IL MISTERO PASQUALE E LA
PARUSIA
di Padre Maurizio Buioni
Affrontando il tema che ci
accingiamo a presentare tocchiamo il
cuore della cristologia di Gesù, che si compie nel mistero pasquale, e
della cristologia della Chiesa, che inizia con la Pasqua. La comunità
di Gesù ha la sua origine prima degli eventi pasquali, ma per approdare
ad una comprensione più adeguata della fede in Cristo ha dovuto
attraversare la sua morte e risurrezione. Questo è il centro della
cristologia. L’evento pasquale salda indivisibilmente la “cristologia
di Gesù” e la “cristologia della Chiesa”, il “Gesù terreno” e il
“Cristo glorificato, vivente nella Chiesa”. Nel mistero pasquale si
compie la “cristologia di Gesù”, perché si rivela pienamente il senso
della sua filialità. Gli interrogativi che ci porremo interessano le
seguenti tematiche:
– Significato della storia della Passione.
– Rapporto fra Croce e Trinità.
– Rapporto fra Croce e salvezza dell’uomo.
– Rapporto fra morte di Cristo e morte dell’uomo.
Questa storia è il dato normativo più ampio nel Vangelo, definito anche come «storia della passione con ampia introduzione»,1 a cui si sono aggiunti i detti di Gesù e altri dati della tradizione. La domanda sul senso di questa storia è importante poiché non è puramente biografica, né tantomeno psicologica, ma squisitamente teologica. Qual è il criterio di lettura di questa storia? La risposta ci viene dalla predicazione apostolica: è una storia narrata “secondo le Scritture”, Matteo, ad esempio, richiama ripetutamente i Salmi. La Chiesa, che ha compreso e confessato il Mistero avvenuto in essa, ha raccontato la Passione in un clima di preghiera. Perché è importante il criterio della Scrittura? Perché la Croce è una realtà inaudita per i giudei e i pagani; la Chiesa ha recepito e superato lo scandalo della Croce vedendo l’intimo legame tra Scrittura e Passione di Gesù. La Scrittura è il luogo in cui si rivela la volontà di Dio, perciò era importante vedere che Gesù era morto “secondo le Scritture”, cioè secondo i disegni di Dio. In At 2,23 Pietro proclama che Gesù è morto secondo la “prescienza di Dio”; la Croce quindi non si risolve con la malvagità esclusiva degli uomini. La lettura della Passione alla luce delle Scritture non è fatta a senso unico: non si parte dalle aspettative messianiche per arrivare alla Croce. La Chiesa ha fatto un cammino inverso: è il Mistero della risurrezione che illumina la croce e le Scritture. Attraverso la luce della Pasqua e della Pentecoste la comunità delle origini ha visto la consonanza tra quanto era accaduto sulla Croce e quanto stilato nella Scrittura. Il criterio risiede nella Scrittura, ma alla luce dell’Evento pasquale.2
1. DIVERSI RAPPORTI
Quale significato ha dato Gesù a questa morte? Sono eliminate le ipotesi che la morte non fosse già presente nella vita di Gesù o fosse subita passivamente sulla stregua di un evento tragico. Il discorso storico affronta concretamente il modo di morire di Gesù; un altro ambito di carattere teologico, commenta la Passione e la Croce non come un dramma isolato vissuto da Gesù nella sua umanità, poiché Egli nella morte realizza pienamente la sua figliolanza, come troviamo scritto: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39). Pertanto, la Croce è un evento supremo di dialogo tra Gesù e il Padre, in essa si compie da un lato, la duplice consegna di Gesù da parte del Padre (Rm 8,32) e quella di Gesù al Padre; dall’altro Gesù rimette anche lo Spirito: «Reclinato il capo, donò lo Spirito». La Croce è un dramma trinitario e non solo cristologico, che ci permette di affermare come la storia della Croce sia la storia della Trinità. È un dramma che parte dal Padre affrontato liberamente da Gesù. Come si esprime la libertà di Gesù in questa vicenda? Vivendola come il volere del Padre. Tutta la sua vita è su questa linea: “Faccio sempre la volontà del Padre mio”. La volontà di Gesù è una volontà dialogica: il Figlio vive liberamente la volontà del Padre, è una libertà filiale che lascia trasparire la vera libertà dell’uomo. La morte di Gesù è legata alla remissione dei peccati. L’antico kerygma testimonia che «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture» (1Cor 15,3), dunque c’è un legame tra la morte di Gesù e la remissione dei peccati. Nella tradizione questo legame è stato diversamente espresso: espiazione, sacrificio, soddisfazione, riconciliazione. Qual è la motivazione principale perché la Chiesa annunci incessantemente che la croce di Cristo è salvezza per l’intera umanità? La morte di Gesù in croce è salvezza, poiché rivela l’amore universale di Dio, della Trinità; il senso del per-noi del kerygma è l’amore.3
Attraverso la potenza dell’amore di Dio la Croce riconcilia l’uomo con Dio nella forza dell’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Alla luce di quest’amore salvatore la Croce è anche espiazione, sacrificio, soddisfazione, cioè tutti gli altri linguaggi sono da ricomprendere nell’amore di Dio, diversamente precipitiamo in un giuridicismo della redenzione, quasi che si necessiti pagare un prezzo al Dio irato. La Croce è prima di tutto un evento di grazia, l’opera salvifica di Dio in noi, è iniziativa del Padre, nel Figlio, nella potenza dello Spirito. L’aspetto soteriologico va ricompreso nel contesto della teologia trinitaria della Croce. Sussiste un rapporto tra morte e vita: essa dà significato alla morte, differentemente la morte da sola non ha senso, è negatività e privazione. Non si può amare la morte come tale, ma neppure negarla come un momento della vita. È anche vero che la morte rivela le intenzioni fondamentali della vita: di fronte alla morte si rivela il significato che abbiamo dato al nostro vivere. Da una parte, la vita di Gesù è il luogo dove si comprende la sua morte, dall’altra la morte di Gesù è il luogo dove si comprende la sua vita. Questo è un dato ragguardevole per l’uomo e per l’antropologia cristiana.
1.1. La previsione della morte
Il mondo occidentale registra una profonda mutazione di sensibilità riguardo la morte. Se un tempo, la morte era accompagnata dal rispetto umano, da una concezione solidale e cristiana, oggi essa è banalizzata, percepita come un fatto meramente biologico, un decesso senz’altro spessore umano, dove si favorisce un morire sempre meno umano. Dinanzi a questo fenomeno della decadenza del senso umano e cristiano della morte, l’uomo perde il senso della sua umanità. Questa banalizzazione porta ad una visione desacralizzata della morte: si perde il senso umano e sacro della morte come momento importante della vita religiosa dell’uomo. Si corre il pericolo, specie nel mondo avanzato, che essa sia cancellata dal tessuto sociale, perché considerata solo come un fatto anagrafico, che non fa più notizia. Questo pone gravi interrogativi a livello umano e cristiano: se l’uomo non prende coscienza dell’importanza della morte non è nemmeno in grado di comprendere la vita. Questa è un’introduzione che ci mostra come Gesù si è comportato di fronte alla morte. In generale possiamo dire che i Vangeli ci presentano la realtà della morte nell’esistenza di Gesù come una realtà che attraversa la sua esistenza. Tutta la sua vita è legata al pensiero della morte, della sua particolare morte, che è una morte cruenta, violenta, di croce. Gli evangelisti lo mostrano, Lc 2, 34-35 già nell’infanzia: «segno di contraddizione... anche a te una spada trafiggerà l’anima». I dati del Vangelo ci informano che non solo Gesù ha presente il suo destino finale, ma ha ben chiaro che esso rappresenti il momento culmine, pertanto si muove liberamente, non passivamente, verso la morte in croce. Sulla previsione della morte il Vangelo ci presenta due prospettive: la prima considera la morte come martirio, il momento supremo della sua missione profetica,4 ponendo l’accento sul fatto che la sua morte è provocata dalla scelleratezza umana: «morto per i nostri peccati». La seconda visione evidenzia il mistero teologico di questa morte in cui è nascosto il disegno del Padre.
1.2. La morte di Gesù come martirio
Distinguiamo nei dati evangelici tre argomentazioni:
1) Alcuni dati precedenti, che non si riferiscono a cenni espliciti, ma primariamente alla previsione della morte violenta, legata alla stessa missione di Gesù,5 che già di per sé lo poneva in una posizione di conflittualità con i suoi detrattori. L’atteggiamento di Gesù verso la tradizione halachika, orale, lo esponeva all’ostilità di chi non accettava giudizi di revisione, come nella cacciata dei venditori dal Tempio. Non va esclusa la sua auto-identificazione divina: «Prima che Abramo fosse, Io sono». Tutta la sua predicazione era sotto il segno della contraddizione e una missione di questo tipo era estremamente difficoltosa. Nei dati del Vangelo si legge che Gesù lega la sua missione profetica a quella del Battista. Quando il Battista è ucciso, Gesù inizia il suo itinerario verso Gerusalemme, per il suo martirio. Tutta la storia dei profeti è legata al martirio: «Non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme» (Lc 13,33-34) e qui parla di sé nel quadro della storia dei profeti. Gesù non poteva non prevedere il destino di sofferenza e di uccisione cui era legato: il martirio era il suggello, quasi il carisma della vita del profeta. Questa previsione è legata ad una semplice lettura degli avvenimenti che accadevano.
2) Ci sono alcuni detti velati del Vangelo che esprimono questa apprensione: in Mc 2,17-21 proprio all’inizio della vita pubblica Gesù fa capire velatamente che lo sposo sarà tolto. C’è un’allusione implicita ma sufficientemente chiara a una morte violenta, come del resto in Mt 21,33-45.
3) I testi maggiori sono legati agli annunci della passione.6 Partiamo da quello fondamentale: in Mc 8,31 Gesù insegna che «il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere riprovato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere»; è quasi un’elencazione minuziosa degli episodi della passione. Il secondo testo Mc 9,31 è più conciso, qualcuno traduce «viene consegnato», sottolineando la maggiore attualità del «viene». In questa sede affermiamo come non si possa rimuovere il fondamento storico di questo annuncio profetico. L’annuncio della passione è pre-pasquale. Questo non esclude la possibilità che la Chiesa l’abbia arricchito e descritto nei fatti, tuttavia senza inventare l’annuncio stesso.7
1.3. Il mistero teologico della morte di Gesù
Precisiamo quanto sia importante questo annuncio della passione, per penetrare il senso teologico della previsione. Anzitutto Gesù concepisce la sua morte come martirio, ma cerchiamo di scoprirne ulteriori particolari:
1) Libertà. Gesù va incontro liberamente alla propria morte, non è stato costretto dalle vicende umane. Questa libertà sta nel fatto di essersi donato e offerto come Figlio indifeso e il dato emerge nel terzo annuncio della passione: «Mentre erano in viaggio per andare a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano stupiti; coloro che venivano dietro erano pieni di timore» (Mc 10,32). Gesù va volontariamente, decisamente alla morte: andare a Gerusalemme significa esporsi alla morte. Il primo elemento è quello della libertà, da interpretare trinitariamente e non in senso autonomo; è la libertà di un Figlio che fa suo il volere del Padre. Non è una libertà autonomistica, che non è biblica, ma una libertà rispondente all’appello di Dio, che non è soggetta alle vicende umane; Gesù non è stato costretto dagli uomini a morire, ma si è consegnato liberamente.
2) Malvagità umana. C’è anche la malvagità umana, legata per di più alla tradizione della storia dei profeti. La morte di Gesù non è pura auto-immolazione, ma è anche determinata dal rifiuto umano verso il suo amore. È l’aspetto amartiologico della Croce – «è morto per i nostri peccati» – rilevato dall’annuncio primitivo.
3) Disegno di Dio. Gesù vede la sua morte come inscritta nei disegni di Dio, che racchiude l’aspetto più teologico. Nella prima profezia della passione Gesù dichiara «è necessario che...», in greco dei, in latino oportet.8 Di quale necessità si parla. Non certo di un’inevitabile fatalità perché confuterebbe la libertà prima riconosciuta. Non è una necessità storica. Questa necessità trova riscontro nella seconda parola profetica: «sta per essere consegnato», paradídotai. Consegna può anche essere quella di Giuda, ma qui ha un senso passivo: «Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato». La maggior parte degli studiosi rileva un “passivo divino” poiché essa è opera del Padre, avvalorata dal suo amore. Dobbiamo mettere in risalto come tale consegna del Figlio avvenga non perché gli uomini lo uccidano, ma dapprima lo rifiutano per poi eliminarlo. La parabola dei vignaioli omicidi è parallelo di questo brano. Il Padre ha consegnato il Figlio per essere accolto e salvarsi, gli uomini lo uccidono. Rm 8,32 illumina il senso di questa consegna: anche qui è utilizzato paradídomai. Non è il Padre che ha ucciso il Figlio, poiché significherebbe la nostra deresponsabilizzazione verso l’infinita misericordia di Dio. Gesù, infatti, vede la sua morte inscritta nel disegno del Padre.
4) Le tre profezie proclamano “dopo tre giorni”. Questa formula non va interpretata solo in senso cronologico, ma determina un tempo breve per indicare che il Figlio dell’uomo, che sta per essere ucciso, non cadrà in dominio della morte, ma trionferà su di essa. Alcuni studiosi, come Smith, lo avallano: la persona che muore rimane fino a tre giorni in uno stato di unità; dopo tre giorni lo spirito lascia la persona che inizia a decomporsi, come l’esempio di Lazzaro che effondeva un “cattivo odore”. Gesù muore veramente, ma non rimane prigioniero della morte. Egli ha visto la sua morte come un passaggio alla vita piena e come trionfo sulla morte. La successiva parola sarà la risurrezione. Questo legame è importante, perché ci fornisce fin da ora un quadro d’insieme.
1.4. La cena d’addio con i suoi discepoli
1) La prima riflessione la desumiamo dall’apporto della filosofia esistenziale, perché l’esistenzialismo ha rappresentato nell’orizzonte contemporaneo la ricerca filosofica che più ha riflettuto sulla morte. Pensare la realtà della morte non è percepirla come un punto posto al termine di una linea, ma come il limite che percorre l’intera esistenza. Ogni momento della vita viene pensato come l’ultimo. Il limite della morte è equidistante da tutti i momenti. Ogni momento ha la reale possibilità di essere l’ultimo. Questa idea della morte, come limite che segue ogni attimo del nostro vivere, porta ad escatologizzare l’esistenza dell’uomo. Per un certo esistenzialismo, non aperto alla fede, questo limite è un estremo negativo, che chiude la vita dall’esterno annullando l’esistenza.9
2) Nei dati del Vangelo Gesù giudica la sua morte un’ora che compie tutta la sua vita. Gesù nel Quarto Vangelo parla spesso della «sua ora» e sappiamo che corrisponde all’ora della sua glorificazione. Gesù vede nella sua morte il compimento positivo di tutta la sua vita intesa come un progetto di esistenza filiale e quindi la vita come progetto nel dono di sé sia al Padre, sia agli uomini. Si parla di pro-esistenza, esistenza-per: «Questo è il sangue sparso per»; la pro-esistenza di Gesù è vissuta nella dimensione filiale.
3) Gesù nelle tradizioni evangeliche ha consumato un pasto di addio con i suoi discepoli, in cui ha celebrato questo progetto di vita nel compimento della morte: la sua Cena per eccellenza. Questa Cena riassume tutta la storia della convivialità di Gesù con i suoi discepoli – ma anche con i peccatori, con tutti –, con la comunità di mensa, nel segno del culto, perché tali celebrazioni avevano un autentico valore cultuale. Qui la vita è riassunta nell’ora della morte. Questo pasto è una sintesi cultuale, che Gesù ha celebrato a perenne memoria della sua comunità, perché condividesse la sua stessa vita. La Cena è il luogo in cui la pro-esistenza di Gesù si fonde con quella dei discepoli che vi prendono parte, dunque è un luogo di sintesi imprescindibile.
4) La sottolineatura del carattere pasquale della Cena di Gesù è importante per diversi motivi. Anzitutto ciò implica che i gesti e le parole di Gesù sul pane e sul vino sono collocati in un contesto cultuale. Nella cena pasquale ebraica era compito del padre di famiglia spiegare il simbolismo del pane azzimo, dell’agnello immolato, delle erbe amare e degli altri riti come memoria della liberazione di Israele dalla schiavitù d’Egitto al tempo dell’esodo; quanti consumavano la cena pasquale avevano parte a quell’evento di salvezza e redenzione. In questo contesto Gesù all’inizio della Cena spiega il simbolismo del pane che lui spezza e distribuisce ai presenti in modo assolutamente originale e dal chiaro significato. Le stesse parole sul calice del vino, alla fine della cena pasquale, sono ancora più esplicite di quelle pronunciate sul pane. La sua è dunque una morte che dona salvezza alla moltitudine degli uomini come il Servo del Signore muore per l’insieme del popolo, di cui parla il libro di Isaia e a cui rinviano le parole di Gesù. Occorre esplicitare ancora di più il parallelismo di significato tra la cena pasquale ebraica e i gesti e le parole di Gesù. Come la cena pasquale era memoria viva dell’evento salvifico di liberazione del popolo, così la Cena di Gesù è vivificante preannunzio della sua morte sulla croce per la salvezza. Nella Cena Gesù anticipa ritualmente nei segni del pane spezzato e del vino condiviso la sua morte e ne svela il senso profondo. L’evento di liberazione dalla schiavitù, di cui la cena pasquale ebraica era memoriale, riguardava solo il popolo di Israele; la morte di Gesù, anticipata nei segni dell’ultima Cena, accettata per la moltitudine segna la redenzione dal peccato per tutta l’umanità. Ancora una connotazione presente in ambedue gli eventi. La cena pasquale ebraica era celebrata in un’atmosfera di attesa escatologica, cioè del compimento definitivo della salvezza da parte di Dio. La Cena di Gesù contiene esplicitamente questo elemento. Secondo la testimonianza di Marco, Gesù dichiara: «In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio» (Mc 14,25). Nel momento così drammatico Gesù annuncia la promessa di una nuova comunione di mensa nel regno di Dio. Nella tradizione paolina il tema è implicitamente presente nelle parole di Paolo il quale dice: «Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga» (1Cor 11,26). In questa prospettiva la Cena di Gesù è annuncio del banchetto messianico, immagine del regno definitivo di Dio.
5) I dati di studio sull’origine delle tradizioni della Cena ci mostrano come il pasto eucaristico, continuato dopo la Pasqua, dalla Chiesa apostolica, è stato il luogo fondamentale nel quale ha preso corpo la narrazione della passione e risurrezione di Cristo; la storia della passione è raccontata nel contesto di una comunità credente, il cui luogo fondamentale, per eccellenza, è stata l’assemblea eucaristica. In questo contesto veniva ricordata la memoria della passione e la presenza di Gesù. La Chiesa ha riletto i fatti storici in sede eucaristica riconoscendo sempre più Cristo risorto.10
1.4.1. Le tradizioni del racconto evangelico della Cena
Per capire bene il racconto che gli evangelisti ci tramandano sull’ultima Cena, bisogna aver presenti almeno due tradizioni letterarie che trasmettono i relativi contenuti. Enunciamo i problemi: il primo è sulla data di questo pasto, il giovedì santo per alcuni; il secondo è sulla natura di questo pasto: la tendenza converge nell’affermare che è stata una cena eucaristica, non inventata da Gesù, che le ha solo dato un significato nuovo. Le tradizioni di cui disponiamo sono due: cultuale e testamentaria; entrambe si collegano a tradizioni ebraiche, ma soprattutto alla prassi della vita della Chiesa apostolica.
1) La tradizione cultuale. Essa riguarda il banchetto giudaico dello zebah todah, o sacrificio eucaristico, banchetto di ringraziamento. Questa idea del sacrificio eucaristico è un’idea molto spiritualizzata, unita all’idea di sacrificio,11 legata a questo pasto è soprattutto ringraziamento di lode: ringraziare e lodare Dio è fare sacrificio. La tradizione cultuale sottolineava due gesti: in apertura la frazione del pane e in chiusura il calice di ringraziamento.12 La novità di Gesù è che questi due gesti sono accompagnati da parole nuove, che danno loro un altro significato: la frazione del pane, l’invito a bere il calice e le parole che l’accompagnano. Questa tradizione stabilisce un ponte tra la prassi eucaristica della Chiesa con quanto istituito da Gesù. Il racconto più antico sulla tradizione cultuale dell’Eucaristia (1Cor 11,23-26) esprime la coscienza della Chiesa apostolica di continuare il memoriale dell’Eucaristia, quindi la fedeltà al Suo comando.
2) La tradizione testamentaria. Questa tradizione è legata a un altro uso nella cena da parte dei giudei: il pasto di addio. Attraverso uno studio delle abitudini ebraiche si è scoperto che, quando un capofamiglia doveva intraprendere un viaggio, celebrava un pasto in cui consegnava ai familiari il suo testamento, le sue raccomandazioni, esprimendo il legame che continuava a sussistere tra lui e i suoi. Anche questa consuetudine trova riscontro nella Cena. Gesù appare come il capofamiglia che, nell’imminenza della morte, consegna ai suoi discepoli il suo testamento d’amore.13 Il Quarto Vangelo non narra l’ultima Cena, ma dà molto spazio alla prassi e alla diaconia di carità prima della Cena. È noto che il giorno liturgico dei giudei approssimativamente iniziava alle ore 18 della vigilia e terminava alle ore 18 del giorno seguente. Perciò la Cena e la Morte sono comprese in un unico giorno liturgico (venerdì). Gli autori si dividono sulla cronologia: R. Brown (insieme con J. Ratzinger, che segue J.P. Meier) preferisce Giovanni, in quanto i Sinottici supposero erroneamente che la morte di Gesù fosse avvenuta il giorno della festa di Pasqua. Buona parte degli interpreti ritiene che Giovanni abbia posticipato “teologicamente” la Pasqua per far coincidere la Morte coll’immolazione degli agnelli nel Tempio.
Secondo i Sinottici, Gesù la sera di Giovedì celebrò nella Cena la sua Pasqua “nuova”, anticipatrice della sua Morte come Sacrificio, perché sapeva che nel pomeriggio di Venerdì avrebbe celebrato la sua Pasqua-passaggio sulla Croce e sarebbe stato già seppellito prima che i giudei celebrassero la Cena pasquale. La descrizione della Cena in Paolo e nei Sinottici può essere modellata tenendo conto della celebrazione eucaristica nelle prime comunità. La Cena di Giovanni (cc. 13-17) – che può essere interpretata come donazione anticipatrice della Morte come Amore (tema base per Giovanni) – comprende due atteggiamenti: il servizio dei fratelli (lavanda dei piedi e discorsi) come gesto di addio; il “passaggio” al Padre come Preghiera. In ambedue le visioni evangeliche al centro sta sempre l’Agnello. Per i Sinottici Gesù è rappresentato dall’Agnello mangiato insieme ai fratelli, in continuità con Es 12; per Giovanni dall’Agnello immolato (vedi Ap 5,12) a Dio, tenuto conto dell’attenzione del quarto evangelista alla funzione sacerdotale. È vero che egli nel cap. 6 parla dell’Eucaristia mettendola in relazione non con la Pasqua, ma con la manna; ma nella sua caratteristica consuetudine col simbolismo, fa condannare a morte Gesù a mezzogiorno della vigilia di Pasqua (18,14). Gli accenni all’issopo in 19,29 e alle ossa non spezzate in 19,36 possono essere altre allusioni alla Pasqua.
Quale rapporto intercorre fra la Cena pasquale di Gesù e il cuore del Mistero pasquale (morte e risurrezione)?
– La Cena è il Sacrificio sacramentale (1Cor 5,7) anticipativo, profetico.
– Morte e risurrezione (corrispondente a effusione del Sangue e ingresso nel Cielo (Eb c. 9) è il Sacrificio reale effettivo, sacerdotale.14
Per rendere maggiormente efficace quanto detto presentiamo schematicamente, nella pagina seguente, una visione d’insieme degli eventi.
Le due tradizioni si combinano per manifestare i due aspetti del pasto di Gesù. Si armonizzano perché se la tradizione cultuale pone l’accento più sull’aspetto liturgico, la tradizione testamentaria rimarca quello esistenziale, cioè il progetto di vita di Gesù inteso come diaconia; in Gesù culto ed esistenza generano una splendida sintesi. Possiamo sostenere che la Cena celebrata da Gesù, continuata nella prassi ecclesiale, cultualizza la vita di Gesù, la celebra come un dono che viene partecipato ai suoi discepoli, perché essi la traducano esistenzialmente. Il secondo accento sottolinea maggiormente l’aspetto pratico dell’esistenza, il primo quello celebrativo. I testi principali di queste due tradizioni della Cena sono così raggruppati:
| 1Cor 11,23-26 | Antiochena
| Lc 22,19-20 |
Tradizione cultuale
| Mc 14,22-24 | Marciana
| Mt 26,26-28 |
| Gv 13,1-20 (par. nei vv. ssg. )
| Lc 22,15-18
Tradizione testamentaria
| Mc 14,25
| Mt 26,29
1.4.2. Differenze fra tradizione antiochena e marciana
La tradizione antiochena quando riferisce le parole sul pane, secondo Luca e 1Cor, esprime: «Questo è il mio corpo che è dato per voi», mette cioè l’accento sul dono. La marciana più concisamente: «Questo è il mio corpo»; il “per noi” qui è implicito.
Allo stesso modo nelle parole pronunciate sul calice nell’antiochena risalta: «Questo calice è la nuova alleanza del mio sangue, che viene versato per voi», non dice “per molti”. La marciana: «Questo è il sangue dell’alleanza (non dice “nuova”), versato per molti (non dice “per voi”)». “Per molti” è diverso da “per voi”, perché la prima forma richiama Is 52-53: la morte del Servo “per tutti”. Marco ha un tono soteriologico-espiatorio, mentre Matteo inserisce: «in remissione dei peccati», in senso sacrificale-soteriologico.
La tradizione testamentaria parla del pasto di addio in senso escatologico. Le due tradizioni si incontrano nei Sinottici. Esaminiamo il significato della morte evidenziato da queste due tradizioni.
1) Tradizione cultuale e significato della morte. Il primo gesto del capofamiglia era la frazione del pane dato in frammenti ai presenti. Che senso aveva questo segno nella tradizione ebraica? Era un gesto di partecipazione e di amicizia tra capofamiglia e i suoi familiari. Chi mangiava del pane frammentato condivideva la benedizione di Abramo nella persona del capofamiglia. Questo gesto rendeva evidente un significato ascendente: il capofamiglia era il rappresentante di Abramo. Nel comportamento di Gesù, nella cena di addio, il gesto del pane spezzato, accompagnato dalle parole, acquista un senso originale, giacché rivela un’alleanza nuova, una comunione-partecipazione nella Sua persona al dono stesso della sua vita. Questo aspetto è ben segnalato dalle parole che accompagnano il pane e il vino. “Corpo” è l’uomo intero, la totalità della persona, quindi non solo l’umanità ma la persona incarnata di Cristo. “Questo è il mio corpo” esprime, allora, la dinamica della persona incarnata di Cristo nella sua completa donazione. Il dinamismo della cena sottolinea non tanto l’espiazione sacrificale, quanto il dono dell’esistenza cui fa immediato seguito la remissione dei peccati. L’espressione uper umon si riallaccia ai testi dell’Antico Testamento inerenti l’amore di Dio per noi. Del resto «Amore per noi» (Rm 5,8), «per me» (Gal 2,20) esprimono il senso profondo del dono compiuto nell’offerta del corpo. Per quanto riguarda le parole che accompagnano il calice c’è una novità nella prassi di Gesù, che invita a bere i presenti allo stesso calice. Per illustrare questo gesto bisogna tener presente il significato di “sangue” come dono di vita, “sangue versato” e di “alleanza nuova”.
a) Sangue come dono di vita. Dobbiamo risalire all’antropologia ebraica, dove “sangue” è la sede della vita e secondo la teologia di Lv 17,11 «la vita della carne è nel sangue». La redenzione nel sangue rivela che il dono della vita viene a noi attraverso quel sangue versato. Anche l’antica Alleanza era stata stipulata nel sangue dei sacrifici. La traduzione della Vulgata: «Il sangue stia al posto della vita» appare imprecisa, e di conseguenza è opportuno trasporla: “Il sangue stia per la vita che porta in sé”. Tutto ciò manifesta l’opera discendente divina poiché il sangue è sacramento della vita, avvolto nella sua veste sacrale, come riconosciuto nella mentalità ebraica, pertanto Dio purificandoci nel sangue di Cristo ridona pienamente la vita all’uomo. Nella visione cristiana abbiamo a che fare con il sangue di Cristo che è il luogo, per eccellenza, della vita: è il segno della sua presenza vitale e personale. Gesù fa dono di sé nel proprio sangue come forza vivificante che ci libera dalla morte; in questo senso rimette i peccati. Non è un prezzo pagato per soddisfare Dio, ma è l’espressione del suo amore infinito e del dono della vita del Padre in Lui.
b) Sangue versato. “Versato” non è un verbo del linguaggio cultuale. Quando Gesù parla del sangue versato non intende riferirsi al sangue asperso nel giorno del Kippur, né al sangue versato sull’altare ad esso legato, ma è un insegnamento esistenziale, che allude alla morte della croce, alla realtà essenziale della sua morte come martirio. La Tradizione antiochena pone l’accento non al “per molti” ma al “per voi”, mostrando un significato agapico, di amore. Quella marciana constata come questo dono d’amore sia fonte di espiazione; «sparso per molti» richiama il sacrificio del Servo (Is 52-53), Matteo aggiunge «in remissione dei peccati».
c) Alleanza nuova. Gesù spiega che il dono del calice del sangue è il calice dell’alleanza nuova. La tradizione antiochena afferma: «Questo calice è la nuova alleanza del mio sangue versato per voi»; Marco l’esprime: «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti». Questo accento sull’alleanza nuova è importante, perché l’alleanza in Cristo è soprattutto l’alleanza scritta nel cuore, secondo gli annunci di Ger 31,31 ed Ez 36,26, anzi in Ezechiele quest’alleanza nuova scritta nel cuore è messa in rapporto all’azione dello Spirito che donerà un cuore nuovo. Il sangue donato da Cristo è fonte di questa vita e consiste in un’alleanza nuova; prima di essere remissione del peccato è dono della vita nello Spirito.15 Nell’Eucaristia il dono della vita precede, fonda qualsiasi altra considerazione. Léon Dufour,16 nel commento alle diverse forme cultuali che accompagnano il culto, conferma che la parola di Gesù sul calice non è incentrata sulla remissione dei peccati, ma sull’alleanza di vita: qui è il punto centrale della parola di Gesù. La priorità è l’alleanza nuova, l’alleanza di vita. Gesù non chiede ai discepoli di compiere un’aspersione con il suo sangue, come quello delle vittime, ma di bere il calice. E il sangue si beve non per purificarsi, ma per nutrirsi e vivere più intensamente. Il sangue di Cristo è bevanda come il suo corpo è nutrimento.
2) Tradizione testamentaria e significato della morte. È la tradizione del pasto di addio fondato sulle parole di Gesù come testamento d’amore. Il pasto in questa tradizione è visto più che come prassi di culto da tramandare nel tempo («Fate questo in mia memoria») come un impegno di servizio fraterno da proseguire nella sequela di Cristo; allo stesso tempo la tradizione sacramentale collega il pasto d’addio con quello escatologico, infatti leggiamo: «Non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio» (Mc 14,25), inoltre annuncia l’esodo pasquale di Gesù e la comunione escatologica che si compirà tra Lui e i suoi discepoli nel convito eterno. Questa prospettiva completa profondamente l’altra, in quanto l’Eucaristia è fondamento della prassi cristiana come culto e testimonianza. L’Eucaristia è l’unione sacramentale, reale, simbolica, dei due progetti di vita: di Cristo e dei cristiani; l’imitazione di Cristo è fondata sacramentalmente oltre che pneumaticamente.
1.5. Punti conclusivi
a) Gesù vede la morte come momento supremo del dono di sé.
b) Gesù vede la morte come dono d’amore attraverso la condivisione del pane e del calice. Questa compartecipazione coinvolge i discepoli nel progetto di vita di Gesù.
c) L’azione vivificante del pane e del vino, del corpo e del sangue, comporta un rinnovamento interiore o alleanza nuova; pertanto lo schema espiazione-sacrificio antico è superato, in quanto la morte di Cristo si fa dono e principio di vita e quindi di espiazione.
d) Gesù consegna nella sua cena di addio la sua prassi eucaristica che dovrà continuare nella Chiesa, come preparazione del convito escatologico.17
1.6. Il Getsemani
L’atteggiamento di Gesù di fronte alla realtà della morte non è di imperturbabilità, né di liberazione dal corpo dalla vita terrena, e tantomeno del sapiente che attende serenamente, come Socrate, questo passaggio. Se è vero che Gesù è andato alla morte con libertà, considerandola come dono supremo di sé, già anticipata nell’ultima Cena, è pur vero che sembra sprofondare nell’angoscia e nella paura. Qual è il senso di questa angoscia? L’esistenzialismo ha dato molto rilievo anche alla categoria dell’angoscia, oltre che della morte. L’angoscia non è un sentimento psicologico, ma una caratteristica dell’esistenza umana minacciata dalla realtà della morte. Tramite l’angoscia l’uomo procede dalla condizione ordinaria dell’esistenza, al livello di esseregettato come un sasso nel torrente della vita, senza libertà e responsabilità, allo stadio di esistenza autentica diventando un vero esistente, mediante la sua decisione. L’uomo esiste nella misura in cui decide per la sua esistenza, generando se stesso. Non è più l’esistente nella ovvietà ma nella libertà! La categoria dell’angoscia risuona anche nella Bibbia, dove essa denota un’attitudine religiosa dell’esistenza. Il testo di Sap 5 parla dell’angoscia dei malvagi, consapevoli della loro condizione di dannazione; così l’angoscia diventa la categoria dell’esistenza tormentata. In Giobbe compare l’angoscia del giusto sofferente; i profeti di fronte all’insuccesso della loro missione sono presi dalla crisi d’angoscia e invocano la morte. Tutti questi elementi ci conducono all’esperienza vissuta da Gesù.
Dato narrativo e sinottico. L’angoscia di Gesù è un dato certamente storico, per due ragioni; anzitutto, perché non sono solo i Sinottici a comunicarcelo. C’è una preghiera del Quarto Vangelo (12,27) che non presenta il dato del Getsemani, che per alcuni è ad esso parallelo: «Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora!»; in Eb 5,7-8 si dice: «Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà», che sembra circoscrivere l’intera esistenza di Gesù, però c’è questo «forti grida e lacrime». È interessante constatare come nel Nuovo Testamento, sia manifesta questa vicenda storica.18 I Sinottici ci presentano questa preghiera di Gesù in modo circostanziato.
Forma diretta e indiretta della preghiera di Gesù. Qui ci limitiamo al racconto di Mc 14,33-35. Marco introduce così la preghiera di Gesù: «Cominciò a sentire paura ed angoscia», poi segue al v. 34: «La mia anima è triste fino alla morte». La preghiera si snoda in due forme: una indiretta (v. 35), propria del narratore: «si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora». Segue la preghiera in forma diretta (v. 36): «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio ma ciò che vuoi tu». Ecco l’essenza autentica della preghiera!
Struttura bi-lineare. Emergono due linee convergenti: una verticale, il rapporto Gesù-Padre, e una orizzontale, Gesù-discepoli. Questo dato è importante poiché indica l’esortazione di Gesù, rivolta ai discepoli, di partecipare alla sua angoscia attraverso la vigilanza e la preghiera. Il testo ha un valore parenetico, in quanto non si limita a tramandare il fatto, piuttosto insiste nel sollecitare i discepoli a mettere in atto l’insegnamento di Gesù: «Vegliate e pregate». Come Egli veglia e prega di fronte alla morte così dovrebbero fare i discepoli, che viceversa si addormentano, non soltanto in senso fisico.
1.5.1. Significato teologico
Abbiamo due significati che si uniscono tra loro: innanzitutto l’esperienza dell’angoscia, l’altro concerne la preghiera al Padre. San Massimo il Confessore ha dedicato varie riflessioni sul tema dell’angoscia; dopo l’era patristica bisogna attendere l’epoca della Riforma per la ripresa del tema; prima di essa individuiamo alcune meditazioni nella teologia dei mistici renani, del XIV secolo, particolarmente con Taulero.19 Lutero e Calvino. Da parte della Riforma protestante s’è aperto un registro di riflessione in riferimento a Paolo: Gal 3,13; 2Cor 5,21. La traduzione “da peccato” non è fedele, è preferibile “sacrificio o vittima per il peccato”.20 La Riforma vede in Gesù l’uomo peccatore che impersona il peccato di tutta l’umanità: Dio l’ha fatto peccatore per noi. Così Gesù patisce l’angoscia dei malvagi, attualizzando il testo di Sap 5. Calvino va oltre Lutero: parla della vendetta del Padre nei confronti di Cristo, che non riguarda lui come Figlio, ma come rappresentante dell’umanità peccatrice. All’inizio del XIX secolo Garrigou-Lagrange propone una lettura del Getsemani in chiave antropologica: l’angoscia di Gesù è l’orrore di fronte alla croce. Il dato comprensibile in questi termini, pur veri, è soddisfacente? Nella Miserentissimus Redemptor, Pio XII cerca di fondare la devozione del S. Cuore tenendo presente sia la prassi liturgica della devozione, sia la scienza teologica. La sofferenza di Gesù rivela un amore tradito, in corrispondenza al suo amore; la soluzione del Papa è valida, autorevole e occorre ricordarla. La teologia contemporanea, senza porsi in contrasto con quella precedente, accentua il carattere biblico seguendo il modello profetico dell’angoscia. Il tentativo può essere accolto, ma segnalando come Gesù sia un profeta del tutto singolare.
Modello profetico. Nella storia dei profeti ricorre frequente una situazione di angoscia. I tratti comuni di questo stato, che non è inerente della sola sfera affettiva, manifestano la tensione tra il profeta e Dio, intesa come agonia, contrasto: il profeta vuol desistere dalla sua missione, Dio lo spinge a proseguire. Si registrano differenti intensità di questo stato d’animo: ad esempio, diversa è l’angoscia di Giona (Gn 4,9) da quella di Elia (1Re 19,4). L’angoscia di Giona è un’angoscia mortale: il Dio misericordioso urta il profeta che non approva il comportamento di Dio fino a esclamare «meglio per me morire»; anche Elia dichiara: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita». L’angoscia è determinata dall’insuccesso della missione e dal fatto che il profeta è perseguitato a morte. Is 49,3-4: «Invano ho faticato, per nulla ho consumato la mia vita». Passiamo ora alla lettura dell’angoscia di Gesù alla luce del modello profetico.
1) Significato dell’angoscia di Gesù. La missione di Gesù è profetica e come i profeti soffre l’insuccesso umano della sua missione. Sono da tener presenti i richiami insistenti di Gesù al suo popolo alla conversione, ma questi richiami sono rimasti inascoltati; ecco l’insuccesso. Dobbiamo notare anche la notevole differenza tra l’angoscia di Gesù e quella dei profeti: sarebbe troppo riduttivo vedere l’angoscia di Gesù solo come sconforto umano per l’insuccesso della missione, alla maniera del Servo come in Isaia 49. In Marco Gesù «cominciò a sentire paura e angoscia». A cosa è dovuta questa paura ed angoscia? Al timore della morte? Sembra poco probabile, perché Gesù volontariamente è andato incontro alla morte, espressione somma del dono di sé. La radice più intima è l’amore per gli uomini, il sentimento filiale della proesistenza, cioè l’ansia, anche se vissuta umanamente, che l’amore rifiutato si traduca in perdizione per il suo popolo. Il calice di Gesù è diverso da quello dei profeti, in cui l’immagine della coppa è espressione dell’ira di Dio per l’infedeltà del popolo.21 Il calice di Gesù comunica, invece, la sua preoccupazione umana di fronte al rischio di condanna, tramutandosi in coppa d’ira. Non è tanto per sé che soffre, ma per gli uomini: è un’angoscia per gli altri, non uno scoramento individuale. L’angoscia, in questa prospettiva, diventa il segno dell’infinita carità di Dio verso gli uomini. Questa stabilisce un grado di lettura qualitativamente eminente, rispetto a un’interpretazione meramente antropologica, poiché in essa si rivela un dolore divino.
2) Significato della preghiera. Quanto detto sull’angoscia di Gesù ci offre la chiave per comprendere la sua preghiera. Ci fermiamo sulla preghiera in forma diretta, dove emergono tre affermazioni:
a) Si apre con l’Abbà, che esprime intimità e fiducia filiale; «Tutto è possibile a te» è l’affermazione di estrema fiducia nell’assoluta potenza del Padre.
b) Parte centrale della preghiera: «Allontana da me questo calice» sono parole che suonano come un distacco dal Padre, una differenza.
c) «Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu»: questa parte manifesta una comunione col Padre attraverso la differenza e riconferma le prime parole: intimità e fiducia incondizionata.
Il punto critico è la parte centrale: «Allontana...». Come interpretarlo? Di solito si legge in chiave antropologica come richiesta di poter essere liberato da questa morte; ma nell’ambito della nostra analisi la richiesta di Gesù non è liberazione dal calice, perché egli lo vuole come lo richiede il Padre, c’è dunque identità di volere. Le parole di Gesù vanno intese come “dilazione”, “ritardo” del calice o dell’ora della passione, in vista di un prolungamento della missione; per cui sembra che, diversamente dai profeti, bramerebbe continuare la missione per salvare il popolo dall’incredulità. Questo sembra coerente con la prima parte, v. 35, forma indiretta: «che passasse da lui quell’ora». È in questione l’ora della passione, ma la misericordia del Padre realizzerà in essa, nonostante le avversità in atto, la salvezza per l’umanità, difatti Gesù rimette tutto nelle mani del Padre: «Tutto è possibile a te». La preghiera comunica il massimo dell’amore filiale al Padre, che del calice di Gesù fa benedizione e non ira. Il dramma del Getsemani va letto in chiave trinitaria, come ha già fatto san Massimo il Confessore nei Commenti sull’agonia del Getsemani,22 che non riferiscono soltanto un dramma umano e divino tra Gesù-uomo e Gesù-Dio, tra la sua volontà umana e divina, ma il dramma tra Figlio e Padre in una prospettiva trinitaria, giacché chi prega e patisce non è semplicemente un uomo, ma è la persona filiale, che obbliga a una seria lettura del suo rapporto col Padre. Dio non soffre chiuso in se stesso ma avendo presente l’umanità, che rigettando l’amore si condanna e l’angoscia del Figlio rappresenta il suo stesso dolore. Oggi si parla molto di sofferenza di Dio, che non è pura metafora, né attinente la sola umanità, ma è un misterioso, reale suo coinvolgimento nella storia della salvezza. Il Dio dei profeti va considerato seriamente: Egli vive all’interno la storia della salvezza e non come un supervisore distaccato. È così vicino all’uomo che soffre Lui stesso! Dopo aver visto la passione segreta di Gesù, passiamo ora al suo processo pubblico.
1.7. Il processo pubblico di Gesù
Nella narrazione della passione questo è un dato notevole, che ci mostra come non sia stato un evento puramente individuale ma esistenziale. Il processo sottolinea la dimensione pubblica, sociale e storica dell’evento della Croce. Grande rilievo viene offerto dalle teologie a impronta socio-politica; ma è chiaro che nella narrazione della passione le ragioni più importanti non sono di natura socio-politica, ma cristologica. La cristologia segnala infatti il suo momento forte, poiché il processo culmina nella più alta affermazione divina di Gesù in una circostanza pubblica. Anche nel Quarto Vangelo il tema del processo abbraccia tutta l’esistenza di Gesù; è in qualche modo già annunziato nel prologo: le tenebre hanno tentato di soffocare la luce. «Il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe»; il “mondo” non come “cosmo creato”, formato attraverso il Logos, ma “incredulo” non può ricevere la salvezza perché vi si sottrae. Questo processo è visto come lotta tra le tenebre e la luce, tra il mondo incredulo e Gesù: esso sottomette Gesù al suo processo. Quanto avviene nella riprovazione di Gesù, è in realtà la sua condanna nei confronti degli uomini, come mostrano le scene culminanti del processo di Pilato. «Ecco il vostro re, ecco l’uomo»: Pilato dichiara, senza esserne consapevole, la verità perché Cristo è Re, è l’Uomo! La legge strutturale del racconto è che la verità muta radicalmente la parvenza dei fatti. Pilato fa sedere Gesù sulla sedia del magistrato – Litòstroto o Gabbatà –: Gesù è l’effettivo giudice dei pagani e dei giudei. Il tema del processo nei Sinottici ha una spiccata prerogativa cristologica mentre in Giovanni si congiunge a un’autorevolezza teologica.
1.7.1. Struttura del racconto del processo in genere
Il racconto evangelico ci presenta due fasi del processo di Gesù: una fase giudaica, con maggiore risonanza nei Sinottici, e una fase romana, nel Quarto Vangelo.
1) Fase giudaica. La prima fase è più ufficiosa: si tratta del processo nel Sinedrio, ed è storica. Questo primo momento del processo ha grande importanza per i Sinottici, non per Giovanni. Giovanni riporta che i giudei interrogano Gesù che si rifiuta di controbattere, poiché aveva già dato risposta.
2) Fase romana. La seconda seduta, più ufficiale, si svolge di fronte all’autorità romana. Senza una sentenza ratificata dai Romani, non si poteva condannare a morte. Il dialogo avviene tra i giudei e Pilato, mentre nel Quarto Vangelo è questa seconda fase che acquista spessore. Gesù proclama parole rilevanti: «Sono venuto a rendere testimonianza alla verità», Cristo è il rivelatore per eccellenza del Padre. Più notevoli sono le scene plastiche dell’insediamento di Gesù presentato come re e Figlio dell’uomo, quindi giudice universale.
1.7.2. Racconto del processo nei Sinottici
Mc 14,56-65: processo giudaico; 15,1-15: processo romano.
Mc 14,56-65: processo giudaico.
Tralasciamo alcune questioni storiche. La prima parte del processo culmina nell’affermazione di Gesù come Messia divino. Questa dichiarazione assume un elevato aspetto divino di trascendenza. La seconda parte verte sull’affermazione di Gesù come re; il contenuto di questa parte è scarno, perché Gesù, alla domanda “Tu sei re?”, risponde “Tu lo dici”. Non c’è spazio per un dialogo tra Gesù e Pilato, che invece avviene tra Pilato e i giudei: è un accordo istituzionale, Gesù muore per trame politiche. Nella prima parte l’apice è il v. 62: appare chiaro il dialogo tra Gesù e le autorità giudaiche; il racconto tende a sottolineare la risposta di auto-identificazione. La testimonianza dei presunti testimoni cade in contraddizione (v. 59), da qui la domanda del sommo sacerdote (v. 61): «Sei tu il Cristo, il Figlio del Dio benedetto?».23 Per alcuni il sommo sacerdote ha interrogato Gesù sulla messianicità in generale: “Cristo, Figlio del benedetto” come attribuzione al Messia; basti ricordare il Sal 2: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», che sottende all’intronizzazione regale. Gesù, in questo frangente, fornisce una risposta più di quanto richiesto dal sommo sacerdote, pertanto diventa l’occasione per dichiarare chi è veramente. Altri non condividono pienamente questa esegesi, facendo notare che Gesù più di una volta aveva discusso con le autorità giudaiche. In alcune affermazioni, come “rimettere i peccati”, “Io sono”, e in alcuni gesti miracolosi, Gesù aveva testimoniato di essere un Messia divino, cioè aveva posto l’accento sulla trascendenza divina. In Mc 21,37 Gesù dimostra agli scribi che il Messia non è figlio, ma è Signore anche di Davide. Il sommo sacerdote era, dunque, a piena conoscenza di come Gesù si presentava e le stesse autorità giudaiche ne avevano piena cognizione; l’interrogativo del sommo sacerdote era davvero insidioso: «Se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio benedetto» (Mc 14,61) perché celava un significato di pienezza e trascendenza. Una riprova è nel parallelo di Luca, proposto in due tempi: «Tu dunque sei il Figlio di Dio?» e la seconda risposta di Gesù (22,70). C’è così un crescendo confermato dal parallelo lucano; inoltre abbiamo un’altra concomitanza fondamentale: la condanna per bestemmia. Diversi personaggi, prima di Gesù, si proclamarono messia, ma i giudei non gli diedero molto credito; Gesù, invece, fa intendere che il Messia divino è realmente giunto. Il quesito del sommo sacerdote tendeva proprio a questo: per deferire Gesù all’autorità romana necessitava certificare lo scandalo dogmatico, cioè fargli asserire che non era un messia umano ma divino. Il v. 62 è imprescindibile, qui Gesù afferma divinamente il suo messianismo. Il v. 61 può leggersi sia come pura messianicità o come accentuazione della divinità. Nella risposta di Gesù, v. 62, la prima parte «Io lo sono» non è affermativa in un senso pieno; in Luca abbiamo «Tu lo dici». C’è una variante nel Merk: «Tu dici che io lo sono» come in Matteo. Il vero significato della risposta di Gesù, il suo punto di vista risiede nella seconda parte: «E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo». Qui possiamo fare due annotazioni. La prima ravvisa nella risposta di Gesù il compendio di Dn 7 (il Figlio dell’uomo che viene) e del Sal 110,1 («siedi alla mia destra»). Questa sintesi è di natura prettamente cristiana, ha un’originalità che troviamo solo nelle fonti cristiane, per di più conferisce pienezza alla dichiarazione di Gesù, che supera le due fonti singolarmente attestate. Egli, infatti, proclama: «Vedrete la mia divinità seduta alla destra del Padre». Lo scandalo del sinedrio sottolineava la bestemmia qui pronunciata; l’affermazione scompaginava i canoni ebraici sull’identità del messia come semplice uomo. Le parole di Gesù presagiscono un evento prossimo, infatti, si riferiscono al sinedrio («Voi vedrete...»), dunque non attestano esclusivamente un Messia ultraterreno. A quale evento allude Gesù come verifica di queste sue parole? Più che l’evento parusiaco è l’evento della Risurrezione, che in ogni modo è anticipazione della Parusia. Che il sommo sacerdote interroghi Gesù in senso messianico o divino desta un interesse relativo, poiché è decisiva la risposta di Gesù.
15,1-15: il processo romano.
Alla domanda di Pilato (v. 2): «Sei tu il re dei Giudei?», Gesù risponde: «Tu lo dici». Pilato esprimeva una regalità politica e l’accusa dei giudei era ugualmente perpetrata in chiave politica. Da parte dei Sinottici non si enfatizza il titolo “re”, tuttavia riportano fedelmente il silenzio di Gesù. Questa seconda parte è di grande interesse perché evidenzia le ragioni umane, più che dogmatiche, per cui Gesù è condannato. Egli compromette la posizione di potere del giudaismo dell’epoca: «Pilato, sapeva che i sommi sacerdoti glielo avevano portato per invidia» (v. 10), il procuratore è informato circa le effettive ragioni del contrasto, relative al prestigio acquisito. In questa seconda parte l’azione si svolge tra i giudei e Pilato.
1.7.3. Racconto del processo nel Quarto Vangelo
Il mondo scettico, non il mondo, il cosmo, intenta un processo a Gesù fino alla morte; il dibattito continua ma viene ribaltato dallo Spirito. Il suo svolgimento circoscrive l’intero Vangelo. La narrazione non sovrappone la lettura teologica ai fatti narrati poiché traviserebbe la verità storica; il suo fine è far emergere, da essi, la verità contenuta. A questo punto bisogna parlare di un’inversione dei ruoli: i fatti sembrano puntualizzare un’indubbia realtà, ma beneficiano di un significato diverso; Pilato, ad esempio, giudica Gesù, anzi se ne burla rivestendolo del manto scarlatto, tuttavia la verità esposta è esattamente opposta: è Gesù che giudica Pilato, il mondo e i giudei, è Lui il vero re e giudice della storia. Non volendo, Pilato e i giudei sostengono la verità: Gesù è veramente re!
I momento del processo: Gv 18,12-27 (16 vv.). È l’interrogazione del sommo sacerdote al quale Gesù ribatte: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto» (v. 20). Gesù non ripete ciò che ha detto, ma rimanda a quanto enunciato pubblicamente.24 Segue lo schiaffo (v. 22) e la replica di Gesù (v. 23), poi il silenzio. Nella prima seduta non c’è una dichiarazione solenne di Gesù, tutto rinvia a quanto già precedentemente espresso.
II momento: 18,28-40; 19,1-16 (29 vv.). Questo stadio gode di un contenuto cristologico. Partiamo da un’osservazione della cristologia del Quarto Vangelo, che fa risaltare con forza Cristo verità di Dio: «Io sono la via, la verità e la vita» (14,6), che non ha nessuna attinenza con l’alétheia greca. Egli è la verità di Dio perché è il Logos; Gesù richiama continuamente la sua parola. Il tema Cristo-verità domina questa parte del processo tanto che potremmo denominarla “il giudizio della verità”; pertanto Gesù Cristo è la verità di Dio ed è in essa che egli giudica.
a) Gesù dichiara di essere venuto a testimoniare la verità; lui stesso è la verità (v. 37). Il suo approssimarsi a comprovare la verità è un’auto-testimonianza ma Egli non è l’unico riscontro perché rimanda al Padre che lo attesta, quindi siamo partecipi di un’azione trinitaria. Nel dialogo tra Gesù e Pilato, leggiamo: «Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce», vale a dire la parolaverità; non è un ascolto qualsiasi, ma una sequela, una vita che vive secondo verità. L’ulteriore affermazione di Gesù richiama l’impossibilità di essere neutrali dinanzi alla sua parola, per cui chi non è dalla verità rimane estraneo alla sfera della salvezza. Gv 8,31: «Se rimanete fedeli alla mia parola... conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Aderire alla parola di Cristo significa far parte della verità ed essere liberi. Il testo mostra che Pilato non è dalla parte della verità, come tutti coloro che non credono. La domanda di Pilato: «Che cos’è la verità» (v. 38) non è retorica, ma è constatazione di non appartenere alla verità, non in senso teoretico, ma di non esserne incluso; Pilato è fuori dalla verità. Il racconto del Quarto Vangelo è importante poiché mostra le conseguenze: chi non è dalla verità è servo dell’ingiustizia, della malvagità, della menzogna. In due occasioni Pilato discerne l’innocenza di Gesù, ma lo fa flagellare. Riconosce l’estraneità di Gesù e lo abbandona alla crocifissione (19,6). La sua contraddizione è ammettere l’innocenza dichiarando reo l’innocente.
b) Il testo rivela che Gesù non è venuto a essere vagliato, ma è lui, la Verità, che giudica gli uomini. Esaminiamo due scene culminanti: Pilato presenta Gesù col manto purpureo dicendo: «Ecco l’uomo» (19,6). È il Figlio dell’uomo che viene a giudicare, denotando una forte carica sul piano escatologico. La gestualità qui presentata ha una valenza cristologica che va oltre l’intenzione di Pilato, poiché è veramente Gesù che giudica, come la corona di spine e il manto scarlatto specificano il suo giudizio e la sua regalità. L’altra scena verte sul v. 13 ekáthisen, che può essere tradotto in senso transitivo o intransitivo. La C.E.I. traduce: “Pilato sedette sul luogo detto Litòstroto, Gabbatà», o luogo elevato. Era la sedia del magistrato dove Pilato come magistrato esercitava la giustizia. Per alcuni è meglio tradurre transitivamente: «Pilato fece sedere Gesù». Gesù coronato di spine, col mantello di porpora vien fatto sedere nel luogo del giudice e presentato con le parole: «Ecco il vostro re». Da un punto di vista puramente umano può sembrare solo scherno, tuttavia Pilato, pur non volendo, ha affermato la verità di Dio, Gesù è il re che giudica. A questo punto abbiamo il quadro generale del processo di Gesù. La passione e la croce sono il giudizio del mondo, ma Gesù è il re che giudica secondo un criterio di verità, che salva chi è “dalla verità”; chi si estranea da questo è condannato a compiere l’ingiustizia. Concludiamo con la descrizione del processo, di grande interesse sia sotto l’aspetto storico, che quello teologico, che ha evidenziato Gesù, Figlio dell’uomo, in una prospettiva escatologica e come verità di Dio che giudica il mondo per salvarlo.
1.8. L’abbandono della Croce
a) Riflessione generale. Spesso il cristiano considera il proprio rapporto con Dio valutando quantitativamente le sue esigenze personali, come colui che supplisce le sue incapacità ricompensandolo e colmandolo nelle esigenze sia materiali che spirituali, ponendo a repentaglio la relazione con Dio. Questo primo punto ci porta al secondo.
b) L’esperienza dell’abbandono di Dio. Questo tema è conosciuto nella Bibbia, nella prova del giusto sofferente. Nella Bibbia il punto più paradossale è lo scandalo del giusto che soffre, quindi del dolore innocente. Tale questione è legata a quella del silenzio e dell’abbandono di Dio: il giusto interpreta il silenzio di Dio nella prova come abbandono, cioè Dio non interviene a liberarlo prodigiosamente dalla sofferenza e dalla morte. Che soffra il peccatore, è scontato, secondo una giustizia retributiva; ma il giusto? Il dolore del giusto e il silenzio, l’abbandono di Dio tendono a modificare l’immagine di Dio.
c) La purificazione della fede. Il Dio della rivelazione non si definisce a partire dai nostri meriti, né dai nostri bisogni, né dalle nostre aspettative; Dio lo si incontra solo a partire da Se stesso25 e lo si può solo accogliere; per poter incontrare Dio occorre una rottura, un distacco dalle nostre urgenze.26 Questa immagine di Dio tende a purificare la fede del giusto, perché attraverso la prova egli procede verso Dio non per quello che offre, ma per ciò che è in Se stesso. Così Dio spoglia il giusto di ogni avere, anche nell’ipotesi che non gli desse nulla che Se stesso. Non c’è cammino verso Dio che non passi per l’esperienza dell’abbandono, che diventa l’indispensabile catarsi della fede, chiamata ad essere pura e non inevitabilmente interessata. Cercare Dio per Se stesso, non secondo una logica opportunistica, ci indirizza a Lui per compiere ciò che Egli vuole; la preghiera di Gesù, in questa cornice, prospetta come la nostra preghiera deve essenzialmente invocare non la nostra, ma la volontà di Dio. Il tema dell’abbandono ci fa conoscere come Dio sia presente e si riveli proprio laddove umanamente sembra assente.27
1.8.1. Stato attuale del testo sinottico Mc 15,33-39: La morte di Gesù.
Siamo di fronte a un trittico narrativo.
a) Segni cosmici. Un insieme di segni cosmici accompagna la morte di Gesù. Al v. 33 «le tenebre» dall’ora sesta all’ora nona, «si fece buio su tutta la terra»;28 al v. 38 «la rottura del velo del tempio», subito dopo la morte di Gesù; solo Mt 27,51-52 parla di terremoto, di apertura dei sepolcri e di risurrezioni.
b) Il grido nel momento della morte. Il momento in cui Gesù muore è sottolineato con l’effetto narrativo del gridare. In Marco, Gesù grida due volte: la prima volta, come in Matteo, chiamando Eloì (v. 34); la seconda «dando un forte grido, spirò», exépneusen (v. 37). In Lc 23,46 compare una volta sola questo grande grido: «Gesù gridando a gran voce». Luca cita qui il Sal 31,6, con la variante «Padre» invece di «Dio»; anch’egli utilizza, exépneusen, stesso termine adottato da Marco. Nel racconto sinottico risalta, sullo sfondo dei segni, la solennità del momento in cui Gesù muore.
c) La conversione del centurione. Il v. 39 mette in relazione la conversione con la morte di Gesù: lo spirare di Gesù stupisce il centurione pagano che afferma: «Veramente quest’uomo è Figlio di Dio». Questa è una professione dogmatica nel Vangelo di Marco e rimanda all’inizio del Vangelo (1,1). Nei paralleli di Mt 27,54 e Lc 23,47 la professione di fede del centurione è legata ai segni. In Luca non è presente questa confessione riportata in Marco, ma si parla di «giusto» per eccellenza; d’altronde per un pagano era più agevole esprimere un giudizio di santità, che di divinità. Nel momento in cui Gesù muore e i pagani riconoscono la sua divinità, s’instaura l’elemento decisivo che determina come costoro sono la primizia del Regno.
Il trittico evidenzia la scena centrale del morire di Gesù che è imponente; il doppio grido solennizza ancora di più la narrazione. Il racconto tende a mostrare la relazione tra la morte di Gesù e la conversione e il legame tra il Crocifisso e l’oggetto della fede che è il Figlio di Dio. Non solo la morte di Gesù è rilevante per la conversione del centurione, simbolo del paganesimo, poiché anche lo spirare in croce lo rivela come Figlio di Dio, dando luce al momento dell’abbandono. L’esperienza della croce diviene pertanto una via teologica alla rivelazione dell’identità di Cristo.
1.8.2. Senso teologico del racconto sinottico
Prima di tutto indaghiamo alcune tradizioni bibliche, come quella apocalittica e quella sapienziale che illuminano il racconto; poi affronteremo l’argomento nel suo significato teologico.
a) Tradizione apocalittica. Essa annuncia l’evento del «giorno del Signore», «giorno di oscurità e fosche tenebre», Sof 1,14-15, giorno di giudizio di Dio sul mondo peccatore, di «abominio della desolazione» del tempio, Dn 9,27, di terremoto, apertura dei sepolcri e riconoscimento che Jahvè è Dio (cfr. Ez 37,7-13). Per quanto riguarda la tradizione apocalittica, essa risuona nei racconti Sinottici: sono presenti le tenebre, i giudizi di rottura del tempio, il terremoto, l’apertura dei sepolcri, le risurrezioni; il Quarto Vangelo non ne parla, ma c’è uno scenario teologico completamente diverso. Alla luce della tradizione “apocalittica” quale significato assume la morte di Gesù? La Croce appare come il grande evento escatologico della storia, è il grande giorno del Signore, manifestazione trinitaria, escatologica e definitiva del mistero di Dio; è il grande evento che determina il giudizio del mondo peccatore (segno delle tenebre), la fine dell’era antica (segno del terremoto), come anche il superamento del Tempio, segnalato in questi segni e nella morte di Gesù; l’antico culto è ormai compiuto e l’agnello pasquale, di cui è simbolo, è oltrepassato dalla realtà, che è Cristo. Il vero culto, il vero tempio si realizzano nel Calvario; la figura è superata dalla realtà che avviene; la Croce è l’espressione culminante dell’escatologia, è l’ora che divide i tempi antichi e quelli nuovi. L’apocalittica ci mostra così la centralità storica della Croce; l’era nuova è sotto il segno della Croce. Il racconto sinottico ci mette di fronte ad una rinnovata visione apocalittica, in cui i segni consentono una lettura più positiva che negativa. In Marco le tenebre avanzano dall’ora sesta all’ora nona, ma con la morte di Cristo esse terminano, perché superate e sconfitte: la Croce mette in fuga le tenebre; il giudizio non è un giudizio d’ira e di condanna, ma di misericordia e Lc 23,34.43 lo evidenzia bene: «Padre perdonali», «Oggi sarai con me nel paradiso». Il velo del tempio è un segno ambivalente: puntualizza il tramonto di un’era, ma ancor più positivamente il velo è finalmente rotto perché i pagani prendono parte del mistero del nuovo tempio.
b) Tradizione sapienziale. Essa è legata al tema della lamentazione. La lamentazione del giusto nell’angoscia è associata ad attitudini fondamentali – grido d’angoscia, confidenza nel momento del silenzio di Dio e lode in pienezza – che sono quasi i ritmi cultuali del tema della passione del giusto. Questi ritmi appaiono chiaramente nel Sal 21: «Dio mio, Dio mio» ed esprimono confidenza e risoluzione come lode, dunque la positività dell’inno. La morte di Gesù non va vista solo nella prospettiva del Sal 21, ma occorre rovesciare la sua visione rileggendolo dal punto di vista di questo evento. La tradizione sapienziale, che è anche di natura cultuale e in relazione con il genere della lamentazione, pone l’accento sul dramma personale di Gesù. Nell’attimo in cui Egli sta morendo le tenebre esteriori sono superate, come se accedessero in Lui per essere diradate; esse non costituiscono più uno scenario cosmico. Va osservato come impiegando il tema della Passio Iusti dell’Antico Testamento, non bisogna procedere univocamente, ma necessiti un salto ermeneutico, poiché Gesù ha vissuto il suo dramma, la sofferenza del giusto, rapportandosi al Padre. Per Pierre Grelot, nella croce Gesù non grida l’abbandono al Dio dell’Antico Testamento, ma è il Figlio che grida l’abbandono verso il Padre. Questa lettura ci porta ad una reinterpretazione del dramma che non è solo umano, ma anche divino; per cui questo tipo di lettura ci fa legare il dramma della Croce all’evento trinitario.
c) Interpretazioni teologiche. Origene ha proposto una duplice esegesi del grido di Gesù, allegorica e letterale. Secondo l’interpretazione allegorica il v. 2 del Sal 21 va preso nella sua interezza: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Tu sei lontano dalla mia salvezza: sono le parole del mio lamento». Chi grida l’abbandono sulla croce? Il dramma dell’umanità peccatrice che acuisce la preoccupazione per i propri peccati. È una interpretazione che ha avuto un seguito. Sant’Agostino si chiede: «Chi grida sulla croce?» e risponde: «Non Cristo, che è senza peccato, ma il suo corpo». Secondo l’interpretazione letterale, si tratta di una realtà che Gesù stesso ha vissuto. Parlando di abbandono reale, i Padri fissano dei limiti, come l’immutabilità del divino e l’impassibilità del Verbo.29 La grande Scolastica non ha molto studiato l’abbandono sulla croce, se non vedendolo come il mistero, il paradosso tra la condizione beata di Cristo e l’oscurità della croce, la debolezza, il tremore e l’abbandono della carne. Tommaso d’Aquino ravvisa la kenosi limitatamente all’umanità di Cristo, alla dimensione corporea che entra a contatto con l’anima solo nel suo rapporto col corpo, ma non nel suo culmine contemplativo. La teologia mistica (XIV secolo), nella lettura dell’abbandono come “notte mistica” (Taulero e la mistica renana)30 esamina l’abbandono come un atto di Dio non solo in senso negativo di non agire, o di lontananza e repulsione, come nella Riforma, ma come azione stessa di Dio, in senso positivo, di vicinanza e purificazione dell’anima. Il segreto della purificazione è un mistero del cammino verso Dio, è un’ascensione mistica, passando per la sofferenza della notte. «L’inverno dell’abbandono, della grande aridità, oscurità e freddezza, questo inverno il nostro Maestro l’ha sofferto per tutti, quando fu abbandonato dal Padre. Cristo ha voluto vivere quest’abbandono per essere il nostro Maestro, la nostra via: c’è una ragione di esemplarità».31 Questa teologia ha successivamente influenzato la Riforma. Uno dei passi nodali nella Riforma è 2Cor 5,21; il testo, amartían, può significare in ebraico, hatta’t, “male”, “peccato” oppure “sacrificio per il peccato”. Cristo è invece ridotto a peccato e nell’abbandono della croce sperimenta come grande peccatore, rappresentante dell’umanità peccatrice, l’abbandono sotto l’azione punitiva di Dio; per Calvino, Gesù prova la dannazione, l’inferno. Il primo Barth fa notare che questa lettura fa scorgere come la collera che colpisce il Crocifisso è la cifra della sua misericordia; non è un’ira distruttrice, ma salvatrice; con essa Dio distrugge l’autosufficienza dell’uomo peccatore e crea l’abbandono. Così l’uomo non può più confidare in se stesso; è il peccato di autosufficienza, della carne. La collera ha una funzione positiva: Dio rivela la sua grazia nel suo contrario, attraverso il suo opposto. Per una lettura del mistero dell’abbandono di Cristo sulla croce sono necessarie due affermazioni da tenere congiunte: l’assoluta comunionalità Cristo-Padre e la solidarietà di Cristo (nella sua natura umana) con l’umanità peccatrice.
Proponiamo due letture teologiche dell’esperienza dell’abbandono: 1) abbandono come esperienza teologica del senso del peccato; 2) esperienza mistica trinitaria, o lettura teologica mistico-trinitaria, dell’evento dell’abbandono.
1) Abbandono come esperienza teologica del peccato. Un’esperienza teologica del peccato come lontananza di Dio da Dio e come abbandono di Dio può essere sperimentata solo da chi è in prossimità con Lui. Paradossalmente sono stati proprio i santi che hanno avuto l’esperienza teologica del peccato percependone l’abisso e l’orrore. La consapevolezza etica del peccato, in quanto l’uomo ha una coscienza morale, è certamente reale, ma l’esperienza teologica, come rottura dell’alleanza con Dio, può essere percepita solo da chi è in comunione con Lui. La vertigine della dannazione si ha dall’alto e non dal fondo. Fare esperienza del peccato ed essere peccatori sono due verità inscindibili: solo chi è ontologicamente unito a Dio può comprendere la profondità del peccato, tanto più quanto più è in comunione con Lui ed è solidale con l’umanità peccatrice. Cristo, che è senza peccato, ha provato sulla croce la tentazione più grande,32 come possibilità umana del peccato, come solidarietà con l’umanità peccatrice, come fallibilità umana. Cristo ha sentito il brivido della possibilità della caduta; ha patito la vertigine della libertà come possibilità di peccato. Gesù è stato senza peccato di fatto e dogmaticamente, in forza dell’unità ipostatica al Verbo, era impeccabile; ma questo non svuota di realismo la kenosi, perché avendo una vera libertà umana c’era la possibilità di una caduta: questo non è avvenuto, anche per il merito della libertà di Gesù, che è stato tentato, come nel Getsemani, ma nella croce è stato il momento più alto della tentazione: essere toccati dalla possibilità di scegliere contro Dio, senza Dio.33
2) Abbandono come esperienza mistico-trinitaria. Il grido dell’abbandono della croce, pur ripetendo un testo dell’Antico Testamento: «Dio mio, Dio mio», non si riferisce al Dio dell’Antico Testamento, ma piuttosto al Padre e bisogna leggerlo nel contesto della filialità di Gesù, nel suo rapporto come Figlio al Padre-Abbà. Quest’osservazione è sostenuta da Lc 23,46, dove Gesù morendo non proclama il Sal 21, ma il Sal 31,6: «Padre (e non “Dio”) nelle tue mani». L’accento si sposta sulla relazione Figlio-Padre, che fornisce la lettura più equanime. Allora possiamo guardare l’abbandono come un fatto evidente e come una realtà superata da Gesù nel suo consegnarsi con speranza al Padre.
Abbandono come realtà proclamata. Come interpretare teologicamente questo abbandono di Dio? Come una realtà che parte dal Padre, difatti sia i mistici, sia la Riforma, in modi diversi, riferiscono l’abbandono ad un atto di Dio e non come suo non-intervento. È un agire del Padre che consegna il proprio Figlio (Rm 8,32). Nel senso positivo, l’atto del Padre non è punizione del Figlio, ma gesto d’amore, in quanto non lo tiene per sé, ma lo affida (Fil 2,6). Quest’atto d’abbandono di Dio come Padre ci permette di cogliere la purezza del suo amore, la non-possessività dell’amore verso l’umanità. Sembra che il Padre si disgiunga dal Figlio per donarlo all’umanità; quest’atto del Padre trova piena corrispondenza nel Figlio solidale con l’umanità e si può interpretare in chiave trinitaria, senza prescindere dall’incarnazione.
Abbandono come realtà superata. Non c’è allontanamento di Dio che non si risolva in abbandono in Dio; da un lato, c’è la consegna del Padre che dona il Figlio, dall’altro l’oblazione del Figlio al Padre. La stessa preghiera del Figlio non è disapprovazione ma invocazione che allevia l’abbandono in un contesto di orazione, di affidamento al Padre, che è presente anche nella sua apparente assenza, manifestando la certezza che, nonostante l’opposizione dell’umanità, Dio sostiene l’epilogo della vicenda. Nel Quarto Vangelo questa consegna avviene nello Spirito; qui la visione trinitaria nel mistero dell’abbandono è ancora più evidenziata.
1.9. Narrazione teologica della morte di Gesù nel Quarto Vangelo
La peculiarità narrativa del Quarto Vangelo è la profonda unità tra storia e mistero; quel che il Vangelo narra della morte di Gesù è sedimentato nella storia ed è imprescindibile per la sua stessa esposizione, infatti, sotto questo profilo rivela una fonte testimoniale diretta e il modo di narrare i fatti mostra il mistero in essi contenuto. Posta quest’osservazione introduttiva, notiamo che il Quarto Vangelo presenta una teologia della morte di Gesù dissimile da quella dei Sinottici, difatti non si parla di tenebre, terremoto, apertura dei sepolcri, dramma dell’abbandono. Possiamo compendiare in cinque pericopi narrative la sua originalità:34
I) 19,16-22: il titolo della croce;
II) 19,23-24: la tunica indivisa;
III) 19,25-27: la madre e il discepolo;
IV) 19,28-30: la sete di Gesù e lo spirare;
V) 19,31-37: il sangue e l’acqua.
I) 19,16-22: il titolo della croce. Il primo episodio ci presenta il titolo della croce in lingua ebraica, greca e latina; questo particolare è indice dell’universalità della regalità di Cristo.
II) 19,23-24: la tunica indivisa. Il Quarto Vangelo dedica due versetti a questo particolare e sul fatto di ciò che i soldati non fecero: l’accento è sull’unità della tunica. Per san Cipriano di Cartagine questo particolare è simbolo dell’unità della Chiesa che sta nascendo dalla croce di Cristo (De unitate Ecclesiae). La profezia di Caifa addita la morte di Cristo come principio di unità dell’umanità dispersa (Gv 11,51-52).
III) 19,25-27: la madre e il discepolo. Questa scena, che appare al centro, è fondamentale; risalta la croce, il Cristo crocifisso al centro di tutto. Il Quarto Vangelo non usa mai il termine Maria, ma “la Madre di Gesù”, accentuando la funzione materna e dopo le nozze di Cana la ripresenta ai piedi della croce. Questo stare sotto la croce non va inteso come vicinanza puramente spaziale o affettiva, ma teologica, cristologica: la Madre di Gesù gravita nella sfera della croce prendendovi parte. Il discepolo che Gesù amava ha un valore storico, ma anche tipologico poiché nella sua persona sono intesi tutti i discepoli di Gesù. A questo punto Gesù esprime alla Madre: «Donna, ecco tuo figlio»; “donna” è un’attribuzione soteriologica, un titolo ecclesiologico, infatti, è la donna che genera la fede nei discepoli, come a Cana, dove essi credettero a Gesù, ma il segno avvenne per iniziativa di Maria, sua madre . È la donnamadre che genera la fede nei discepoli, la custodisce, la fa crescere attraverso l’irrinunciabile azione dello Spirito Santo. È un seno materno che unisce insieme Maria e la Chiesa; in questo appellativo c’è una risonanza ecclesiologica, in lei si personifica la Chiesa. Per alcuni Gen 3,20 richiama la donnaEva, la donna-popolo Is 26,17-19, la Sion escatologica Is 66,7-8: attraverso questi richiami si può osservare che l’appellativo “donna” indica la funzione materna-spirituale di Maria connessa alla Chiesa. Nella maternità della Chiesa vive la maternità di Maria. Per i Padri questa scena non è oggetto di teologia, ma è un’espressione di pietà filiale da parte di Gesù, che affida la madre al discepolo e questi alla madre; essi conoscono un legame profondo tra Chiesa e Croce; in questa esegesi ricordano la prima Eva, creata da Dio nel sonno di Adamo. Nella Croce la nuova Eva viene tratta da Cristo morente nel sonno della sua morte unendola alla scena della ferita del costato, in cui nasce la Chiesa nei suoi simboli sacramentali: sangue e acqua, Eucaristia e battesimo. I Padri pur conoscendo il tema non compiono una sintesi ecclesiologico-mariologica. Nel Medioevo nasce l’esegesi mariologica che vede nelle parole di Gesù la funzione materna universale di Maria35 e il duplice legame materno Maria-Chiesa.
IV) 19,28-30: la sete di Gesù e lo spirare. La sete del crocifisso è un dato storico; i Sinottici la riferiscono ad alcuni Salmi (21,16; 68,22) ma l’espressione «ho sete» è riportata solo dal Quarto Vangelo. L’esegesi di questa sete di Gesù va vista, soprattutto, nel contesto proprio di questo Vangelo: 4,13-15, colloquio tra Gesù e la Samaritana. La sete di Gesù in questa circostanza esprime non solo un fatto fisico, ma il desiderio di Gesù di donare un’acqua viva che disseta in eterno! Sulla croce Gesù esprime quel desiderio, che si compie nel suo spirare: «E dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: – Tutto è compiuto! – E, chinato il capo spirò». Da una parte, queste parole comunicano un gesto fissato nella memoria dei testimoni che i Sinottici non impiegano e dall’altra, denotano una costruzione nuova. Infatti, paradídomi e pneuma, che nel Quarto Vangelo sono sempre in funzione del dono dello Spirito, ci consentono di tradurre non tanto “spirò” ma “donò lo Spirito”, perciò preludono al dono pentecostale, che già ora realizzano. Il segno di questo Spirito è l’alito del Crocifisso, che non è solo soffio umano ma divino.
V) 19,31-37: il sangue e l’acqua. L’ultima scena è importante per le parole del testimone: «Chi ha visto dice il vero» (v. 35); queste espressioni seguono quelle del sangue e dell’acqua come la deposizione sull’integrità delle gambe e della trafittura. I due particolari sono introdotti dal narratore stesso; è presente l’esegesi messa in relazione al rito dell’agnello pasquale, che doveva essere mangiato senza spezzargli le ossa (Nm 9,12; Es 12,10); Gesù è il vero agnello pasquale e nella croce si adempie il valore di Cristo come agnello «che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29). Questo tema è tipicamente giovanneo.36 Le parole sulla fuoriuscita del sangue e dell’acqua vengono riferite ai testi biblici di Zc 12,10-13 e Ez 47,1ss. Attraverso questi passi profetici appare che Cristo, oltre ad essere l’agnello di Dio, è il nuovo tempio di Dio; di qui l’interpretazione che il dono del sangue e dell’acqua sono segno della passione e dello Spirito che generano vita.
1.10. Punti conclusivi
a) La morte di Cristo come morte di croce non è una qualsiasi morte, ma può essere considerata come martirio profetico, o sacrificio profetico, legato alla testimonianza della verità (dialogo Gesù-Pilato).37 Il valore del sacrificio come testimonianza della verità, più che un sacrificio cultuale, è un sacrificio esistenziale.
b) L’evento della morte di Gesù Cristo non è legato solo allo scontro con le potenze del male, ma come un mistero che è scritto nel disegno di Dio Padre, che appare nella vita e morte di Gesù come il compimento d’amore di tutta la sua pro-esistenza, essere-per, essere-per-il-Padre-e-per-gli-uomini. La morte è l’atto più grande di amore, per cui la croce redime particolarmente perché è rivelazione dell’amore di Dio per l’umanità. Il Concilio Vaticano II ha parlato più di tutti della croce,38 la Chiesa ha il dovere di annunziare la morte sulla croce di Cristo come rivelazione dell’amore universale di Dio per la salvezza degli uomini.
c) La morte di Gesù sulla croce è un evento storico, non solo perché è accaduto veramente in un determinato tempo, ma poiché domina la storia trasformandola; infatti, la croce mostra il giudizio di Dio sul mondo,39 ma questo appare come un giudizio di misericordia, di perdono, di salvezza, specialmente nel Vangelo di Luca.
d) La morte di Gesù è vista come un dramma di abbandono. È un dramma umano: Gesù è nella perfetta comunione con il Padre, ma vive anche misteriosamente l’esperienza di lontananza come solidarietà con l’umanità peccatrice. È altresì dramma trinitario, in cui l’abbandono è espressione di consegna d’amore da parte del Padre del proprio Figlio agli uomini, e nello stesso tempo è l’auto-consegna di Gesù che si offre al Padre per gli uomini, e la consegna dello Spirito che viene donato dal Cristo morente.
e) La morte di Gesù rivela, inoltre, il mistero ecclesiale, in modo particolare nel Quarto Vangelo. Quando Gesù muore, nasce la Chiesa. I Padri hanno sottolineato il rapporto tra la prima e la seconda Eva e tra Adamo e Cristo. Questa nascita mistica della Chiesa, personificata in Maria, indica anche la sua maternità spirituale, consacrata Madre di tutti i credenti (la consegna al discepolo che Gesù amava). La Chiesa nasce come sposa congiunta al mistero di Cristo, dalla sua parola e dall’azione dello Spirito. È fondamentale rimarcare l’unità tra Maria, la Parola e il soffio dello Spirito.
f) Gesù vede la morte sempre alla luce della Risurrezione: «dopo tre giorni risorgerà» (tradizione della passione); in Lc 23,43 la morte è il passaggio escatologico al paradiso. Da un lato, la Risurrezione è la vittoria contro le potenze del male per merito dell’umiliazione del Servo che sconfigge la croce come orrendo delitto commesso dagli uomini. L’esaltazione appare in un’opposizione dialettica con l’umiliazione: «Voi l’avete ucciso, Dio l’ha risuscitato» (At 2,22-23). Dall’altro lato, la Risurrezione è il compimento del mistero della croce, vista non come delitto, ma come parte del disegno del Padre.
2. LA RISURREZIONE
Non possiamo, in questo contesto, non riferirci alle pagine del secondo testo su Gesù di Nazaret, di Benedetto XVI. Egli mostra come la risurrezione di Gesù non sia una teoria o un mito, ma il fatto più significativo della storia, che ci permette di rispondere che la morte non ha l’ultima parola, perché a trionfare alla fine è la Vita. Nel suo ultimo libro usa il termina “paradosso” sostenendo che esso va oltre la scienza. La risurrezione di Gesù non contrasta con il dato scientifico della realtà ma è qualcosa che va oltre la scienza, qualcosa che ci dice che «esiste un’ulteriore dimensione rispetto a quelle che finora conosciamo», scrive. Le testimonianze bibliche sulla Risurrezione, che il Papa definisce «storicamente credibili», raccontano di «qualcosa che non rientra nel mondo della nostra esperienza. Si parla di qualcosa di nuovo, di qualcosa fino a quel momento unico – si parla di una nuova dimensione della realtà che si manifesta». Quindi, «non si contesta la realtà esistente» ma si apre «un’ulteriore dimensione rispetto a quelle che finora conosciamo». E ancora: Gesù risorto «non è un cadavere rianimato» destinato in «un tempo più o meno breve» a tornare nella vita di prima e ad un certo punto «morire definitivamente». La sua risurrezione «è stata l’evasione verso un genere di vita totalmente nuovo, verso una vita non più soggetta alla legge del morire e del divenire, ma posta al di là di ciò; una vita che ha inaugurato una nuova dimensione dell’essere uomini».40
1) Nell’impostazione della cristologia odierna la risurrezione occupa un posto fondamentale: perché non c’è cristologia senza Risurrezione e soprattutto perché la cristologia della Chiesa parte dalla Risurrezione, che non è il principio assoluto della riflessione cristologica giacché presuppone la cristologia di Gesù. Il movimento della cristologia che parte dal Gesù storico si compie nella morte e risurrezione, che diviene punto di vista retrospettivo del passato, ma anche il suo punto di partenza.
2) Il problema della storicità della Risurrezione è uno dei più dibattuti; ma abbiamo dei punti fermi:
a) La Risurrezione è un evento reale, oggettivo, compiutosi in Gesù Cristo. Non siamo d’accordo con Bultmann, per cui la Risurrezione avviene esclusivamente nel kerygma.
b) Questo evento oggettivo si può considerare un fatto storico? Prima di tutto escludiamo la concezione per cui la risurrezione di Gesù è un avvenimento puramente intra-storico, cioè verificabile direttamente da chi vive nella storia, come ad esempio per quanto avvenuto a Lazzaro. Quando un evento avviene nella storia, tutti possono controllarlo, vederlo, interpretarlo; la risurrezione di Gesù si pone come evento meta-storico ed escatologico, qualitativamente differente da quella di Lazzaro, è un avvenimento glorioso, tipico della fine dei tempi. I testimoni della Risurrezione sono limitati: solo coloro ai quali è stato dato di esserlo. È un Avvenimento della fine della storia anticipato, presente ed operante adesso nella storia; come? Attraverso la testimonianza dei discepoli, della Chiesa apostolica; questa testimonianza è accompagnata dalla potenza dello Spirito che scaturisce dal Cristo risorto.
c) L’evento della Risurrezione è storicamente conoscibile, cioè Cristo risorto non si può incontrare in Se stesso attraverso le nostre risorse, ma dai segni che Egli ha lasciato. È una conoscenza storica indiretta ma valida; per esempio il sepolcro vuoto confermato anche da altre attestazioni o la conversione dei discepoli, che passano dallo stato di scoramento alla certezza della fede. Riguardo alla materialità di questa Risurrezione rimane quasi tutto aperto; tuttavia viene affermato esplicitamente che il suo modo sarà radicalmente diverso. Che cosa significhi positivamente il suo realismo pneumatico contrapposto alle varie interpretazioni spirituali non è possibile conoscerlo pienamente. Pur tuttavia il pensiero che alla fine l’intera creazione di Dio entrerà nella salvezza, in qualsiasi modo ciò avvenga, è tanto evidente che una sistematizzazione ragionevole del dato biblico non potrà fare a meno di tenerne conto (cfr. Cor 15,20-28 e il libro dell’Apocalisse). Michel Hubaut riguardo alla materialità della Risurrezione afferma che la materia, permeata di energia, non è statica: «Lo Spirito Santo, energia divina che abita già lo spirito dell’uomo dona forse alla materia – che il Cristo ha assunto per l’eternità – una forma nuova e inedita? Probabilmente sì. Noi però siamo cittadini del cielo, da dove attendiamo anche come salvatore il Signore Gesù Cristo, che trasformerà il nostro misero corpo per uniformarlo ai suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutto l’universo (Fil 3,20-21)».41
La scienza fisica s’ingegna sempre di più per disintegrare la nozione stessa di materia che sembra soprattutto fatta di vuoto, attraversato da particelle, campi di forze, flussi di energia. Essa è in continuo cambiamento. Einstein non ha forse affermato che E = mc2, cioè una massa materiale può trasformarsi in energia pura? La fisica fondamentale rende quindi sempre più problematica qualsiasi rappresentazione materialista della materia che ha, secondo certi fisici, delle strane affinità con lo spirito. Non è dunque inverosimile pensare che il corpo materiale dell’uomo terrestre, strutturato da flussi di materia come di energia, possa, dopo la morte biologica, essere trasfigurato, cioè ricevere un’altra struttura conservando sempre le tracce del suo io unico. L’uomo rimarrebbe perfettamente se stesso indipendentemente dal supporto materiale che serve a costruirlo e che può consumarsi e degradarsi. Ora se, da una parte, queste convergenze della scienza allargano l’orizzonte del possibile, dall’altra esse non potrebbero essere il fondamento della fede cristiana, che si basa sul Cristo risuscitato, la cui contemplazione ci fa intravvedere la realtà di questo mistero. Infatti se Cristo si è incarnato, non è stato per liberarsi della sua umanità come una vecchia pelle, un brutto ricordo passeggero, ma per trasformarla con la sua potenza di vita.42
In conclusione la risurrezione di Cristo è un evento storico, non nel senso intrastorico – come in Lazzaro – ma metastorico-escatologico. È storico perché realmente operante nella testimonianza dei discepoli, forti dello Spirito che li accompagna ed è storicamente conoscibile nei segni lasciati nel nostro mondo.
2.1. Caratteristiche dell’esperienza del Risorto
Abbiamo solo una testimonianza diretta che menziona questa esperienza, ed è quella di Paolo, che considera il suo incontro con Cristo risorto pari a quello di tutti gli altri apostoli: «Apparve a Cefa e quindi ai Dodici. Ultimo fra tutti apparve anche a me» (1Cor 15,5.8); egli fonda la sua dignità di Apostolo proprio sulla sua personale esperienza. Essere apostolo ed essere testimone vanno congiuntamente: l’esperienza di Paolo è paradigmatica. Evidenziamo tre aspetti del Cristo risorto:
a) L’iniziativa del Risorto. Nell’esperienza del Risorto il testimone è in uno stato passivo, subisce l’apparizione, anche perché tutto avviene inaspettatamente. Questo particolare è molto importante, perché sottolinea l’oggettività dell’apparizione. Il Risorto irrompe nell’esistenza del testimone imponendosi improvvisamente; il participio ófthe più che “fu visto”, visus est, può essere tradotto con “si mostrò”.
b) Fisicità della visione. L’esperienza del Risorto non è soltanto interiore. Vedere il Risorto non è riconoscerlo tale in un’esperienza mistica oppure con gli occhi della fede; i racconti asseriscono una visione concreta ma anche fisica, evidenziando il vedere e il toccare: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita».43 È un’allusione non solo alla vita eterna manifestatasi prima di Pasqua, ma anche alle apparizioni post-pasquali, quindi relazionata ad un incontro con una persona oggettiva.
c) Coinvolgimento dell’esistenza dei testimoni. Chi vede il Risorto, risorge, partecipa di questa risurrezione e cambia; per cui non si può vedere il Risorto e rimanere nei peccati, rimanendo assenti. L’incontro con il Risorto trasforma e rende testimoni sia le donne sia i discepoli. Questi tre aspetti (iniziativa, fisicità, coinvolgimento) sono paradigmatici.
2.2. La testimonianza del Risorto nei racconti pasquali
Come nasce la fede nel Cristo risorto? La risposta a queste domande è data dalle apparizioni, dai racconti pasquali, la cui importanza da un lato è dovuta alla loro storicità (1Cor 15,3ss), dall’altro perché è da quegli incontri pasquali che è scaturita la fede nel Cristo risuscitato. Con H. Schlier si può sostenere che «il Cristo risorto si fa presente nella storia attraverso le apparizioni». Posta questa prima osservazione, quando parliamo dei racconti pasquali da una parte, dobbiamo rilevare la testimonianza diretta,44 dall’altra, una serie di racconti pasquali delle apparizioni, che sono molteplici e raggruppabili in due modelli fondamentali: galilaico e gerosolimitano.
a) Modello galilaico.45 Caratteristica dell’apparizione di Gesù ai suoi, nel racconto di Mt 28,16-20, è che Cristo appare Signore della storia, il Risorto s’impone nella sua maestà divina, tant’è vero che i discepoli appaiono in adorazione; se la solennità del Risorto è evidenziata, è pur vero che i comandi del Risorto e la sua presenza nella storia si realizzano attraverso i discepoli. Il Risorto è operante nella storia nella predicazione del Vangelo, nel battesimo e quindi nella Chiesa:46 «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (28,20). Le caratteristiche del modello galilaico sono:
Solennità, divinità, signoria sulla storia (v. 18);
Comando di missione «Andate...» (v. 19);
Presenza del Risorto nella Chiesa Sacramento di Cristo47 e attraverso di essa nella storia e nel mondo.
b) Modello gerosolimitano.48 I racconti gerosolimitani mettono in luce non la gloria ma la familiarità del Risorto, che appare non come Signore della storia ma con un tono confidenziale, con un atteggiamento quotidiano simile a quello precedente (mangia con loro il pesce...). Emerge, inoltre, l’iniziativa del Risorto, come in Paolo, che accentua i seguenti aspetti:
1) Elezione. È Cristo che elegge, sceglie, i testimoni e non chiunque può incontrare il Risorto.
2) Inaspettato. Il Risorto si manifesta a persone che non l’aspettano, che sono smarrite e nel timore. Questo mostra che l’apparizione viene da una fonte extrasoggettiva, esterna.
3) Difficoltà del riconoscimento e segni. Il riconoscimento del Risorto non è immediato (in entrambi i modelli); questo fa comprendere che l’incontro col Risorto non può realizzarsi solo con lo sforzo umano e se non intervengono precisi motivi d’identificazione. In tutti i racconti il tema della confessione del Risorto è fondamentale. Quali sono, allora, le vie attraverso le quali Cristo è riconosciuto?
a) I gesti familiari. Gesù appare nella sua forma terrena, parla, mangia con i suoi; è il problema del vedere, toccare. Questa forma è adeguata al compito cristologico di ravvisare nel Risorto il Gesù di Nazaret terreno e crocifisso, lo stesso con cui avevano vissuto prima.
b) Le mani e costato. Non possiamo intendere il Risorto se non congiuntamente alla Croce; il Risorto non piomba dal cielo, ma è quello stesso Gesù morto sul Calvario: è risuscitato il Crocifisso!
c) La parola. I discepoli di Emmaus attraverso la parola di Gesù sentono «ardere il cuore in petto»; si prepara già l’identificazione. Maria di Magdala lo riconosce solo quando Gesù la chiama per nome: «Maria!». La parola di Gesù è la via mediante la quale noi riconosciamo il Risorto.
d) Lo spezzare il pane. Gesù mangia con i suoi discepoli. Il tema della commensalità in Luca ha un’importanza particolare ed è il momento culminante del racconto di Emmaus: «Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (Lc 24,31).
La difficoltà del riconoscimento è importante poiché indica che il Risorto è in una condizione nuova di esistenza e l’uomo non può identificarlo se non nelle vie prima indicate; condizione nuova che manifesta Gesù non “secondo la carne”, ma katá pneuma, “secondo lo Spirito”. Il Risorto è colui che è passato dalla condizione secondo la carne, alla condizione secondo lo Spirito, che sfugge alla percezione puramente umana, senza l’aiuto di quei segni e la visione della fede. L’evento del Risorto è sempre legato alla testimonianza: negli Atti è presente la formula: «Cristo è risorto e noi ne siamo testimoni». Il Risorto si mostra ad alcuni eletti perché siano testimoni per tutti; se noi oggi crediamo, è perché confidiamo in chi Lo ha incontrato: c’è sempre l’azione della grazia, dello Spirito nell’accogliere questa testimonianza. Le apparizioni non sono un vedere nuovamente Gesù come in precedenza, ma conoscerlo in un modo nuovo. Le apparizioni sono eventi di rivelazione o cristofanie: i discepoli comprendono il Risorto perché egli si presenta in una veste profondamente rinnovata.
c) Il sepolcro vuoto. Una volta questo dato godeva primaria importanza, ma pian piano è stato ridimensionato. La fede nella Risurrezione non è legata al sepolcro vuoto, ma alle apparizioni; tuttavia il sepolcro vuoto è un dato storico, che gli stessi contemporanei di allora ammettono, non negato, ma interpretato diversamente, confermando così che il mattino seguente la tomba è vuota. Com’è attestato? Attraverso due tradizioni.
1) Sinottica: Mc 15,42-47. Le donne che vanno al sepolcro sono le protagoniste di questi racconti, ma il punto centrale sono le parole degli angeli (angelofanie): «Non è qui»; le donne testimoniano la Risurrezione in un mondo in cui esse non erano attendibili. Quel che colpisce è il fatto predominante che è risorto. Infatti, vedendo la tomba vuota non sapevano cosa pensare: la tomba vuota non genera di per sé la fede. Lc 24,12 ha appena un versetto: «Pietro tuttavia corse al sepolcro e chinatosi vide solo le bende. E tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto»; è un tema importante, perché gli stessi uomini, non solamente le donne, testimoniano, anche se Pietro è incapace di chiarire il perché la tomba sia vuota. 2) Quarto Vangelo: 20,3-10. Passiamo al Quarto Vangelo parallelo a Luca:
Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo – quello che Gesù amava – e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi vide le bende per terra, ma non entrò. Giunse pertanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.
C’è bisogno di fare una certa lettura di questo episodio, che mette a confronto due primati, profondamente congiunti e non esclusivi: quello di Pietro e quello carismatico. Registriamo una vera e propria ispezione del sepolcro, descritta con meticolosità. Queste bende, che di solito avvolgono il corpo del defunto, sarebbero bende ben riposte nella stessa composizione al momento della sepoltura; ma questa è un’esegesi non rinvenibile dal testo. La descrizione sembra rispondere a un intento apologetico, per cui non c’è stato un trafugamento del cadavere. Il corpo non è nel sepolcro, tutto però ha avuto luogo oltrepassando le comuni leggi naturali e fisiche.
3) Significato dei racconti sul sepolcro vuoto. Perché i Vangeli hanno trasmesso questo dato? Questa domanda verte sulla motivazione della narrazione.
a) Motivazione apologetica. Una risposta è di natura apologetica, legata molto alla redazione di Mt 28,11-15: dopo il fatto della Risurrezione le guardie riferirono ai sommi sacerdoti l’accaduto, ma questi le convinsero a dichiarare la «diceria divulgata dai Giudei fino ad oggi» (v. 15).
b) Motivazione cultuale. Studi più recenti hanno richiamato l’attenzione al culto del sepolcro vuoto. Questi elementi non possono far parte di un racconto meramente apologetico, ma di un racconto di una comunità di fede; ad esempio i luoghi di sepoltura dei martiri sono sempre stati venerati dagli ebrei. Questa tradizione la riprende la comunità cristiana delle origini, facendo del luogo della sepoltura di Gesù meta di pellegrinaggi e venerazione; all’inizio la comunità cristiana si riuniva nel sepolcro per celebrare il culto. Questo fatto può altresì spiegare l’aspetto tardivo del racconto sinottico, quando ormai il culto per il sepolcro vuoto era notevolmente esteso per la comunità di Gerusalemme. La stessa processione delle donne la cerimonia della comunità primitiva che celebra presso il sepolcro.49
c) Sepolcro vuoto e risurrezione di Cristo. Siamo di fronte a un dato storico da considerare rispetto al mondo giudaico, dove non sarebbe stato possibile l’annuncio della Risurrezione con una tomba non vuota. Il kerygma sarebbe privo di radici! Il sepolcro vuoto è un dato storico, ma dal punto di vista della fede non possiamo affermare che esso ha suscitato la fede nella Risurrezione, ma solo lo stupore, l’inspiegabilità. La fede nel Cristo risorto nasce dalle apparizioni e non dal sepolcro vuoto, di cui consente la giusta interpretazione. Il sepolcro vuoto appare non più come segno di morte nella visione cristiana, ma è segno di vita; nella tradizione ebraica il cadavere nel sepolcro è segno di morte, fino al “terzo giorno” lo spirito aleggia sulla tomba, dopodiché la morte prevale definitivamente sul corpo. Il sepolcro in questa tradizione è segno del trionfo della morte sulla vita; vuoto indica la vittoria della vita sulla morte, poiché la morte di Gesù ne ha cambiato il significato. Nella visione biblica la morte è connessa al peccato, è segno della condizione peccatrice dell’uomo; ora Gesù ha fatto della morte non il segno della disobbedienza ma dell’obbedienza, il passaggio alla vita. In questa riflessione il sepolcro vuoto può essere visto come segno tangibile della morte come accesso e trionfo della vita; il sepolcro vuoto diventa il segno di una morte diversa, transito pasquale, cammino verso Dio sorgente della vera vita. Questo segno è dunque rilevante, ma non va considerato come l’origine della fede.
2.2.1. L’annuncio del Risorto nel linguaggio neotestamentario
La fede cristiana nel Cristo risorto s’è espressa, come sempre, attraverso dei linguaggi. Il linguaggio è parte costitutiva e consapevole dell’uomo, di conseguenza non abbiamo in un primo momento la sola esperienza e in seguito la comunicazione della stessa poiché l’uomo fa esperienza linguisticamente; allo stesso modo non c’è un’esperienza di Cristo risorto espressa poi mediante un linguaggio, ma un’esperienza del Cristo risorto in un contesto linguistico. Il Nuovo Testamento riferisce l’esperienza del Cristo risorto attraverso una moltitudine di linguaggi; ciò è importante perché la teologia non deve impugnare un solo linguaggio omettendo gli altri; i linguaggi documentano la pluralità degli aspetti della Risurrezione. Ad esempio in Luca, parlando del sepolcro vuoto, gli angeli dichiarano: «Perché cercate tra i morti colui che è in vita?».50 Ma quali sono questi linguaggi?
1) Formule passive. In epoca più tardiva appaiono formule attive: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,19); «Io ho il potere di offrire la mia vita e il potere di riprenderla di nuovo» (Gv 10,17-18). Questo linguaggio di Risurrezione è articolato sull’asse semantico vita-risurrezione. Presso gli ebrei, in epoca tardiva, si parlava di risurrezione escatologica.51 Il contesto di questo linguaggio usato dalla prima comunità cristiana per annunciare la risurrezione di Cristo è che la risurrezione di Cristo non è una qualsiasi risurrezione dalla morte, ma è la risurrezione escatologica, il principio della risurrezione universale. In At 4,2 «annunziavano in Gesù la risurrezione dai morti!».
2) Formule attive. Questo linguaggio di risurrezione compare in diverse formulazioni: una passiva, come atto del Padre che ha risuscitato Gesù dai morti; è la formulazione più antica, come nei discepoli e apostoli di At 2,2324: «Voi l’avete ucciso, ma il Padre lo ha risuscitato». La predicazione cristiana mette l’accento sul “terzo giorno”;52 questo inciso non va preso in senso autobiografico, ma qualitativo e teologico: nella Bibbia il terzo giorno manifesta la potenza salvifica di Dio. Il significato di questo inciso è escatologico: la risurrezione di Cristo è l’evento apocalittico della fine della storia che dischiude l’era della risurrezione universale. Questo è il linguaggio più sostanzioso, giacché fa parte del linguaggio kerygmatico, che è predominante. Si registrano, altresì, linguaggi di esaltazione e di glorificazione che compaiono nelle formule di culto e negli inni pasquali e cristologici. Questi linguaggi hanno un asse semantico diverso: terra-cielo, abbassamento-esaltazione. L’influenza di questi linguaggi risiede particolarmente nella loro valenza teologica, perché segnano come la risurrezione di Cristo condivida la stessa gloria del Padre; perciò la risurrezione di Cristo è gloriosa, non un semplice riprendere il corpo, dopo la morte, per ristabilire la vita terrena. Il linguaggio di esaltazione pone l’accento sulla divinità di Cristo, sulla sua identità di unione col Padre, completando così il quadro della Risurrezione. In tale prospettiva l’aspetto glorioso del Cristo risorto comunica la vita divina poiché è un evento che tocca la persona non solo come integrazione antropologica, ma come partecipazione alla sua stessa gloria, cioè divinizzando l’uomo.
2.2.2. L’annuncio della Chiesa primitiva dopo la Pentecoste
Vediamo, ora, come la Chiesa dopo la Pentecoste ha capito, creduto e trasmesso il mistero del Dio fatto uomo per la nostra salvezza. La luce della risurrezione di Cristo ha permesso agli apostoli di essere illuminati in profondità sulla realtà della persona e della vita di Gesù. Per fondare la continuità personale tra il Gesù storico e il Cristo della fede riaffermiamo anzitutto la non contraddizione tra storia e fede. La fede, infatti, non è un mito senza fondamento storico, né un paradosso senza fondamento razionale e, dal canto suo, la storia non è solo l’ambito di eventi intramondani, ma ospite anche del dialogo salvifico di Dio con l’uomo. Conseguentemente, nell’evento Cristo, storia e fede sono indissolubilmente legate, sì che il Cristo della fede è fondato sul Gesù della storia, e questi è l’ispiratore della fede della primitiva comunità cristiana. Cristo è personalmente lo stesso sia nella sua storia, sia nella fede dei credenti, anche se, metodologicamente parlando, si possono e si devono distinguere i vari strati presenti nel Nuovo Testamento (il Gesù storico, la comunità primitiva, l’attività dell’autore sacro). Se c’è, una fede post-pasquale è senza dubbio per due motivi. Il primo è perché c’è stata una Pasqua, vale a dire l’evento della morte e risurrezione di Cristo che ha apportato una luce nuova alla comprensione dei discepoli. Tale comprensione, e questo è il secondo motivo, sarebbe dimostrata comunque impossibile se prima non ci fosse stata una preparazione che Gesù stesso ha fatto con essi. Gli angeli, annunciando alle donne che Gesù è risorto, comandano a esse di ricordarsi delle parole che Egli aveva detto loro in Galilea, cioè durante il suo ministero pubblico; «ed esse si ricordarono delle sue parole» (Lc 24,4-8). Quando Gesù appare dopo la sua risurrezione «appare non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti», cioè ai suoi discepoli53 (At 10,41). Non ci sarebbe una fede postpasquale senza un’iniziazione alla fede pre-pasquale. Non dimentichiamo, inoltre, che non soltanto la Risurrezione ha prodotto questa nuova luce, ma anche e soprattutto la discesa dello Spirito Santo che ha permesso agli apostoli e ai credenti in Cristo di partecipare della sua risurrezione. La fede della comunità delle origini, a partire dall’esperienza del Risorto, è non senza fondamento nella storia pre-pasquale di Gesù, dunque che l’uomo Gesù è stato fin dal primo istante della sua vita terrena il Figlio di Dio venuto in questo mondo, che ha assunto nell’essenzialità una storia veramente umana, ha manifestato pienamente nella sua risurrezione il suo volto divino ed ha giustificato, per l’uomo stesso, la speranza che non delude. Per questa pienezza della presenza divina in Lui, il Crocifisso Risorto si situa come il criterio e la luce in cui rileggere il già e non ancora, il compimento dell’attesa e la promessa di un nuovo, definitivo compimento. A Pasqua nascono insieme la fede e la speranza dei cristiani.
Il contenuto dell’annuncio della Chiesa primitiva54 si compendia nella parola kerygma,55 relativo all’etimologia dal verbo kerusso, che specifica una proclamazione pubblica, il cui contenuto è appunto il kerygma. Questo vocabolo acquista nel Nuovo Testamento un preciso senso che focalizza il contenuto dell’annuncio cristiano, la sostanza della proclamazione della buona notizia. In questo senso il termine equivale a vangelo,56 cioè alla buona notizia predicata dagli apostoli (cfr. il parallelo in Rm 16,25). Il kerygma è così rilevante che si è salvati aderendo ad esso (1Cor 1,21), senza nulla toglierli (1Cor 15,2). Negli Atti degli Apostoli sono riportati schematicamente una serie di annunci, da cui possiamo desumere i punti essenziali della predicazione.
L’inviato di Dio Gesù di Nazaret (2,22; 3,13; 4,12; 5,30; 10, 36-38; 13,23-25),
è stato ucciso per mezzo della croce (2,23; 3,14-15; 4,10; 5,30; 10,39; 13,27-29),
Dio lo ha però risuscitato (2,24-32; 3,15; 4,10; 5,30; 10,40; 13,30.37),
è apparso a testimoni specifici (2,32; 3,15; 5,32; 10,40-41; 13,31)
vive innalzato alla destra di Dio ed è costituito Signore (2,33-36; 3,21; 4,10.12; 5,31; 10,42),
ha inviato il dono dello Spirito Santo (2,33; 5,32).
A questi punti vanno aggiunti la chiamata a conversione e il perdono dei peccati, ambedue congiunti con l’invio dello Spirito (cfr. At 2,38).
Fondamentalmente ravvisiamo nel kerygma una forte carica di storicità, poiché colui di cui si sta parlando, non è un mito, ma Gesù di Nazaret «accreditato da Dio presso di voi con segni e prodigi», quel Gesù che «voi avete crocifisso», proprio Lui è lo stesso che è risorto e che è apparso. Insistendo sulla testimonianza di coloro che lo hanno visto risorto, è garantita la validità di quanto proclamato. Chi annuncia si fa personalmente carico di quanto afferma, mettendo in gioco la sua vita per supportare le sue affermazioni, gli stessi apostoli attestano la propria esperienza, che può diventare tale anche per chi si converte. Analogamente lo stesso Spirito Santo accolto nel Cenacolo sarà ricevuto da coloro che crederanno (At 2,38; 5,32; 10,44-46). Gli uditori del kerygma sono incoraggiati a compiere la stessa esperienza di chi annuncia, a incontrarsi cioè con il Cristo Risorto, confidando nella buona notizia.
Il kerygma più antico riportato nel Nuovo Testamento è quello che troviamo in 1Cor 15,3-8, dove si presenta in una forma più essenziale.57 Infatti, se Paolo scrive questa lettera a metà degli anni Cinquanta, non solo riporta la predicazione divulgata ai Corinzi anni prima, ma anche che lo stesso “Vangelo” (15,1) trasmesso tale e quale egli lo ha ricevuto (v. 3a). Pertanto, menzionando come gli sia stata annunciata una buona notizia, fa certamente riferimento al tempo della sua conversione, dunque un periodo vicinissimo alla Pasqua. Siamo alla presenza di una specie di credo primitivo, indubbiamente il più antico che conosciamo.58 Per di più, occorre accentuare l’importanza della coppia dei verbi ricevuto-trasmesso, binomio questo che testimonia l’esistenza e l’importanza della tradizione orale. Sussisteva una considerevole fedeltà alla tradizione orale, tant’è che Paolo dichiara che quanto ha trasmesso è causa di salvezza «se lo mantenete nella forma in cui lo abbiamo annunciato» (15,2). La salvezza operata dall’evento pasquale di Gesù raggiunge ora la vita degli uomini mediante l’annuncio del Vangelo. Si realizzano le parole rivolte da Gesù a Tommaso: «Beati quelli che non hanno visto (il Risorto, come gli apostoli e altri eletti) e hanno creduto (alla testimonianza apostolica)» tant’è che la salvezza avviene mediante la fede nella predicazione (1Cor 1,21). Seguendo 1Cor 15,3-8 sintetizziamo il contenuto dell’annuncio evangelico. Nei vv. 3b-5 compaiono di quattro verbi: morì, fu sepolto, risuscitò, apparve, che hanno Cristo come soggetto. Il primo e il terzo verbo affermano le due realtà fondamentali del mistero pasquale, la morte e la risurrezione di Cristo, mentre il secondo e il quarto pongono l’accento, confermando l’affidabilità dichiarata dalle due realtà precedenti. L’affermazione “morì e fu sepolto” intende realmente evidenziare che la morte e la sepoltura di Cristo non sono state una finzione. Alla stessa stregua, dichiarare “risuscitò e apparve”, ha l’obiettivo di garantire la certezza della sua risurrezione, il farsi vedere vivo e risorto.
Comprensibilmente spicca un verbo: risuscitò. Nella lingua italiana non si nota la differenza dalle altre forme verbali utilizzate, mentre nel testo originale greco è evidente. Infatti, laddove gli altri tre verbi sono coniugati all’aoristo, egheghertai è al perfetto. “Morì, fu sepolto e apparve” esprimono, allora, una precisa azione verificatasi nel passato, mentre il verbo al perfetto determina come l’evento passato non cessa minimamente nei suoi effetti. La risurrezione di Cristo non è un fatto a sé stante, come l’episodio prodigioso di Lazzaro, il quale tuttavia è morto ex novo, ma è unica, poiché i suoi efferti perdurano. Annunciando la sua risurrezione, la Chiesa proclama la vittoria di Cristo sulla morte, come afferma Rm 6,9: «sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più, la morte non ha più potere su di lui». Il suo sepolcro rimane, tuttavia vuoto perché Egli continua a vivere in eterno. Questa è la grande novità che annuncia il cristianesimo, cioè la vittoria sulla morte, alla quale prendono parte i credenti in Cristo.
Già la fede ebraica, almeno nella sua forma più diffusa e popolare, era arrivata a contemplare la risurrezione finale alla fine dei tempi. In Gv 11,24 Marta confessa tale credenza e Gesù, confermandola nella sua fede, le annuncia che è Lui stesso la risurrezione e chiunque crede in lui non morirà in eterno (Gv 11,25-26), dunque partecipa della sua vittoria sulla morte. Credere alla buona notizia, alla sua risurrezione, significa non solo credere che egli sia vivo per sempre, ma che salva perfettamente coloro che si avvicinano, per suo tramite, a Dio, essendo il Vivente che intercede in loro favore (Eb 7,25). Se i sacerdoti dell’antica alleanza morivano, la nuova si distingue poiché noi abbiamo un sacerdote eterno, che vive per sempre. Proprio in forza di questa sua vita duratura egli è in grado di salvare i credenti (Eb 7,26-28). Il perfetto del verbo “risuscitare” espresso 1Cor 15,4, ci immette nell’essenzialità dell’annuncio della fede cristiana. Giungiamo alla fede nella risurrezione di Cristo perché essa continua nei suoi effetti, in forza del fatto che Cristo è vivo. Nessuno ha assistito al momento della Risurrezione, all’uscita dal sepolcro di Gesù, Egli, però, è apparso, si è fatto vedere vivente, dopo essere uscito dal sepolcro. Si tratta di un’esperienza vera, reale, che è toccata a diverse persone e che ha cambiato la vita degli apostoli e di Paolo.
2.2.2.1. Gesù, il Kyrios
Il titolo fondamentale del Cristo risorto è quello di “Signore”. Fra le più antiche professioni di fede richieste a chi accoglieva il kerygma spicca fra tutte sicuramente quella di “Cristo è il Kyrios” (Rm 10,9; 1Cor 12,3; 8,6; At 2,36). Questo titolo racchiude delle verità di fede cristologica. Il termine kyrios nel linguaggio comune poteva significare semplicemente “padrone”, “proprietario”.59 Nell’annuncio cristiano possiede tutt’altro indirizzo. Il vocabolo greco esprime quello che per l’ebraico esprimeva la parola Adonai, applicata ovviamente a Jahvè. Sappiamo che il nome di Dio60 era impronunciabile ed era sostituito dal titolo Signore. La pronuncia del tetragramma era consentita solo nel tempio, perché esso era «il luogo dove Dio ha scelto di far abitare il suo nome», come dice una decina di volte il solo libro del Deuteronomio (cfr. per es. 12,5.11.21; 14,23.24 ecc.). Il nome divino era anzitutto pronunciato dai sacerdoti quando recitavano sui pellegrini la benedizione aronitica di Nm« 6,24-26 in ossequio a Nm 6,23 e 6,26: «Voi benedirete così gli Israeliti», «così (i sacerdoti) porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò». In secondo luogo il nome era pronunciato dal sommo sacerdote nel giorno dell’espiazione o giorno del Kippur, quando recitava le tre confessioni di peccato. Secondo alcuni testi, in quel giorno il nome veniva pronunciato dal sommo sacerdote 4 volte, secondo altri 10 volte. Il coro dei sacerdoti rispondeva ogni volta cantando il responsorio: «Benedetto sia il Nome del suo Regno glorioso di eternità in eternità». Fuori del tempio poteva essere pronunciato in tribunale da chi, testimoniando contro un bestemmiatore, necessariamente riferiva la bestemmia che aveva udito.61
Per questo la traduzione greca dei LXX sostituisce il tetragramma divino con Kyrios. A questo punto il termine non è più soltanto un titolo, ma diventa equivalente dello stesso nome di Dio. Applicarlo perciò a una persona sarebbe stato impensabile per qualsiasi ebreo, equivalente ad un peccato di blasfemia, poiché non c’è che un solo Signore, Jahvè (Dt 6,4). Gli apostoli, forti dell’esperienza del mistero pasquale, sono stati condotti a riconoscere in Gesù di Nazaret lo stesso Jahvè. Confessare Gesù come Kyrios implicava attribuirgli il nome divino e impronunciabile, fatto impraticabile per un ebreo perché potesse giungere a tale conclusione senza una reale rivelazione, oltremodo sostenuta dalla fede trinitaria. Riconoscendo Cristo come il Signore si è dischiusa davanti agli occhi degli apostoli la verità dell’unico vero Dio in tre Persone.
A questo riguardo tra i testi fondamentali spicca l’inno cristologico di Fil 2,6-11, l’inno alla kenosi. Questa parola deriva da un verbo che appare cinque volte nel Nuovo Testamento (kenoo), ma applicato a Cristo solo in Fil 2,7 dove si dice che «svuotò se stesso» (eauton ekonosen),62 espressione qusta che costituisce il cuore della prima parte dell’inno, ai vv. 6-8: «Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso fecendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce». Il passo è interamente sostenuto dal verbo “svuotare” cui fa eco “umiliò se stesso”. Questa kenosi consiste nello spogliarsi della dignità divina, acconsentendo al mistero dell’incarnazione. Nella sua umanità, Gesù ha protratto il suo abbassamento, il suo umiliarsi, obbedendo fino all’ultimo (esprimendo la sua relazione filiale e la missione ricevuta dal Padre), addirittura morendo ignominiosamente crocifisso. Nella morte in croce la kenosi del Figlio, il suo “svuotamento” raggiunge il culmine, pertanto il Figlio stava al livello del Padre, cioè esisteva prima dell’incarnazione e possedeva già prima di essa la natura divina.63
Nella seconda parte dell’inno (vv. 9-11) è descritta l’esaltazione: «Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è sopra ogni altro nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra e ogni lingua proclami (exomologhesetai) Gesù Cristo è Signore (kyrios Jesous Christos) a gloria di Dio Padre». Osserviamo qui per tre volte espresso il “nome”. L’esaltazione del Figlio raggiunge l’apice nel ricevere il nome più alto che si possa avere, che è quello di Kyrios. Ricordiamo come il nome nella tradizione ebraica non è una semplice convenzione. Io darò loro, nella mia casa e dentro le mie mura, un posto e un nome, che avranno più valore di figli e di figlie; darò loro un nome eterno, che non perirà più» (Is 56,5). Dunque, il nome esprime l’essenza dell’identità spirituale, poiché è Dio stesso che diversifica ogni cosa, sin dalla creazione, secondo una specie unica e irripetibile. Nel Sal 147,4 è scritto che il Signore «conta il numero delle stelle e le chiama tutte per nome».64
Dichiarare che Dio (qui Dio equivale al “Padre” del v. 11) gli ha donato il nome di Signore non significa che prima non fosse al suo livello, poiché questo è già stato affermato nella prima parte dell’inno. Esprime, piuttosto che, grazie al mistero pasquale, il Padre ha dato a suo Figlio la possibilità di essere conosciuto e confessato come Kyrios. Questo è proclamare (exomologeo)la Signoria di Gesù, cioè la professione di fede cristologica fondamentale: Kyrios, Jesous, Christos. L’adorazione (espressa nell’inno con le le parole «ogni ginocchio si pieghi») che ogni creatura doveva a Jahvè (cfr. Is 45,23), ora è dovuta a Cristo. D’ora in poi non ci sarà altro nome nel quale possiamo essere salvati (At 4,12).
2.2.2.2. Gesù, Sovrano universale
Dal riconoscimento di Gesù come il «Signore dei Signori» (1Tm 6,15; Ap 17,14; 19,16)65 scaturisce una seconda importante verità: Gesù è il Re e Signore di tutto, è il Pantokrator. Già nel primo kerygma degli Atti, prima di affermare che «Dio ha costituito Signore Gesù» (2,36), Pietro cita il Sal 110,1: «Oracolo di Jahvè (LXX: kyrios) al mio Signore (LXX: kyrios): Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi». La signoria di Cristo è collegata con la sua ascensione al cielo e intronizzazione alla destra del Padre. Cristo siede alla destra del Padre come «Re dei re» (1Tm 6,15; Ap 17,14; 19,16), come sovrano universale. Con la sua ascensione al cielo si realizzano le promesse riguardanti il Messia davidico che regnerà per sempre.66 Questa signoria ha una dimensione fondamentalmente soteriologica. Attraverso il mistero pasquale, Cristo riceve una signoria universale a favore di coloro che egli ha redento e che lo riconoscono come loro Signore. Egli è il Signore di tutto perché ha ricevuto un potere universale: «mi è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra» (Mt 28,18), un potere che è in favore degli uomini. È il Dio fatto uomo Gesù Cristo che, avendo realizzato l’opera della salvezza, ha l’autorità di mettere sotto i suoi piedi qualsiasi potenza che tenga in schiavitù l’uomo, come leggiamo nella Lettera agli Efesini (1,19-22).67 Come capo della Chiesa, popolo dei salvati, Cristo trasmette il suo potere agli uomini che ne fanno parte, pertanto i redenti partecipano della sua signoria universale. Quella schiavitù sotto la quale soffriva l’uomo dell’antico popolo di Dio, ora è vinta definitivamente da un uomo, costituito Signore di tutte le cose e il partecipare a questo potere è ricevuto mediante l’effusione dello Spirito Santo, considerevolmente definito “potenza” di Dio (Lc 1,35; 24,49; At 1,8).
Applicare il titolo, o meglio, il nome di “Signore” a Cristo fornisce una chiave d’interpretazione per la teologia trinitaria. Infatti, se il nome Kyrios pone Gesù al pari di Dio, lo stesso termine lo distingue dal Padre. Questo appare indiscutibile, oltre che nell’inno cristologico di Fil 2, in 1Cor 8,6 dove Paolo accosta il termine Dio al Padre e quello di Signore a Cristo. «Si vuole dunque insegnare la divinità di Cristo, ma usando un termine diverso da quello del Padre. La distinzione dei due vocaboli gli permette di esprimere la distinzione delle due persone divine».68 D’altro lato, pur essendo distinto dal Padre, Cristo ne condivide la sostanziale natura. Cosicché Paolo può utilizzare il testo di Gl 3,5 («Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato») per applicarlo a Cristo (Rm 10,13).69 Il nome Signore denota il potere universale che Cristo ha ricevuto in funzione di chi ha redento, infatti l’efficacia del mistero pasquale, ricapitolata nel termine Kyrios, è compartecipata ai credenti attraverso lo Spirito Santo. Gli apostoli hanno fatto quest’esperienza fondamentale e dello stesso Paolo, che servendosi sovente di questo termine poteva non solo «attribuire a Gesù la divinità senza correre il rischio di confonderlo con il Padre, ma rifletteva anche l’esperienza della potenza divina di Cristo che si manifestava nella Chiesa primitiva».70 Questa consapevolezza non era possibile se non in virtù dello Spirito Santo che faceva conoscere nei fedeli la potenza della signoria di Cristo, realizzando quanto annunciato da Gesù nei discorsi di addio testimoniati da Giovanni. È lo Spirito Santo a portare a compimento l’opera della redenzione realizzata dal Figlio in obbedienza al Padre.
3. LA DEFINITIVITÀ DELLA SIGNORIA DI CRISTO
Il termine greco Parusia significa “arrivo”, “presenza” degli eserciti, sovrani o degli dèi. Nell’Antico Testamento non appare questo termine, anche se è sinonimo di “giorno”,71 ma può significare anche “visita” del Signore.72 Lo troviamo tuttavia nell’apocalittica greco-giudaica. Nel Nuovo Testamento in genere si può dire che non ha il senso di “secondo arrivo” o “ritorno”, ma semplicemente “arrivo” riferendosi al giorno glorioso di Cristo alla fine dei tempi. L’arrivo glorioso di Cristo alla fine dei tempi è annunciato oltre che con il termine parusia (1Ts 2,19), anche con i termini epiphàneia (manifestazione: 1Tim 6,14), apocàlypsis (rivelazione: 2Ts 1,7) e con le espressioni: “venuta del Figlio dell’uomo” (Mt 25,31), “giorno del Signore” (1Cor 1,8), ecc.73. La sua attesa della costituisce, senza dubbio, uno dei temi fondamentali della predicazione di Gesù Cristo e degli apostoli. Tuttavia non tutti gli scritti neotestamentari lo vedono sotto lo stesso punto di vista. Così, mentre nelle Lettere ai Tessalonicesi si vede una tensione molto forte verso la Parusia, questa va diminuendo nelle Epistole posteriori, e ancora di più nel Vangelo di Giovanni, dove pur perdurando l’attesa del ritorno di Cristo, si scorge una coscienza più viva del fatto che i beni escatologici sono presenti fin d’ora. Così Gv 5,14: «In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non è sottomesso a condanna, ma è passato dalla morte alla vita» (cfr. 6,54; 10,27s; 17,3). La prospettiva in cui il Nuovo Testamento mostra la Parusia è prevalentemente gioiosa, i cristiani sono definiti come «coloro che amano la venuta del Signore» (2Tim 4,8), si desidera questa venuta (Ap 22,17-20) e tutta l’Apocalisse, che ha per oggetto principale proprio l’attesa della Parusia, ha un carattere consolatorio. L’altro aspetto, più severo e conturbante, del “giorno del Signore”, è stato messo in particolare risalto dall’Occidente. La Parusia ha anche un senso morale: l’appello alla vigilanza (cfr. Mt 24,42; 25,30 e par. con le “parabole della vigilanza”; 1Ts 3,13; 5,23; Gc 5,8).
In quanto alle descrizioni scritturistiche della Parusia, dobbiamo riconoscere in esse molto simbolismo: ciò è dovuto sia al linguaggio spesso apocalittico, sia allo scopo dell’annuncio che è quello di ammonire e consolare, non quello di istruire sul futuro. Quindi non bisogna interpretarle letteralmente. Così: la «venuta sulle nubi» del cielo e il corteo angelico (Mt 24,30; 2Ts 1,7), la «raccolta degli eletti dai quattro venti» (Mt 24,31), il «suono della tromba» (1Tess 4,16), «l’oscuramento del sole e della luna» (Mt 24,29), la caduta delle stelle (Mt 24,29; Lc 21,27), ecc. Tutte queste immagini sono simboli per esprimere la Signoria definitiva di Cristo alla fine dei tempi. La tradizione si esprime in genere con termini biblici74 e lo stesso si può dire della Liturgia,75 in cui si contempla il Signore come Giudice e si anela il suo ritorno. Ogni giorno nell’Eucaristia pronunciamo: «Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo a questo calice, annunciamo la Tua morte, Signore, nell’attesa della Tua venuta». Il Magistero della Chiesa esprime la stessa idea.76
74 Didaché, 16. 75 Per la visione escatologica nella Liturgia, cfr. N. CONTE, Benedetto colui che viene. L’eucaristia e l’escatologia, Bologna 1987; AA.VV., Escatologia e Liturgia, Roma 1998. 76 Così gli antichi simboli di fede: DS 30. 76. 150; il Concilio Lateranense IV: DS 801; quello di Lione II: DS, 852, e più o meno il Vaticano II: LG, 49. 51.
3.1. Le circostanze della Parusia
Sebbene la Parusia sia un fatto chiaro, non altrettanto sono le circostanze che accompagneranno questo evento definitivo. Così:
a) La “data” della Parusia: Abbiamo un’incertezza assoluta sulla “data” della Parusia. Il Signore stesso volle manifestamente che noi ignorassimo quando sarebbe avvenuta la Parusia: «quanto poi a quel giorno e a quell’ora, nessuno ne sa nulla, neppure gli Angeli del cielo, né il Figlio: lo sa soltanto il Padre» (Mt 24,36 e par.; At 1,7).
b) Il senso del “ritardo”: perché la Parusia tarda? Innanzitutto affinché il mondo giunga a tutto lo sviluppo che Dio vuole per lui, e anche affinché impariamo ad avere bisogno di Cristo, a dire con la Chiesa e con lo Spirito: «Vieni!» (Ap 22,17). Lo dice chiaramente 1Pt 3,14s: «Perciò, carissimi, nell’attesa di simili eventi, sforzatevi tutti d’esser da Lui trovati in pace, senza macchia, irreprensibili, e considerate occasione di salvezza la pazienza del Signore nostro. In tal senso, del resto, vi scrisse il carissimo fratello nostro, Paolo, secondo la sapienza che gli fu donata».
c) I “segni” della Parusia. La Scrittura ci dà una serie di “segni” che annuncerebbero la Parusia: grande apostasia (2Ts 2,1-12; 1Tim 4,1ss; 2Tm 3,1-9), manifestazione dell’Anticristo (2Ts 2,1-12; 1Gv 2,18; 4,3), cataclismi cosmici (Mt 24,29s e par.), entrata dell’insieme dei pagani nella Chiesa come preludio alla conversione di tutto Israele (Rm 11,25-32). Come si devono interpretare questi “segni”? È difficile stabilire quando tali segni debbano ritenersi avverati, giacché anche gli autori li interpretano in diverso modo. Ma come questi si devono produrre negli ultimi tempi, che sono già iniziati con l’incarnazione, si possono vedere come già parzialmente o effettuati in Cristo o manifestatisi a noi continuamente lungo la storia. In ogni caso non si deve mai dimenticare che la loro funzione non è quella di “segnalare” la prossimità cronologica della Parusia, che deve serbare il suo carattere di sorpresa, bensì quella di rammentare la certezza di tale evento, e quindi il nostro dovere di vigilanza, di pazienza, di speranza in Cristo che verrà.
3.1.1. Interpretazione teologica della Parusia
Come si deve interpretare la Parusia? Che relazione ha con la Risurrezione? Come bisogna vedere il tempo in relazione con Cristo e con la Chiesa? Infine, come vedere la Parusia come componente definitiva di questa nuova visione escatologica che intentiamo presentare? A queste e altre domande possibili non è facile rispondere.
a) Il carattere definitivo della persona e della storia di Gesù. La Parusia nel senso teologico è innanzitutto la presenza salvifica di Cristo nello stadio definitivo della storia sacra e universale. Cioè, in Cristo risorto, nella sua umanità glorificata, la storia dell’umanità e del mondo è arrivata al suo adempimento definitivo. Cristo, nella sua risurrezione, ha vinto già il peccato, il mondo, le potenze a Lui nemiche.
b) Definitività nascosta agli uomini. Se consideriamo la Risurrezione e la Parusia dalla parte degli uomini la prospettiva cambia. È vero che Gesù ormai ha ogni cosa sotto i suoi piedi (Eb 2,8), ma dalla parte dell’umanità tutto ciò è qualcosa di futuro, e di un futuro nascosto. Infatti possiamo dire che le potenze della morte, della schiavitù, della discordia sono ormai vinte? Il corso degli avvenimenti non sembra smentire il carattere definitivo della persona di Gesù, della sua signoria e della sua salvezza? La risurrezione di Gesù non sembra essere rimasta un evento isolato, un episodio? In una parola, come dobbiamo considerare la Parusia?
Tuttavia Cristo è il sovrano della storia e sta presente in mezzo a noi. È già presente sulla terra a vari titoli (Mt 18,20): nella riunione di due o tre persone nel suo nome; «sapete che io sto con voi tutti i giorni fino alla fine dei tempi» (Mt 28,20), è presente anche col suo corpo, nell’Eucarestia. Inoltre Gesù, hic et nunc, esercita continuamente la sua Signoria e il cristiano deve attualizzare continuamente la risurrezione e il giudizio di Dio. Continuamente Cristo ci rivolge l’appello alla conversione, al comandamento di amare Dio e il prossimo con tutte le nostre forze, e al cuore indiviso (cfr. Lc 9,26). A questo continuo appello va unito anche il giudizio. Perché il giudizio non è altro che la separazione tra quelli che accettano o non accettano la Signoria di Gesù. Evidentemente l’opzione definitiva ha luogo soltanto alla fine della vita, nella morte, ma viene preparata durante la nostra vita.
c) La Parusia come manifestazione definitiva della Signoria di Cristo. Anche se durante il corso della storia si manifesta la Signoria di Cristo, la Parusia significa: 1) la consumazione di questo processo, la cui durata intramondana nessuno conosce, perché un’azione incalcolabile della libertà di Dio (Mc 13,32); 2) la rivelazione a tutti (perché tutti saranno consumati nella salvezza o nella perdizione definitiva operate da Dio) di cui la risurrezione di Cristo è il fondamento, l’inizio e il senso. Lo dice chiaramente Paolo nel discorso all’Areopago: «Dopo esser passato sopra ai tempi dell’ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi, poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha destinato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti» (At 17,30s). Perciò Cristo è presente nella storia, ma allo stesso tempo le realtà escatologiche si presentano a noi come future. E Cristo non manifesterà definitivamente la sua Signoria che nel giorno del giudizio, considerato come manifestazione e vittoria definitiva di Dio, come padrone della storia, giacché in tale manifestazione apparirà chiaro che la storia è stata opera di Dio e che essa aveva il suo centro e il suo senso in Cristo.
d) Parusia come manifestazione dell’amore di Dio. Abbiamo detto che la Parusia è intimamente legata al Giudizio ed è anche unita alla Risurrezione e consumazione definitiva. Inoltre la Parusia di Cristo per il Giudizio è soprattutto una manifestazione dell’amore di Dio, perché Lui giudica il mondo per l’azione dell’amore: Lui trascina verso di sé coloro che si vogliono lasciar trascinare, e concede questa volontà secondo una disposizione che per ora ci è sconosciuta, ma che si rivelerà nella Parusia (predestinazione). Il senso e il centro di quest’amore di Dio è Cristo.
e) Delocalizzazione e detemporalizzazione della Parusia. Da quello che abbiamo detto bisogna concludere che la Parusia deve essere delocalizzata, cioè non si può considerare con categorie di movimento locale (venuta sulle nuvole, ecc.); deve essere anche detemporalizzata, cioè non si deve considerare il giudizio come avente luogo in un tempo e luogo determinato, giacché la Parusia deve essere considerata come l’automanifestazione di Cristo agli eletti, la sua donazione e allo stesso modo l’istante nel quale gli stessi empi si sono allontanati da Dio. Inoltre questo futuro è già presente in Cristo e si va facendo presente nella nostra storia attraverso i beni spirituali e nei miracoli. Noi continuamente siamo giudicati per il nostro atteggiamento di fronte a Dio. Infine la presenza della Parusia si manifesta in ciascuno di noi nella morte individuale, perché realizza per i singoli ciò che il ritorno di Cristo realizza per l’umanità intera e per il cosmo.
Conclusione: è dogma di fede che Cristo verrà per giudicare i vivi e i morti.77 È dottrina certa che non si può calcolare il momento di questa venuta.78 Infine i segni “precursori” devono essere visti come un’affermazione del fatto, piuttosto che come un’affermazione della “data” della Parusia.
3.2. Il ruolo della Chiesa tra la Risurrezione e la Parusia
Il ruolo della Chiesa in questo periodo escatologico che va dalla risurrezione di Cristo alla Parusia è quello di essere sempre in cammino verso il futuro escatologico, verso la pienezza in Cristo. Lo dice chiaramente la Lumen Gentium:
Già dunque è arrivata a noi l’ultima fase dei tempi (cfr. 1Cor 10,11) e la rinnovazione del mondo è stata irrevocabilmente fissata e in un certo modo è realmente anticipata in questo mondo: difatti la Chiesa già sulla terra è adornata di una santità vera, anche se imperfetta. Ma fino a che non vi saranno i nuovi cieli e la terra nuova, nei quali la giustizia ha la sua dimora (cfr. 2Pt 3,13), la Chiesa pellegrinante, nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo, e vive tra le creature, le quali sono in gemito e nel travaglio del parto sino ad ora e sospirano la manifestazione dei figli di Dio (cfr. Rm 8,19-22).79
3.2.1. Il Tempo e i tempi
Prima di parlare del ruolo della Chiesa, vediamo brevemente il significato del tempo. Tanto nell’Antico come nel Nuovo Testamento si possono distinguere tre tipi di tempo: il tempo cosmico, il tempo storico e il tempo teologico, che non sono tre realtà diverse, ma tre dimensioni della stessa realtà.
1. Il tempo cosmico. È la durata, ritmata dall’alternarsi dei giorni e della notte (cfr. Gen 1,5) e delle stagioni sotto l’influsso del sole e della luna: è il tempo del calendario. In questo il popolo ebraico non apporta nessuna innovazione, ma utilizza il calendario solare o lunare. Tramite esso si costruirà il calendario “liturgico” (cfr. 1Mac 1,10; 14,1; 16,14), che parte dalla creazione del mondo fino all’epoca rabbinica. Questo tempo però è sacro, come in tutte le religioni, perché si crede che questi cicli sono governati da potenze soprannaturali. Non è quindi un tempo puramente astronomico, ma è un tempo teofanico. Questo aspetto contraddistingue le diverse feste ebraiche. Nell’interno di questo tempo cosmico si viene ad inserire un ritmo che modifica la settimana: il Sabato, che contiene tutta una teologia della creazione (cfr. Gen 1), la stessa giornata viene santificata da alcuni riti, sacrifici, offerte, preghiere in ore fisse (cfr. 2Re 16,15; Es 46,13).
2. Il tempo storico. È il tempo in cui l’uomo e i popoli costruiscono il loro destino. E qui entra la nozione di “storia”. Secondo la Bibbia la storia è essenzialmente la conquista dell’universo da parte dell’uomo come attuazione del disegno divino. Infatti per la S. Scrittura il mondo non è già perfetto nel tempo; al contrario essa presenta l’uomo nel suo continuo evolversi e perfezionarsi nel seno di questo mondo, che si perfeziona con lui. Inoltre Israele non considera mai la storia come tale, ma come storia di Dio, quindi gli interessa più il tempo teologico che quello storico.
3. Il tempo teologico. È essenzialmente la “Storia di Dio” o meglio la storia dei disegni di Dio nel mondo. Vale a dire che il tempo cosmico e il tempo storico diventano la “durata” nella quale si svolgono i disegni di Dio. La durata è qualcosa di reale: ha un “prima” e un “dopo”, un inizio ed una fine, tra i quali si produce qualcosa di nuovo. Il tempo è segnalato dagli avvenimenti che hanno Dio come autore e rivelatore.
a) La durata ha un prima: in questo Israele è originale. Infatti il tempo non è un mito (frutto della lotta tra gli dèi, da cui ha origine il cosmo), ma ha un’origine, un inizio: è Dio che l’ha creato. Il mondo e Dio non sono due potenze avversarie, giacché il mondo e anche il tempo non sarebbero niente se Dio non l’avesse creato. Esso è dunque opera della potenza di Dio, ordinata all’uomo e alla sua storia. Il Sabato è la festa e celebrazione dell’atto creatore e dell’ordine del mondo. Tuttavia c’è stata una rottura in questo disegno primitivo, così nel seno di questa durata si sono venuti a determinare due movimenti opposti:
I) Un movimento di crescita, di espansione, di conquista sul piano biologico (moltiplicazione delle specie), sul piano storico (culture, civilizzazioni), sul piano religioso (il disegno di Dio va verso il suo adempimento);
II) un movimento di distruzione, di slittamento verso il caos e la morte (fragilità dell’uomo, caducità delle civilizzazioni, orrori di antagonismo, di guerre, ecc.). È quello che noi chiamiamo “Storia della Salvezza” e “Storia dell’iniquità”.
b) La durata tende verso una fine. La Bibbia guarda sempre in avanti, verso il futuro, verso quella realizzazione definitiva: la “fine dei giorni”, il “giorno di Jahvè”. Anche questa visione di futuro ha un doppio aspetto:
I) È una minaccia per il mondo peccatore e nemico di Dio.
II) Ma soprattutto è una speranza perché inaugurerà un’era nuova. Il tempo è spesso l’oggetto di speculazioni apocalittiche. L’attitudine spirituale di fronte alla sua imminenza è più importante che la conoscenza dei giorni e dell’ora del giorno di Jahvè.
c) Le novità del presente. Il tempo per la Bibbia è il quadro del piano di Dio sul mondo. Non fatalità cieca, ma storia di una personalità e di una volontà personale. Si tratta di una vera storia, di cui Israele scopre le tappe e i tempi in un disegno di salvezza. La storia va verso il suo compimento che non è una semplice promessa, ma che è già avverata nei primi eventi della storia della salvezza: l’Esodo, l’elezione di Abramo, la storia dei Patriarchi, ecc. Tutte queste sono tappe che manifestano la presenza salvifica di Dio nel presente.
4. Il tempo di Cristo. Gesù non è una tappa nella storia della salvezza, come potrebbe essere l’esperienza nomade, l’esilio, ecc. Egli è il compimento dell’attesa di tutta la storia che l’ha preceduto. Egli non è uno dei profeti o leviti: Egli è la fine della Storia. Non una tappa intermedia tra le due durate, ma trasmutazione della storia. Questa trasmutazione non distrugge il tempo cosmico o il tempo storico, né va al di là dei disegni di Dio dell’Antico Testamento, ma al contrario egli si situa in questo tempo cosmico e storico (è nato, vissuto, morto in un tempo preciso). Tuttavia questo tempo apparentemente indifferenziato e di cui non si può precisare con esattezza la durata, costituisce una novità assoluta, in rapporto a ciò che precede e a ciò che segue.
I) In rapporto a ciò che precede. È «compimento, pienezza dei tempi» (Gal 4,4; Ef 1,9s): in Cristo Dio adempì ciò che aveva detto, ciò che aveva promesso. Per questo con Gesù siamo negli “Ultimi Tempi”. Nel Nuovo Testamento è fondamentale la categoria temporale dell’hodie, dell’oggi, del presente, cioè di un adesso che è arrivato e si manifesta in Gesù. Infatti, secondo Luca, Gesù, dopo aver letto Is 61,1s nella Sinagoga di Nazaret, disse: «Oggi si è adempiuto questa Scrittura» (Lc 4,21). E Paolo dirà: «Quando venne la pienezza del tempo Dio mandò il suo Figlio» (Gal 4,4). Cosa significa “il tempo è compiuto”? Essenzialmente che la Signoria divina, l’unità di Dio e dell’uomo, quello che finora si attendeva e si sperava è diventata una realtà nella persona, nella parola, nella vita, nell’azione di Gesù di Nazaret, che è il Cristo. E per questo Paolo, riflettendo sulla situazione di peccato in cui vivevano gli ebrei e i pagani prima di Cristo, dice: «Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono» (Rm 3,21). E ciò non è altro che quello descritto nel prologo della Lettera agli Ebrei: «Dio che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del suo Figlio» (Eb 1,1s).80
II) In rapporto a ciò che segue. È il tempo “della fine”, che è una “durata”. Per noi il tempo che fa seguito a Cristo, il tempo della Chiesa, è un dato estremo, in quanto si estende per due millenni, e possiamo credere che si estenderà ancora per altri millenni. Per primi autori cristiani la situazione era tutt’altra cosa. Essi infatti vivevano e meditavano questo paradosso: il tempo della fine non indica la fine del tempo, come essi avevano pensato all’inizio. Infatti verso l’anno 50, probabilmente, Paolo scrive ai Tessalonicesi. Tutta la Lettera è dominata dall’attesa di Cristo, della sua Parusia. Quest’attesa è l’elemento costitutivo della nuova vita cristiana (cfr. 1Ts 1,9s). Tanto imminente veniva considerata da Paolo la Parusia che verso il 57 egli stesso pensa di essere nel numero dei viventi che accoglieranno il Cristo (cfr. 1Cor 15,51). Verso la fine del 57, in seguito ad una grande prova fisica o morale, nella Seconda lettera ai Corinzi Paolo prospetta l’ipotesi della sua morte. Ciò vuol dire che l’Apostolo deve far fronte alla durata di quello che noi chiamiamo il ritardo della Parusia. E la sua teologia della vita cristiana si accomoda a quest’esperienza: il Cristo della Parusia non perde importanza, ma non ha più quell’accento di prima. Adesso comincia ad interessare un altro aspetto: il Cristo dei sacramenti, il Cristo presente nella sua Chiesa. E così, verso il 60, la Chiesa è già cosciente della durata che segue al tempo di Cristo.
3.3. La Chiesa tra il già e il non ancora
La Chiesa è insieme terrena e celeste, la sua esistenza non si esaurisce nella storia umana, ma trova compimento nel mondo futuro e in certo qual modo lo anticipa. Vista nella prospettiva della Storia della salvezza, la Chiesa rappresenta l’ultima fase, che inizia nel tempo e si compie nell’eternità. La dimensione escatologica81 non è quindi una caratteristica secondaria della Chiesa; essa fa parte della sua stessa natura. Il popolo di Dio è in cammino verso una fine: «il Regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che dev’essere ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia da lui portato a compimento».82 È il Signore e il suo Spirito che guidano la Chiesa, la vivificano, la rinnovano,83 diventando così «il germe e l’inizio del regno di Dio e di Cristo»,84 germe che non arriverà alla sua realizzazione «se non nel mondo futuro»,85 anche se la sua realizzazione è già presente in forma nascosta nella Chiesa pellegrinante. Per arrivare a questo traguardo «l’azione dello Spirito la spinge a rinnovare se stessa, finché attraverso la croce giunga alla luce che non conosce tramonto».86 Lo Spirito Santo «è la caparra della nostra eredità» (Ef 1,14), è la garanzia che riceveremo «i beni promessi».87 Nel suo pellegrinaggio per questo mondo la Chiesa, nonostante le tensioni, «ha preso sempre maggiore coscienza del suo essere popolo e famiglia di Dio, corpo di Cristo e tempio dello Spirito, sacramento dell’intima unione del genere umano, comunione, icona della Trinità».88
Quindi forma parte del mistero della Chiesa che tale fine sia già presente in forma nascosta nella Chiesa pellegrinante. È nello Spirito che tutti formiamo una sola famiglia: quelli della Chiesa pellegrinante e quelli della Chiesa celeste, giacché «tutti quelli che sono di Cristo, avendo il suo Spirito, formano una sola Chiesa e sono tra loro uniti a Lui».89 L’unione tra la Chiesa pellegrinante e quella celeste si realizza in un modo speciale nella Liturgia, nella quale «la virtù dello Spirito Santo agisce nei fedeli mediante i segni sacramentali».90 Ciò però non ci deve far dimenticare che la Chiesa è sempre una nelle varie tappe dell’economia della salvezza (prefigurazione nella creazione, preparazione nell’Antico Testamento, nella sua costituzione ad opera di Cristo, nella sua manifestazione mediante lo Spirito e infine nel compimento nella gloria),91 come è una nelle sue tre dimensioni (peregrinante, purificante e glorificante).92 Il compimento finale avverrà «quando Cristo consegnerà al Padre un Regno eterno e universale».93 «Allora... tutti i giusti... saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa universale».94 È lo Spirito che «conduce la Chiesa alla perfetta unione con il suo Sposo».95 Il cielo, che è la vita perfetta, la «comunione di vita e di amore con la Santissima Trinità..., è il fine ultimo dell’uomo e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, lo stato di felicità suprema e definitiva».96 Il carattere escatologico della Chiesa non può indurla a sottovalutare le sue responsabilità temporali;97 anzi guida la Chiesa sul cammino dell’imitazione del Cristo povero e servo. Dall’intima sua unione a Cristo e dai doni del Suo spirito la Chiesa riceve la forza per dedicarsi al servizio del genere umano e di tutto l’uomo e riconosce che nel suo seno ci sono dei peccatori e che essa ha continuo bisogno di penitenza.98 Tuttavia la Chiesa non dimentica mai che la sua missione è di portare tutti gli uomini alla comunione trinitaria. Infatti, «la Chiesa prega e insieme lavora perché la pienezza del mondo intero sia trasformata in popolo di Dio, in corpo del Signore e in tempio dello Spirito Santo e perché in Cristo capo, siano resi onore e gloria al Creatore e Padre di tutti».99 La missione della Chiesa è quella «di rendere presenti e quasi visibili Dio Padre e il Figlio suo incarnato, rinnovando se stessa e purificandosi senza posa sotto la guida dello Spirito Santo».100
3.3.1. In cammino verso la meta
Tutto ciò significa dunque che la Chiesa deve prendere continuamente una posizione critica verso se stessa. Gesù stesso, anche se fa partecipare i suoi discepoli al tempo ultimo ormai iniziato (con lui essi sono ormai liberi dal precetto del sabato e dall’obbligo del digiuno: Mt 9,14s), tuttavia dice che essi devono vigilare, perché alla fine ci sarà una selezione (cfr. Mt 13,47-50: parabola della rete gettata in mare). E lo stesso troviamo in Paolo: da una parte sottolinea la giustificazione che in virtù di Cristo è fin d’ora realizzata nei fedeli e garantisce una certezza incrollabile dal fatto della salvezza; dall’altra troviamo le parole di giudizio riferite alla Chiesa, la prospettiva di un giudizio secondo le opere che si svolgerà davanti al tribunale di Cristo (cfr. Rm 14,9-12; 1Cor 3,9-17). Quindi la Chiesa si trova sotto la legge del non ancora. Infatti la Chiesa, nonostante la presenza reale ed escatologica della salvezza, la propria santificazione e giustificazione, sperimenta la potenza del peccato e della morte. Come l’individuo pure la Chiesa deve vivere una salvezza ancora avvolta nel mistero. La causa di questo oscuramento possono essere le tentazioni che derivano dalle esperienze paradossali della morte, della fragilità umana; ma in parte sono colpa sua: tanto i singoli fedeli come l’intera comunità, con la loro vita e atteggiamento, oscurano le promesse escatologiche. È vero che la realizzazione della salvezza si è estesa anche alla Chiesa, la quale ha ricevuto lo Spirito e nel battesimo e nell’Eucarestia celebra la propria partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo; tuttavia tutto ciò viene offuscato quando si verificano persecuzioni esteriori, l’abbandono della fede, lo scoraggiamento, la dispersione nell’ambito della comunità e dell’unità, ecc. È vero infatti che la Chiesa è la comunità escatologica, ma nessuno potrà essere assolutamente certo della propria appartenenza a questa comunità escatologica, che raccoglie coloro che sono stati salvati e richiamati alla vita. Le ricadute nel peccato sono sempre possibili. Lo dice chiaramente Paolo: «Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere. Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana. Infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla» (1Cor 10,11-13). Quindi, tanto l’individuo come la comunità ecclesiale devono essere coscienti del fatto che non sono ancora arrivati alla meta.
– Significato della storia della Passione.
– Rapporto fra Croce e Trinità.
– Rapporto fra Croce e salvezza dell’uomo.
– Rapporto fra morte di Cristo e morte dell’uomo.
Questa storia è il dato normativo più ampio nel Vangelo, definito anche come «storia della passione con ampia introduzione»,1 a cui si sono aggiunti i detti di Gesù e altri dati della tradizione. La domanda sul senso di questa storia è importante poiché non è puramente biografica, né tantomeno psicologica, ma squisitamente teologica. Qual è il criterio di lettura di questa storia? La risposta ci viene dalla predicazione apostolica: è una storia narrata “secondo le Scritture”, Matteo, ad esempio, richiama ripetutamente i Salmi. La Chiesa, che ha compreso e confessato il Mistero avvenuto in essa, ha raccontato la Passione in un clima di preghiera. Perché è importante il criterio della Scrittura? Perché la Croce è una realtà inaudita per i giudei e i pagani; la Chiesa ha recepito e superato lo scandalo della Croce vedendo l’intimo legame tra Scrittura e Passione di Gesù. La Scrittura è il luogo in cui si rivela la volontà di Dio, perciò era importante vedere che Gesù era morto “secondo le Scritture”, cioè secondo i disegni di Dio. In At 2,23 Pietro proclama che Gesù è morto secondo la “prescienza di Dio”; la Croce quindi non si risolve con la malvagità esclusiva degli uomini. La lettura della Passione alla luce delle Scritture non è fatta a senso unico: non si parte dalle aspettative messianiche per arrivare alla Croce. La Chiesa ha fatto un cammino inverso: è il Mistero della risurrezione che illumina la croce e le Scritture. Attraverso la luce della Pasqua e della Pentecoste la comunità delle origini ha visto la consonanza tra quanto era accaduto sulla Croce e quanto stilato nella Scrittura. Il criterio risiede nella Scrittura, ma alla luce dell’Evento pasquale.2
1. DIVERSI RAPPORTI
Quale significato ha dato Gesù a questa morte? Sono eliminate le ipotesi che la morte non fosse già presente nella vita di Gesù o fosse subita passivamente sulla stregua di un evento tragico. Il discorso storico affronta concretamente il modo di morire di Gesù; un altro ambito di carattere teologico, commenta la Passione e la Croce non come un dramma isolato vissuto da Gesù nella sua umanità, poiché Egli nella morte realizza pienamente la sua figliolanza, come troviamo scritto: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39). Pertanto, la Croce è un evento supremo di dialogo tra Gesù e il Padre, in essa si compie da un lato, la duplice consegna di Gesù da parte del Padre (Rm 8,32) e quella di Gesù al Padre; dall’altro Gesù rimette anche lo Spirito: «Reclinato il capo, donò lo Spirito». La Croce è un dramma trinitario e non solo cristologico, che ci permette di affermare come la storia della Croce sia la storia della Trinità. È un dramma che parte dal Padre affrontato liberamente da Gesù. Come si esprime la libertà di Gesù in questa vicenda? Vivendola come il volere del Padre. Tutta la sua vita è su questa linea: “Faccio sempre la volontà del Padre mio”. La volontà di Gesù è una volontà dialogica: il Figlio vive liberamente la volontà del Padre, è una libertà filiale che lascia trasparire la vera libertà dell’uomo. La morte di Gesù è legata alla remissione dei peccati. L’antico kerygma testimonia che «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture» (1Cor 15,3), dunque c’è un legame tra la morte di Gesù e la remissione dei peccati. Nella tradizione questo legame è stato diversamente espresso: espiazione, sacrificio, soddisfazione, riconciliazione. Qual è la motivazione principale perché la Chiesa annunci incessantemente che la croce di Cristo è salvezza per l’intera umanità? La morte di Gesù in croce è salvezza, poiché rivela l’amore universale di Dio, della Trinità; il senso del per-noi del kerygma è l’amore.3
Attraverso la potenza dell’amore di Dio la Croce riconcilia l’uomo con Dio nella forza dell’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Alla luce di quest’amore salvatore la Croce è anche espiazione, sacrificio, soddisfazione, cioè tutti gli altri linguaggi sono da ricomprendere nell’amore di Dio, diversamente precipitiamo in un giuridicismo della redenzione, quasi che si necessiti pagare un prezzo al Dio irato. La Croce è prima di tutto un evento di grazia, l’opera salvifica di Dio in noi, è iniziativa del Padre, nel Figlio, nella potenza dello Spirito. L’aspetto soteriologico va ricompreso nel contesto della teologia trinitaria della Croce. Sussiste un rapporto tra morte e vita: essa dà significato alla morte, differentemente la morte da sola non ha senso, è negatività e privazione. Non si può amare la morte come tale, ma neppure negarla come un momento della vita. È anche vero che la morte rivela le intenzioni fondamentali della vita: di fronte alla morte si rivela il significato che abbiamo dato al nostro vivere. Da una parte, la vita di Gesù è il luogo dove si comprende la sua morte, dall’altra la morte di Gesù è il luogo dove si comprende la sua vita. Questo è un dato ragguardevole per l’uomo e per l’antropologia cristiana.
1.1. La previsione della morte
Il mondo occidentale registra una profonda mutazione di sensibilità riguardo la morte. Se un tempo, la morte era accompagnata dal rispetto umano, da una concezione solidale e cristiana, oggi essa è banalizzata, percepita come un fatto meramente biologico, un decesso senz’altro spessore umano, dove si favorisce un morire sempre meno umano. Dinanzi a questo fenomeno della decadenza del senso umano e cristiano della morte, l’uomo perde il senso della sua umanità. Questa banalizzazione porta ad una visione desacralizzata della morte: si perde il senso umano e sacro della morte come momento importante della vita religiosa dell’uomo. Si corre il pericolo, specie nel mondo avanzato, che essa sia cancellata dal tessuto sociale, perché considerata solo come un fatto anagrafico, che non fa più notizia. Questo pone gravi interrogativi a livello umano e cristiano: se l’uomo non prende coscienza dell’importanza della morte non è nemmeno in grado di comprendere la vita. Questa è un’introduzione che ci mostra come Gesù si è comportato di fronte alla morte. In generale possiamo dire che i Vangeli ci presentano la realtà della morte nell’esistenza di Gesù come una realtà che attraversa la sua esistenza. Tutta la sua vita è legata al pensiero della morte, della sua particolare morte, che è una morte cruenta, violenta, di croce. Gli evangelisti lo mostrano, Lc 2, 34-35 già nell’infanzia: «segno di contraddizione... anche a te una spada trafiggerà l’anima». I dati del Vangelo ci informano che non solo Gesù ha presente il suo destino finale, ma ha ben chiaro che esso rappresenti il momento culmine, pertanto si muove liberamente, non passivamente, verso la morte in croce. Sulla previsione della morte il Vangelo ci presenta due prospettive: la prima considera la morte come martirio, il momento supremo della sua missione profetica,4 ponendo l’accento sul fatto che la sua morte è provocata dalla scelleratezza umana: «morto per i nostri peccati». La seconda visione evidenzia il mistero teologico di questa morte in cui è nascosto il disegno del Padre.
1.2. La morte di Gesù come martirio
Distinguiamo nei dati evangelici tre argomentazioni:
1) Alcuni dati precedenti, che non si riferiscono a cenni espliciti, ma primariamente alla previsione della morte violenta, legata alla stessa missione di Gesù,5 che già di per sé lo poneva in una posizione di conflittualità con i suoi detrattori. L’atteggiamento di Gesù verso la tradizione halachika, orale, lo esponeva all’ostilità di chi non accettava giudizi di revisione, come nella cacciata dei venditori dal Tempio. Non va esclusa la sua auto-identificazione divina: «Prima che Abramo fosse, Io sono». Tutta la sua predicazione era sotto il segno della contraddizione e una missione di questo tipo era estremamente difficoltosa. Nei dati del Vangelo si legge che Gesù lega la sua missione profetica a quella del Battista. Quando il Battista è ucciso, Gesù inizia il suo itinerario verso Gerusalemme, per il suo martirio. Tutta la storia dei profeti è legata al martirio: «Non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme» (Lc 13,33-34) e qui parla di sé nel quadro della storia dei profeti. Gesù non poteva non prevedere il destino di sofferenza e di uccisione cui era legato: il martirio era il suggello, quasi il carisma della vita del profeta. Questa previsione è legata ad una semplice lettura degli avvenimenti che accadevano.
2) Ci sono alcuni detti velati del Vangelo che esprimono questa apprensione: in Mc 2,17-21 proprio all’inizio della vita pubblica Gesù fa capire velatamente che lo sposo sarà tolto. C’è un’allusione implicita ma sufficientemente chiara a una morte violenta, come del resto in Mt 21,33-45.
3) I testi maggiori sono legati agli annunci della passione.6 Partiamo da quello fondamentale: in Mc 8,31 Gesù insegna che «il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere riprovato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere»; è quasi un’elencazione minuziosa degli episodi della passione. Il secondo testo Mc 9,31 è più conciso, qualcuno traduce «viene consegnato», sottolineando la maggiore attualità del «viene». In questa sede affermiamo come non si possa rimuovere il fondamento storico di questo annuncio profetico. L’annuncio della passione è pre-pasquale. Questo non esclude la possibilità che la Chiesa l’abbia arricchito e descritto nei fatti, tuttavia senza inventare l’annuncio stesso.7
1.3. Il mistero teologico della morte di Gesù
Precisiamo quanto sia importante questo annuncio della passione, per penetrare il senso teologico della previsione. Anzitutto Gesù concepisce la sua morte come martirio, ma cerchiamo di scoprirne ulteriori particolari:
1) Libertà. Gesù va incontro liberamente alla propria morte, non è stato costretto dalle vicende umane. Questa libertà sta nel fatto di essersi donato e offerto come Figlio indifeso e il dato emerge nel terzo annuncio della passione: «Mentre erano in viaggio per andare a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano stupiti; coloro che venivano dietro erano pieni di timore» (Mc 10,32). Gesù va volontariamente, decisamente alla morte: andare a Gerusalemme significa esporsi alla morte. Il primo elemento è quello della libertà, da interpretare trinitariamente e non in senso autonomo; è la libertà di un Figlio che fa suo il volere del Padre. Non è una libertà autonomistica, che non è biblica, ma una libertà rispondente all’appello di Dio, che non è soggetta alle vicende umane; Gesù non è stato costretto dagli uomini a morire, ma si è consegnato liberamente.
2) Malvagità umana. C’è anche la malvagità umana, legata per di più alla tradizione della storia dei profeti. La morte di Gesù non è pura auto-immolazione, ma è anche determinata dal rifiuto umano verso il suo amore. È l’aspetto amartiologico della Croce – «è morto per i nostri peccati» – rilevato dall’annuncio primitivo.
3) Disegno di Dio. Gesù vede la sua morte come inscritta nei disegni di Dio, che racchiude l’aspetto più teologico. Nella prima profezia della passione Gesù dichiara «è necessario che...», in greco dei, in latino oportet.8 Di quale necessità si parla. Non certo di un’inevitabile fatalità perché confuterebbe la libertà prima riconosciuta. Non è una necessità storica. Questa necessità trova riscontro nella seconda parola profetica: «sta per essere consegnato», paradídotai. Consegna può anche essere quella di Giuda, ma qui ha un senso passivo: «Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato». La maggior parte degli studiosi rileva un “passivo divino” poiché essa è opera del Padre, avvalorata dal suo amore. Dobbiamo mettere in risalto come tale consegna del Figlio avvenga non perché gli uomini lo uccidano, ma dapprima lo rifiutano per poi eliminarlo. La parabola dei vignaioli omicidi è parallelo di questo brano. Il Padre ha consegnato il Figlio per essere accolto e salvarsi, gli uomini lo uccidono. Rm 8,32 illumina il senso di questa consegna: anche qui è utilizzato paradídomai. Non è il Padre che ha ucciso il Figlio, poiché significherebbe la nostra deresponsabilizzazione verso l’infinita misericordia di Dio. Gesù, infatti, vede la sua morte inscritta nel disegno del Padre.
4) Le tre profezie proclamano “dopo tre giorni”. Questa formula non va interpretata solo in senso cronologico, ma determina un tempo breve per indicare che il Figlio dell’uomo, che sta per essere ucciso, non cadrà in dominio della morte, ma trionferà su di essa. Alcuni studiosi, come Smith, lo avallano: la persona che muore rimane fino a tre giorni in uno stato di unità; dopo tre giorni lo spirito lascia la persona che inizia a decomporsi, come l’esempio di Lazzaro che effondeva un “cattivo odore”. Gesù muore veramente, ma non rimane prigioniero della morte. Egli ha visto la sua morte come un passaggio alla vita piena e come trionfo sulla morte. La successiva parola sarà la risurrezione. Questo legame è importante, perché ci fornisce fin da ora un quadro d’insieme.
1.4. La cena d’addio con i suoi discepoli
1) La prima riflessione la desumiamo dall’apporto della filosofia esistenziale, perché l’esistenzialismo ha rappresentato nell’orizzonte contemporaneo la ricerca filosofica che più ha riflettuto sulla morte. Pensare la realtà della morte non è percepirla come un punto posto al termine di una linea, ma come il limite che percorre l’intera esistenza. Ogni momento della vita viene pensato come l’ultimo. Il limite della morte è equidistante da tutti i momenti. Ogni momento ha la reale possibilità di essere l’ultimo. Questa idea della morte, come limite che segue ogni attimo del nostro vivere, porta ad escatologizzare l’esistenza dell’uomo. Per un certo esistenzialismo, non aperto alla fede, questo limite è un estremo negativo, che chiude la vita dall’esterno annullando l’esistenza.9
2) Nei dati del Vangelo Gesù giudica la sua morte un’ora che compie tutta la sua vita. Gesù nel Quarto Vangelo parla spesso della «sua ora» e sappiamo che corrisponde all’ora della sua glorificazione. Gesù vede nella sua morte il compimento positivo di tutta la sua vita intesa come un progetto di esistenza filiale e quindi la vita come progetto nel dono di sé sia al Padre, sia agli uomini. Si parla di pro-esistenza, esistenza-per: «Questo è il sangue sparso per»; la pro-esistenza di Gesù è vissuta nella dimensione filiale.
3) Gesù nelle tradizioni evangeliche ha consumato un pasto di addio con i suoi discepoli, in cui ha celebrato questo progetto di vita nel compimento della morte: la sua Cena per eccellenza. Questa Cena riassume tutta la storia della convivialità di Gesù con i suoi discepoli – ma anche con i peccatori, con tutti –, con la comunità di mensa, nel segno del culto, perché tali celebrazioni avevano un autentico valore cultuale. Qui la vita è riassunta nell’ora della morte. Questo pasto è una sintesi cultuale, che Gesù ha celebrato a perenne memoria della sua comunità, perché condividesse la sua stessa vita. La Cena è il luogo in cui la pro-esistenza di Gesù si fonde con quella dei discepoli che vi prendono parte, dunque è un luogo di sintesi imprescindibile.
4) La sottolineatura del carattere pasquale della Cena di Gesù è importante per diversi motivi. Anzitutto ciò implica che i gesti e le parole di Gesù sul pane e sul vino sono collocati in un contesto cultuale. Nella cena pasquale ebraica era compito del padre di famiglia spiegare il simbolismo del pane azzimo, dell’agnello immolato, delle erbe amare e degli altri riti come memoria della liberazione di Israele dalla schiavitù d’Egitto al tempo dell’esodo; quanti consumavano la cena pasquale avevano parte a quell’evento di salvezza e redenzione. In questo contesto Gesù all’inizio della Cena spiega il simbolismo del pane che lui spezza e distribuisce ai presenti in modo assolutamente originale e dal chiaro significato. Le stesse parole sul calice del vino, alla fine della cena pasquale, sono ancora più esplicite di quelle pronunciate sul pane. La sua è dunque una morte che dona salvezza alla moltitudine degli uomini come il Servo del Signore muore per l’insieme del popolo, di cui parla il libro di Isaia e a cui rinviano le parole di Gesù. Occorre esplicitare ancora di più il parallelismo di significato tra la cena pasquale ebraica e i gesti e le parole di Gesù. Come la cena pasquale era memoria viva dell’evento salvifico di liberazione del popolo, così la Cena di Gesù è vivificante preannunzio della sua morte sulla croce per la salvezza. Nella Cena Gesù anticipa ritualmente nei segni del pane spezzato e del vino condiviso la sua morte e ne svela il senso profondo. L’evento di liberazione dalla schiavitù, di cui la cena pasquale ebraica era memoriale, riguardava solo il popolo di Israele; la morte di Gesù, anticipata nei segni dell’ultima Cena, accettata per la moltitudine segna la redenzione dal peccato per tutta l’umanità. Ancora una connotazione presente in ambedue gli eventi. La cena pasquale ebraica era celebrata in un’atmosfera di attesa escatologica, cioè del compimento definitivo della salvezza da parte di Dio. La Cena di Gesù contiene esplicitamente questo elemento. Secondo la testimonianza di Marco, Gesù dichiara: «In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio» (Mc 14,25). Nel momento così drammatico Gesù annuncia la promessa di una nuova comunione di mensa nel regno di Dio. Nella tradizione paolina il tema è implicitamente presente nelle parole di Paolo il quale dice: «Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga» (1Cor 11,26). In questa prospettiva la Cena di Gesù è annuncio del banchetto messianico, immagine del regno definitivo di Dio.
5) I dati di studio sull’origine delle tradizioni della Cena ci mostrano come il pasto eucaristico, continuato dopo la Pasqua, dalla Chiesa apostolica, è stato il luogo fondamentale nel quale ha preso corpo la narrazione della passione e risurrezione di Cristo; la storia della passione è raccontata nel contesto di una comunità credente, il cui luogo fondamentale, per eccellenza, è stata l’assemblea eucaristica. In questo contesto veniva ricordata la memoria della passione e la presenza di Gesù. La Chiesa ha riletto i fatti storici in sede eucaristica riconoscendo sempre più Cristo risorto.10
1.4.1. Le tradizioni del racconto evangelico della Cena
Per capire bene il racconto che gli evangelisti ci tramandano sull’ultima Cena, bisogna aver presenti almeno due tradizioni letterarie che trasmettono i relativi contenuti. Enunciamo i problemi: il primo è sulla data di questo pasto, il giovedì santo per alcuni; il secondo è sulla natura di questo pasto: la tendenza converge nell’affermare che è stata una cena eucaristica, non inventata da Gesù, che le ha solo dato un significato nuovo. Le tradizioni di cui disponiamo sono due: cultuale e testamentaria; entrambe si collegano a tradizioni ebraiche, ma soprattutto alla prassi della vita della Chiesa apostolica.
1) La tradizione cultuale. Essa riguarda il banchetto giudaico dello zebah todah, o sacrificio eucaristico, banchetto di ringraziamento. Questa idea del sacrificio eucaristico è un’idea molto spiritualizzata, unita all’idea di sacrificio,11 legata a questo pasto è soprattutto ringraziamento di lode: ringraziare e lodare Dio è fare sacrificio. La tradizione cultuale sottolineava due gesti: in apertura la frazione del pane e in chiusura il calice di ringraziamento.12 La novità di Gesù è che questi due gesti sono accompagnati da parole nuove, che danno loro un altro significato: la frazione del pane, l’invito a bere il calice e le parole che l’accompagnano. Questa tradizione stabilisce un ponte tra la prassi eucaristica della Chiesa con quanto istituito da Gesù. Il racconto più antico sulla tradizione cultuale dell’Eucaristia (1Cor 11,23-26) esprime la coscienza della Chiesa apostolica di continuare il memoriale dell’Eucaristia, quindi la fedeltà al Suo comando.
2) La tradizione testamentaria. Questa tradizione è legata a un altro uso nella cena da parte dei giudei: il pasto di addio. Attraverso uno studio delle abitudini ebraiche si è scoperto che, quando un capofamiglia doveva intraprendere un viaggio, celebrava un pasto in cui consegnava ai familiari il suo testamento, le sue raccomandazioni, esprimendo il legame che continuava a sussistere tra lui e i suoi. Anche questa consuetudine trova riscontro nella Cena. Gesù appare come il capofamiglia che, nell’imminenza della morte, consegna ai suoi discepoli il suo testamento d’amore.13 Il Quarto Vangelo non narra l’ultima Cena, ma dà molto spazio alla prassi e alla diaconia di carità prima della Cena. È noto che il giorno liturgico dei giudei approssimativamente iniziava alle ore 18 della vigilia e terminava alle ore 18 del giorno seguente. Perciò la Cena e la Morte sono comprese in un unico giorno liturgico (venerdì). Gli autori si dividono sulla cronologia: R. Brown (insieme con J. Ratzinger, che segue J.P. Meier) preferisce Giovanni, in quanto i Sinottici supposero erroneamente che la morte di Gesù fosse avvenuta il giorno della festa di Pasqua. Buona parte degli interpreti ritiene che Giovanni abbia posticipato “teologicamente” la Pasqua per far coincidere la Morte coll’immolazione degli agnelli nel Tempio.
Secondo i Sinottici, Gesù la sera di Giovedì celebrò nella Cena la sua Pasqua “nuova”, anticipatrice della sua Morte come Sacrificio, perché sapeva che nel pomeriggio di Venerdì avrebbe celebrato la sua Pasqua-passaggio sulla Croce e sarebbe stato già seppellito prima che i giudei celebrassero la Cena pasquale. La descrizione della Cena in Paolo e nei Sinottici può essere modellata tenendo conto della celebrazione eucaristica nelle prime comunità. La Cena di Giovanni (cc. 13-17) – che può essere interpretata come donazione anticipatrice della Morte come Amore (tema base per Giovanni) – comprende due atteggiamenti: il servizio dei fratelli (lavanda dei piedi e discorsi) come gesto di addio; il “passaggio” al Padre come Preghiera. In ambedue le visioni evangeliche al centro sta sempre l’Agnello. Per i Sinottici Gesù è rappresentato dall’Agnello mangiato insieme ai fratelli, in continuità con Es 12; per Giovanni dall’Agnello immolato (vedi Ap 5,12) a Dio, tenuto conto dell’attenzione del quarto evangelista alla funzione sacerdotale. È vero che egli nel cap. 6 parla dell’Eucaristia mettendola in relazione non con la Pasqua, ma con la manna; ma nella sua caratteristica consuetudine col simbolismo, fa condannare a morte Gesù a mezzogiorno della vigilia di Pasqua (18,14). Gli accenni all’issopo in 19,29 e alle ossa non spezzate in 19,36 possono essere altre allusioni alla Pasqua.
Quale rapporto intercorre fra la Cena pasquale di Gesù e il cuore del Mistero pasquale (morte e risurrezione)?
– La Cena è il Sacrificio sacramentale (1Cor 5,7) anticipativo, profetico.
– Morte e risurrezione (corrispondente a effusione del Sangue e ingresso nel Cielo (Eb c. 9) è il Sacrificio reale effettivo, sacerdotale.14
Per rendere maggiormente efficace quanto detto presentiamo schematicamente, nella pagina seguente, una visione d’insieme degli eventi.
A livello cronologico |
SINOTTICI |
GIOVANNI |
GIOVEDI' giorno |
14 Nisan Primo giorno degli Azzimi VIGILIA DELLA PASQUA |
|
GIOVEDI' sera Inizio del giorno liturgico del VENERDI' Durante la notte |
Immolazione degli
agnelli (Dt 16,1-5 nel Tempio), seguendo l'usanza farisaica Cena pasquale dei giudei nelle case con l'agnello (Es 12,8) CENA PASQUALE CON GESU' Arresto Condanna del sinedrio |
CENA DI ADDIO DI GESU' Arresto Condanna del sinedrio |
VENERDI' giorno Mattino Pomeriggio Prima del riposo sabbatico |
15 Nisan PASQUA Condanna di Pilato Crocifissione Morte Sepoltura |
14 Nisan VIGILIA DI PASQUA Condanna di Pilato Crocifissione Morte Immolazione degli agnelli nel Tempio Sepoltura |
VENERDI' sera Inizio del giorno liturgico del SABATO |
VIGILIA DEL SABATO |
Cena pasquale dei
giudei nelle case con l'Agnello |
SABATO |
15 Nisan PASQUA (solenne sabato) |
Le due tradizioni si combinano per manifestare i due aspetti del pasto di Gesù. Si armonizzano perché se la tradizione cultuale pone l’accento più sull’aspetto liturgico, la tradizione testamentaria rimarca quello esistenziale, cioè il progetto di vita di Gesù inteso come diaconia; in Gesù culto ed esistenza generano una splendida sintesi. Possiamo sostenere che la Cena celebrata da Gesù, continuata nella prassi ecclesiale, cultualizza la vita di Gesù, la celebra come un dono che viene partecipato ai suoi discepoli, perché essi la traducano esistenzialmente. Il secondo accento sottolinea maggiormente l’aspetto pratico dell’esistenza, il primo quello celebrativo. I testi principali di queste due tradizioni della Cena sono così raggruppati:
| 1Cor 11,23-26 | Antiochena
| Lc 22,19-20 |
Tradizione cultuale
| Mc 14,22-24 | Marciana
| Mt 26,26-28 |
| Gv 13,1-20 (par. nei vv. ssg. )
| Lc 22,15-18
Tradizione testamentaria
| Mc 14,25
| Mt 26,29
1.4.2. Differenze fra tradizione antiochena e marciana
La tradizione antiochena quando riferisce le parole sul pane, secondo Luca e 1Cor, esprime: «Questo è il mio corpo che è dato per voi», mette cioè l’accento sul dono. La marciana più concisamente: «Questo è il mio corpo»; il “per noi” qui è implicito.
Allo stesso modo nelle parole pronunciate sul calice nell’antiochena risalta: «Questo calice è la nuova alleanza del mio sangue, che viene versato per voi», non dice “per molti”. La marciana: «Questo è il sangue dell’alleanza (non dice “nuova”), versato per molti (non dice “per voi”)». “Per molti” è diverso da “per voi”, perché la prima forma richiama Is 52-53: la morte del Servo “per tutti”. Marco ha un tono soteriologico-espiatorio, mentre Matteo inserisce: «in remissione dei peccati», in senso sacrificale-soteriologico.
La tradizione testamentaria parla del pasto di addio in senso escatologico. Le due tradizioni si incontrano nei Sinottici. Esaminiamo il significato della morte evidenziato da queste due tradizioni.
1) Tradizione cultuale e significato della morte. Il primo gesto del capofamiglia era la frazione del pane dato in frammenti ai presenti. Che senso aveva questo segno nella tradizione ebraica? Era un gesto di partecipazione e di amicizia tra capofamiglia e i suoi familiari. Chi mangiava del pane frammentato condivideva la benedizione di Abramo nella persona del capofamiglia. Questo gesto rendeva evidente un significato ascendente: il capofamiglia era il rappresentante di Abramo. Nel comportamento di Gesù, nella cena di addio, il gesto del pane spezzato, accompagnato dalle parole, acquista un senso originale, giacché rivela un’alleanza nuova, una comunione-partecipazione nella Sua persona al dono stesso della sua vita. Questo aspetto è ben segnalato dalle parole che accompagnano il pane e il vino. “Corpo” è l’uomo intero, la totalità della persona, quindi non solo l’umanità ma la persona incarnata di Cristo. “Questo è il mio corpo” esprime, allora, la dinamica della persona incarnata di Cristo nella sua completa donazione. Il dinamismo della cena sottolinea non tanto l’espiazione sacrificale, quanto il dono dell’esistenza cui fa immediato seguito la remissione dei peccati. L’espressione uper umon si riallaccia ai testi dell’Antico Testamento inerenti l’amore di Dio per noi. Del resto «Amore per noi» (Rm 5,8), «per me» (Gal 2,20) esprimono il senso profondo del dono compiuto nell’offerta del corpo. Per quanto riguarda le parole che accompagnano il calice c’è una novità nella prassi di Gesù, che invita a bere i presenti allo stesso calice. Per illustrare questo gesto bisogna tener presente il significato di “sangue” come dono di vita, “sangue versato” e di “alleanza nuova”.
a) Sangue come dono di vita. Dobbiamo risalire all’antropologia ebraica, dove “sangue” è la sede della vita e secondo la teologia di Lv 17,11 «la vita della carne è nel sangue». La redenzione nel sangue rivela che il dono della vita viene a noi attraverso quel sangue versato. Anche l’antica Alleanza era stata stipulata nel sangue dei sacrifici. La traduzione della Vulgata: «Il sangue stia al posto della vita» appare imprecisa, e di conseguenza è opportuno trasporla: “Il sangue stia per la vita che porta in sé”. Tutto ciò manifesta l’opera discendente divina poiché il sangue è sacramento della vita, avvolto nella sua veste sacrale, come riconosciuto nella mentalità ebraica, pertanto Dio purificandoci nel sangue di Cristo ridona pienamente la vita all’uomo. Nella visione cristiana abbiamo a che fare con il sangue di Cristo che è il luogo, per eccellenza, della vita: è il segno della sua presenza vitale e personale. Gesù fa dono di sé nel proprio sangue come forza vivificante che ci libera dalla morte; in questo senso rimette i peccati. Non è un prezzo pagato per soddisfare Dio, ma è l’espressione del suo amore infinito e del dono della vita del Padre in Lui.
b) Sangue versato. “Versato” non è un verbo del linguaggio cultuale. Quando Gesù parla del sangue versato non intende riferirsi al sangue asperso nel giorno del Kippur, né al sangue versato sull’altare ad esso legato, ma è un insegnamento esistenziale, che allude alla morte della croce, alla realtà essenziale della sua morte come martirio. La Tradizione antiochena pone l’accento non al “per molti” ma al “per voi”, mostrando un significato agapico, di amore. Quella marciana constata come questo dono d’amore sia fonte di espiazione; «sparso per molti» richiama il sacrificio del Servo (Is 52-53), Matteo aggiunge «in remissione dei peccati».
c) Alleanza nuova. Gesù spiega che il dono del calice del sangue è il calice dell’alleanza nuova. La tradizione antiochena afferma: «Questo calice è la nuova alleanza del mio sangue versato per voi»; Marco l’esprime: «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti». Questo accento sull’alleanza nuova è importante, perché l’alleanza in Cristo è soprattutto l’alleanza scritta nel cuore, secondo gli annunci di Ger 31,31 ed Ez 36,26, anzi in Ezechiele quest’alleanza nuova scritta nel cuore è messa in rapporto all’azione dello Spirito che donerà un cuore nuovo. Il sangue donato da Cristo è fonte di questa vita e consiste in un’alleanza nuova; prima di essere remissione del peccato è dono della vita nello Spirito.15 Nell’Eucaristia il dono della vita precede, fonda qualsiasi altra considerazione. Léon Dufour,16 nel commento alle diverse forme cultuali che accompagnano il culto, conferma che la parola di Gesù sul calice non è incentrata sulla remissione dei peccati, ma sull’alleanza di vita: qui è il punto centrale della parola di Gesù. La priorità è l’alleanza nuova, l’alleanza di vita. Gesù non chiede ai discepoli di compiere un’aspersione con il suo sangue, come quello delle vittime, ma di bere il calice. E il sangue si beve non per purificarsi, ma per nutrirsi e vivere più intensamente. Il sangue di Cristo è bevanda come il suo corpo è nutrimento.
2) Tradizione testamentaria e significato della morte. È la tradizione del pasto di addio fondato sulle parole di Gesù come testamento d’amore. Il pasto in questa tradizione è visto più che come prassi di culto da tramandare nel tempo («Fate questo in mia memoria») come un impegno di servizio fraterno da proseguire nella sequela di Cristo; allo stesso tempo la tradizione sacramentale collega il pasto d’addio con quello escatologico, infatti leggiamo: «Non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio» (Mc 14,25), inoltre annuncia l’esodo pasquale di Gesù e la comunione escatologica che si compirà tra Lui e i suoi discepoli nel convito eterno. Questa prospettiva completa profondamente l’altra, in quanto l’Eucaristia è fondamento della prassi cristiana come culto e testimonianza. L’Eucaristia è l’unione sacramentale, reale, simbolica, dei due progetti di vita: di Cristo e dei cristiani; l’imitazione di Cristo è fondata sacramentalmente oltre che pneumaticamente.
1.5. Punti conclusivi
a) Gesù vede la morte come momento supremo del dono di sé.
b) Gesù vede la morte come dono d’amore attraverso la condivisione del pane e del calice. Questa compartecipazione coinvolge i discepoli nel progetto di vita di Gesù.
c) L’azione vivificante del pane e del vino, del corpo e del sangue, comporta un rinnovamento interiore o alleanza nuova; pertanto lo schema espiazione-sacrificio antico è superato, in quanto la morte di Cristo si fa dono e principio di vita e quindi di espiazione.
d) Gesù consegna nella sua cena di addio la sua prassi eucaristica che dovrà continuare nella Chiesa, come preparazione del convito escatologico.17
1.6. Il Getsemani
L’atteggiamento di Gesù di fronte alla realtà della morte non è di imperturbabilità, né di liberazione dal corpo dalla vita terrena, e tantomeno del sapiente che attende serenamente, come Socrate, questo passaggio. Se è vero che Gesù è andato alla morte con libertà, considerandola come dono supremo di sé, già anticipata nell’ultima Cena, è pur vero che sembra sprofondare nell’angoscia e nella paura. Qual è il senso di questa angoscia? L’esistenzialismo ha dato molto rilievo anche alla categoria dell’angoscia, oltre che della morte. L’angoscia non è un sentimento psicologico, ma una caratteristica dell’esistenza umana minacciata dalla realtà della morte. Tramite l’angoscia l’uomo procede dalla condizione ordinaria dell’esistenza, al livello di esseregettato come un sasso nel torrente della vita, senza libertà e responsabilità, allo stadio di esistenza autentica diventando un vero esistente, mediante la sua decisione. L’uomo esiste nella misura in cui decide per la sua esistenza, generando se stesso. Non è più l’esistente nella ovvietà ma nella libertà! La categoria dell’angoscia risuona anche nella Bibbia, dove essa denota un’attitudine religiosa dell’esistenza. Il testo di Sap 5 parla dell’angoscia dei malvagi, consapevoli della loro condizione di dannazione; così l’angoscia diventa la categoria dell’esistenza tormentata. In Giobbe compare l’angoscia del giusto sofferente; i profeti di fronte all’insuccesso della loro missione sono presi dalla crisi d’angoscia e invocano la morte. Tutti questi elementi ci conducono all’esperienza vissuta da Gesù.
Dato narrativo e sinottico. L’angoscia di Gesù è un dato certamente storico, per due ragioni; anzitutto, perché non sono solo i Sinottici a comunicarcelo. C’è una preghiera del Quarto Vangelo (12,27) che non presenta il dato del Getsemani, che per alcuni è ad esso parallelo: «Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora!»; in Eb 5,7-8 si dice: «Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà», che sembra circoscrivere l’intera esistenza di Gesù, però c’è questo «forti grida e lacrime». È interessante constatare come nel Nuovo Testamento, sia manifesta questa vicenda storica.18 I Sinottici ci presentano questa preghiera di Gesù in modo circostanziato.
Forma diretta e indiretta della preghiera di Gesù. Qui ci limitiamo al racconto di Mc 14,33-35. Marco introduce così la preghiera di Gesù: «Cominciò a sentire paura ed angoscia», poi segue al v. 34: «La mia anima è triste fino alla morte». La preghiera si snoda in due forme: una indiretta (v. 35), propria del narratore: «si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora». Segue la preghiera in forma diretta (v. 36): «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio ma ciò che vuoi tu». Ecco l’essenza autentica della preghiera!
Struttura bi-lineare. Emergono due linee convergenti: una verticale, il rapporto Gesù-Padre, e una orizzontale, Gesù-discepoli. Questo dato è importante poiché indica l’esortazione di Gesù, rivolta ai discepoli, di partecipare alla sua angoscia attraverso la vigilanza e la preghiera. Il testo ha un valore parenetico, in quanto non si limita a tramandare il fatto, piuttosto insiste nel sollecitare i discepoli a mettere in atto l’insegnamento di Gesù: «Vegliate e pregate». Come Egli veglia e prega di fronte alla morte così dovrebbero fare i discepoli, che viceversa si addormentano, non soltanto in senso fisico.
1.5.1. Significato teologico
Abbiamo due significati che si uniscono tra loro: innanzitutto l’esperienza dell’angoscia, l’altro concerne la preghiera al Padre. San Massimo il Confessore ha dedicato varie riflessioni sul tema dell’angoscia; dopo l’era patristica bisogna attendere l’epoca della Riforma per la ripresa del tema; prima di essa individuiamo alcune meditazioni nella teologia dei mistici renani, del XIV secolo, particolarmente con Taulero.19 Lutero e Calvino. Da parte della Riforma protestante s’è aperto un registro di riflessione in riferimento a Paolo: Gal 3,13; 2Cor 5,21. La traduzione “da peccato” non è fedele, è preferibile “sacrificio o vittima per il peccato”.20 La Riforma vede in Gesù l’uomo peccatore che impersona il peccato di tutta l’umanità: Dio l’ha fatto peccatore per noi. Così Gesù patisce l’angoscia dei malvagi, attualizzando il testo di Sap 5. Calvino va oltre Lutero: parla della vendetta del Padre nei confronti di Cristo, che non riguarda lui come Figlio, ma come rappresentante dell’umanità peccatrice. All’inizio del XIX secolo Garrigou-Lagrange propone una lettura del Getsemani in chiave antropologica: l’angoscia di Gesù è l’orrore di fronte alla croce. Il dato comprensibile in questi termini, pur veri, è soddisfacente? Nella Miserentissimus Redemptor, Pio XII cerca di fondare la devozione del S. Cuore tenendo presente sia la prassi liturgica della devozione, sia la scienza teologica. La sofferenza di Gesù rivela un amore tradito, in corrispondenza al suo amore; la soluzione del Papa è valida, autorevole e occorre ricordarla. La teologia contemporanea, senza porsi in contrasto con quella precedente, accentua il carattere biblico seguendo il modello profetico dell’angoscia. Il tentativo può essere accolto, ma segnalando come Gesù sia un profeta del tutto singolare.
Modello profetico. Nella storia dei profeti ricorre frequente una situazione di angoscia. I tratti comuni di questo stato, che non è inerente della sola sfera affettiva, manifestano la tensione tra il profeta e Dio, intesa come agonia, contrasto: il profeta vuol desistere dalla sua missione, Dio lo spinge a proseguire. Si registrano differenti intensità di questo stato d’animo: ad esempio, diversa è l’angoscia di Giona (Gn 4,9) da quella di Elia (1Re 19,4). L’angoscia di Giona è un’angoscia mortale: il Dio misericordioso urta il profeta che non approva il comportamento di Dio fino a esclamare «meglio per me morire»; anche Elia dichiara: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita». L’angoscia è determinata dall’insuccesso della missione e dal fatto che il profeta è perseguitato a morte. Is 49,3-4: «Invano ho faticato, per nulla ho consumato la mia vita». Passiamo ora alla lettura dell’angoscia di Gesù alla luce del modello profetico.
1) Significato dell’angoscia di Gesù. La missione di Gesù è profetica e come i profeti soffre l’insuccesso umano della sua missione. Sono da tener presenti i richiami insistenti di Gesù al suo popolo alla conversione, ma questi richiami sono rimasti inascoltati; ecco l’insuccesso. Dobbiamo notare anche la notevole differenza tra l’angoscia di Gesù e quella dei profeti: sarebbe troppo riduttivo vedere l’angoscia di Gesù solo come sconforto umano per l’insuccesso della missione, alla maniera del Servo come in Isaia 49. In Marco Gesù «cominciò a sentire paura e angoscia». A cosa è dovuta questa paura ed angoscia? Al timore della morte? Sembra poco probabile, perché Gesù volontariamente è andato incontro alla morte, espressione somma del dono di sé. La radice più intima è l’amore per gli uomini, il sentimento filiale della proesistenza, cioè l’ansia, anche se vissuta umanamente, che l’amore rifiutato si traduca in perdizione per il suo popolo. Il calice di Gesù è diverso da quello dei profeti, in cui l’immagine della coppa è espressione dell’ira di Dio per l’infedeltà del popolo.21 Il calice di Gesù comunica, invece, la sua preoccupazione umana di fronte al rischio di condanna, tramutandosi in coppa d’ira. Non è tanto per sé che soffre, ma per gli uomini: è un’angoscia per gli altri, non uno scoramento individuale. L’angoscia, in questa prospettiva, diventa il segno dell’infinita carità di Dio verso gli uomini. Questa stabilisce un grado di lettura qualitativamente eminente, rispetto a un’interpretazione meramente antropologica, poiché in essa si rivela un dolore divino.
2) Significato della preghiera. Quanto detto sull’angoscia di Gesù ci offre la chiave per comprendere la sua preghiera. Ci fermiamo sulla preghiera in forma diretta, dove emergono tre affermazioni:
a) Si apre con l’Abbà, che esprime intimità e fiducia filiale; «Tutto è possibile a te» è l’affermazione di estrema fiducia nell’assoluta potenza del Padre.
b) Parte centrale della preghiera: «Allontana da me questo calice» sono parole che suonano come un distacco dal Padre, una differenza.
c) «Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu»: questa parte manifesta una comunione col Padre attraverso la differenza e riconferma le prime parole: intimità e fiducia incondizionata.
Il punto critico è la parte centrale: «Allontana...». Come interpretarlo? Di solito si legge in chiave antropologica come richiesta di poter essere liberato da questa morte; ma nell’ambito della nostra analisi la richiesta di Gesù non è liberazione dal calice, perché egli lo vuole come lo richiede il Padre, c’è dunque identità di volere. Le parole di Gesù vanno intese come “dilazione”, “ritardo” del calice o dell’ora della passione, in vista di un prolungamento della missione; per cui sembra che, diversamente dai profeti, bramerebbe continuare la missione per salvare il popolo dall’incredulità. Questo sembra coerente con la prima parte, v. 35, forma indiretta: «che passasse da lui quell’ora». È in questione l’ora della passione, ma la misericordia del Padre realizzerà in essa, nonostante le avversità in atto, la salvezza per l’umanità, difatti Gesù rimette tutto nelle mani del Padre: «Tutto è possibile a te». La preghiera comunica il massimo dell’amore filiale al Padre, che del calice di Gesù fa benedizione e non ira. Il dramma del Getsemani va letto in chiave trinitaria, come ha già fatto san Massimo il Confessore nei Commenti sull’agonia del Getsemani,22 che non riferiscono soltanto un dramma umano e divino tra Gesù-uomo e Gesù-Dio, tra la sua volontà umana e divina, ma il dramma tra Figlio e Padre in una prospettiva trinitaria, giacché chi prega e patisce non è semplicemente un uomo, ma è la persona filiale, che obbliga a una seria lettura del suo rapporto col Padre. Dio non soffre chiuso in se stesso ma avendo presente l’umanità, che rigettando l’amore si condanna e l’angoscia del Figlio rappresenta il suo stesso dolore. Oggi si parla molto di sofferenza di Dio, che non è pura metafora, né attinente la sola umanità, ma è un misterioso, reale suo coinvolgimento nella storia della salvezza. Il Dio dei profeti va considerato seriamente: Egli vive all’interno la storia della salvezza e non come un supervisore distaccato. È così vicino all’uomo che soffre Lui stesso! Dopo aver visto la passione segreta di Gesù, passiamo ora al suo processo pubblico.
1.7. Il processo pubblico di Gesù
Nella narrazione della passione questo è un dato notevole, che ci mostra come non sia stato un evento puramente individuale ma esistenziale. Il processo sottolinea la dimensione pubblica, sociale e storica dell’evento della Croce. Grande rilievo viene offerto dalle teologie a impronta socio-politica; ma è chiaro che nella narrazione della passione le ragioni più importanti non sono di natura socio-politica, ma cristologica. La cristologia segnala infatti il suo momento forte, poiché il processo culmina nella più alta affermazione divina di Gesù in una circostanza pubblica. Anche nel Quarto Vangelo il tema del processo abbraccia tutta l’esistenza di Gesù; è in qualche modo già annunziato nel prologo: le tenebre hanno tentato di soffocare la luce. «Il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe»; il “mondo” non come “cosmo creato”, formato attraverso il Logos, ma “incredulo” non può ricevere la salvezza perché vi si sottrae. Questo processo è visto come lotta tra le tenebre e la luce, tra il mondo incredulo e Gesù: esso sottomette Gesù al suo processo. Quanto avviene nella riprovazione di Gesù, è in realtà la sua condanna nei confronti degli uomini, come mostrano le scene culminanti del processo di Pilato. «Ecco il vostro re, ecco l’uomo»: Pilato dichiara, senza esserne consapevole, la verità perché Cristo è Re, è l’Uomo! La legge strutturale del racconto è che la verità muta radicalmente la parvenza dei fatti. Pilato fa sedere Gesù sulla sedia del magistrato – Litòstroto o Gabbatà –: Gesù è l’effettivo giudice dei pagani e dei giudei. Il tema del processo nei Sinottici ha una spiccata prerogativa cristologica mentre in Giovanni si congiunge a un’autorevolezza teologica.
1.7.1. Struttura del racconto del processo in genere
Il racconto evangelico ci presenta due fasi del processo di Gesù: una fase giudaica, con maggiore risonanza nei Sinottici, e una fase romana, nel Quarto Vangelo.
1) Fase giudaica. La prima fase è più ufficiosa: si tratta del processo nel Sinedrio, ed è storica. Questo primo momento del processo ha grande importanza per i Sinottici, non per Giovanni. Giovanni riporta che i giudei interrogano Gesù che si rifiuta di controbattere, poiché aveva già dato risposta.
2) Fase romana. La seconda seduta, più ufficiale, si svolge di fronte all’autorità romana. Senza una sentenza ratificata dai Romani, non si poteva condannare a morte. Il dialogo avviene tra i giudei e Pilato, mentre nel Quarto Vangelo è questa seconda fase che acquista spessore. Gesù proclama parole rilevanti: «Sono venuto a rendere testimonianza alla verità», Cristo è il rivelatore per eccellenza del Padre. Più notevoli sono le scene plastiche dell’insediamento di Gesù presentato come re e Figlio dell’uomo, quindi giudice universale.
1.7.2. Racconto del processo nei Sinottici
Mc 14,56-65: processo giudaico; 15,1-15: processo romano.
Mc 14,56-65: processo giudaico.
Tralasciamo alcune questioni storiche. La prima parte del processo culmina nell’affermazione di Gesù come Messia divino. Questa dichiarazione assume un elevato aspetto divino di trascendenza. La seconda parte verte sull’affermazione di Gesù come re; il contenuto di questa parte è scarno, perché Gesù, alla domanda “Tu sei re?”, risponde “Tu lo dici”. Non c’è spazio per un dialogo tra Gesù e Pilato, che invece avviene tra Pilato e i giudei: è un accordo istituzionale, Gesù muore per trame politiche. Nella prima parte l’apice è il v. 62: appare chiaro il dialogo tra Gesù e le autorità giudaiche; il racconto tende a sottolineare la risposta di auto-identificazione. La testimonianza dei presunti testimoni cade in contraddizione (v. 59), da qui la domanda del sommo sacerdote (v. 61): «Sei tu il Cristo, il Figlio del Dio benedetto?».23 Per alcuni il sommo sacerdote ha interrogato Gesù sulla messianicità in generale: “Cristo, Figlio del benedetto” come attribuzione al Messia; basti ricordare il Sal 2: «Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato», che sottende all’intronizzazione regale. Gesù, in questo frangente, fornisce una risposta più di quanto richiesto dal sommo sacerdote, pertanto diventa l’occasione per dichiarare chi è veramente. Altri non condividono pienamente questa esegesi, facendo notare che Gesù più di una volta aveva discusso con le autorità giudaiche. In alcune affermazioni, come “rimettere i peccati”, “Io sono”, e in alcuni gesti miracolosi, Gesù aveva testimoniato di essere un Messia divino, cioè aveva posto l’accento sulla trascendenza divina. In Mc 21,37 Gesù dimostra agli scribi che il Messia non è figlio, ma è Signore anche di Davide. Il sommo sacerdote era, dunque, a piena conoscenza di come Gesù si presentava e le stesse autorità giudaiche ne avevano piena cognizione; l’interrogativo del sommo sacerdote era davvero insidioso: «Se tu sei il Cristo, il Figlio di Dio benedetto» (Mc 14,61) perché celava un significato di pienezza e trascendenza. Una riprova è nel parallelo di Luca, proposto in due tempi: «Tu dunque sei il Figlio di Dio?» e la seconda risposta di Gesù (22,70). C’è così un crescendo confermato dal parallelo lucano; inoltre abbiamo un’altra concomitanza fondamentale: la condanna per bestemmia. Diversi personaggi, prima di Gesù, si proclamarono messia, ma i giudei non gli diedero molto credito; Gesù, invece, fa intendere che il Messia divino è realmente giunto. Il quesito del sommo sacerdote tendeva proprio a questo: per deferire Gesù all’autorità romana necessitava certificare lo scandalo dogmatico, cioè fargli asserire che non era un messia umano ma divino. Il v. 62 è imprescindibile, qui Gesù afferma divinamente il suo messianismo. Il v. 61 può leggersi sia come pura messianicità o come accentuazione della divinità. Nella risposta di Gesù, v. 62, la prima parte «Io lo sono» non è affermativa in un senso pieno; in Luca abbiamo «Tu lo dici». C’è una variante nel Merk: «Tu dici che io lo sono» come in Matteo. Il vero significato della risposta di Gesù, il suo punto di vista risiede nella seconda parte: «E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo». Qui possiamo fare due annotazioni. La prima ravvisa nella risposta di Gesù il compendio di Dn 7 (il Figlio dell’uomo che viene) e del Sal 110,1 («siedi alla mia destra»). Questa sintesi è di natura prettamente cristiana, ha un’originalità che troviamo solo nelle fonti cristiane, per di più conferisce pienezza alla dichiarazione di Gesù, che supera le due fonti singolarmente attestate. Egli, infatti, proclama: «Vedrete la mia divinità seduta alla destra del Padre». Lo scandalo del sinedrio sottolineava la bestemmia qui pronunciata; l’affermazione scompaginava i canoni ebraici sull’identità del messia come semplice uomo. Le parole di Gesù presagiscono un evento prossimo, infatti, si riferiscono al sinedrio («Voi vedrete...»), dunque non attestano esclusivamente un Messia ultraterreno. A quale evento allude Gesù come verifica di queste sue parole? Più che l’evento parusiaco è l’evento della Risurrezione, che in ogni modo è anticipazione della Parusia. Che il sommo sacerdote interroghi Gesù in senso messianico o divino desta un interesse relativo, poiché è decisiva la risposta di Gesù.
15,1-15: il processo romano.
Alla domanda di Pilato (v. 2): «Sei tu il re dei Giudei?», Gesù risponde: «Tu lo dici». Pilato esprimeva una regalità politica e l’accusa dei giudei era ugualmente perpetrata in chiave politica. Da parte dei Sinottici non si enfatizza il titolo “re”, tuttavia riportano fedelmente il silenzio di Gesù. Questa seconda parte è di grande interesse perché evidenzia le ragioni umane, più che dogmatiche, per cui Gesù è condannato. Egli compromette la posizione di potere del giudaismo dell’epoca: «Pilato, sapeva che i sommi sacerdoti glielo avevano portato per invidia» (v. 10), il procuratore è informato circa le effettive ragioni del contrasto, relative al prestigio acquisito. In questa seconda parte l’azione si svolge tra i giudei e Pilato.
1.7.3. Racconto del processo nel Quarto Vangelo
Il mondo scettico, non il mondo, il cosmo, intenta un processo a Gesù fino alla morte; il dibattito continua ma viene ribaltato dallo Spirito. Il suo svolgimento circoscrive l’intero Vangelo. La narrazione non sovrappone la lettura teologica ai fatti narrati poiché traviserebbe la verità storica; il suo fine è far emergere, da essi, la verità contenuta. A questo punto bisogna parlare di un’inversione dei ruoli: i fatti sembrano puntualizzare un’indubbia realtà, ma beneficiano di un significato diverso; Pilato, ad esempio, giudica Gesù, anzi se ne burla rivestendolo del manto scarlatto, tuttavia la verità esposta è esattamente opposta: è Gesù che giudica Pilato, il mondo e i giudei, è Lui il vero re e giudice della storia. Non volendo, Pilato e i giudei sostengono la verità: Gesù è veramente re!
I momento del processo: Gv 18,12-27 (16 vv.). È l’interrogazione del sommo sacerdote al quale Gesù ribatte: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto» (v. 20). Gesù non ripete ciò che ha detto, ma rimanda a quanto enunciato pubblicamente.24 Segue lo schiaffo (v. 22) e la replica di Gesù (v. 23), poi il silenzio. Nella prima seduta non c’è una dichiarazione solenne di Gesù, tutto rinvia a quanto già precedentemente espresso.
II momento: 18,28-40; 19,1-16 (29 vv.). Questo stadio gode di un contenuto cristologico. Partiamo da un’osservazione della cristologia del Quarto Vangelo, che fa risaltare con forza Cristo verità di Dio: «Io sono la via, la verità e la vita» (14,6), che non ha nessuna attinenza con l’alétheia greca. Egli è la verità di Dio perché è il Logos; Gesù richiama continuamente la sua parola. Il tema Cristo-verità domina questa parte del processo tanto che potremmo denominarla “il giudizio della verità”; pertanto Gesù Cristo è la verità di Dio ed è in essa che egli giudica.
a) Gesù dichiara di essere venuto a testimoniare la verità; lui stesso è la verità (v. 37). Il suo approssimarsi a comprovare la verità è un’auto-testimonianza ma Egli non è l’unico riscontro perché rimanda al Padre che lo attesta, quindi siamo partecipi di un’azione trinitaria. Nel dialogo tra Gesù e Pilato, leggiamo: «Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce», vale a dire la parolaverità; non è un ascolto qualsiasi, ma una sequela, una vita che vive secondo verità. L’ulteriore affermazione di Gesù richiama l’impossibilità di essere neutrali dinanzi alla sua parola, per cui chi non è dalla verità rimane estraneo alla sfera della salvezza. Gv 8,31: «Se rimanete fedeli alla mia parola... conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Aderire alla parola di Cristo significa far parte della verità ed essere liberi. Il testo mostra che Pilato non è dalla parte della verità, come tutti coloro che non credono. La domanda di Pilato: «Che cos’è la verità» (v. 38) non è retorica, ma è constatazione di non appartenere alla verità, non in senso teoretico, ma di non esserne incluso; Pilato è fuori dalla verità. Il racconto del Quarto Vangelo è importante poiché mostra le conseguenze: chi non è dalla verità è servo dell’ingiustizia, della malvagità, della menzogna. In due occasioni Pilato discerne l’innocenza di Gesù, ma lo fa flagellare. Riconosce l’estraneità di Gesù e lo abbandona alla crocifissione (19,6). La sua contraddizione è ammettere l’innocenza dichiarando reo l’innocente.
b) Il testo rivela che Gesù non è venuto a essere vagliato, ma è lui, la Verità, che giudica gli uomini. Esaminiamo due scene culminanti: Pilato presenta Gesù col manto purpureo dicendo: «Ecco l’uomo» (19,6). È il Figlio dell’uomo che viene a giudicare, denotando una forte carica sul piano escatologico. La gestualità qui presentata ha una valenza cristologica che va oltre l’intenzione di Pilato, poiché è veramente Gesù che giudica, come la corona di spine e il manto scarlatto specificano il suo giudizio e la sua regalità. L’altra scena verte sul v. 13 ekáthisen, che può essere tradotto in senso transitivo o intransitivo. La C.E.I. traduce: “Pilato sedette sul luogo detto Litòstroto, Gabbatà», o luogo elevato. Era la sedia del magistrato dove Pilato come magistrato esercitava la giustizia. Per alcuni è meglio tradurre transitivamente: «Pilato fece sedere Gesù». Gesù coronato di spine, col mantello di porpora vien fatto sedere nel luogo del giudice e presentato con le parole: «Ecco il vostro re». Da un punto di vista puramente umano può sembrare solo scherno, tuttavia Pilato, pur non volendo, ha affermato la verità di Dio, Gesù è il re che giudica. A questo punto abbiamo il quadro generale del processo di Gesù. La passione e la croce sono il giudizio del mondo, ma Gesù è il re che giudica secondo un criterio di verità, che salva chi è “dalla verità”; chi si estranea da questo è condannato a compiere l’ingiustizia. Concludiamo con la descrizione del processo, di grande interesse sia sotto l’aspetto storico, che quello teologico, che ha evidenziato Gesù, Figlio dell’uomo, in una prospettiva escatologica e come verità di Dio che giudica il mondo per salvarlo.
1.8. L’abbandono della Croce
a) Riflessione generale. Spesso il cristiano considera il proprio rapporto con Dio valutando quantitativamente le sue esigenze personali, come colui che supplisce le sue incapacità ricompensandolo e colmandolo nelle esigenze sia materiali che spirituali, ponendo a repentaglio la relazione con Dio. Questo primo punto ci porta al secondo.
b) L’esperienza dell’abbandono di Dio. Questo tema è conosciuto nella Bibbia, nella prova del giusto sofferente. Nella Bibbia il punto più paradossale è lo scandalo del giusto che soffre, quindi del dolore innocente. Tale questione è legata a quella del silenzio e dell’abbandono di Dio: il giusto interpreta il silenzio di Dio nella prova come abbandono, cioè Dio non interviene a liberarlo prodigiosamente dalla sofferenza e dalla morte. Che soffra il peccatore, è scontato, secondo una giustizia retributiva; ma il giusto? Il dolore del giusto e il silenzio, l’abbandono di Dio tendono a modificare l’immagine di Dio.
c) La purificazione della fede. Il Dio della rivelazione non si definisce a partire dai nostri meriti, né dai nostri bisogni, né dalle nostre aspettative; Dio lo si incontra solo a partire da Se stesso25 e lo si può solo accogliere; per poter incontrare Dio occorre una rottura, un distacco dalle nostre urgenze.26 Questa immagine di Dio tende a purificare la fede del giusto, perché attraverso la prova egli procede verso Dio non per quello che offre, ma per ciò che è in Se stesso. Così Dio spoglia il giusto di ogni avere, anche nell’ipotesi che non gli desse nulla che Se stesso. Non c’è cammino verso Dio che non passi per l’esperienza dell’abbandono, che diventa l’indispensabile catarsi della fede, chiamata ad essere pura e non inevitabilmente interessata. Cercare Dio per Se stesso, non secondo una logica opportunistica, ci indirizza a Lui per compiere ciò che Egli vuole; la preghiera di Gesù, in questa cornice, prospetta come la nostra preghiera deve essenzialmente invocare non la nostra, ma la volontà di Dio. Il tema dell’abbandono ci fa conoscere come Dio sia presente e si riveli proprio laddove umanamente sembra assente.27
1.8.1. Stato attuale del testo sinottico Mc 15,33-39: La morte di Gesù.
Siamo di fronte a un trittico narrativo.
a) Segni cosmici. Un insieme di segni cosmici accompagna la morte di Gesù. Al v. 33 «le tenebre» dall’ora sesta all’ora nona, «si fece buio su tutta la terra»;28 al v. 38 «la rottura del velo del tempio», subito dopo la morte di Gesù; solo Mt 27,51-52 parla di terremoto, di apertura dei sepolcri e di risurrezioni.
b) Il grido nel momento della morte. Il momento in cui Gesù muore è sottolineato con l’effetto narrativo del gridare. In Marco, Gesù grida due volte: la prima volta, come in Matteo, chiamando Eloì (v. 34); la seconda «dando un forte grido, spirò», exépneusen (v. 37). In Lc 23,46 compare una volta sola questo grande grido: «Gesù gridando a gran voce». Luca cita qui il Sal 31,6, con la variante «Padre» invece di «Dio»; anch’egli utilizza, exépneusen, stesso termine adottato da Marco. Nel racconto sinottico risalta, sullo sfondo dei segni, la solennità del momento in cui Gesù muore.
c) La conversione del centurione. Il v. 39 mette in relazione la conversione con la morte di Gesù: lo spirare di Gesù stupisce il centurione pagano che afferma: «Veramente quest’uomo è Figlio di Dio». Questa è una professione dogmatica nel Vangelo di Marco e rimanda all’inizio del Vangelo (1,1). Nei paralleli di Mt 27,54 e Lc 23,47 la professione di fede del centurione è legata ai segni. In Luca non è presente questa confessione riportata in Marco, ma si parla di «giusto» per eccellenza; d’altronde per un pagano era più agevole esprimere un giudizio di santità, che di divinità. Nel momento in cui Gesù muore e i pagani riconoscono la sua divinità, s’instaura l’elemento decisivo che determina come costoro sono la primizia del Regno.
Il trittico evidenzia la scena centrale del morire di Gesù che è imponente; il doppio grido solennizza ancora di più la narrazione. Il racconto tende a mostrare la relazione tra la morte di Gesù e la conversione e il legame tra il Crocifisso e l’oggetto della fede che è il Figlio di Dio. Non solo la morte di Gesù è rilevante per la conversione del centurione, simbolo del paganesimo, poiché anche lo spirare in croce lo rivela come Figlio di Dio, dando luce al momento dell’abbandono. L’esperienza della croce diviene pertanto una via teologica alla rivelazione dell’identità di Cristo.
1.8.2. Senso teologico del racconto sinottico
Prima di tutto indaghiamo alcune tradizioni bibliche, come quella apocalittica e quella sapienziale che illuminano il racconto; poi affronteremo l’argomento nel suo significato teologico.
a) Tradizione apocalittica. Essa annuncia l’evento del «giorno del Signore», «giorno di oscurità e fosche tenebre», Sof 1,14-15, giorno di giudizio di Dio sul mondo peccatore, di «abominio della desolazione» del tempio, Dn 9,27, di terremoto, apertura dei sepolcri e riconoscimento che Jahvè è Dio (cfr. Ez 37,7-13). Per quanto riguarda la tradizione apocalittica, essa risuona nei racconti Sinottici: sono presenti le tenebre, i giudizi di rottura del tempio, il terremoto, l’apertura dei sepolcri, le risurrezioni; il Quarto Vangelo non ne parla, ma c’è uno scenario teologico completamente diverso. Alla luce della tradizione “apocalittica” quale significato assume la morte di Gesù? La Croce appare come il grande evento escatologico della storia, è il grande giorno del Signore, manifestazione trinitaria, escatologica e definitiva del mistero di Dio; è il grande evento che determina il giudizio del mondo peccatore (segno delle tenebre), la fine dell’era antica (segno del terremoto), come anche il superamento del Tempio, segnalato in questi segni e nella morte di Gesù; l’antico culto è ormai compiuto e l’agnello pasquale, di cui è simbolo, è oltrepassato dalla realtà, che è Cristo. Il vero culto, il vero tempio si realizzano nel Calvario; la figura è superata dalla realtà che avviene; la Croce è l’espressione culminante dell’escatologia, è l’ora che divide i tempi antichi e quelli nuovi. L’apocalittica ci mostra così la centralità storica della Croce; l’era nuova è sotto il segno della Croce. Il racconto sinottico ci mette di fronte ad una rinnovata visione apocalittica, in cui i segni consentono una lettura più positiva che negativa. In Marco le tenebre avanzano dall’ora sesta all’ora nona, ma con la morte di Cristo esse terminano, perché superate e sconfitte: la Croce mette in fuga le tenebre; il giudizio non è un giudizio d’ira e di condanna, ma di misericordia e Lc 23,34.43 lo evidenzia bene: «Padre perdonali», «Oggi sarai con me nel paradiso». Il velo del tempio è un segno ambivalente: puntualizza il tramonto di un’era, ma ancor più positivamente il velo è finalmente rotto perché i pagani prendono parte del mistero del nuovo tempio.
b) Tradizione sapienziale. Essa è legata al tema della lamentazione. La lamentazione del giusto nell’angoscia è associata ad attitudini fondamentali – grido d’angoscia, confidenza nel momento del silenzio di Dio e lode in pienezza – che sono quasi i ritmi cultuali del tema della passione del giusto. Questi ritmi appaiono chiaramente nel Sal 21: «Dio mio, Dio mio» ed esprimono confidenza e risoluzione come lode, dunque la positività dell’inno. La morte di Gesù non va vista solo nella prospettiva del Sal 21, ma occorre rovesciare la sua visione rileggendolo dal punto di vista di questo evento. La tradizione sapienziale, che è anche di natura cultuale e in relazione con il genere della lamentazione, pone l’accento sul dramma personale di Gesù. Nell’attimo in cui Egli sta morendo le tenebre esteriori sono superate, come se accedessero in Lui per essere diradate; esse non costituiscono più uno scenario cosmico. Va osservato come impiegando il tema della Passio Iusti dell’Antico Testamento, non bisogna procedere univocamente, ma necessiti un salto ermeneutico, poiché Gesù ha vissuto il suo dramma, la sofferenza del giusto, rapportandosi al Padre. Per Pierre Grelot, nella croce Gesù non grida l’abbandono al Dio dell’Antico Testamento, ma è il Figlio che grida l’abbandono verso il Padre. Questa lettura ci porta ad una reinterpretazione del dramma che non è solo umano, ma anche divino; per cui questo tipo di lettura ci fa legare il dramma della Croce all’evento trinitario.
c) Interpretazioni teologiche. Origene ha proposto una duplice esegesi del grido di Gesù, allegorica e letterale. Secondo l’interpretazione allegorica il v. 2 del Sal 21 va preso nella sua interezza: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Tu sei lontano dalla mia salvezza: sono le parole del mio lamento». Chi grida l’abbandono sulla croce? Il dramma dell’umanità peccatrice che acuisce la preoccupazione per i propri peccati. È una interpretazione che ha avuto un seguito. Sant’Agostino si chiede: «Chi grida sulla croce?» e risponde: «Non Cristo, che è senza peccato, ma il suo corpo». Secondo l’interpretazione letterale, si tratta di una realtà che Gesù stesso ha vissuto. Parlando di abbandono reale, i Padri fissano dei limiti, come l’immutabilità del divino e l’impassibilità del Verbo.29 La grande Scolastica non ha molto studiato l’abbandono sulla croce, se non vedendolo come il mistero, il paradosso tra la condizione beata di Cristo e l’oscurità della croce, la debolezza, il tremore e l’abbandono della carne. Tommaso d’Aquino ravvisa la kenosi limitatamente all’umanità di Cristo, alla dimensione corporea che entra a contatto con l’anima solo nel suo rapporto col corpo, ma non nel suo culmine contemplativo. La teologia mistica (XIV secolo), nella lettura dell’abbandono come “notte mistica” (Taulero e la mistica renana)30 esamina l’abbandono come un atto di Dio non solo in senso negativo di non agire, o di lontananza e repulsione, come nella Riforma, ma come azione stessa di Dio, in senso positivo, di vicinanza e purificazione dell’anima. Il segreto della purificazione è un mistero del cammino verso Dio, è un’ascensione mistica, passando per la sofferenza della notte. «L’inverno dell’abbandono, della grande aridità, oscurità e freddezza, questo inverno il nostro Maestro l’ha sofferto per tutti, quando fu abbandonato dal Padre. Cristo ha voluto vivere quest’abbandono per essere il nostro Maestro, la nostra via: c’è una ragione di esemplarità».31 Questa teologia ha successivamente influenzato la Riforma. Uno dei passi nodali nella Riforma è 2Cor 5,21; il testo, amartían, può significare in ebraico, hatta’t, “male”, “peccato” oppure “sacrificio per il peccato”. Cristo è invece ridotto a peccato e nell’abbandono della croce sperimenta come grande peccatore, rappresentante dell’umanità peccatrice, l’abbandono sotto l’azione punitiva di Dio; per Calvino, Gesù prova la dannazione, l’inferno. Il primo Barth fa notare che questa lettura fa scorgere come la collera che colpisce il Crocifisso è la cifra della sua misericordia; non è un’ira distruttrice, ma salvatrice; con essa Dio distrugge l’autosufficienza dell’uomo peccatore e crea l’abbandono. Così l’uomo non può più confidare in se stesso; è il peccato di autosufficienza, della carne. La collera ha una funzione positiva: Dio rivela la sua grazia nel suo contrario, attraverso il suo opposto. Per una lettura del mistero dell’abbandono di Cristo sulla croce sono necessarie due affermazioni da tenere congiunte: l’assoluta comunionalità Cristo-Padre e la solidarietà di Cristo (nella sua natura umana) con l’umanità peccatrice.
Proponiamo due letture teologiche dell’esperienza dell’abbandono: 1) abbandono come esperienza teologica del senso del peccato; 2) esperienza mistica trinitaria, o lettura teologica mistico-trinitaria, dell’evento dell’abbandono.
1) Abbandono come esperienza teologica del peccato. Un’esperienza teologica del peccato come lontananza di Dio da Dio e come abbandono di Dio può essere sperimentata solo da chi è in prossimità con Lui. Paradossalmente sono stati proprio i santi che hanno avuto l’esperienza teologica del peccato percependone l’abisso e l’orrore. La consapevolezza etica del peccato, in quanto l’uomo ha una coscienza morale, è certamente reale, ma l’esperienza teologica, come rottura dell’alleanza con Dio, può essere percepita solo da chi è in comunione con Lui. La vertigine della dannazione si ha dall’alto e non dal fondo. Fare esperienza del peccato ed essere peccatori sono due verità inscindibili: solo chi è ontologicamente unito a Dio può comprendere la profondità del peccato, tanto più quanto più è in comunione con Lui ed è solidale con l’umanità peccatrice. Cristo, che è senza peccato, ha provato sulla croce la tentazione più grande,32 come possibilità umana del peccato, come solidarietà con l’umanità peccatrice, come fallibilità umana. Cristo ha sentito il brivido della possibilità della caduta; ha patito la vertigine della libertà come possibilità di peccato. Gesù è stato senza peccato di fatto e dogmaticamente, in forza dell’unità ipostatica al Verbo, era impeccabile; ma questo non svuota di realismo la kenosi, perché avendo una vera libertà umana c’era la possibilità di una caduta: questo non è avvenuto, anche per il merito della libertà di Gesù, che è stato tentato, come nel Getsemani, ma nella croce è stato il momento più alto della tentazione: essere toccati dalla possibilità di scegliere contro Dio, senza Dio.33
2) Abbandono come esperienza mistico-trinitaria. Il grido dell’abbandono della croce, pur ripetendo un testo dell’Antico Testamento: «Dio mio, Dio mio», non si riferisce al Dio dell’Antico Testamento, ma piuttosto al Padre e bisogna leggerlo nel contesto della filialità di Gesù, nel suo rapporto come Figlio al Padre-Abbà. Quest’osservazione è sostenuta da Lc 23,46, dove Gesù morendo non proclama il Sal 21, ma il Sal 31,6: «Padre (e non “Dio”) nelle tue mani». L’accento si sposta sulla relazione Figlio-Padre, che fornisce la lettura più equanime. Allora possiamo guardare l’abbandono come un fatto evidente e come una realtà superata da Gesù nel suo consegnarsi con speranza al Padre.
Abbandono come realtà proclamata. Come interpretare teologicamente questo abbandono di Dio? Come una realtà che parte dal Padre, difatti sia i mistici, sia la Riforma, in modi diversi, riferiscono l’abbandono ad un atto di Dio e non come suo non-intervento. È un agire del Padre che consegna il proprio Figlio (Rm 8,32). Nel senso positivo, l’atto del Padre non è punizione del Figlio, ma gesto d’amore, in quanto non lo tiene per sé, ma lo affida (Fil 2,6). Quest’atto d’abbandono di Dio come Padre ci permette di cogliere la purezza del suo amore, la non-possessività dell’amore verso l’umanità. Sembra che il Padre si disgiunga dal Figlio per donarlo all’umanità; quest’atto del Padre trova piena corrispondenza nel Figlio solidale con l’umanità e si può interpretare in chiave trinitaria, senza prescindere dall’incarnazione.
Abbandono come realtà superata. Non c’è allontanamento di Dio che non si risolva in abbandono in Dio; da un lato, c’è la consegna del Padre che dona il Figlio, dall’altro l’oblazione del Figlio al Padre. La stessa preghiera del Figlio non è disapprovazione ma invocazione che allevia l’abbandono in un contesto di orazione, di affidamento al Padre, che è presente anche nella sua apparente assenza, manifestando la certezza che, nonostante l’opposizione dell’umanità, Dio sostiene l’epilogo della vicenda. Nel Quarto Vangelo questa consegna avviene nello Spirito; qui la visione trinitaria nel mistero dell’abbandono è ancora più evidenziata.
1.9. Narrazione teologica della morte di Gesù nel Quarto Vangelo
La peculiarità narrativa del Quarto Vangelo è la profonda unità tra storia e mistero; quel che il Vangelo narra della morte di Gesù è sedimentato nella storia ed è imprescindibile per la sua stessa esposizione, infatti, sotto questo profilo rivela una fonte testimoniale diretta e il modo di narrare i fatti mostra il mistero in essi contenuto. Posta quest’osservazione introduttiva, notiamo che il Quarto Vangelo presenta una teologia della morte di Gesù dissimile da quella dei Sinottici, difatti non si parla di tenebre, terremoto, apertura dei sepolcri, dramma dell’abbandono. Possiamo compendiare in cinque pericopi narrative la sua originalità:34
I) 19,16-22: il titolo della croce;
II) 19,23-24: la tunica indivisa;
III) 19,25-27: la madre e il discepolo;
IV) 19,28-30: la sete di Gesù e lo spirare;
V) 19,31-37: il sangue e l’acqua.
I) 19,16-22: il titolo della croce. Il primo episodio ci presenta il titolo della croce in lingua ebraica, greca e latina; questo particolare è indice dell’universalità della regalità di Cristo.
II) 19,23-24: la tunica indivisa. Il Quarto Vangelo dedica due versetti a questo particolare e sul fatto di ciò che i soldati non fecero: l’accento è sull’unità della tunica. Per san Cipriano di Cartagine questo particolare è simbolo dell’unità della Chiesa che sta nascendo dalla croce di Cristo (De unitate Ecclesiae). La profezia di Caifa addita la morte di Cristo come principio di unità dell’umanità dispersa (Gv 11,51-52).
III) 19,25-27: la madre e il discepolo. Questa scena, che appare al centro, è fondamentale; risalta la croce, il Cristo crocifisso al centro di tutto. Il Quarto Vangelo non usa mai il termine Maria, ma “la Madre di Gesù”, accentuando la funzione materna e dopo le nozze di Cana la ripresenta ai piedi della croce. Questo stare sotto la croce non va inteso come vicinanza puramente spaziale o affettiva, ma teologica, cristologica: la Madre di Gesù gravita nella sfera della croce prendendovi parte. Il discepolo che Gesù amava ha un valore storico, ma anche tipologico poiché nella sua persona sono intesi tutti i discepoli di Gesù. A questo punto Gesù esprime alla Madre: «Donna, ecco tuo figlio»; “donna” è un’attribuzione soteriologica, un titolo ecclesiologico, infatti, è la donna che genera la fede nei discepoli, come a Cana, dove essi credettero a Gesù, ma il segno avvenne per iniziativa di Maria, sua madre . È la donnamadre che genera la fede nei discepoli, la custodisce, la fa crescere attraverso l’irrinunciabile azione dello Spirito Santo. È un seno materno che unisce insieme Maria e la Chiesa; in questo appellativo c’è una risonanza ecclesiologica, in lei si personifica la Chiesa. Per alcuni Gen 3,20 richiama la donnaEva, la donna-popolo Is 26,17-19, la Sion escatologica Is 66,7-8: attraverso questi richiami si può osservare che l’appellativo “donna” indica la funzione materna-spirituale di Maria connessa alla Chiesa. Nella maternità della Chiesa vive la maternità di Maria. Per i Padri questa scena non è oggetto di teologia, ma è un’espressione di pietà filiale da parte di Gesù, che affida la madre al discepolo e questi alla madre; essi conoscono un legame profondo tra Chiesa e Croce; in questa esegesi ricordano la prima Eva, creata da Dio nel sonno di Adamo. Nella Croce la nuova Eva viene tratta da Cristo morente nel sonno della sua morte unendola alla scena della ferita del costato, in cui nasce la Chiesa nei suoi simboli sacramentali: sangue e acqua, Eucaristia e battesimo. I Padri pur conoscendo il tema non compiono una sintesi ecclesiologico-mariologica. Nel Medioevo nasce l’esegesi mariologica che vede nelle parole di Gesù la funzione materna universale di Maria35 e il duplice legame materno Maria-Chiesa.
IV) 19,28-30: la sete di Gesù e lo spirare. La sete del crocifisso è un dato storico; i Sinottici la riferiscono ad alcuni Salmi (21,16; 68,22) ma l’espressione «ho sete» è riportata solo dal Quarto Vangelo. L’esegesi di questa sete di Gesù va vista, soprattutto, nel contesto proprio di questo Vangelo: 4,13-15, colloquio tra Gesù e la Samaritana. La sete di Gesù in questa circostanza esprime non solo un fatto fisico, ma il desiderio di Gesù di donare un’acqua viva che disseta in eterno! Sulla croce Gesù esprime quel desiderio, che si compie nel suo spirare: «E dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse: – Tutto è compiuto! – E, chinato il capo spirò». Da una parte, queste parole comunicano un gesto fissato nella memoria dei testimoni che i Sinottici non impiegano e dall’altra, denotano una costruzione nuova. Infatti, paradídomi e pneuma, che nel Quarto Vangelo sono sempre in funzione del dono dello Spirito, ci consentono di tradurre non tanto “spirò” ma “donò lo Spirito”, perciò preludono al dono pentecostale, che già ora realizzano. Il segno di questo Spirito è l’alito del Crocifisso, che non è solo soffio umano ma divino.
V) 19,31-37: il sangue e l’acqua. L’ultima scena è importante per le parole del testimone: «Chi ha visto dice il vero» (v. 35); queste espressioni seguono quelle del sangue e dell’acqua come la deposizione sull’integrità delle gambe e della trafittura. I due particolari sono introdotti dal narratore stesso; è presente l’esegesi messa in relazione al rito dell’agnello pasquale, che doveva essere mangiato senza spezzargli le ossa (Nm 9,12; Es 12,10); Gesù è il vero agnello pasquale e nella croce si adempie il valore di Cristo come agnello «che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29). Questo tema è tipicamente giovanneo.36 Le parole sulla fuoriuscita del sangue e dell’acqua vengono riferite ai testi biblici di Zc 12,10-13 e Ez 47,1ss. Attraverso questi passi profetici appare che Cristo, oltre ad essere l’agnello di Dio, è il nuovo tempio di Dio; di qui l’interpretazione che il dono del sangue e dell’acqua sono segno della passione e dello Spirito che generano vita.
1.10. Punti conclusivi
a) La morte di Cristo come morte di croce non è una qualsiasi morte, ma può essere considerata come martirio profetico, o sacrificio profetico, legato alla testimonianza della verità (dialogo Gesù-Pilato).37 Il valore del sacrificio come testimonianza della verità, più che un sacrificio cultuale, è un sacrificio esistenziale.
b) L’evento della morte di Gesù Cristo non è legato solo allo scontro con le potenze del male, ma come un mistero che è scritto nel disegno di Dio Padre, che appare nella vita e morte di Gesù come il compimento d’amore di tutta la sua pro-esistenza, essere-per, essere-per-il-Padre-e-per-gli-uomini. La morte è l’atto più grande di amore, per cui la croce redime particolarmente perché è rivelazione dell’amore di Dio per l’umanità. Il Concilio Vaticano II ha parlato più di tutti della croce,38 la Chiesa ha il dovere di annunziare la morte sulla croce di Cristo come rivelazione dell’amore universale di Dio per la salvezza degli uomini.
c) La morte di Gesù sulla croce è un evento storico, non solo perché è accaduto veramente in un determinato tempo, ma poiché domina la storia trasformandola; infatti, la croce mostra il giudizio di Dio sul mondo,39 ma questo appare come un giudizio di misericordia, di perdono, di salvezza, specialmente nel Vangelo di Luca.
d) La morte di Gesù è vista come un dramma di abbandono. È un dramma umano: Gesù è nella perfetta comunione con il Padre, ma vive anche misteriosamente l’esperienza di lontananza come solidarietà con l’umanità peccatrice. È altresì dramma trinitario, in cui l’abbandono è espressione di consegna d’amore da parte del Padre del proprio Figlio agli uomini, e nello stesso tempo è l’auto-consegna di Gesù che si offre al Padre per gli uomini, e la consegna dello Spirito che viene donato dal Cristo morente.
e) La morte di Gesù rivela, inoltre, il mistero ecclesiale, in modo particolare nel Quarto Vangelo. Quando Gesù muore, nasce la Chiesa. I Padri hanno sottolineato il rapporto tra la prima e la seconda Eva e tra Adamo e Cristo. Questa nascita mistica della Chiesa, personificata in Maria, indica anche la sua maternità spirituale, consacrata Madre di tutti i credenti (la consegna al discepolo che Gesù amava). La Chiesa nasce come sposa congiunta al mistero di Cristo, dalla sua parola e dall’azione dello Spirito. È fondamentale rimarcare l’unità tra Maria, la Parola e il soffio dello Spirito.
f) Gesù vede la morte sempre alla luce della Risurrezione: «dopo tre giorni risorgerà» (tradizione della passione); in Lc 23,43 la morte è il passaggio escatologico al paradiso. Da un lato, la Risurrezione è la vittoria contro le potenze del male per merito dell’umiliazione del Servo che sconfigge la croce come orrendo delitto commesso dagli uomini. L’esaltazione appare in un’opposizione dialettica con l’umiliazione: «Voi l’avete ucciso, Dio l’ha risuscitato» (At 2,22-23). Dall’altro lato, la Risurrezione è il compimento del mistero della croce, vista non come delitto, ma come parte del disegno del Padre.
2. LA RISURREZIONE
Non possiamo, in questo contesto, non riferirci alle pagine del secondo testo su Gesù di Nazaret, di Benedetto XVI. Egli mostra come la risurrezione di Gesù non sia una teoria o un mito, ma il fatto più significativo della storia, che ci permette di rispondere che la morte non ha l’ultima parola, perché a trionfare alla fine è la Vita. Nel suo ultimo libro usa il termina “paradosso” sostenendo che esso va oltre la scienza. La risurrezione di Gesù non contrasta con il dato scientifico della realtà ma è qualcosa che va oltre la scienza, qualcosa che ci dice che «esiste un’ulteriore dimensione rispetto a quelle che finora conosciamo», scrive. Le testimonianze bibliche sulla Risurrezione, che il Papa definisce «storicamente credibili», raccontano di «qualcosa che non rientra nel mondo della nostra esperienza. Si parla di qualcosa di nuovo, di qualcosa fino a quel momento unico – si parla di una nuova dimensione della realtà che si manifesta». Quindi, «non si contesta la realtà esistente» ma si apre «un’ulteriore dimensione rispetto a quelle che finora conosciamo». E ancora: Gesù risorto «non è un cadavere rianimato» destinato in «un tempo più o meno breve» a tornare nella vita di prima e ad un certo punto «morire definitivamente». La sua risurrezione «è stata l’evasione verso un genere di vita totalmente nuovo, verso una vita non più soggetta alla legge del morire e del divenire, ma posta al di là di ciò; una vita che ha inaugurato una nuova dimensione dell’essere uomini».40
1) Nell’impostazione della cristologia odierna la risurrezione occupa un posto fondamentale: perché non c’è cristologia senza Risurrezione e soprattutto perché la cristologia della Chiesa parte dalla Risurrezione, che non è il principio assoluto della riflessione cristologica giacché presuppone la cristologia di Gesù. Il movimento della cristologia che parte dal Gesù storico si compie nella morte e risurrezione, che diviene punto di vista retrospettivo del passato, ma anche il suo punto di partenza.
2) Il problema della storicità della Risurrezione è uno dei più dibattuti; ma abbiamo dei punti fermi:
a) La Risurrezione è un evento reale, oggettivo, compiutosi in Gesù Cristo. Non siamo d’accordo con Bultmann, per cui la Risurrezione avviene esclusivamente nel kerygma.
b) Questo evento oggettivo si può considerare un fatto storico? Prima di tutto escludiamo la concezione per cui la risurrezione di Gesù è un avvenimento puramente intra-storico, cioè verificabile direttamente da chi vive nella storia, come ad esempio per quanto avvenuto a Lazzaro. Quando un evento avviene nella storia, tutti possono controllarlo, vederlo, interpretarlo; la risurrezione di Gesù si pone come evento meta-storico ed escatologico, qualitativamente differente da quella di Lazzaro, è un avvenimento glorioso, tipico della fine dei tempi. I testimoni della Risurrezione sono limitati: solo coloro ai quali è stato dato di esserlo. È un Avvenimento della fine della storia anticipato, presente ed operante adesso nella storia; come? Attraverso la testimonianza dei discepoli, della Chiesa apostolica; questa testimonianza è accompagnata dalla potenza dello Spirito che scaturisce dal Cristo risorto.
c) L’evento della Risurrezione è storicamente conoscibile, cioè Cristo risorto non si può incontrare in Se stesso attraverso le nostre risorse, ma dai segni che Egli ha lasciato. È una conoscenza storica indiretta ma valida; per esempio il sepolcro vuoto confermato anche da altre attestazioni o la conversione dei discepoli, che passano dallo stato di scoramento alla certezza della fede. Riguardo alla materialità di questa Risurrezione rimane quasi tutto aperto; tuttavia viene affermato esplicitamente che il suo modo sarà radicalmente diverso. Che cosa significhi positivamente il suo realismo pneumatico contrapposto alle varie interpretazioni spirituali non è possibile conoscerlo pienamente. Pur tuttavia il pensiero che alla fine l’intera creazione di Dio entrerà nella salvezza, in qualsiasi modo ciò avvenga, è tanto evidente che una sistematizzazione ragionevole del dato biblico non potrà fare a meno di tenerne conto (cfr. Cor 15,20-28 e il libro dell’Apocalisse). Michel Hubaut riguardo alla materialità della Risurrezione afferma che la materia, permeata di energia, non è statica: «Lo Spirito Santo, energia divina che abita già lo spirito dell’uomo dona forse alla materia – che il Cristo ha assunto per l’eternità – una forma nuova e inedita? Probabilmente sì. Noi però siamo cittadini del cielo, da dove attendiamo anche come salvatore il Signore Gesù Cristo, che trasformerà il nostro misero corpo per uniformarlo ai suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutto l’universo (Fil 3,20-21)».41
La scienza fisica s’ingegna sempre di più per disintegrare la nozione stessa di materia che sembra soprattutto fatta di vuoto, attraversato da particelle, campi di forze, flussi di energia. Essa è in continuo cambiamento. Einstein non ha forse affermato che E = mc2, cioè una massa materiale può trasformarsi in energia pura? La fisica fondamentale rende quindi sempre più problematica qualsiasi rappresentazione materialista della materia che ha, secondo certi fisici, delle strane affinità con lo spirito. Non è dunque inverosimile pensare che il corpo materiale dell’uomo terrestre, strutturato da flussi di materia come di energia, possa, dopo la morte biologica, essere trasfigurato, cioè ricevere un’altra struttura conservando sempre le tracce del suo io unico. L’uomo rimarrebbe perfettamente se stesso indipendentemente dal supporto materiale che serve a costruirlo e che può consumarsi e degradarsi. Ora se, da una parte, queste convergenze della scienza allargano l’orizzonte del possibile, dall’altra esse non potrebbero essere il fondamento della fede cristiana, che si basa sul Cristo risuscitato, la cui contemplazione ci fa intravvedere la realtà di questo mistero. Infatti se Cristo si è incarnato, non è stato per liberarsi della sua umanità come una vecchia pelle, un brutto ricordo passeggero, ma per trasformarla con la sua potenza di vita.42
In conclusione la risurrezione di Cristo è un evento storico, non nel senso intrastorico – come in Lazzaro – ma metastorico-escatologico. È storico perché realmente operante nella testimonianza dei discepoli, forti dello Spirito che li accompagna ed è storicamente conoscibile nei segni lasciati nel nostro mondo.
2.1. Caratteristiche dell’esperienza del Risorto
Abbiamo solo una testimonianza diretta che menziona questa esperienza, ed è quella di Paolo, che considera il suo incontro con Cristo risorto pari a quello di tutti gli altri apostoli: «Apparve a Cefa e quindi ai Dodici. Ultimo fra tutti apparve anche a me» (1Cor 15,5.8); egli fonda la sua dignità di Apostolo proprio sulla sua personale esperienza. Essere apostolo ed essere testimone vanno congiuntamente: l’esperienza di Paolo è paradigmatica. Evidenziamo tre aspetti del Cristo risorto:
a) L’iniziativa del Risorto. Nell’esperienza del Risorto il testimone è in uno stato passivo, subisce l’apparizione, anche perché tutto avviene inaspettatamente. Questo particolare è molto importante, perché sottolinea l’oggettività dell’apparizione. Il Risorto irrompe nell’esistenza del testimone imponendosi improvvisamente; il participio ófthe più che “fu visto”, visus est, può essere tradotto con “si mostrò”.
b) Fisicità della visione. L’esperienza del Risorto non è soltanto interiore. Vedere il Risorto non è riconoscerlo tale in un’esperienza mistica oppure con gli occhi della fede; i racconti asseriscono una visione concreta ma anche fisica, evidenziando il vedere e il toccare: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita».43 È un’allusione non solo alla vita eterna manifestatasi prima di Pasqua, ma anche alle apparizioni post-pasquali, quindi relazionata ad un incontro con una persona oggettiva.
c) Coinvolgimento dell’esistenza dei testimoni. Chi vede il Risorto, risorge, partecipa di questa risurrezione e cambia; per cui non si può vedere il Risorto e rimanere nei peccati, rimanendo assenti. L’incontro con il Risorto trasforma e rende testimoni sia le donne sia i discepoli. Questi tre aspetti (iniziativa, fisicità, coinvolgimento) sono paradigmatici.
2.2. La testimonianza del Risorto nei racconti pasquali
Come nasce la fede nel Cristo risorto? La risposta a queste domande è data dalle apparizioni, dai racconti pasquali, la cui importanza da un lato è dovuta alla loro storicità (1Cor 15,3ss), dall’altro perché è da quegli incontri pasquali che è scaturita la fede nel Cristo risuscitato. Con H. Schlier si può sostenere che «il Cristo risorto si fa presente nella storia attraverso le apparizioni». Posta questa prima osservazione, quando parliamo dei racconti pasquali da una parte, dobbiamo rilevare la testimonianza diretta,44 dall’altra, una serie di racconti pasquali delle apparizioni, che sono molteplici e raggruppabili in due modelli fondamentali: galilaico e gerosolimitano.
a) Modello galilaico.45 Caratteristica dell’apparizione di Gesù ai suoi, nel racconto di Mt 28,16-20, è che Cristo appare Signore della storia, il Risorto s’impone nella sua maestà divina, tant’è vero che i discepoli appaiono in adorazione; se la solennità del Risorto è evidenziata, è pur vero che i comandi del Risorto e la sua presenza nella storia si realizzano attraverso i discepoli. Il Risorto è operante nella storia nella predicazione del Vangelo, nel battesimo e quindi nella Chiesa:46 «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (28,20). Le caratteristiche del modello galilaico sono:
Solennità, divinità, signoria sulla storia (v. 18);
Comando di missione «Andate...» (v. 19);
Presenza del Risorto nella Chiesa Sacramento di Cristo47 e attraverso di essa nella storia e nel mondo.
b) Modello gerosolimitano.48 I racconti gerosolimitani mettono in luce non la gloria ma la familiarità del Risorto, che appare non come Signore della storia ma con un tono confidenziale, con un atteggiamento quotidiano simile a quello precedente (mangia con loro il pesce...). Emerge, inoltre, l’iniziativa del Risorto, come in Paolo, che accentua i seguenti aspetti:
1) Elezione. È Cristo che elegge, sceglie, i testimoni e non chiunque può incontrare il Risorto.
2) Inaspettato. Il Risorto si manifesta a persone che non l’aspettano, che sono smarrite e nel timore. Questo mostra che l’apparizione viene da una fonte extrasoggettiva, esterna.
3) Difficoltà del riconoscimento e segni. Il riconoscimento del Risorto non è immediato (in entrambi i modelli); questo fa comprendere che l’incontro col Risorto non può realizzarsi solo con lo sforzo umano e se non intervengono precisi motivi d’identificazione. In tutti i racconti il tema della confessione del Risorto è fondamentale. Quali sono, allora, le vie attraverso le quali Cristo è riconosciuto?
a) I gesti familiari. Gesù appare nella sua forma terrena, parla, mangia con i suoi; è il problema del vedere, toccare. Questa forma è adeguata al compito cristologico di ravvisare nel Risorto il Gesù di Nazaret terreno e crocifisso, lo stesso con cui avevano vissuto prima.
b) Le mani e costato. Non possiamo intendere il Risorto se non congiuntamente alla Croce; il Risorto non piomba dal cielo, ma è quello stesso Gesù morto sul Calvario: è risuscitato il Crocifisso!
c) La parola. I discepoli di Emmaus attraverso la parola di Gesù sentono «ardere il cuore in petto»; si prepara già l’identificazione. Maria di Magdala lo riconosce solo quando Gesù la chiama per nome: «Maria!». La parola di Gesù è la via mediante la quale noi riconosciamo il Risorto.
d) Lo spezzare il pane. Gesù mangia con i suoi discepoli. Il tema della commensalità in Luca ha un’importanza particolare ed è il momento culminante del racconto di Emmaus: «Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (Lc 24,31).
La difficoltà del riconoscimento è importante poiché indica che il Risorto è in una condizione nuova di esistenza e l’uomo non può identificarlo se non nelle vie prima indicate; condizione nuova che manifesta Gesù non “secondo la carne”, ma katá pneuma, “secondo lo Spirito”. Il Risorto è colui che è passato dalla condizione secondo la carne, alla condizione secondo lo Spirito, che sfugge alla percezione puramente umana, senza l’aiuto di quei segni e la visione della fede. L’evento del Risorto è sempre legato alla testimonianza: negli Atti è presente la formula: «Cristo è risorto e noi ne siamo testimoni». Il Risorto si mostra ad alcuni eletti perché siano testimoni per tutti; se noi oggi crediamo, è perché confidiamo in chi Lo ha incontrato: c’è sempre l’azione della grazia, dello Spirito nell’accogliere questa testimonianza. Le apparizioni non sono un vedere nuovamente Gesù come in precedenza, ma conoscerlo in un modo nuovo. Le apparizioni sono eventi di rivelazione o cristofanie: i discepoli comprendono il Risorto perché egli si presenta in una veste profondamente rinnovata.
c) Il sepolcro vuoto. Una volta questo dato godeva primaria importanza, ma pian piano è stato ridimensionato. La fede nella Risurrezione non è legata al sepolcro vuoto, ma alle apparizioni; tuttavia il sepolcro vuoto è un dato storico, che gli stessi contemporanei di allora ammettono, non negato, ma interpretato diversamente, confermando così che il mattino seguente la tomba è vuota. Com’è attestato? Attraverso due tradizioni.
1) Sinottica: Mc 15,42-47. Le donne che vanno al sepolcro sono le protagoniste di questi racconti, ma il punto centrale sono le parole degli angeli (angelofanie): «Non è qui»; le donne testimoniano la Risurrezione in un mondo in cui esse non erano attendibili. Quel che colpisce è il fatto predominante che è risorto. Infatti, vedendo la tomba vuota non sapevano cosa pensare: la tomba vuota non genera di per sé la fede. Lc 24,12 ha appena un versetto: «Pietro tuttavia corse al sepolcro e chinatosi vide solo le bende. E tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto»; è un tema importante, perché gli stessi uomini, non solamente le donne, testimoniano, anche se Pietro è incapace di chiarire il perché la tomba sia vuota. 2) Quarto Vangelo: 20,3-10. Passiamo al Quarto Vangelo parallelo a Luca:
Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo – quello che Gesù amava – e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi vide le bende per terra, ma non entrò. Giunse pertanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.
C’è bisogno di fare una certa lettura di questo episodio, che mette a confronto due primati, profondamente congiunti e non esclusivi: quello di Pietro e quello carismatico. Registriamo una vera e propria ispezione del sepolcro, descritta con meticolosità. Queste bende, che di solito avvolgono il corpo del defunto, sarebbero bende ben riposte nella stessa composizione al momento della sepoltura; ma questa è un’esegesi non rinvenibile dal testo. La descrizione sembra rispondere a un intento apologetico, per cui non c’è stato un trafugamento del cadavere. Il corpo non è nel sepolcro, tutto però ha avuto luogo oltrepassando le comuni leggi naturali e fisiche.
3) Significato dei racconti sul sepolcro vuoto. Perché i Vangeli hanno trasmesso questo dato? Questa domanda verte sulla motivazione della narrazione.
a) Motivazione apologetica. Una risposta è di natura apologetica, legata molto alla redazione di Mt 28,11-15: dopo il fatto della Risurrezione le guardie riferirono ai sommi sacerdoti l’accaduto, ma questi le convinsero a dichiarare la «diceria divulgata dai Giudei fino ad oggi» (v. 15).
b) Motivazione cultuale. Studi più recenti hanno richiamato l’attenzione al culto del sepolcro vuoto. Questi elementi non possono far parte di un racconto meramente apologetico, ma di un racconto di una comunità di fede; ad esempio i luoghi di sepoltura dei martiri sono sempre stati venerati dagli ebrei. Questa tradizione la riprende la comunità cristiana delle origini, facendo del luogo della sepoltura di Gesù meta di pellegrinaggi e venerazione; all’inizio la comunità cristiana si riuniva nel sepolcro per celebrare il culto. Questo fatto può altresì spiegare l’aspetto tardivo del racconto sinottico, quando ormai il culto per il sepolcro vuoto era notevolmente esteso per la comunità di Gerusalemme. La stessa processione delle donne la cerimonia della comunità primitiva che celebra presso il sepolcro.49
c) Sepolcro vuoto e risurrezione di Cristo. Siamo di fronte a un dato storico da considerare rispetto al mondo giudaico, dove non sarebbe stato possibile l’annuncio della Risurrezione con una tomba non vuota. Il kerygma sarebbe privo di radici! Il sepolcro vuoto è un dato storico, ma dal punto di vista della fede non possiamo affermare che esso ha suscitato la fede nella Risurrezione, ma solo lo stupore, l’inspiegabilità. La fede nel Cristo risorto nasce dalle apparizioni e non dal sepolcro vuoto, di cui consente la giusta interpretazione. Il sepolcro vuoto appare non più come segno di morte nella visione cristiana, ma è segno di vita; nella tradizione ebraica il cadavere nel sepolcro è segno di morte, fino al “terzo giorno” lo spirito aleggia sulla tomba, dopodiché la morte prevale definitivamente sul corpo. Il sepolcro in questa tradizione è segno del trionfo della morte sulla vita; vuoto indica la vittoria della vita sulla morte, poiché la morte di Gesù ne ha cambiato il significato. Nella visione biblica la morte è connessa al peccato, è segno della condizione peccatrice dell’uomo; ora Gesù ha fatto della morte non il segno della disobbedienza ma dell’obbedienza, il passaggio alla vita. In questa riflessione il sepolcro vuoto può essere visto come segno tangibile della morte come accesso e trionfo della vita; il sepolcro vuoto diventa il segno di una morte diversa, transito pasquale, cammino verso Dio sorgente della vera vita. Questo segno è dunque rilevante, ma non va considerato come l’origine della fede.
2.2.1. L’annuncio del Risorto nel linguaggio neotestamentario
La fede cristiana nel Cristo risorto s’è espressa, come sempre, attraverso dei linguaggi. Il linguaggio è parte costitutiva e consapevole dell’uomo, di conseguenza non abbiamo in un primo momento la sola esperienza e in seguito la comunicazione della stessa poiché l’uomo fa esperienza linguisticamente; allo stesso modo non c’è un’esperienza di Cristo risorto espressa poi mediante un linguaggio, ma un’esperienza del Cristo risorto in un contesto linguistico. Il Nuovo Testamento riferisce l’esperienza del Cristo risorto attraverso una moltitudine di linguaggi; ciò è importante perché la teologia non deve impugnare un solo linguaggio omettendo gli altri; i linguaggi documentano la pluralità degli aspetti della Risurrezione. Ad esempio in Luca, parlando del sepolcro vuoto, gli angeli dichiarano: «Perché cercate tra i morti colui che è in vita?».50 Ma quali sono questi linguaggi?
1) Formule passive. In epoca più tardiva appaiono formule attive: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,19); «Io ho il potere di offrire la mia vita e il potere di riprenderla di nuovo» (Gv 10,17-18). Questo linguaggio di Risurrezione è articolato sull’asse semantico vita-risurrezione. Presso gli ebrei, in epoca tardiva, si parlava di risurrezione escatologica.51 Il contesto di questo linguaggio usato dalla prima comunità cristiana per annunciare la risurrezione di Cristo è che la risurrezione di Cristo non è una qualsiasi risurrezione dalla morte, ma è la risurrezione escatologica, il principio della risurrezione universale. In At 4,2 «annunziavano in Gesù la risurrezione dai morti!».
2) Formule attive. Questo linguaggio di risurrezione compare in diverse formulazioni: una passiva, come atto del Padre che ha risuscitato Gesù dai morti; è la formulazione più antica, come nei discepoli e apostoli di At 2,2324: «Voi l’avete ucciso, ma il Padre lo ha risuscitato». La predicazione cristiana mette l’accento sul “terzo giorno”;52 questo inciso non va preso in senso autobiografico, ma qualitativo e teologico: nella Bibbia il terzo giorno manifesta la potenza salvifica di Dio. Il significato di questo inciso è escatologico: la risurrezione di Cristo è l’evento apocalittico della fine della storia che dischiude l’era della risurrezione universale. Questo è il linguaggio più sostanzioso, giacché fa parte del linguaggio kerygmatico, che è predominante. Si registrano, altresì, linguaggi di esaltazione e di glorificazione che compaiono nelle formule di culto e negli inni pasquali e cristologici. Questi linguaggi hanno un asse semantico diverso: terra-cielo, abbassamento-esaltazione. L’influenza di questi linguaggi risiede particolarmente nella loro valenza teologica, perché segnano come la risurrezione di Cristo condivida la stessa gloria del Padre; perciò la risurrezione di Cristo è gloriosa, non un semplice riprendere il corpo, dopo la morte, per ristabilire la vita terrena. Il linguaggio di esaltazione pone l’accento sulla divinità di Cristo, sulla sua identità di unione col Padre, completando così il quadro della Risurrezione. In tale prospettiva l’aspetto glorioso del Cristo risorto comunica la vita divina poiché è un evento che tocca la persona non solo come integrazione antropologica, ma come partecipazione alla sua stessa gloria, cioè divinizzando l’uomo.
2.2.2. L’annuncio della Chiesa primitiva dopo la Pentecoste
Vediamo, ora, come la Chiesa dopo la Pentecoste ha capito, creduto e trasmesso il mistero del Dio fatto uomo per la nostra salvezza. La luce della risurrezione di Cristo ha permesso agli apostoli di essere illuminati in profondità sulla realtà della persona e della vita di Gesù. Per fondare la continuità personale tra il Gesù storico e il Cristo della fede riaffermiamo anzitutto la non contraddizione tra storia e fede. La fede, infatti, non è un mito senza fondamento storico, né un paradosso senza fondamento razionale e, dal canto suo, la storia non è solo l’ambito di eventi intramondani, ma ospite anche del dialogo salvifico di Dio con l’uomo. Conseguentemente, nell’evento Cristo, storia e fede sono indissolubilmente legate, sì che il Cristo della fede è fondato sul Gesù della storia, e questi è l’ispiratore della fede della primitiva comunità cristiana. Cristo è personalmente lo stesso sia nella sua storia, sia nella fede dei credenti, anche se, metodologicamente parlando, si possono e si devono distinguere i vari strati presenti nel Nuovo Testamento (il Gesù storico, la comunità primitiva, l’attività dell’autore sacro). Se c’è, una fede post-pasquale è senza dubbio per due motivi. Il primo è perché c’è stata una Pasqua, vale a dire l’evento della morte e risurrezione di Cristo che ha apportato una luce nuova alla comprensione dei discepoli. Tale comprensione, e questo è il secondo motivo, sarebbe dimostrata comunque impossibile se prima non ci fosse stata una preparazione che Gesù stesso ha fatto con essi. Gli angeli, annunciando alle donne che Gesù è risorto, comandano a esse di ricordarsi delle parole che Egli aveva detto loro in Galilea, cioè durante il suo ministero pubblico; «ed esse si ricordarono delle sue parole» (Lc 24,4-8). Quando Gesù appare dopo la sua risurrezione «appare non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti», cioè ai suoi discepoli53 (At 10,41). Non ci sarebbe una fede postpasquale senza un’iniziazione alla fede pre-pasquale. Non dimentichiamo, inoltre, che non soltanto la Risurrezione ha prodotto questa nuova luce, ma anche e soprattutto la discesa dello Spirito Santo che ha permesso agli apostoli e ai credenti in Cristo di partecipare della sua risurrezione. La fede della comunità delle origini, a partire dall’esperienza del Risorto, è non senza fondamento nella storia pre-pasquale di Gesù, dunque che l’uomo Gesù è stato fin dal primo istante della sua vita terrena il Figlio di Dio venuto in questo mondo, che ha assunto nell’essenzialità una storia veramente umana, ha manifestato pienamente nella sua risurrezione il suo volto divino ed ha giustificato, per l’uomo stesso, la speranza che non delude. Per questa pienezza della presenza divina in Lui, il Crocifisso Risorto si situa come il criterio e la luce in cui rileggere il già e non ancora, il compimento dell’attesa e la promessa di un nuovo, definitivo compimento. A Pasqua nascono insieme la fede e la speranza dei cristiani.
Il contenuto dell’annuncio della Chiesa primitiva54 si compendia nella parola kerygma,55 relativo all’etimologia dal verbo kerusso, che specifica una proclamazione pubblica, il cui contenuto è appunto il kerygma. Questo vocabolo acquista nel Nuovo Testamento un preciso senso che focalizza il contenuto dell’annuncio cristiano, la sostanza della proclamazione della buona notizia. In questo senso il termine equivale a vangelo,56 cioè alla buona notizia predicata dagli apostoli (cfr. il parallelo in Rm 16,25). Il kerygma è così rilevante che si è salvati aderendo ad esso (1Cor 1,21), senza nulla toglierli (1Cor 15,2). Negli Atti degli Apostoli sono riportati schematicamente una serie di annunci, da cui possiamo desumere i punti essenziali della predicazione.
L’inviato di Dio Gesù di Nazaret (2,22; 3,13; 4,12; 5,30; 10, 36-38; 13,23-25),
è stato ucciso per mezzo della croce (2,23; 3,14-15; 4,10; 5,30; 10,39; 13,27-29),
Dio lo ha però risuscitato (2,24-32; 3,15; 4,10; 5,30; 10,40; 13,30.37),
è apparso a testimoni specifici (2,32; 3,15; 5,32; 10,40-41; 13,31)
vive innalzato alla destra di Dio ed è costituito Signore (2,33-36; 3,21; 4,10.12; 5,31; 10,42),
ha inviato il dono dello Spirito Santo (2,33; 5,32).
A questi punti vanno aggiunti la chiamata a conversione e il perdono dei peccati, ambedue congiunti con l’invio dello Spirito (cfr. At 2,38).
Fondamentalmente ravvisiamo nel kerygma una forte carica di storicità, poiché colui di cui si sta parlando, non è un mito, ma Gesù di Nazaret «accreditato da Dio presso di voi con segni e prodigi», quel Gesù che «voi avete crocifisso», proprio Lui è lo stesso che è risorto e che è apparso. Insistendo sulla testimonianza di coloro che lo hanno visto risorto, è garantita la validità di quanto proclamato. Chi annuncia si fa personalmente carico di quanto afferma, mettendo in gioco la sua vita per supportare le sue affermazioni, gli stessi apostoli attestano la propria esperienza, che può diventare tale anche per chi si converte. Analogamente lo stesso Spirito Santo accolto nel Cenacolo sarà ricevuto da coloro che crederanno (At 2,38; 5,32; 10,44-46). Gli uditori del kerygma sono incoraggiati a compiere la stessa esperienza di chi annuncia, a incontrarsi cioè con il Cristo Risorto, confidando nella buona notizia.
Il kerygma più antico riportato nel Nuovo Testamento è quello che troviamo in 1Cor 15,3-8, dove si presenta in una forma più essenziale.57 Infatti, se Paolo scrive questa lettera a metà degli anni Cinquanta, non solo riporta la predicazione divulgata ai Corinzi anni prima, ma anche che lo stesso “Vangelo” (15,1) trasmesso tale e quale egli lo ha ricevuto (v. 3a). Pertanto, menzionando come gli sia stata annunciata una buona notizia, fa certamente riferimento al tempo della sua conversione, dunque un periodo vicinissimo alla Pasqua. Siamo alla presenza di una specie di credo primitivo, indubbiamente il più antico che conosciamo.58 Per di più, occorre accentuare l’importanza della coppia dei verbi ricevuto-trasmesso, binomio questo che testimonia l’esistenza e l’importanza della tradizione orale. Sussisteva una considerevole fedeltà alla tradizione orale, tant’è che Paolo dichiara che quanto ha trasmesso è causa di salvezza «se lo mantenete nella forma in cui lo abbiamo annunciato» (15,2). La salvezza operata dall’evento pasquale di Gesù raggiunge ora la vita degli uomini mediante l’annuncio del Vangelo. Si realizzano le parole rivolte da Gesù a Tommaso: «Beati quelli che non hanno visto (il Risorto, come gli apostoli e altri eletti) e hanno creduto (alla testimonianza apostolica)» tant’è che la salvezza avviene mediante la fede nella predicazione (1Cor 1,21). Seguendo 1Cor 15,3-8 sintetizziamo il contenuto dell’annuncio evangelico. Nei vv. 3b-5 compaiono di quattro verbi: morì, fu sepolto, risuscitò, apparve, che hanno Cristo come soggetto. Il primo e il terzo verbo affermano le due realtà fondamentali del mistero pasquale, la morte e la risurrezione di Cristo, mentre il secondo e il quarto pongono l’accento, confermando l’affidabilità dichiarata dalle due realtà precedenti. L’affermazione “morì e fu sepolto” intende realmente evidenziare che la morte e la sepoltura di Cristo non sono state una finzione. Alla stessa stregua, dichiarare “risuscitò e apparve”, ha l’obiettivo di garantire la certezza della sua risurrezione, il farsi vedere vivo e risorto.
Comprensibilmente spicca un verbo: risuscitò. Nella lingua italiana non si nota la differenza dalle altre forme verbali utilizzate, mentre nel testo originale greco è evidente. Infatti, laddove gli altri tre verbi sono coniugati all’aoristo, egheghertai è al perfetto. “Morì, fu sepolto e apparve” esprimono, allora, una precisa azione verificatasi nel passato, mentre il verbo al perfetto determina come l’evento passato non cessa minimamente nei suoi effetti. La risurrezione di Cristo non è un fatto a sé stante, come l’episodio prodigioso di Lazzaro, il quale tuttavia è morto ex novo, ma è unica, poiché i suoi efferti perdurano. Annunciando la sua risurrezione, la Chiesa proclama la vittoria di Cristo sulla morte, come afferma Rm 6,9: «sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più, la morte non ha più potere su di lui». Il suo sepolcro rimane, tuttavia vuoto perché Egli continua a vivere in eterno. Questa è la grande novità che annuncia il cristianesimo, cioè la vittoria sulla morte, alla quale prendono parte i credenti in Cristo.
Già la fede ebraica, almeno nella sua forma più diffusa e popolare, era arrivata a contemplare la risurrezione finale alla fine dei tempi. In Gv 11,24 Marta confessa tale credenza e Gesù, confermandola nella sua fede, le annuncia che è Lui stesso la risurrezione e chiunque crede in lui non morirà in eterno (Gv 11,25-26), dunque partecipa della sua vittoria sulla morte. Credere alla buona notizia, alla sua risurrezione, significa non solo credere che egli sia vivo per sempre, ma che salva perfettamente coloro che si avvicinano, per suo tramite, a Dio, essendo il Vivente che intercede in loro favore (Eb 7,25). Se i sacerdoti dell’antica alleanza morivano, la nuova si distingue poiché noi abbiamo un sacerdote eterno, che vive per sempre. Proprio in forza di questa sua vita duratura egli è in grado di salvare i credenti (Eb 7,26-28). Il perfetto del verbo “risuscitare” espresso 1Cor 15,4, ci immette nell’essenzialità dell’annuncio della fede cristiana. Giungiamo alla fede nella risurrezione di Cristo perché essa continua nei suoi effetti, in forza del fatto che Cristo è vivo. Nessuno ha assistito al momento della Risurrezione, all’uscita dal sepolcro di Gesù, Egli, però, è apparso, si è fatto vedere vivente, dopo essere uscito dal sepolcro. Si tratta di un’esperienza vera, reale, che è toccata a diverse persone e che ha cambiato la vita degli apostoli e di Paolo.
2.2.2.1. Gesù, il Kyrios
Il titolo fondamentale del Cristo risorto è quello di “Signore”. Fra le più antiche professioni di fede richieste a chi accoglieva il kerygma spicca fra tutte sicuramente quella di “Cristo è il Kyrios” (Rm 10,9; 1Cor 12,3; 8,6; At 2,36). Questo titolo racchiude delle verità di fede cristologica. Il termine kyrios nel linguaggio comune poteva significare semplicemente “padrone”, “proprietario”.59 Nell’annuncio cristiano possiede tutt’altro indirizzo. Il vocabolo greco esprime quello che per l’ebraico esprimeva la parola Adonai, applicata ovviamente a Jahvè. Sappiamo che il nome di Dio60 era impronunciabile ed era sostituito dal titolo Signore. La pronuncia del tetragramma era consentita solo nel tempio, perché esso era «il luogo dove Dio ha scelto di far abitare il suo nome», come dice una decina di volte il solo libro del Deuteronomio (cfr. per es. 12,5.11.21; 14,23.24 ecc.). Il nome divino era anzitutto pronunciato dai sacerdoti quando recitavano sui pellegrini la benedizione aronitica di Nm« 6,24-26 in ossequio a Nm 6,23 e 6,26: «Voi benedirete così gli Israeliti», «così (i sacerdoti) porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò». In secondo luogo il nome era pronunciato dal sommo sacerdote nel giorno dell’espiazione o giorno del Kippur, quando recitava le tre confessioni di peccato. Secondo alcuni testi, in quel giorno il nome veniva pronunciato dal sommo sacerdote 4 volte, secondo altri 10 volte. Il coro dei sacerdoti rispondeva ogni volta cantando il responsorio: «Benedetto sia il Nome del suo Regno glorioso di eternità in eternità». Fuori del tempio poteva essere pronunciato in tribunale da chi, testimoniando contro un bestemmiatore, necessariamente riferiva la bestemmia che aveva udito.61
Per questo la traduzione greca dei LXX sostituisce il tetragramma divino con Kyrios. A questo punto il termine non è più soltanto un titolo, ma diventa equivalente dello stesso nome di Dio. Applicarlo perciò a una persona sarebbe stato impensabile per qualsiasi ebreo, equivalente ad un peccato di blasfemia, poiché non c’è che un solo Signore, Jahvè (Dt 6,4). Gli apostoli, forti dell’esperienza del mistero pasquale, sono stati condotti a riconoscere in Gesù di Nazaret lo stesso Jahvè. Confessare Gesù come Kyrios implicava attribuirgli il nome divino e impronunciabile, fatto impraticabile per un ebreo perché potesse giungere a tale conclusione senza una reale rivelazione, oltremodo sostenuta dalla fede trinitaria. Riconoscendo Cristo come il Signore si è dischiusa davanti agli occhi degli apostoli la verità dell’unico vero Dio in tre Persone.
A questo riguardo tra i testi fondamentali spicca l’inno cristologico di Fil 2,6-11, l’inno alla kenosi. Questa parola deriva da un verbo che appare cinque volte nel Nuovo Testamento (kenoo), ma applicato a Cristo solo in Fil 2,7 dove si dice che «svuotò se stesso» (eauton ekonosen),62 espressione qusta che costituisce il cuore della prima parte dell’inno, ai vv. 6-8: «Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso fecendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce». Il passo è interamente sostenuto dal verbo “svuotare” cui fa eco “umiliò se stesso”. Questa kenosi consiste nello spogliarsi della dignità divina, acconsentendo al mistero dell’incarnazione. Nella sua umanità, Gesù ha protratto il suo abbassamento, il suo umiliarsi, obbedendo fino all’ultimo (esprimendo la sua relazione filiale e la missione ricevuta dal Padre), addirittura morendo ignominiosamente crocifisso. Nella morte in croce la kenosi del Figlio, il suo “svuotamento” raggiunge il culmine, pertanto il Figlio stava al livello del Padre, cioè esisteva prima dell’incarnazione e possedeva già prima di essa la natura divina.63
Nella seconda parte dell’inno (vv. 9-11) è descritta l’esaltazione: «Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è sopra ogni altro nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra e ogni lingua proclami (exomologhesetai) Gesù Cristo è Signore (kyrios Jesous Christos) a gloria di Dio Padre». Osserviamo qui per tre volte espresso il “nome”. L’esaltazione del Figlio raggiunge l’apice nel ricevere il nome più alto che si possa avere, che è quello di Kyrios. Ricordiamo come il nome nella tradizione ebraica non è una semplice convenzione. Io darò loro, nella mia casa e dentro le mie mura, un posto e un nome, che avranno più valore di figli e di figlie; darò loro un nome eterno, che non perirà più» (Is 56,5). Dunque, il nome esprime l’essenza dell’identità spirituale, poiché è Dio stesso che diversifica ogni cosa, sin dalla creazione, secondo una specie unica e irripetibile. Nel Sal 147,4 è scritto che il Signore «conta il numero delle stelle e le chiama tutte per nome».64
Dichiarare che Dio (qui Dio equivale al “Padre” del v. 11) gli ha donato il nome di Signore non significa che prima non fosse al suo livello, poiché questo è già stato affermato nella prima parte dell’inno. Esprime, piuttosto che, grazie al mistero pasquale, il Padre ha dato a suo Figlio la possibilità di essere conosciuto e confessato come Kyrios. Questo è proclamare (exomologeo)la Signoria di Gesù, cioè la professione di fede cristologica fondamentale: Kyrios, Jesous, Christos. L’adorazione (espressa nell’inno con le le parole «ogni ginocchio si pieghi») che ogni creatura doveva a Jahvè (cfr. Is 45,23), ora è dovuta a Cristo. D’ora in poi non ci sarà altro nome nel quale possiamo essere salvati (At 4,12).
2.2.2.2. Gesù, Sovrano universale
Dal riconoscimento di Gesù come il «Signore dei Signori» (1Tm 6,15; Ap 17,14; 19,16)65 scaturisce una seconda importante verità: Gesù è il Re e Signore di tutto, è il Pantokrator. Già nel primo kerygma degli Atti, prima di affermare che «Dio ha costituito Signore Gesù» (2,36), Pietro cita il Sal 110,1: «Oracolo di Jahvè (LXX: kyrios) al mio Signore (LXX: kyrios): Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi». La signoria di Cristo è collegata con la sua ascensione al cielo e intronizzazione alla destra del Padre. Cristo siede alla destra del Padre come «Re dei re» (1Tm 6,15; Ap 17,14; 19,16), come sovrano universale. Con la sua ascensione al cielo si realizzano le promesse riguardanti il Messia davidico che regnerà per sempre.66 Questa signoria ha una dimensione fondamentalmente soteriologica. Attraverso il mistero pasquale, Cristo riceve una signoria universale a favore di coloro che egli ha redento e che lo riconoscono come loro Signore. Egli è il Signore di tutto perché ha ricevuto un potere universale: «mi è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra» (Mt 28,18), un potere che è in favore degli uomini. È il Dio fatto uomo Gesù Cristo che, avendo realizzato l’opera della salvezza, ha l’autorità di mettere sotto i suoi piedi qualsiasi potenza che tenga in schiavitù l’uomo, come leggiamo nella Lettera agli Efesini (1,19-22).67 Come capo della Chiesa, popolo dei salvati, Cristo trasmette il suo potere agli uomini che ne fanno parte, pertanto i redenti partecipano della sua signoria universale. Quella schiavitù sotto la quale soffriva l’uomo dell’antico popolo di Dio, ora è vinta definitivamente da un uomo, costituito Signore di tutte le cose e il partecipare a questo potere è ricevuto mediante l’effusione dello Spirito Santo, considerevolmente definito “potenza” di Dio (Lc 1,35; 24,49; At 1,8).
Applicare il titolo, o meglio, il nome di “Signore” a Cristo fornisce una chiave d’interpretazione per la teologia trinitaria. Infatti, se il nome Kyrios pone Gesù al pari di Dio, lo stesso termine lo distingue dal Padre. Questo appare indiscutibile, oltre che nell’inno cristologico di Fil 2, in 1Cor 8,6 dove Paolo accosta il termine Dio al Padre e quello di Signore a Cristo. «Si vuole dunque insegnare la divinità di Cristo, ma usando un termine diverso da quello del Padre. La distinzione dei due vocaboli gli permette di esprimere la distinzione delle due persone divine».68 D’altro lato, pur essendo distinto dal Padre, Cristo ne condivide la sostanziale natura. Cosicché Paolo può utilizzare il testo di Gl 3,5 («Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato») per applicarlo a Cristo (Rm 10,13).69 Il nome Signore denota il potere universale che Cristo ha ricevuto in funzione di chi ha redento, infatti l’efficacia del mistero pasquale, ricapitolata nel termine Kyrios, è compartecipata ai credenti attraverso lo Spirito Santo. Gli apostoli hanno fatto quest’esperienza fondamentale e dello stesso Paolo, che servendosi sovente di questo termine poteva non solo «attribuire a Gesù la divinità senza correre il rischio di confonderlo con il Padre, ma rifletteva anche l’esperienza della potenza divina di Cristo che si manifestava nella Chiesa primitiva».70 Questa consapevolezza non era possibile se non in virtù dello Spirito Santo che faceva conoscere nei fedeli la potenza della signoria di Cristo, realizzando quanto annunciato da Gesù nei discorsi di addio testimoniati da Giovanni. È lo Spirito Santo a portare a compimento l’opera della redenzione realizzata dal Figlio in obbedienza al Padre.
3. LA DEFINITIVITÀ DELLA SIGNORIA DI CRISTO
Il termine greco Parusia significa “arrivo”, “presenza” degli eserciti, sovrani o degli dèi. Nell’Antico Testamento non appare questo termine, anche se è sinonimo di “giorno”,71 ma può significare anche “visita” del Signore.72 Lo troviamo tuttavia nell’apocalittica greco-giudaica. Nel Nuovo Testamento in genere si può dire che non ha il senso di “secondo arrivo” o “ritorno”, ma semplicemente “arrivo” riferendosi al giorno glorioso di Cristo alla fine dei tempi. L’arrivo glorioso di Cristo alla fine dei tempi è annunciato oltre che con il termine parusia (1Ts 2,19), anche con i termini epiphàneia (manifestazione: 1Tim 6,14), apocàlypsis (rivelazione: 2Ts 1,7) e con le espressioni: “venuta del Figlio dell’uomo” (Mt 25,31), “giorno del Signore” (1Cor 1,8), ecc.73. La sua attesa della costituisce, senza dubbio, uno dei temi fondamentali della predicazione di Gesù Cristo e degli apostoli. Tuttavia non tutti gli scritti neotestamentari lo vedono sotto lo stesso punto di vista. Così, mentre nelle Lettere ai Tessalonicesi si vede una tensione molto forte verso la Parusia, questa va diminuendo nelle Epistole posteriori, e ancora di più nel Vangelo di Giovanni, dove pur perdurando l’attesa del ritorno di Cristo, si scorge una coscienza più viva del fatto che i beni escatologici sono presenti fin d’ora. Così Gv 5,14: «In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non è sottomesso a condanna, ma è passato dalla morte alla vita» (cfr. 6,54; 10,27s; 17,3). La prospettiva in cui il Nuovo Testamento mostra la Parusia è prevalentemente gioiosa, i cristiani sono definiti come «coloro che amano la venuta del Signore» (2Tim 4,8), si desidera questa venuta (Ap 22,17-20) e tutta l’Apocalisse, che ha per oggetto principale proprio l’attesa della Parusia, ha un carattere consolatorio. L’altro aspetto, più severo e conturbante, del “giorno del Signore”, è stato messo in particolare risalto dall’Occidente. La Parusia ha anche un senso morale: l’appello alla vigilanza (cfr. Mt 24,42; 25,30 e par. con le “parabole della vigilanza”; 1Ts 3,13; 5,23; Gc 5,8).
In quanto alle descrizioni scritturistiche della Parusia, dobbiamo riconoscere in esse molto simbolismo: ciò è dovuto sia al linguaggio spesso apocalittico, sia allo scopo dell’annuncio che è quello di ammonire e consolare, non quello di istruire sul futuro. Quindi non bisogna interpretarle letteralmente. Così: la «venuta sulle nubi» del cielo e il corteo angelico (Mt 24,30; 2Ts 1,7), la «raccolta degli eletti dai quattro venti» (Mt 24,31), il «suono della tromba» (1Tess 4,16), «l’oscuramento del sole e della luna» (Mt 24,29), la caduta delle stelle (Mt 24,29; Lc 21,27), ecc. Tutte queste immagini sono simboli per esprimere la Signoria definitiva di Cristo alla fine dei tempi. La tradizione si esprime in genere con termini biblici74 e lo stesso si può dire della Liturgia,75 in cui si contempla il Signore come Giudice e si anela il suo ritorno. Ogni giorno nell’Eucaristia pronunciamo: «Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo a questo calice, annunciamo la Tua morte, Signore, nell’attesa della Tua venuta». Il Magistero della Chiesa esprime la stessa idea.76
74 Didaché, 16. 75 Per la visione escatologica nella Liturgia, cfr. N. CONTE, Benedetto colui che viene. L’eucaristia e l’escatologia, Bologna 1987; AA.VV., Escatologia e Liturgia, Roma 1998. 76 Così gli antichi simboli di fede: DS 30. 76. 150; il Concilio Lateranense IV: DS 801; quello di Lione II: DS, 852, e più o meno il Vaticano II: LG, 49. 51.
3.1. Le circostanze della Parusia
Sebbene la Parusia sia un fatto chiaro, non altrettanto sono le circostanze che accompagneranno questo evento definitivo. Così:
a) La “data” della Parusia: Abbiamo un’incertezza assoluta sulla “data” della Parusia. Il Signore stesso volle manifestamente che noi ignorassimo quando sarebbe avvenuta la Parusia: «quanto poi a quel giorno e a quell’ora, nessuno ne sa nulla, neppure gli Angeli del cielo, né il Figlio: lo sa soltanto il Padre» (Mt 24,36 e par.; At 1,7).
b) Il senso del “ritardo”: perché la Parusia tarda? Innanzitutto affinché il mondo giunga a tutto lo sviluppo che Dio vuole per lui, e anche affinché impariamo ad avere bisogno di Cristo, a dire con la Chiesa e con lo Spirito: «Vieni!» (Ap 22,17). Lo dice chiaramente 1Pt 3,14s: «Perciò, carissimi, nell’attesa di simili eventi, sforzatevi tutti d’esser da Lui trovati in pace, senza macchia, irreprensibili, e considerate occasione di salvezza la pazienza del Signore nostro. In tal senso, del resto, vi scrisse il carissimo fratello nostro, Paolo, secondo la sapienza che gli fu donata».
c) I “segni” della Parusia. La Scrittura ci dà una serie di “segni” che annuncerebbero la Parusia: grande apostasia (2Ts 2,1-12; 1Tim 4,1ss; 2Tm 3,1-9), manifestazione dell’Anticristo (2Ts 2,1-12; 1Gv 2,18; 4,3), cataclismi cosmici (Mt 24,29s e par.), entrata dell’insieme dei pagani nella Chiesa come preludio alla conversione di tutto Israele (Rm 11,25-32). Come si devono interpretare questi “segni”? È difficile stabilire quando tali segni debbano ritenersi avverati, giacché anche gli autori li interpretano in diverso modo. Ma come questi si devono produrre negli ultimi tempi, che sono già iniziati con l’incarnazione, si possono vedere come già parzialmente o effettuati in Cristo o manifestatisi a noi continuamente lungo la storia. In ogni caso non si deve mai dimenticare che la loro funzione non è quella di “segnalare” la prossimità cronologica della Parusia, che deve serbare il suo carattere di sorpresa, bensì quella di rammentare la certezza di tale evento, e quindi il nostro dovere di vigilanza, di pazienza, di speranza in Cristo che verrà.
3.1.1. Interpretazione teologica della Parusia
Come si deve interpretare la Parusia? Che relazione ha con la Risurrezione? Come bisogna vedere il tempo in relazione con Cristo e con la Chiesa? Infine, come vedere la Parusia come componente definitiva di questa nuova visione escatologica che intentiamo presentare? A queste e altre domande possibili non è facile rispondere.
a) Il carattere definitivo della persona e della storia di Gesù. La Parusia nel senso teologico è innanzitutto la presenza salvifica di Cristo nello stadio definitivo della storia sacra e universale. Cioè, in Cristo risorto, nella sua umanità glorificata, la storia dell’umanità e del mondo è arrivata al suo adempimento definitivo. Cristo, nella sua risurrezione, ha vinto già il peccato, il mondo, le potenze a Lui nemiche.
b) Definitività nascosta agli uomini. Se consideriamo la Risurrezione e la Parusia dalla parte degli uomini la prospettiva cambia. È vero che Gesù ormai ha ogni cosa sotto i suoi piedi (Eb 2,8), ma dalla parte dell’umanità tutto ciò è qualcosa di futuro, e di un futuro nascosto. Infatti possiamo dire che le potenze della morte, della schiavitù, della discordia sono ormai vinte? Il corso degli avvenimenti non sembra smentire il carattere definitivo della persona di Gesù, della sua signoria e della sua salvezza? La risurrezione di Gesù non sembra essere rimasta un evento isolato, un episodio? In una parola, come dobbiamo considerare la Parusia?
Tuttavia Cristo è il sovrano della storia e sta presente in mezzo a noi. È già presente sulla terra a vari titoli (Mt 18,20): nella riunione di due o tre persone nel suo nome; «sapete che io sto con voi tutti i giorni fino alla fine dei tempi» (Mt 28,20), è presente anche col suo corpo, nell’Eucarestia. Inoltre Gesù, hic et nunc, esercita continuamente la sua Signoria e il cristiano deve attualizzare continuamente la risurrezione e il giudizio di Dio. Continuamente Cristo ci rivolge l’appello alla conversione, al comandamento di amare Dio e il prossimo con tutte le nostre forze, e al cuore indiviso (cfr. Lc 9,26). A questo continuo appello va unito anche il giudizio. Perché il giudizio non è altro che la separazione tra quelli che accettano o non accettano la Signoria di Gesù. Evidentemente l’opzione definitiva ha luogo soltanto alla fine della vita, nella morte, ma viene preparata durante la nostra vita.
c) La Parusia come manifestazione definitiva della Signoria di Cristo. Anche se durante il corso della storia si manifesta la Signoria di Cristo, la Parusia significa: 1) la consumazione di questo processo, la cui durata intramondana nessuno conosce, perché un’azione incalcolabile della libertà di Dio (Mc 13,32); 2) la rivelazione a tutti (perché tutti saranno consumati nella salvezza o nella perdizione definitiva operate da Dio) di cui la risurrezione di Cristo è il fondamento, l’inizio e il senso. Lo dice chiaramente Paolo nel discorso all’Areopago: «Dopo esser passato sopra ai tempi dell’ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi, poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha destinato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti» (At 17,30s). Perciò Cristo è presente nella storia, ma allo stesso tempo le realtà escatologiche si presentano a noi come future. E Cristo non manifesterà definitivamente la sua Signoria che nel giorno del giudizio, considerato come manifestazione e vittoria definitiva di Dio, come padrone della storia, giacché in tale manifestazione apparirà chiaro che la storia è stata opera di Dio e che essa aveva il suo centro e il suo senso in Cristo.
d) Parusia come manifestazione dell’amore di Dio. Abbiamo detto che la Parusia è intimamente legata al Giudizio ed è anche unita alla Risurrezione e consumazione definitiva. Inoltre la Parusia di Cristo per il Giudizio è soprattutto una manifestazione dell’amore di Dio, perché Lui giudica il mondo per l’azione dell’amore: Lui trascina verso di sé coloro che si vogliono lasciar trascinare, e concede questa volontà secondo una disposizione che per ora ci è sconosciuta, ma che si rivelerà nella Parusia (predestinazione). Il senso e il centro di quest’amore di Dio è Cristo.
e) Delocalizzazione e detemporalizzazione della Parusia. Da quello che abbiamo detto bisogna concludere che la Parusia deve essere delocalizzata, cioè non si può considerare con categorie di movimento locale (venuta sulle nuvole, ecc.); deve essere anche detemporalizzata, cioè non si deve considerare il giudizio come avente luogo in un tempo e luogo determinato, giacché la Parusia deve essere considerata come l’automanifestazione di Cristo agli eletti, la sua donazione e allo stesso modo l’istante nel quale gli stessi empi si sono allontanati da Dio. Inoltre questo futuro è già presente in Cristo e si va facendo presente nella nostra storia attraverso i beni spirituali e nei miracoli. Noi continuamente siamo giudicati per il nostro atteggiamento di fronte a Dio. Infine la presenza della Parusia si manifesta in ciascuno di noi nella morte individuale, perché realizza per i singoli ciò che il ritorno di Cristo realizza per l’umanità intera e per il cosmo.
Conclusione: è dogma di fede che Cristo verrà per giudicare i vivi e i morti.77 È dottrina certa che non si può calcolare il momento di questa venuta.78 Infine i segni “precursori” devono essere visti come un’affermazione del fatto, piuttosto che come un’affermazione della “data” della Parusia.
3.2. Il ruolo della Chiesa tra la Risurrezione e la Parusia
Il ruolo della Chiesa in questo periodo escatologico che va dalla risurrezione di Cristo alla Parusia è quello di essere sempre in cammino verso il futuro escatologico, verso la pienezza in Cristo. Lo dice chiaramente la Lumen Gentium:
Già dunque è arrivata a noi l’ultima fase dei tempi (cfr. 1Cor 10,11) e la rinnovazione del mondo è stata irrevocabilmente fissata e in un certo modo è realmente anticipata in questo mondo: difatti la Chiesa già sulla terra è adornata di una santità vera, anche se imperfetta. Ma fino a che non vi saranno i nuovi cieli e la terra nuova, nei quali la giustizia ha la sua dimora (cfr. 2Pt 3,13), la Chiesa pellegrinante, nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo, e vive tra le creature, le quali sono in gemito e nel travaglio del parto sino ad ora e sospirano la manifestazione dei figli di Dio (cfr. Rm 8,19-22).79
3.2.1. Il Tempo e i tempi
Prima di parlare del ruolo della Chiesa, vediamo brevemente il significato del tempo. Tanto nell’Antico come nel Nuovo Testamento si possono distinguere tre tipi di tempo: il tempo cosmico, il tempo storico e il tempo teologico, che non sono tre realtà diverse, ma tre dimensioni della stessa realtà.
1. Il tempo cosmico. È la durata, ritmata dall’alternarsi dei giorni e della notte (cfr. Gen 1,5) e delle stagioni sotto l’influsso del sole e della luna: è il tempo del calendario. In questo il popolo ebraico non apporta nessuna innovazione, ma utilizza il calendario solare o lunare. Tramite esso si costruirà il calendario “liturgico” (cfr. 1Mac 1,10; 14,1; 16,14), che parte dalla creazione del mondo fino all’epoca rabbinica. Questo tempo però è sacro, come in tutte le religioni, perché si crede che questi cicli sono governati da potenze soprannaturali. Non è quindi un tempo puramente astronomico, ma è un tempo teofanico. Questo aspetto contraddistingue le diverse feste ebraiche. Nell’interno di questo tempo cosmico si viene ad inserire un ritmo che modifica la settimana: il Sabato, che contiene tutta una teologia della creazione (cfr. Gen 1), la stessa giornata viene santificata da alcuni riti, sacrifici, offerte, preghiere in ore fisse (cfr. 2Re 16,15; Es 46,13).
2. Il tempo storico. È il tempo in cui l’uomo e i popoli costruiscono il loro destino. E qui entra la nozione di “storia”. Secondo la Bibbia la storia è essenzialmente la conquista dell’universo da parte dell’uomo come attuazione del disegno divino. Infatti per la S. Scrittura il mondo non è già perfetto nel tempo; al contrario essa presenta l’uomo nel suo continuo evolversi e perfezionarsi nel seno di questo mondo, che si perfeziona con lui. Inoltre Israele non considera mai la storia come tale, ma come storia di Dio, quindi gli interessa più il tempo teologico che quello storico.
3. Il tempo teologico. È essenzialmente la “Storia di Dio” o meglio la storia dei disegni di Dio nel mondo. Vale a dire che il tempo cosmico e il tempo storico diventano la “durata” nella quale si svolgono i disegni di Dio. La durata è qualcosa di reale: ha un “prima” e un “dopo”, un inizio ed una fine, tra i quali si produce qualcosa di nuovo. Il tempo è segnalato dagli avvenimenti che hanno Dio come autore e rivelatore.
a) La durata ha un prima: in questo Israele è originale. Infatti il tempo non è un mito (frutto della lotta tra gli dèi, da cui ha origine il cosmo), ma ha un’origine, un inizio: è Dio che l’ha creato. Il mondo e Dio non sono due potenze avversarie, giacché il mondo e anche il tempo non sarebbero niente se Dio non l’avesse creato. Esso è dunque opera della potenza di Dio, ordinata all’uomo e alla sua storia. Il Sabato è la festa e celebrazione dell’atto creatore e dell’ordine del mondo. Tuttavia c’è stata una rottura in questo disegno primitivo, così nel seno di questa durata si sono venuti a determinare due movimenti opposti:
I) Un movimento di crescita, di espansione, di conquista sul piano biologico (moltiplicazione delle specie), sul piano storico (culture, civilizzazioni), sul piano religioso (il disegno di Dio va verso il suo adempimento);
II) un movimento di distruzione, di slittamento verso il caos e la morte (fragilità dell’uomo, caducità delle civilizzazioni, orrori di antagonismo, di guerre, ecc.). È quello che noi chiamiamo “Storia della Salvezza” e “Storia dell’iniquità”.
b) La durata tende verso una fine. La Bibbia guarda sempre in avanti, verso il futuro, verso quella realizzazione definitiva: la “fine dei giorni”, il “giorno di Jahvè”. Anche questa visione di futuro ha un doppio aspetto:
I) È una minaccia per il mondo peccatore e nemico di Dio.
II) Ma soprattutto è una speranza perché inaugurerà un’era nuova. Il tempo è spesso l’oggetto di speculazioni apocalittiche. L’attitudine spirituale di fronte alla sua imminenza è più importante che la conoscenza dei giorni e dell’ora del giorno di Jahvè.
c) Le novità del presente. Il tempo per la Bibbia è il quadro del piano di Dio sul mondo. Non fatalità cieca, ma storia di una personalità e di una volontà personale. Si tratta di una vera storia, di cui Israele scopre le tappe e i tempi in un disegno di salvezza. La storia va verso il suo compimento che non è una semplice promessa, ma che è già avverata nei primi eventi della storia della salvezza: l’Esodo, l’elezione di Abramo, la storia dei Patriarchi, ecc. Tutte queste sono tappe che manifestano la presenza salvifica di Dio nel presente.
4. Il tempo di Cristo. Gesù non è una tappa nella storia della salvezza, come potrebbe essere l’esperienza nomade, l’esilio, ecc. Egli è il compimento dell’attesa di tutta la storia che l’ha preceduto. Egli non è uno dei profeti o leviti: Egli è la fine della Storia. Non una tappa intermedia tra le due durate, ma trasmutazione della storia. Questa trasmutazione non distrugge il tempo cosmico o il tempo storico, né va al di là dei disegni di Dio dell’Antico Testamento, ma al contrario egli si situa in questo tempo cosmico e storico (è nato, vissuto, morto in un tempo preciso). Tuttavia questo tempo apparentemente indifferenziato e di cui non si può precisare con esattezza la durata, costituisce una novità assoluta, in rapporto a ciò che precede e a ciò che segue.
I) In rapporto a ciò che precede. È «compimento, pienezza dei tempi» (Gal 4,4; Ef 1,9s): in Cristo Dio adempì ciò che aveva detto, ciò che aveva promesso. Per questo con Gesù siamo negli “Ultimi Tempi”. Nel Nuovo Testamento è fondamentale la categoria temporale dell’hodie, dell’oggi, del presente, cioè di un adesso che è arrivato e si manifesta in Gesù. Infatti, secondo Luca, Gesù, dopo aver letto Is 61,1s nella Sinagoga di Nazaret, disse: «Oggi si è adempiuto questa Scrittura» (Lc 4,21). E Paolo dirà: «Quando venne la pienezza del tempo Dio mandò il suo Figlio» (Gal 4,4). Cosa significa “il tempo è compiuto”? Essenzialmente che la Signoria divina, l’unità di Dio e dell’uomo, quello che finora si attendeva e si sperava è diventata una realtà nella persona, nella parola, nella vita, nell’azione di Gesù di Nazaret, che è il Cristo. E per questo Paolo, riflettendo sulla situazione di peccato in cui vivevano gli ebrei e i pagani prima di Cristo, dice: «Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono» (Rm 3,21). E ciò non è altro che quello descritto nel prologo della Lettera agli Ebrei: «Dio che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del suo Figlio» (Eb 1,1s).80
II) In rapporto a ciò che segue. È il tempo “della fine”, che è una “durata”. Per noi il tempo che fa seguito a Cristo, il tempo della Chiesa, è un dato estremo, in quanto si estende per due millenni, e possiamo credere che si estenderà ancora per altri millenni. Per primi autori cristiani la situazione era tutt’altra cosa. Essi infatti vivevano e meditavano questo paradosso: il tempo della fine non indica la fine del tempo, come essi avevano pensato all’inizio. Infatti verso l’anno 50, probabilmente, Paolo scrive ai Tessalonicesi. Tutta la Lettera è dominata dall’attesa di Cristo, della sua Parusia. Quest’attesa è l’elemento costitutivo della nuova vita cristiana (cfr. 1Ts 1,9s). Tanto imminente veniva considerata da Paolo la Parusia che verso il 57 egli stesso pensa di essere nel numero dei viventi che accoglieranno il Cristo (cfr. 1Cor 15,51). Verso la fine del 57, in seguito ad una grande prova fisica o morale, nella Seconda lettera ai Corinzi Paolo prospetta l’ipotesi della sua morte. Ciò vuol dire che l’Apostolo deve far fronte alla durata di quello che noi chiamiamo il ritardo della Parusia. E la sua teologia della vita cristiana si accomoda a quest’esperienza: il Cristo della Parusia non perde importanza, ma non ha più quell’accento di prima. Adesso comincia ad interessare un altro aspetto: il Cristo dei sacramenti, il Cristo presente nella sua Chiesa. E così, verso il 60, la Chiesa è già cosciente della durata che segue al tempo di Cristo.
3.3. La Chiesa tra il già e il non ancora
La Chiesa è insieme terrena e celeste, la sua esistenza non si esaurisce nella storia umana, ma trova compimento nel mondo futuro e in certo qual modo lo anticipa. Vista nella prospettiva della Storia della salvezza, la Chiesa rappresenta l’ultima fase, che inizia nel tempo e si compie nell’eternità. La dimensione escatologica81 non è quindi una caratteristica secondaria della Chiesa; essa fa parte della sua stessa natura. Il popolo di Dio è in cammino verso una fine: «il Regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che dev’essere ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia da lui portato a compimento».82 È il Signore e il suo Spirito che guidano la Chiesa, la vivificano, la rinnovano,83 diventando così «il germe e l’inizio del regno di Dio e di Cristo»,84 germe che non arriverà alla sua realizzazione «se non nel mondo futuro»,85 anche se la sua realizzazione è già presente in forma nascosta nella Chiesa pellegrinante. Per arrivare a questo traguardo «l’azione dello Spirito la spinge a rinnovare se stessa, finché attraverso la croce giunga alla luce che non conosce tramonto».86 Lo Spirito Santo «è la caparra della nostra eredità» (Ef 1,14), è la garanzia che riceveremo «i beni promessi».87 Nel suo pellegrinaggio per questo mondo la Chiesa, nonostante le tensioni, «ha preso sempre maggiore coscienza del suo essere popolo e famiglia di Dio, corpo di Cristo e tempio dello Spirito, sacramento dell’intima unione del genere umano, comunione, icona della Trinità».88
Quindi forma parte del mistero della Chiesa che tale fine sia già presente in forma nascosta nella Chiesa pellegrinante. È nello Spirito che tutti formiamo una sola famiglia: quelli della Chiesa pellegrinante e quelli della Chiesa celeste, giacché «tutti quelli che sono di Cristo, avendo il suo Spirito, formano una sola Chiesa e sono tra loro uniti a Lui».89 L’unione tra la Chiesa pellegrinante e quella celeste si realizza in un modo speciale nella Liturgia, nella quale «la virtù dello Spirito Santo agisce nei fedeli mediante i segni sacramentali».90 Ciò però non ci deve far dimenticare che la Chiesa è sempre una nelle varie tappe dell’economia della salvezza (prefigurazione nella creazione, preparazione nell’Antico Testamento, nella sua costituzione ad opera di Cristo, nella sua manifestazione mediante lo Spirito e infine nel compimento nella gloria),91 come è una nelle sue tre dimensioni (peregrinante, purificante e glorificante).92 Il compimento finale avverrà «quando Cristo consegnerà al Padre un Regno eterno e universale».93 «Allora... tutti i giusti... saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa universale».94 È lo Spirito che «conduce la Chiesa alla perfetta unione con il suo Sposo».95 Il cielo, che è la vita perfetta, la «comunione di vita e di amore con la Santissima Trinità..., è il fine ultimo dell’uomo e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, lo stato di felicità suprema e definitiva».96 Il carattere escatologico della Chiesa non può indurla a sottovalutare le sue responsabilità temporali;97 anzi guida la Chiesa sul cammino dell’imitazione del Cristo povero e servo. Dall’intima sua unione a Cristo e dai doni del Suo spirito la Chiesa riceve la forza per dedicarsi al servizio del genere umano e di tutto l’uomo e riconosce che nel suo seno ci sono dei peccatori e che essa ha continuo bisogno di penitenza.98 Tuttavia la Chiesa non dimentica mai che la sua missione è di portare tutti gli uomini alla comunione trinitaria. Infatti, «la Chiesa prega e insieme lavora perché la pienezza del mondo intero sia trasformata in popolo di Dio, in corpo del Signore e in tempio dello Spirito Santo e perché in Cristo capo, siano resi onore e gloria al Creatore e Padre di tutti».99 La missione della Chiesa è quella «di rendere presenti e quasi visibili Dio Padre e il Figlio suo incarnato, rinnovando se stessa e purificandosi senza posa sotto la guida dello Spirito Santo».100
3.3.1. In cammino verso la meta
Tutto ciò significa dunque che la Chiesa deve prendere continuamente una posizione critica verso se stessa. Gesù stesso, anche se fa partecipare i suoi discepoli al tempo ultimo ormai iniziato (con lui essi sono ormai liberi dal precetto del sabato e dall’obbligo del digiuno: Mt 9,14s), tuttavia dice che essi devono vigilare, perché alla fine ci sarà una selezione (cfr. Mt 13,47-50: parabola della rete gettata in mare). E lo stesso troviamo in Paolo: da una parte sottolinea la giustificazione che in virtù di Cristo è fin d’ora realizzata nei fedeli e garantisce una certezza incrollabile dal fatto della salvezza; dall’altra troviamo le parole di giudizio riferite alla Chiesa, la prospettiva di un giudizio secondo le opere che si svolgerà davanti al tribunale di Cristo (cfr. Rm 14,9-12; 1Cor 3,9-17). Quindi la Chiesa si trova sotto la legge del non ancora. Infatti la Chiesa, nonostante la presenza reale ed escatologica della salvezza, la propria santificazione e giustificazione, sperimenta la potenza del peccato e della morte. Come l’individuo pure la Chiesa deve vivere una salvezza ancora avvolta nel mistero. La causa di questo oscuramento possono essere le tentazioni che derivano dalle esperienze paradossali della morte, della fragilità umana; ma in parte sono colpa sua: tanto i singoli fedeli come l’intera comunità, con la loro vita e atteggiamento, oscurano le promesse escatologiche. È vero che la realizzazione della salvezza si è estesa anche alla Chiesa, la quale ha ricevuto lo Spirito e nel battesimo e nell’Eucarestia celebra la propria partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo; tuttavia tutto ciò viene offuscato quando si verificano persecuzioni esteriori, l’abbandono della fede, lo scoraggiamento, la dispersione nell’ambito della comunità e dell’unità, ecc. È vero infatti che la Chiesa è la comunità escatologica, ma nessuno potrà essere assolutamente certo della propria appartenenza a questa comunità escatologica, che raccoglie coloro che sono stati salvati e richiamati alla vita. Le ricadute nel peccato sono sempre possibili. Lo dice chiaramente Paolo: «Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere. Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana. Infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla» (1Cor 10,11-13). Quindi, tanto l’individuo come la comunità ecclesiale devono essere coscienti del fatto che non sono ancora arrivati alla meta.
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NOTE:
1 Riferito al testo di Marco, secondo la felice intuizione di M. Kähler.
2 A.M. GIORGI, Aprí loro la mente all’intelligenza delle Scritture (ad Emmaus è il Risorto stesso che ha fatto capire il senso delle Scritture). H. SCHÜRMANN, Gesù e la morte. X. LÉONDUFOUR, Gesù dinanzi alla morte. Cfr. inoltre l’ottimo studio di G.M. SALVATI, Teologia trinitaria della croce, LDC, Leumann-Torino 1987.
3 Come in Rm 8,32 e altri passi paolini.
4 Sul piano della tradizione della morte dei profeti.
5 Cioè al modo con cui ha annunziato il regno di Dio, che tendeva ad abolire la divisione delle caste, la distinzione tra santi e peccatori, per cui Gesù richiama tutti gli uomini per riconciliarli.
6 Mc 8,31; 9,31; 10,32-33.
7 Per Bultmann Gesù sarebbe andato alla sprovvista, quasi preso di contropiede dalla Passione; si tratterebbe così di una profezia post-eventum.
8 Alcuni dicono che non c’è il corrispondente ebraico; è forse un ellenismo.
9 Come avviene nel pensiero di Heidegger.
10 Ad esempio in Emmaus, come vedremo. La comunità radunata nella mensa eucaristica è il luogo in cui gli occhi si aprono.
11 “Sacrum facius”, compiere una realtà sacra.
12 Questi due gesti erano riservati al capo-famiglia.
13 Gv 13,34. Particolarmente documentato nel Quarto Vangelo con paralleli nei Sinottici.
14 Sul complesso problema della cronologia, si può vedere utilmente J. RATZINGER – BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano 2011, pp. 122-132.
15 Dio non elimina dapprima il peccato, per offrire poi una vita nuova, ma in Lui il dono comporta anche il suo perdono.
16 Cfr. X. LÉON DUFOUR, Condividere il pane eucaristico secondo il Nuovo Testamento, LDC, Leumann-Torino 2005.
17 La tradizione escatologica dei Padri vede così l’Eucaristia.
18 La paura che l’angoscia di Gesù di fronte alla morte potesse dare un avallo agli Ariani – per cui se il Verbo è contagiato dalla carne, non può essere divino – ha suggerito ai cristiani di omettere questo fatto.
19 Johannes Tauler, domenicano tedesco vissuto nel secolo XIV, appartiene al gruppo di teologi domenicani della scuola renana (Meister Eckart, E. Susone). Egli non è principalmente uno speculativo, ma un mistico. La sua ambizione non è quella di insegnare dottrine, ma di santificarsi e santificare. La pratica non è mai separata dalla teoria. E non si tratta di una pratica tendente a fare opere apprezzabili dagli uomini, ma tendente a fare spazio all’azione dello Spirito di Dio. Ricordiamo l’influsso che esercitò sul fondatore dei Passionisti, S. Paolo della Croce, soprattutto con la dottrina riguardante “il fondo dell’anima”.
20 Vedere nota di 2Cor 5,21 nella Bibbia di Gerusalemme.
21 Is 51,21-22; Ger 25,15-31; Ap 14,10.
22 S. Massimo più di tutti ha approfondito questi misteri dell’agonia. Cfr. MASSIMO IL CONFESSORE, Meditazioni sull’agonia di Gesù traduzione. Introduzione e note, Città Nuova, Roma 1985.
23 Qui sta per “Figlio di Dio” come in Matteo e Luca. Nella redazione di Mt la domanda del sommo sacerdote è in forma ancora più solenne, di giuramento: «Ti scongiuro nel nome del Dio vivente».
24 Si rimanda ai cc. 8-10: discussione di Gesù con i giudei in occasione delle feste religiose.
25 Con un atto del tutto gratuito e trascendente della sua libertà, non condizionato da noi (C.G. Jung).
26 Più che dai nostri bisogni, dall’immagine che ne deriviamo! Come Gesù nel Getsemani.
27 Il massimo della rivelazione di Dio avviene attraverso i fatti, le parole e il silenzio (B. Forte).
28 Così in Mt 27,45; Lc 23,44 dice: «il sole si eclissò e si fece buio».
29 Contro la creaturalità del Verbo (Arianesimo).
30 Nelle sue Meditazioni e Omelie sulla Quaresima Taulero ha affrontato questo tema, divenendo l’iniziatore di una teologia mistica diffusasi tra i domenicani.
31 Certamente non ci si può limitare solo a questa ragione.
32 L’idea della croce come tentazione è evangelica, perché Luca nelle tentazioni dice: «Satana si allontanò fino al giorno fissato», cioè il momento della croce.
33 Quest’ultimo accenno è dato come ipotesi teologica, che non è in contrasto con l’assetto dogmatico, ma sottolinea anche l’aspetto più propriamente umano.
34 Questi punti sono legati grammaticalmente e sintatticamente, in modo tale che non sono episodi staccati, ma un mistero che si va compiendo.
35 Sarà S. Anselmo a sviluppare questo legame.
36 Ed è presente anche nell’Apocalisse.
37 Questo punto è molto importante nelle prospettive di cristologia moderne.
38 Cfr. NA, 4.
39 Come abbiamo visto nello scenario cosmico che accompagna la morte di Gesù nei Sinottici.
40 Cfr. J. RATZINGER – BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, cit., pp. 269-279. Rinviamo, comunque, alla lettura del capitolo IX, interamente dedicato al tema della Risurrezione.
41 M. HUBAUT, L’aldilà. Rappresentazioni, attese e fede cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, pp. 112-113.
42 C’è qui un campo di ricerca scientifica che può entusiasmare la ricerca. Dio è Luce, dice Giovanni (1Gv 1,5); il tema della “Luce” percorre tutta la Scrittura. La possibilità concreta che la materia possa trasformarsi in energia, in luce, e che a sua volta la luce e l’energia possano originare la materia. Questa trasformazione fino a 100 anni fa poteva sembrare pura fantascienza, ma oggi la sua realtà ed attuazione si poggia su solide basi sperimentali. La celeberrima equazione: E = mc2 (Energia = massa moltiplicato la velocità della luce al quadrato), formulata da Einstein, dice che vi è una stretta correlazione tra massa di un corpo e la sua energia. In termini più precisi, ogni oggetto dotato di una sua massa può convertirsi in energia (di cui la Luce è una forma) perdendo un po’ della sua massa. Diremo di più, energia e massa sono la stessa cosa. È esattamente ciò che accade nel sole e nelle stelle. Secondo le ultime scoperte il Sole perde una massa di 4,5 milioni di tonnellate ogni secondo che si trasforma in energia, in luce e calore. È anche possibile il contrario, cioè che l’energia pura possa originare materia dotata di massa. A questo punto l’equazione di Einstein rappresenta proprio l’anello di congiunzione, il raccordo fondamentale che ci consente di entrare nel cuore della rivelazione e intuire il mistero della risurrezione e dell’eternità. Il fenomeno della Sindone di Torino sulla quale è rimasto impresso come in negativo il corpo di un Crocifisso interroga molti scienziati se non sia frutto di una esplosione di luce. Su questi argomenti cfr.: J.M. MALDAMÉ, Cristo e il Cosmo, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995; I. TIMOSSI, Oltre il Big Bang e il Dna, LDC, Leumann-Torino 2007; P. HAFFNER, Il mistero della creazione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999.
43 1Gv 1,1; anche Gv 1,14.
44 Come si è appena visto nel precedente punto a: 1) iniziativa del Risorto; 2) manifestazione visibile; 3) la vita di testimonianza, trasformata dall’incontro con il Risorto, è un’esperienza globale che permea tutto l’uomo.
45 Racconti di apparizioni avvenuti in Galilea.
46 Il Vangelo di Matteo è il Vangelo ecclesiale (Mt 18).
47 La presenza sacramentale di Cristo è la Chiesa, che annunzia e rende presente Cristo, quindi la Chiesa non annuncia soltanto, ma è un annuncio sacramentalizzato.
48 La maggior parte delle apparizioni appartiene a questo modello. Queste narrazioni fanno parte delle prime comunità cristiane, di Galilea e di Gerusalemme: sono le prime due tradizioni legate alle prime due comunità cristiane.
49 Siamo qui debitori degli studi di K.H. Schelke.
50 In Luca ritorna varie volte questo linguaggio, probabilmente perché in ambiente ellenistico; ipotesi discutibile.
51 Cfr. Libro dei Maccabei.
52 1Cor 15,4: “il terzo giorno”; Mc 8,31: «dopo tre giorni»; Os 6,2 parlò di risurrezione, ha qui ha significato metaforico. Cfr. J. RATZINGER, Cantate al Signore un canto nuovo: saggi di cristologia e liturgia, Jaca Book, Milano 1996, pp. 78-86. Qui l’autore commentando l’espressione “terzo giorno” richiama lo studio di K. LEHMANN, Auferweckt am dritten Tag nach der Schrift, Herder, Freiburg 19692, esprimendo il duplice carattere di reale datazione e di contenuto teologico tipico delle teofanie dove Dio si manifesta. In questo senso la risurrezione di Cristo è l’Alleanza definitiva, che sancisce il concreto e definitivo ingresso di Dio nella storia, cfr. in ID., pp. 73-90.
53 Pensiamo a 1Cor 15,3-8: «A voi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto».
54 Cfr. M. CECCARELLI, Appunti di Cristologia biblica, PUL-Ecclesia Mater, Roma 2002, pp- 91-95.
55 G. FRIEDRICH, «kerygma», in GLNT, V, 472-479.
56 Cfr. J. RADERMAKERS, Lettura pastorale del Vangelo di Marco, EDB, Bologna4 1993, p. 98.
57 Cfr. G. BARBAGLIO, La prima lettera ai Corinzi, EDB, Bologna 1995; C.K. BARRETT, La teologia di San Paolo, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996; A. PITTA, Il paradosso della croce (1Cor. 1, 18-31), in Il paradosso della croce. Saggi di teologia paolina, Piemme, Casale Monferrato 1998. A.M. BUSCEMI, Gli inni di Paolo. Una sinfonia a Cristo Signore, Franciscan, Jerusalem 2000. M.F. COLLU, «Centralità del ‘discorso della croce’ nell’argomentazione teologica di 1Corinzi», in «SapCr» (2003), pp. 351-385. R. PENNA, Logos paolino della croce e sapienza umana (1Cor 1,18-2,16), in Vangelo e inculturazione. Studi sul rapporto tra rivelazione e cultura nel Nuovo Testamento, San Paolo, Milano 2001, p. 464. J. GNILKA, Gesù di Nazaret. Annuncio e Storia, Paideia, Brescia 1993, pp. 375-380.
58 L’antichità del passo è confermata anche dalle formule stesse che non sono proprie di Paolo.
59 Cfr. G. QUELL, «Kyrios», in GLNT, V, Brescia 1977, cc. 1341-1497; O. CULLMANN, Cristologia del Nuovo Testamento, Il Mulino, Bologna 1970; M. BORDONI, Gesù di Nazaret Signore e Cristo, III, Herder-PUL, Roma 1986, pp. 234-247.
60 H.L. STRACK – P. BILLERBECK, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, München 1922-1928, (I, 172 per «Samajim»; I, 443 per il passivo teologico; I, 862 per Samajim; II, 221 per il plurale divino; II 302-333 sulla pronuncia del nome divino, soprattutto 308-313); G. KITTEL – G. FRIEDRICH, GLNT I, 264-265 per «hagios»; IV, 393-398 per «theos»; VIII, 753-755 per «onoma»; 1425, 1433-1434, 1458-60, per «ouranosá». J. JEREMIAS, Teologia del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1972, pp. 17-22; sul passivo teologico e le circonlocuzioni del nome divino vedi M. MCNAMARA, I Targum e il Nuovo Testamento, Dehoniane, Bologna 1978, pp. 111-115.
61 G. BIGUZZI, «Le quattro lettere del Nome divino», in «ED» (2003) 1, pp. 119-123.
62 Sull’inno di Fil 2,6-11 la bibliografia è enorme: J. HERIBAN, Retto fronein e kenosi. Studio esegetico su Fil 2,1-5, 6-11, LAS, Roma 1983; J.B. EDART, L’epître aux Philippiens. Rhétorique et composition stylistique, Gabalda, Paris 2002, pp. 127-188; R. FABRIS, Lettera ai Filippesi, Lettera a Filemone, Dehoniane, Bologna 2000, pp. 126-147; R. PENNA, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria. I. Gli Inizi. II. Gli sviluppi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, 1999.
63 Per altre testimonianze bibliche riguardo alla preesistenza ontologica del Verbo (e non solo katà prógnosis, “in previsione”), cfr. Gv 1,1-3.14; Col 1,15-17; 1Tm 3,16; Eb 1,2-3.
64 Ad esempio, la Torah insegna che malgrado le stelle siano astri innumerevoli, esse hanno ognuna una propria funzione, un proprio ruolo e nessuna può essere sostituita, ancor meno cancellata. Ma non si tratta solo di una funzione: ciascuna stella ha un nome proprio. Se questo vale per gli astri, tanto più per gli esseri umani, poiché ogni uomo è unico e insostituibile. Il nome accompagna l’uomo per tutto il percorso della sua vita: dalla nascita alla dipartita da questa terra. Ogni essere umano è ricordato nelle preghiere con il proprio nome che lo identifica, lo riconosce e gli appartiene in modo unico e speciale. Il nome assume, allora, una carica straordinaria. Una volta pronunciato è come se l’essenza spirituale di una specifica persona fosse chiamata in causa. Per questo l’ebraismo ha tanto riguardo nel pronunciare il nome del Signore, essenza stessa di Dio, o di temerne una cattiva pronuncia che lo alteri seppure minimamente. Diversamente quando una persona si altera contro un’altra non la chiama più per nome, addirittura nemmeno la nomina. Troviamo altri riferimenti nella Bibbia, quando Saul adirato con Davide disse a Jonathan, suo figlio: «Perché il figlio di Isai non è venuto a mangiare, né ieri né oggi?» (1Sam 20,27); allontanandosi così da quella intimità di relazione che il nome in sé contiene.
65 Stesso titolo attribuito a Jahvè in Dt 10,17 e Sal 136,3.
66 Cfr. 2Sam 7,13.16; Sal 45,6; 72,5; Is 9,6; Lc 1,32-33; Ap 11,15.
67 J. ERNST, Le lettere ai Filippesi, a Filemone, ai Colossesi, agli Efesini, Morcelliana, Brescia 1986; R. PENNA, «Lettera agli Efesini. Introduzione, versione, commento», in «SOCr» 10, EDB, Bologna 1988; E. BEST, Lettera agli Efesini, Paideia, Brescia 2001; A. SACCHI (a cura di), Lettere paoline e altre lettere, LDC, Torino 1996; A. LENZUNI (a cura di), La Lettera agli Efesini nel cristianesimo antico, EDB, Bologna 2004; S. ROMANELLO, Lettera agli Efesini, Paoline, Cinisello Balsamo 2003.
68 J. GALOT, Chi sei tu o Cristo?, LEF, Firenze 1984, p. 81.
69 Ibid., p. 82.
70 Ibid.
71 Cfr. J. RATZINGER – BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, cit., pp. 309-324. Per il significato del “giorno del Signore”, cfr. M. CIMOSA, «Il giorno del Signore e l’escatologia nell’Antico Testamento», in DSBP, p. 16. Cfr. inoltre J. RATZINGER ,Escatologia, Cittadella, Assisi 2010, pp. 20-61.
72 Cfr. J.P. PRÉVOST, «La “visita” di Dio secondo il Libro della Sapienza», in «PSV» 8 (1983), pp. 66-75.
73 Cfr. A. FEUILLET, Le sens du mot “parousie” dans l’Evangile de Matthieu. Camparaison entre Matth. XXIV e Jac. V, I-II”, in W.D. DAVIES – D. DAUBE, The Backgroud of the New Testament and its Eschatologie. Studies in honeur of C. H. Dodd, Cambridge 1956, pp. 260 ss.; A. OEPKE, «Parusia», in G. KITTEL, TWNT 5, pp. 856-869.
74 Didaché, 16. 75 Per la visione escatologica nella Liturgia, cfr. N. CONTE, Benedetto colui che viene. L’eucaristia e l’escatologia, Bologna 1987; AA.VV., Escatologia e Liturgia, Roma 1998.
75 Così gli antichi simboli di fede: DS 30.
76. 150; il Concilio Lateranense IV: DS 801; quello di Lione II: DS, 852, e più o meno il Vaticano II: LG, 49. 51.
77 DS, 6. 40. 86. 429.
78 DS, 3839: condanna del millenarismo.
79 LG, 48.
80 Possiamo descrivere il compimento della rivelazione in Gesù Cristo anche con le categorie locali, con l’ecce, il qui. Cioè la rivelazione è portata a compimento nel qui concreto e manifesto di una persona, di Gesù di Nazaret, di una vita, di una parola, di un avvenimento, di un luogo. L’importanza di quest’aspetto concreto e locale è tangibile, ad esempio, nella Terra Santa. Infatti nei luoghi santi echeggia: “da questo Sepolcro risuscitò il Signore”; “in questo Calvario Cristo è morto”; “qui (Nazaret) il Verbo si fece carne”; “qui (Betlemme) dalla Vergine Maria è nato Gesù, il Salvatore”; ecc.
81 Per questo tema, vedi CTI, Temi scelti di ecclesiologia, 9 in EV 9, 1753-1765; G. CARDAROPOLI, Introduzione al Cristianesimo, Paoline, Roma 1979, pp. 543-545.
82 LG, 9. Cfr. LG, 48: «La Chiesa, alla quale tutti siamo chiamati in Gesù Cristo e nella quale per mezzo della grazia di Dio acquistiamo la santità, non avrà il suo compimento se non nella gloria del cielo, quando verrà il tempo della restaurazione di tutte le cose»; GS, 40: «La Chiesa... ha una finalità salvifica ed escatologica, che non può essere raggiunta pienamente se non nel mondo futuro».
83 Cfr. LG 4; 6; 48.
84 LG, 5.
85 GS, 40.
86 LG, 9.
87 LG, 48.
88 CONGREGAZIONE PER GLI ISTITUTI DI VITA CONSACRATA E SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA, La vita fraterna in comunità, 9.
89 LG, 49.
90 LG, 50.
91 Cfr. LG, 2.
92 LG, 49.
93 GS, 39; Cfr. PO, 2.
94 LG, 2.
95 LG, 4.
96 CCC, n. 1024.
97 Per i compiti terreni della Chiesa, cfr. J. ALFARO, Speranza cristiana e liberazione dell’uomo, Queriniana, Brescia 1972, pp. 183-211; K. RAHNER, Missione salvifica della Chiesa e umanizzazione del mondo, in Nuovi Saggi, 5, Roma 1975, pp. 699-725; L. SARTORI – J. RATZINGER, Salvezza cristiana tra storia e aldilà, AVE, Roma 1976; A. PASCUCCI, Dove va l’uomo? L’escatologia e l’impegno terreno per il futuro dell’uomo, AVE, Roma 1978; J. MOLTMANN, Futuro della creazione, Queriniana, Brescia 1980, pp. 110-128; J.M. MARDONES, Esperanza cristiana y utopías intrahistóricas, SM, Madrid 1985, pp. 149-154; G. PANTEGHINI, «Rapporto tra promozione umana e realizzazione del Regno», in «CrOg» 10 (1990), pp. 78-89.
98 LG, 8.
99 LG, 17.
100 GS, 21. Per un maggiore approfondimento, cfr. S. DIANICH, La Chiesa in missione. Per una ecclesiologia dinamica, Paoline, Cinisello Balsamo 1985; B. FORTE, La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa, comunione e missione, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995.
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IL MISTERO PASQUALE E LA PARUSIA
Indice
1. Diversi rapporti .....................................................................................
1.1. La previsione della morte ...................................................................
1.2. La morte di Gesù come martirio..........................................................
1.3. Il mistero teologico della morte di Gesù ..............................................
1.4. La cena d’addio con i suoi discepoli ...................................................
1.4.1. Le tradizioni del racconto evangelico della Cena ...............................
1.4.2. Differenze fra tradizione antiochena e marciana .................................
1.5. Punti conclusivi ....................................................................................
1.6. Il Getsemani ........................................................................................
1.5.1. Significato teologico .........................................................................
1.7. Il processo pubblico di Gesù ................................................................
1.7.1. Struttura del racconto del processo in genere .....................................
1.7.2. Racconto del processo nei Sinottici ....................................................
1.7.3. Racconto del processo nel Quarto Vangelo .........................................
1.8. L’abbandono della Croce ......................................................................
1.8.1. Stato attuale del testo sinottico ............................................................
1.8.2. Senso teologico del racconto sinottico .................................................
1.9. Narrazione teologica della morte di Gesù nel Quarto Vangelo ..................
1.10. Punti conclusivi ......................................................................................
2. LA RISURREZIONE ................................................................................
2.1. Caratteristiche dell’esperienza del Risorto ................................................
2.2. La testimonianza del Risorto nei racconti pasquali .....................................
2.2.1. L’annuncio del Risorto nel linguaggio neotestamentario ...........................
2.2.2. L’annuncio della Chiesa primitiva dopo la Pentecoste ...............................
2.2.2.1. Gesù, il Kyrios .....................................................................................
2.2.2.2. Gesù, Sovrano universale ....................................................................
3. LA DEFINITIVITÀ DELLA SIGNORIA DI CRISTO ...............................
3.1. Le circostanze della Parusia ......................................................................
3.1.1. Interpretazione teologica della Parusia ....................................................
3.2. Il ruolo della Chiesa tra la Risurrezione e la Parusia ....................................
3.2.1. Il Tempo e i tempi ..................................................................................
3.3. La Chiesa tra il già e il non ancora .............................................................
3.3.1. In cammino verso la meta ......................................................................
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