da secoli di diffidenza verso il corpo e non è facile per nessuno un equilibrio. La strada peggiore è passare da un eccesso all’altro, quasi per una legge del bilanciamento, ma così dalla repressione moralistica si passa alla banalizzazione vuota di senso.
Il Cantico aiuta a stabilire un rapporto naturale col corpo, col sesso, con l’eros. Questo significa anzitutto rallegrarsi che ci sia la realtà dell’amore. Questo piacere, che è una delle più belle e potenti sensazioni che esistano, è un magnifico dono del Creatore. Guardiamo, ascoltiamo i due innamorati del Cantico, come si rallegrano ciascuno per il corpo dell’altro nella sua diversità, vediamo come si contemplano estasiati, dalla testa ai piedi, come anelano alle carezze e all’amplesso. Sono Adamo ed Eva nel paradiso terrestre, senza vergogna del corpo e della sessualità. Non si può cadere in errore al punto di equiparare sempre la sessualità all’immoralità. Non siamo costretti a cercare di diventare puri spiriti, come vorrebbero gli influssi provenienti dal neoplatonismo.
Non ringrazieremo mai abbastanza lo Spirito Santo per aver fatto posto nella parola di Dio alla celebrazione dell’amore, dell’eros, fatto anche di corporeità. Questi due giovani che si amano intensamente avranno poi anche dei figli, non potranno vivere il Cantico in ogni momento della loro vita. Però l’amore che hanno vissuto, sperimentato, li aiuterà sempre a compiere una crescita, li sosterrà sempre.
Intimamente connesso col corpo umano c’è anche quello che potremmo chiamare il corpo del mondo: il corpo ha la stessa bellezza della creazione. Esso rifiorisce, risplende, diventa un paradiso, quando l’uomo e la donna vivono nell’amore (Ct 4,13-16). Per questo tutto il libro è ambientato nella primavera che ha alle spalle il freddo dell’inverno e non conosce ancora l’incandescenza dell’estate.


Una Ricerca continua
Il Cantico celebra due sposi che si cercano, si guardano, si contemplano, si struggono di amore, si smarriscono, si cercano di nuovo, si ritrovano, ricordano, sperano e si promettono fedeltà. L’uno per l’altra sono re e regina. Il Cantico è percorso come da un filo rosso: la scoperta dell’amato e del suo splendore avviene solo dopo una ricerca prolungata instancabile. L’amore è come una battaglia da vincere e l’innamorato, dopo la conquista dell’amata, innalza su di lei il vessillo che è solo l’amore (Ct 2,4). Il premio della battaglia è l’amore stesso. La battaglia dell’amore è sempre contro l’insidia del capriccio che lo svilisce; ogni amore è una conquista perché, come dice l’amata con finissimo realismo, l’amore è una malattia e solo l’amore può curare la malattia d’amore, è capace di costruire legami che durano sempre, perché permette di arrivare all’alterità della persona amata nel sonno, cioè con sorpresa, gustandola come un dono non meritato e sul quale non si possono mettere le mani (Ct 2,5-7).
Il Cantico conosce momenti nei quali l’amore è in crisi, nei quali l’unione tra i due attraversa un periodo di difficoltà, nei quali si insinua quasi la mano gelida della negazione (Ct 2,8-9; 3,1-4; 5,2-6,3). L’amore attraversa anche momenti di buio, di notte; può darsi che vengano momenti nei quali l’amore, per così dire, si è seduto e vive solo di rendita: quello deve diventare il momento della ripresa, della ricerca, dell’uscita da se stessi. Nella sua ricerca notturna insistente dell’amato la donna trova purtroppo delle sentinelle che sanno ben poco dell’amore e che quindi non le danno nessuna indicazione (Ct 3,3). La ricerca dell’amore si trova anche davanti a prove tremende: l’amata nella sua ricerca notturna dell’amato è addirittura pesantemente fraintesa, è scambiata per una prostituta e le guardie della città vedono in lei un’occasione per sfogare i loro istinti, ma lei non cessa di cercare, disposta anche a rischiare la vita, perché è malata d’amore; questa malattia si cura non abbandonando l’amore, ma mettendosi alla sua ricerca (Ct 5,7-8). La presenza dell’amato è gustata dopo l’amaro della sua assenza, dopo l’esilio del distacco, dopo l’angoscia del vuoto, dopo la ricerca insistente. La ricerca instancabile e il gioco dell’amore sono basati sulla indistruttibile speranza che colui che viene amato c’è, ama a sua volta e lo si troverà. Il desiderio, la ricerca sono l’essenza dell’amore.
La ricerca può diventare ansia, sofferenza, delusione che però non si dà per vinta, ma è descritta soprattutto come un gioco continuo: l’amato viene, chiama, ma poi non c’è all’incontro; allora è invocato, sfugge, si perde e alla fine l’amata lo trova e lo trattiene. Il ritrovamento suscita pace, gioia, entusiasmo, ma subito dopo avviene la perdita e questa suscita desiderio, domanda, implorazione. L’amore chiede assenza e presenza, nascondimento e ricerca, per aumentare la sorpresa e il gaudio. L’amore sponsale è conquista quotidiana: va cercato e inseguito, superando ogni giorno gli ostacoli. Ogni volta il desiderio deve diventare più forte, l’unione più intima. Lo sa bene la mamma che si nasconde al suo bambino per dargli la gioia e l’entusiasmo del ritrovamento. Così viene descritta la caratteristica più profonda dell’amore: non afferra mai totalmente il suo amato, non è mai sicuro e pacificato nel suo riposo per molto tempo, perché l’amore sfugge sempre, è più grande di noi, è libero, è divino. L’amore è nutrito di vagheggiamento e di sguardi. Anche le parole conclusive che la donna rivolge al suo amato sono un invito a correre, a fuggire, a mettersi in ricerca del corpo della sua amata: l’amore non finisce mai, non può essere posseduto una volta per tutte; l’amore ricomincia sempre, perché è gioia, è vita, rimanda sempre oltre, alla possibilità di sperimentare un amore più grande (Ct 8,14). È essenziale che i due innamorati continuino a volersi reciprocamente, ancor più di come si sono voluti il primo giorno. Il Cantico non presenta, quindi, un cammino verso un’unione finale compiuta, non termina, come fanno molte favole, con una vita felice e contenta, perché l’unione sponsale è un punto di partenza sempre nuovo. Per questo nel Cantico del Cantici i momenti di amore felice e di pace sono piuttosto rari (Ct 1,15-17; 2,6; 6,3; 8,3).
Mediante il tema della ricerca il Cantico ci ricorda che Dio stesso affronta la possibilità di essere respinto, pur di entrare in un rapporto di amore autentico. Dio si nasconde, per farsi cercare e trovare. Egli si comunica in una ricerca intessuta di luci e di ombre, di manifestazione e di nascondimento, come ci ricorda molto bene anche la ricerca dei magi (Mt 2,1-12). Pure Gesù si comunica nei miracoli e si nasconde nella umiliazione della croce, il Risorto si manifesta a pochi intimi, poi scompare dalla loro vista e si nasconde sempre alle attese spettacolari di ogni tempo. Il desiderio e la ricerca sono l’anima dell’amore: «Ho cercato non qualche premio all’infuori di te, ma il tuo volto» (s. Agostino); «Il tuo volto è la mia patria» (s. Teresa di Lisieux).
Un testo della tradizione giudaica può compendiare la ricchezza, il significato e il messaggio del Cantico dei Cantici: «Quando Adamo peccò, Dio si ritirò nel primo cielo, allontanandosi dalla terra e dagli uomini. Quando peccò Caino, Dio sdegnato si ritirò nel secondo cielo. Quando peccarono i figli di Enoch, Dio impaurito si ritirò nel terzo cielo. Quando i figli degli uomini divennero corrotti e Dio dovette mandare su di loro il diluvio, si ritirò nel quarto cielo. Quando gli uomini oppressero altri uomini, erigendo la torre di Babele, Dio si ritirò al quinto cielo. Quando Israele fu schiavo nell’oppressione d’Egitto e soffrì molto sotto la mano del faraone, Dio si ritirò nel sesto prima e poi nel settimo cielo. Dio però ritornò sulla terra il giorno in cui fu donato a Israele il Cantico dei Cantici» (Genesi Rabbà 19 ss.). 


Per concludere…


Chiudiamo con un brano di colui che rilegge il Cantico con una lettura personale: Giovanni, il teologo dell’amore.
Egli gioca con allusioni al testo, laddove narra l’incontro tra Gesù e Maria Maddalena. Il Messia sposo si sottrae non per scomparire, ma per offrire all’amore l’opportunità di trovarlo.
11Maria invece stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro 12e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. 13Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto». 14Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. 15Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo». 16Gesù le disse: «Maria!». Ella si voltò e gli disse in ebraico: «Rabbunì!» - che significa: «Maestro!». 17Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: «Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro».


Enzo Bianchi afferma: «Nell'A-T. è Dio lo sposo fedele. Ricordiamo Osea, Geremia, il Cantico dei Cantici. Si diceva che il Messia sarebbe stato lo sposo. Quando Giovanni scrive, ha coscienza che nella tradizione paolina Gesù è chiamato sposo: Gesù sposo - la Chiesa sposa. Giovanni applica a Gesù la teologia di Dio-sposo. La comunità è sposa del Signore. E Origene scrive: «Ecco l'atteggiamento di chi ha nella chiesa una responsabilità: condurre la sposa allo sposo, favorire l'incontro e poi ritirarsi. Questo perché le persone - la sposa - sono dello sposo».
L’evangelista aveva, probabilmente, già fatto ricorso al tema nuziale in occasione della sepoltura di Gesù con riferimento ai profumi aromatici con cui Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo vanno al sepolcro per imbalsamare il corpo di Gesù. Portano cento libbre (una quantità smisurata: 32 Kg.) di profumi usati tradizionalmente per i riti funerari, ma la precisione di Giovanni nell’elencarli (mirra e aloe) rivela forse un’intenzione teologica e catechistica; sono anche profumi sponsali. La mirra e l’aloe sono profumi per il letto matrimoniale (In Proverbi 7,17-19 una donna dice al proprio amante: «ho profumato il mio letto di mirra, di aloè e di cinnamòmo. Vieni, inebriamoci d'amore fino al mattino»); sono profumi per i vestiti del re sposo (Salmo 44,9 «Le tue vesti profumano tutte di mirra, aloè e cassia»); sono profumi ricorrenti sempre in contesti nuziali (Cantico dei Cantici 3,6; 4,6.14; 5, 1. 13).
L’evangelista aveva, probabilmente, già fatto ricorso al tema nuziale con riferimento alle bende (in greco: othonìois) con cui Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo avvolgono il corpo di Gesù; sono le stesse lenzuola matrimoniali a cui accenna il profeta Osea (2, 7.11) o vesti matrimoniali a cui fa cenno il Libro dei Giudici (14,13) in occasione del banchetto di matrimonio di Sansone. Il termine greco usato in tutti questi testi è sempre in greco othònia = lenzuolo o veste matrimoniale. Dunque, mentre Giovanni pare descrivere un particolare di cronaca di fatto sembra fare teologia e catechesi: Gesù è lo sposo rivestito di vesti sponsali e la tomba diventa la stanza e il letto matrimoniale. La descrizione della tomba con le bende e il sudario piegato corrisponde a molti testi dove si parla della stanza da nozze, il talamo. Nella stanza da nozze c’erano sempre le lenzuola da una parte e un panno piegato dall’altra. Era il panno con cui poi si constatava che la sposa era arrivata vergine al matrimonio. Giovanni insiste su questi particolari per dire che siamo in un clima nuziale dove il sepolcro è diventato la camera nuziale.
In Ct 3, 1 abbiamo il dramma della sposa che di notte va a cercare lo sposo e non lo trova: nella notte ho cercato l’amato del mio cuore; l’ho cercato e non l’ho trovato. La risposta di Maria per giustificare il pianto («Hanno tolto il mio Signore e non so dove l’hanno posto») può trovare un parallelo dal Ct. 3, 2 : Mi alzerò, farò il giro della città, voglio cercare l’amato del mio cuore. L’ho cercato e non l’ho trovato... Mi hanno incontrato i custodi della città che fanno la ronda: Avete visto l’amato del mio cuore?Avevo appena oltrepassato i custodi, che ho incontrato l’amato del mio cuore. L’ho abbracciato e non lo lascerò mai più finché non lo porterò nella mia casa. La sposa del Cantico trova, dopo avere oltrepassato i custodi della città, l’amato del suo cuore. Maria sente pronunciare il proprio nome: Maria! Ella, voltandosi, le dice : Rabbuni - in ebraico - che significa mio maestro! La risveglia la voce dello sposo. Geremia 33, 11 per indicare i tempi messianici scrive: «Grida di gioia e grida di allegria, la voce dello sposo e la voce della sposa». Gesù in Gv 10, 3 aveva detto «le mie pecore conoscono la mia voce». Il pastore dà un nome ad ogni pecora e le chiama ciascuna per nome e queste riconoscono la voce del pastore: ecco l’incontro, ecco le nozze messianiche. Rabbuni è anche il termine che viene dato dalla sposa al marito. Ad esempio Sara chiama Abramo, quando lo incontra: mio Signore, mio maestro.
Ha scritto Karl Rahner: «Nel futuro il Cristianesimo sarà mistico o sparirà». Alla Maddalena, che cerca il corpo del suo Signore nel suo «dove», il Risorto si fa vedere come vivente che «sale al Padre», il suo «dove» più vero, trascinando in questa ascesa la comunità che, iniziando dalla Maddalena stessa, si trasmette – di bocca in bocca – la «voce» e la visione di Lui. Quello di Giovanni è il vangelo della fede che rimane, della fede matura. In questo senso, allora, è il vangelo di chi non si accontenta di una fede “efficientistica”, fatta di decisione, di conoscenza, di testimonianza: la fede ha bisogno anche della dimensione mistica, che mette dimora là dove Gesù ha la sua dimora.





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  • GUGLIELMO DI SAINT-THIERRY, Commento al Cantico dei Cantici, Città Nuova, Roma 2002.
  • Il Cantico dei Cantici, a cura di M. Bettetini, Rusconi, Milano 1996.
  • Il Cantico dei Cantici, a cura di G. Ceronetti, Adelphi, Milano 1975.
  • Il Cantico dei Cantici. Targum e antiche interpretazioni ebraiche, a cura di U. Neri, Città Nuova, Roma 19933.
  • LIA P., Il Cantico di Chagall, Àncora, Milano 2001.
  • LUZZATTO A., Una lettura ebraica del Cantico dei Cantici, La Giuntina, Firenze 1997.
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  • RASHI DI TROYES, Commento al Cantico dei Cantici, a cura di A. Mello, Qiqajon, Magnano (VC) 1997.
  • RAVASI G., Il Cantico dei Cantici, EDB, Bologna 1992.
  • SEMERARO M.D., Il Cantico dei Cantici. L'amore non si improvvisa, EDB, Bologna 2006.



Inoltre le catechesi sul Cantico dei Cantici di Giovanni Paolo II del 2, 9, 16, 23, 30 maggio e 6 giugno 1984 che sono reperibili sul sito web del Vaticano e quella correlata sui capp. 1 e 2 della Genesi del 15 novembre 1979 (anch’essa reperibile sul sito del Vaticano).

 


 
 


Fonte : scritti di Padre Maurizio Buioni (religioso Passionista) , e-mail: mauriziocp@gmail.com  .












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