martedì 23 luglio 2019

MEDITAZIONI BIBLICHE , di Padre Claudio Traverso



MEDITAZIONI BIBLICHE
 
di Padre Claudio Traverso
 
 
 



(1)  DALL'ANTICO AL NUOVO TESTAMENTO

Nel tempo antico Dio aveva promesso a Israele che un giorno avrebbe concluso una nuova alleanza (testamento) con il suo popolo (cf: Ger 31,31-34). In quell'occasione avrebbe "scritto la legge nel loro cuore" anzichè su tavole di pietra (come i Dieci Comandamenti).
Gesù è la realizzazione di questa "nuova alleanza" mediante la sua vita, morte e risurrezione, ed è per questa ragione che gli scritti che si riferiscono a Gesù e alla sua Chiesa sono chiamati Nuovo Testamento.
Però a questo punto è opportuno valorizzare bene l'Antico Testamento, per poter passare poi al nuovo.
Questi 46 libri che mostrano la straordinaria sapienza di Dio nell'educare il suo popolo.
Afferma la Dei Verbum al cap. 15: "Questi libri, sebbene contengano cose imperfette e temporanee dimostrano tuttavia una vera pedagogia divina".
Come i genitori educano i loro figli nel cammino della vita stando al loro fianco in modo sempre nuovo e adatto alla loro età, così Dio ha accompagnato il popolo di Israele nel lungo cammino alla scoperta del suo vero volto.
L'Antico Testamento ci rivela una sapiente e progressiva pedagogia divina che da Abramo,il primo chiamato, arriva fino a Maria di Nazaret, colei che ha tenuto sulle sue braccia la Luce delle genti e la Gloria di Israele.
L'Antico Testamento manifesta dunque la passione paterna e materna che anima il cuore di Dio: educare.
Come ha educato il suo popolo e lo ha guidato incontro a Cristo (cf. Lc 2,25-38), così oggi Egli continua, nello Spirito Santo, a educare ciascuno alla fede in Cristo.
Nel testo di Isaia 46,3-4 si intravede come la firma di Dio alla sua opera di sapiente e fedele pedagogo. Il Signore definisce se stesso come Colui che dal grembo materno fino alla vecchiaia "porta" il popolo e ciascuno, rimanendo perennemente fedele alla sua promessa di salvezza.
La preghiera che sgorga dal cuore di Israele diventa allora un commosso ringraziamento a Dio che "li ha sollevati e portati su di sè in tutti i giorni del passato” (Is 63,7-9).
I Padri del Concilio esortano quindi i fedeli a "ricevere con devozione i libri dell'Antico Testamento che esprimono un vivo senso di Dio, nei quali sono racchiusi sublimi insegnamenti, una sapienza salutare per la vita dell'uomo e mirabili tesori di preghiere, nei quali infine è nascosto il mistero della nostra salvezza, cioè Cristo (DV 15).
Leggiamo: "Dio dunque, il quale ha ispirato i libri dell'uno e dell'altro Testamento e ne è l'autore, ha sapientemente disposto che il Nuovo fosse nascosto nell'Antico e l'Antico diventasse chiaro nel Nuovo" (DV 16).
Questa frase di Sant'Agostino esprime la comune fede della Chiesa nell'unità delle due parti della Bibbia. Esse sono tra loro inseparabili.
Il mistero di Cristo, cuore pulsante di tutta la Bibbia, si illumina di sempre nuove luci multicolori ogni volta che si legge l'Antico Testamento con la luce della piena Rivelazione contenuta nel Nuovo Testamento (cf. 2 Cor 3,14-16).
Ma già l'Antico Testamento porta in sè molta luce che permette di comprendere e spiegare il Nuovo Testamento (cf. 2 Pt 1,19).
Le promesse, le attese, la storia della fede racchiuse nell'Antico Testamento si rivelano così nella loro pienezza.
Dice Gesù: "Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti (= Antico Testamento), non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finchè non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno della legge, senza che tutto sia compiuto (Mt 5,17-18).
Gesù dice chiaramente il suo pensiero sull'Antico Testamento: nè abolizione nè immutabilità o fissità, ma compimento.
L'antico Testamento è dunque preparazione, promessa, annuncio, attesa di una pienezza: Gesù Cristo (cf. Gv 5,39.45-47).
E' bello ripensare allo stupore e alla grande gioia degli apostoli e dei primi discepoli che dal giorno di Pentecoste in poi, illuminati dallo Spirito Santo, rileggono l'Antico Testamento e dicono: "E successo proprio come è scritto... e noi lo abbiamo visto realizzato con i nostri occhi".
L'Antico Testamento diventa testimone vivo di Cristo. E un testimone lo si lascia parlare e lo si ascolta con passione.
Afferma San Paolo: "Tutto quello che è stato scritto prima di noi è stato scritto per la nostra istruzione, perchè mediante la perseveranza e la consolazione che ci vengono dalle Scritture, teniamo viva la nostra speranza" (Rm 15,4).
La convinzione che San Paolo esprime ha un grande valore teologico. Egli, dopo l'esperienza della sua folgorante conversione a Cristo, è davvero diventato uno scriba sapiente che improvvisamente ha scoperto cose nuove e antiche (cf. Mt 13,52) dal suo tesoro (l'Antico Testamento) scrutato con gli occhi della fede in Gesù.
La perseveranza e la consolazione di cui parla San Paolo sono doni molto importanti.
La perseveranza è la capacità di resistere alle prove della vita perchè sorretti dalla fede incrollabile in un Dio personale, vicino, salvatore. La perseveranza dà al peccatore la forza di ricominciare (cf. 2 Sam 11-12) e al credente la forza di resistere alle contraddizioni (cf. Gen 22,1-19).
La consolazione è la percezione della presenza viva, amante, amica, forte di Dio che conosce il modo giusto di parlare al cuore di ciascuno, nel luogo e nel momento adatto rianimando la fede, la speranza, l'amore.
Questi due doni effusi dallo Spirito Santo nella storia del popolo di Israele e nei suoi singoli protagonisti sono per San Paolo un grande segno della fedeltà di Dio alla sua opera di salvezza.
Perseveranza e consolazione sono i due doni che brillano in modo eccezionale nella vita di Cristo, nel suo cammino verso la croce. E' quindi ovvio per San Paolo che essi siano il principale frutto delle Scritture poichè in esse Cristo è già misteriosamente presente (1 Cor 10,1-4).
Quanto San Paolo afferma dell'Antico Testamento faceva tuttavia già parte, in una certa misura, della coscienza storica del popolo di Israele, come si può constatare leggendo 1 Mac 12,9 (anno 144 A.C.)
Per chi ha fede l’intera Sacra Scrittura è parola che dona la vita.
E’ messaggio di amore perchè tutto quello che espone e racconta s’inserisce nel piano salvifico di Dio. Di un Dio che si comunica nell’amore e invita urgentemente gli uomini a dare la loro personale risposta, che non deve essere solo positiva ma ispirata alla carità.
E’ infatti nella carità che si compendiano la legge e i profeti. I precetti e le osservanze non hanno alcun senso, se manca la linfa della carità.
Infine tutta la Sacra Scrittura è sorgente di preghiera in quanto, ad ogni pagina stimola il lettore a una comunione sempre più intima e profonda con Dio.


(2)  IL NUOVO TESTAMENTO E' TESTIMONIANZA PERENNE E DIVINA DELL'OPERA DI CRISTO. 

La riflessione dei Padri del Concilio Vaticano II sugli scritti del Nuovo Testamento inizia con una forte e solenne affermazione: "La parola di Dio, che è potenza divina per la salvezza di chiunque crede (Rm 1,16), si presenta e manifesta la sua forza in modo eminente negli scritti del Nuovo Testamento" (Dei Verbum 17).
La parola di Dio è il vero tesoro dell'uomo, "io gioisco per la tua parola come uno che trova grande tesoro" (Sal 119,162). E' l'autentica ricchezza che non si corrompe nè perde valore. Trovarla e custodirla nella riflessione e nella preghiera è fonte di gioia crescente che appaga il desiderio di ogni cuore.
Quanto l'Antico Testamento aveva descritto con varie immagini, ora diventa visibile e udibile attraverso una esistenza storica concreta e sperimentabile (1 Gv 1,1-4).
Cristo è il dono assoluto perchè non si può dare più che se stessi; Cristo è l'alleanza fatta persona. Cristo è il mediatore perfetto tra Dio e l'uomo; Cristo è dunque la piena e definitiva rivelazione di Dio come comunione infinita di amore.
Questi scritti sacri del Nuovo Testamento non sono semplicemente una biografia di Gesù, nè una cronaca degli avvenimenti successi: essi sono predicazione, annuncio di fede.
I quattro Vangeli, scritti in un arco di tempo che va dagli anni 50 agli anni 90 dopo Cristo, sono frutto di comunità cristiane apostoliche viventi in ambienti e tempi diversi tra loro. La loro formazione ha percorso tre grandi tappe:
- L'esperienza degli apostoli con Gesù durante la sua vita pubblica, dal Battesimo alla sua Ascensione.
- Il tempo che segue la Pentecoste: gli apostoli, illuminati dallo Spirito Santo, annunciano quanto Gesù aveva detto e fatto. Ovunque fondano comunità, riunendo i fedeli che hanno accolto il messaggio della salvezza.
- La predicazione degli apostoli, dapprima esclusivamente orale, comincia ad essere messa per iscritto. Nascono le prime raccolte di parole di Gesù, di miracoli, di discorsi, ecc. (cf. Lc 1,1-4)

In alcune comunità apostoliche vengono redatti i vangeli che noi conosciamo: secondo Matteo (Palestina), secondo Marco (Roma), secondo Luca (Siria) e secondo Giovanni (Grecia).
Quali criteri hanno seguito gli evangelisti (autori sacri) nello scrivere i vangeli ? Ecco come rispondono i Padri del Concilio nel documento Dei Verbum (D.V. 19):
      Scegliendo alcune cose tra le molte che erano tramandate a voce o per iscritto.
      Alcune altre sintetizzando.
      Altre spiegando con riguardo alla situazione delle Chiese.
      Conservando infine il carattere di predicazione, in modo da riferire su Gesù con sincerità e verità.

Fondamentale per ogni cristiano che si accosta alla Sacra Scrittura è l'opera dello Spirito Santo che introduce alla piena verità (Gv 16,13) in sintonia con il Vangelo  (Gv 14,16).
La rivelazione biblica non è un messaggio chiuso, ma un annuncio cui ogni cristiano è chiamato a dare la forma rispondente alle nuove esigenze dei tempi, nell'amicizia profonda e personale con Cristo e nell'adesione piena alla sua parola (1 Gv 4,2-3).
La comprensione spirituale del Vangelo e di Dio è il risultato del nascere di una relazione con Dio attraverso l'obbedienza amorosa ai suoi comandamenti. Non si tratta semplicemente di una comprensione di testi e versetti, bensì di una comprensione del potere della Parola e di una conoscenza della vita che scaturisce dal versetto, basate sull'esperienza, la fiducia, la testimonianza e su una fede in Dio che cerca di essere ogni giorno più forte.
Fate attenzione dunque a come ascoltate ! (Lc 8,12-15.18).
Sembra che il Signore voglia dire che uno ascolta con il cuore più che con le orecchie, e che la sua vita interiore influisce sulla parola di Dio: o uccidendola oppure facendola vivere e crescere rigogliosa.
La parola ascoltata con il cuore va poi custodita con amore, per poter essere messa in pratica: il cuore che è pronto ad accogliere la volontà di Dio non permetterà che la parola del vangelo gli sfugga o sia dimenticata perchè nell'ascolto attento è penetrata profondamente nella sua interiorità.
Dio parla e ogni uomo sulla faccia della terra può ascoltare la sua voce, comprendere e rispondere, come se fosse chiamato personalmente per nome. La sua voce è la voce di tutte le età, non si affievolisce nè muore allo spirare della brezza, nè si smorza, nè ritorna a Lui vuota ( Is 55,10-11; Eb 4,12-13 ).
Nessuno può ascoltare la voce del Figlio di Dio, se non chi apre il proprio cuore e la propria mente per comprendere il suo linguaggio. E le parole e i toni di questo linguaggio sono fatti di amore, tenerezza, pace, mitezza e continua attenzione paterna, per quanto dure possano apparire la vita e le sue condizioni.
Il Signore è vicino. Egli è umile e la sua voce sommessa, più sommessa di quella dell'uomo, ma profonda, più profonda dell'eternità stessa.


VEDERE O ASCOLTARE ?  (3)

Molti ricordano l'ammonimento di Gesù a Tommaso. il credere non dipende dal vedere. Gesù gli disse: "Perché tu hai veduto, hai creduto: beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno!" (Giovanni 20,29). Un ammonimento severo.
La bontà del Signore gli concede una conferma, ma sono beati coloro che credono fondandosi sulla testimonianza di chi ha visto, senza pretendere una visione personale. La normalità della fede poggia sull'ascolto, non sul vedere. Nel tempo di Gesù, visione e fede erano abbinate, ma ora, nel tempo della Chiesa, la visione non deve più essere pretesa".
Il cattolicesimo non deve essere "una religione del vedere", perchè la fede dovrebbe basarsi soltanto sul nudo "ascolto"".
In realtà "l'allusione di Gesù non è ai fedeli che verranno dopo, a noi, che dovranno "credere senza vedere", ma agli apostoli e ai discepoli che per primi hanno riconosciuto che Gesù era risorto, pur nell'esiguità dei segni visibili che lo testimoniavano. In particolare, questo riferimento allude proprio a Giovanni, che con Pietro era corso al sepolcro per primo, dopo che le donne avevano raccontato l'incontro con gli angeli e il loro annuncio che Gesù era risorto. Giovanni, entrato dopo Pietro, aveva visto degli indizi, aveva visto la tomba vuota e le bende rimaste vuote del corpo di Gesù senza essere sciolte e, pur nell'esiguità di tali indizi aveva cominciato a credere". In effetti "la frase di Gesù, "beati quelli che pur senza aver visto (me) hanno creduto", rinvia proprio al vidit et credidit riferito a Giovanni al momento del suo ingresso nel sepolcro".
Ne deriva che "riproponendo l'esempio di Giovanni a Tommaso, il Cristo vuole indicare che è ragionevole credere alla testimonianza di coloro che hanno visto dei segni della sua presenza viva. Non è affatto la richiesta di una fede cieca, nuda, gratuita ma è la beatitudine promessa a coloro che in umiltà riconoscono la sua presenza, a partire da tracce anche esigue, e danno credito alla parola di testimoni (oculari!) credibili". La visione non può essere “pretesa": niente, nell'esperienza cristiana, può mai essere oggetto di pretesa".
Per l'ennesima volta la fedeltà alla Parola di Dio è, ovviamente, indispensabile.


I VANGELI   (4)

Gli autori ispirati dei Vangeli non sono personaggi isolati ed estraniati dalla realtà: sono prima di tutto dei credenti.
Marco, Paolo... sono dei battezzati, sono uomini che credono, celebrano l'Eucaristia, vivono la loro fede, sperimentando la lotta con le proprie miserie, annunciano il Vangelo. Sono cioè ben radicati nella comunità, ne respirano la vita del Vangelo, vivono l'amore fraterno, imparano, insegnano, maturano.
Così sono stati, allo stesso modo, gli autori dell'Antico Testamento.
In questo tessuto comunitario Dio li sceglie impegnandoli a scrivere la Parola di Verità per la salvezza di tutti gli uomini.
Il carisma dell'ispirazione è dunque un dono che lo Spirito fa ai singoli, ma costoro sono sempre inseriti in un popolo, in una comunità animata e sostenuta dallo Spirito Santo.
Tutto ciò è molto bello perchè ci mostra come Dio ci doni la sua Parola passando attraverso l'aspetto umano della personalità, del linguaggio, dell'ambiente sociale e religioso degli uomini da Lui scelti.
Ora, dei quattro vangeli, i primi tre, cioè gli scritti di Matteo, Marco e Luca, presentano tali somiglianze tra loro che si possono benissimo mettere in colonne parallele e abbracciare "con un colpo d'occhio": da qui il nome di "sinottici".
Matteo scrisse la sua testimonianza in Palestina, per i cristiani convertiti dal giudaismo.
Marco, un discepolo di Gerusalemme che servì Paolo, Barnaba e Pietro nell'apostolato, scrisse a Roma mettendo per iscritto la catechesi orale di San Pietro.
Un altro discepolo, Luca, medico di origine pagana, nato ad Antiochia, compagno di Paolo nel suo secondo e terzo viaggio apostolico, scrisse il suo Vangelo e gli Atti degli Apostoli ascoltando proprio soprattutto Paolo.
Fra i tre scritti, che hanno attinto in modo parallelo e indipendente a fonti comuni, vi sono molte somiglianze ma anche certe divergenze, certo frutto di personalità diverse e dei diversi ambienti in cui stavano testimoniando.
All'inizio, infatti vi fu la predicazione orale degli apostoli, centrata attorno al messaggio che annunziava la morte redentrice e la risurrezione del Signore. Presto e specialmente a partire dal momento in cui i testimoni della prima ora cominciavano a scomparire, ci si preoccupò di mettere per iscritto questa tradizione, completandola a poco a poco con la predicazione e i miracoli di Gesù, e per Matteo e Luca con gli avvenimenti della nascita e dell’infanzia di Cristo.
I redattori dei vangeli, riunendo le loro testimonianze, lo hanno fatto con la stessa cura di onesta obiettività che rispetta le fonti.
Non si deve dire però che ogni fatto o detto da loro riferito può essere preso per una riproduzione rigorosamente esatta di ciò che è successo nella realtà, perchè lo scopo dell'autore sacro non era la cronaca come la intendiamo noi oggi.
Per questo il medesimo episodio o la stessa parola possono essere stati trasmessi in modo differente dai diversi vangeli, sia per il contenuto di detti episodi, e anche per l'ordine in cui si trovano organizzati.
Queste constatazioni però non pregiudicano la fede dei cristiani nell'autorità dei libri ispirati. Se lo Spirito Santo non ha concesso ai suoi interpreti di raggiungere una perfetta uniformità nel dettaglio, è perchè non dava alla precisione materiale una importanza per la fede.
E' indubbio che in molti casi i redattori evangelici hanno voluto coscientemente presentare le cose con criteri personali; e anche prima di loro la tradizione orale di cui sono gli eredi non ha trasmesso i ricordi evangelici senza interpretarli e adattarli in diversi modi ai bisogni della fede viva di cui erano portatori.
Ma tutto questo si è verificato sotto la direzione dei responsabili di quella comunità che era la Chiesa, che costituivano il primo magistero.
Lo Spirito Santo che doveva ispirare gli autori del vangelo già presiedeva a tutto questo lavoro di elaborazione preliminare e lo guidava nel crescere della fede, garantendo il messaggio spirituale.
Lo Spirito ha infatti concesso ai tre evangelisti di presentare il comune messaggio, ciascuno in un modo che gli è proprio.
Per quanto riguarda il Vangelo di San Giovanni, essendo scritto in epoca più tardiva, è stato elaborato all'interno di una comunità piu' matura nella fede e si propone già come una profonda riflessione teologica sui fatti narrati; come il punto di arrivo di uno sforzo perseguito sotto la guida dello Spirito Santo, per una intelligenza piu' luminosa del mistero di Cristo.
Queste sintetiche note introduttive sono assolutamente necessarie per poter prendere in considerazione ciascuno dei vangeli, e comprenderne sufficientemente il messaggio di salvezza.
                                 

ITINERARIO SPIRITUALE   (5)

In ogni percorso che vuole arrivare a qualche cosa, che vuol raggiungere un fine, è necessario un metodo. Il metodo è come una strada per arrivare a un luogo.
La Bibbia è un lungo percorso. Dentro vi si trovano delle tappe, dei percorsi intermedi. Noi oggi li possiamo individuare e analizzare. Gli eventi sono ovviamente propri di quel tempo, però ci sono molto utili come ispirazione, come attenzione, come confronto per illuminare i fatti della nostra vita di oggi.  Sì, per “illuminare”, perché la Bibbia è come una lampada: se mi fermo a guardare la luce non vedo il cammino, essa invece mi serve per illuminare la strada (cf. Salmo 119,105).
Occorre partire dalle esperienze quotidiane. Da ciò che senti di profondo, di insopprimibile dentro di te e da ciò che ascolti.
E’ lo sforzo di una comunità di persone, capaci di ispirarsi insieme, correggersi e completarsi per apporti positivi da parte di ognuno. Insieme si arriva dove nessuno sarebbe mai capace di arrivare da solo. 
Anche coloro che abbracciano il Vangelo hanno una verità limitata, mista a debolezze, fragilità, limitatezze. L’ascolto attento della verità dell’altro illumina maggiormente la mia vita. E’ quindi prezioso l’aiuto che si può offrire e contemporaneamente ricevere dai fratelli che camminano insieme con noi. Lo Spirito parla infatti attraverso ogni uomo che sa ascoltare.
I Vangeli sono il frutto della riflessione di piccole Comunità a seguito dell’esperienza con Gesù. Da sempre Gesù insegna una coerenza tra fede e vita che diventa cammino impegnativo e tensione spirituale quotidiana per il cristiano di ogni tempo. Anche noi abbiamo bisogno di metterci accanto a coloro che hanno faticato nella fede, e anche per noi “tra riconoscimenti e rinnegamenti”, ha inizio e si compie il viaggio terreno del Maestro, la missione di insegnare all’uomo qualcosa del cuore di Dio.



BIBBIA E VITA  (6)

L’esperienza spirituale nella Bibbia si incentra essenzialmente nel rapporto con Dio, che però diventa generatore di rapporti tra uomini e criterio di lettura e comprensione degli eventi.
La domanda fondamentale è:  “come e dove incontro il Signore, e come posso comprendere la sua volontà?” . Ma accanto a questa domanda ve n’è un’altra:  “chi è l’uomo?”  (Salmo 8).
Ora per delineare l’esperienza religiosa biblica non è sufficiente descrivere il rapporto dell’uomo con Dio, fra gli uomini e con la storia.  Per cogliere lo specifico della spiritualità biblica è indispensabile comprendere come si è formata, i suoi elementi costitutivi, e come è giunta a maturazione.
Certo esistono nella Bibbia affermazioni su Dio, il mondo, l’esistenza umana e il fine della vita. Però l’orientamento profondo, tipico e originale del pensiero degli autori sacri è soprattutto questo: comprendere una serie di avvenimenti storici suscitati da Dio in mezzo al popolo. Tanto è vero che la Bibbia è soprattutto un insieme di libri storici e di racconti, in cui si rivela la libera e gratuita iniziativa di Dio, la fede che esige, la missione che affida.
La chiamata di Abramo è frutto di una scelta: è il Dio Vivente che si inserisce nella vita di Abramo e la muta. La sua parola è ordine e promessa, ed esige obbedienza e fiducia.
La chiamata di Dio è grazia e predilezione, ma è anche il Dio di tutti e il suo orizzonte si apre all’universalità:  “In te saranno benedetti tutti i popoli della terra” (Gen 12,1-4)
Consideriamo Gen 2-3: questo testo ci permette di cogliere l'esperienza spirituale di questa prima parte del libro sacro, ci fà vedere come la fede illumina concretamente l'esistenza storica dell'uomo e diventa un modo di leggere l'esistenza.
Dio si rivela come il Dio della vita: egli è interessato al quotidiano, alle relazioni fra gli uomini e non solo al culto e ai riti.
Ci si può porre la domanda: come si comporta Dio di fronte al male che sembra annullare il suo disegno di salvezza ? 
Certo Dio non può ignorarlo e lo punisce, ma consideriamo in Gen 50,20, la risposta di Giuseppe ai suoi fratelli: “Se voi avete pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera, cioè far vivere un popolo numeroso”.  La potenza del Signore può persino approfittare dell’azione cattiva dell’uomo per attuare la sua salvezza.
Dio è il Dio dell'interiorità e non dell'esteriorità: vuole l'uomo intero. Alle parole e alle azioni devono corrispondere la sincerità e la fedeltà del cuore.
La legge non è una imposizione arbitraria: è la volontà di un Dio salvatore che per primo ha compiuto gesti di salvezza. E allora l'osservanza della legge è la risposta a un Dio che ha fatto qualcosa per primo.
In questo modo è già chiaro che il credente, dall'antico Israele ad oggi, non deve osservare le leggi per puro calcolo utilitaristico ma come conseguenza di una condizione in cui, per grazia di Dio, è venuto a trovarsi.
La risposta di fede ha lo scopo di far vedere ciò che si è diventati per gratuita elezione.
Il brano di Gn 1,28 ( Dio li benedisse e disse loro: Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra…. ) è un motivo centrale e risuona come un ritornello anche in Gn 9,1-7; 17,2-6; 17,16; 17,20; 28,3-4; 47,27; 48,3-4; Es 1,7).
Il messaggio è chiaro: la vita viene da Dio, dalla sua benedizione, e non può essere nelle mani dell’uomo.
Questo è un invito alla fiducia, tanto più che l’alleanza tra Creatore e creatura non è condizionata dalla risposta dell’uomo ma unicamente dalla volontà di Dio e dalla sua Parola.
La cattiveria degli uomini ha riportato il caos nel mondo (diluvio), ma Dio si “ricordò”, e la sua parola ha riportato l’ordine (Gn 8,1). L’alleanza è ristabilita nei confronti di Noè, dei suoi figli e dei suoi discendenti: Gn 9,1-17, ed è un impegno gratuito e perpetuo.
Così Dio conferma la sua volontà salvifica nei confronti dell’uomo, ribadendo l’offerta del suo amore nonostante tutto, offerta che già aveva fatto subito dopo il peccato, con Gn 3,15, quando nei confronti del serpente tentatore leggiamo queste parole: “Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la stirpe di lei: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”.
Si oppone l’uomo al diavolo e alla sua razza, ma si lascia anche intravedere la vittoria finale dell’uomo grazie al “sì” della Vergine Maria; è già un primo barlume di salvezza.
Tutto è stabilito da Dio per il bene di tutti: l’uomo deve accogliere ed adorare.


Il messaggio del Profeta della consolazione e i carmi del Servo.  (7)

Agli esiliati in Babilonia il profeta Isaia non esita a ripetere parole di consolazione e di forte incoraggiamento. Va notato che i testi biblici di speranza sono tutti nati in contesti di umano fallimento (ad esempio, cf. Is 54,5-14; Is 55,1-11…). Dio però è talmente fedele al suo piano di salvezza che non vi viene mai meno, anche se Israele si rivela spesso mancante e poco perseverante nonostante la sua condizione di popolo scelto e particolarmente amato.
Ma sono soprattutto i carmi del Servo che ci interessano: Is 42,1ss; 49,1-6; 50,4-9; 53,1-12.
La figura del Servo , eletto da Dio e scelto per una missione di salvezza ha una fisionomia ben precisa:  radunatore del suo popolo e luce delle nazioni predica la vera fede, espia con la sua morte i peccati del popolo ed è glorificato da Dio.
Si tratta di una figura contemporaneamente individuale e comunitaria; i due aspetti si innestano l’uno nell’altro. Il Servo è il popolo di Israele… è il “resto” fedele di Israele… è il Messia, perché la vocazione/missione del popolo di Dio si ritrova portata a compimento nel Messia, e la vocazione del Messia rivive nella comunità.
Il Servo deve soffrire per il mondo, instaurare la giustizia, salvare le nazioni, essere la luce dei Gentili, insegnare la verità a tutti quelli che sono disposti ad accoglierla, ridare la vista ai ciechi, liberare i prigionieri, stabilire un'alleanza con il mondo, trattare i deboli con compassione e con amore, dispensare lo Spirito di Dio, addossarsi i peccati del mondo, intercedere per i peccatori, portare la conoscenza di Dio a tutti quelli che la cercano, garantire la pace e la serenità del cuore a chi è fedele, anche se lotta e soffre.
Tutte queste aspettative sono state adempiute da Gesù Cristo.
In un contesto di delusione per le vicende drammatiche e dolorose subite da Israele, con tante domande riguardo alla fedeltà di Dio e all’efficacia del suo amore, i canti del Servo rappresentano un forte messaggio di speranza, di invito a custodire la parola di Dio con perseveranza …  soprattutto con la loro riflessione sul significato salvifico della persecuzione vissuta dai profeti (es. Geremia) o dal “resto” di Israele, cioè dal popolo rimasto fedele.
Si fa presente il medesimo disegno di Dio ed emerge la risposta: è proprio attraverso una sofferenza purificatrice, prendendo su di sé la sorte degli altri, che giunge la salvezza per tutti. E il Messia, in effetti, sarà il grande giusto sofferente.

La riflessione di Giobbe   (8)
L’affascinante e importantissimo libro di Giobbe non è di facile lettura. Inizia con un prologo (v. 1-2) e finisce con un epilogo (47,7-12), ambedue in prosa. Fra prologo ed epilogo è inserita una ampia sezione poetica.
Giobbe è l’eco di una riflessione sulla sofferenza del giusto e di una inquietudine che l’autore ha inserito nel contesto dell’alleanza tra Dio e l’uomo che mette in discussione non solo la fede del singolo, ma la stessa ragion d’essere del popolo di Dio, e sollecita un chiarimento del modo di concepire Dio e il suo disegno di salvezza.
Giobbe non è più il modello della pazienza, bensì il modello del credente che si scontra con il mistero di Dio. Il suo dolore nasce dalla fede: egli non è più sicuro di Dio, vede dileguarsi la propria sicurezza. Si trova in balia di un dolore ingiusto che non può ricondursi al peccato e al castigo: un dolore che sembra smentire l’amore di Dio che tuttavia continua ad essere affermato.
Giobbe arriva a comprendere che la sua sofferenza non smentisce l’amore di Dio, bensì ne rivela il mistero, e la scoperta di questo mistero come la sua accettazione sono parte essenziale dell’autentica spiritualità.
Solo così si può dire di avere incontrato Dio: “Ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono” (42,5). Nell’esperienza di Giobbe troviamo la reazione del vero credente contro il tentativo di razionalizzare il mistero dell’esistenza. Occorre invece accettare il mistero, viverlo con fiducia nel Dio vivente che sta al di là dei vari tentativi di soluzione: una fiducia che per sorreggersi non ha bisogno di negare l’esperienza, che anzi deve essere letta lucidamente e accettata coraggiosamente.
Giobbe è innocente eppure soffre, e Dio è giusto. Come comporre le due affermazioni? Ma la giustizia di Dio è oltre quella dell’uomo. La vera spiritualità si nutre del mistero, non si sforza di eliminarlo.
Siamo ancora nell’Antico Testamento; la risposta potrà venire solo da Gesù Cristo nella pienezza dei tempi: Lui è il giusto sofferente che offre salvezza all’umanità peccatrice.

La lode d'Israele   I SALMI  (9)
I salmi sono la preghiera d’Israele. Ispirati da Dio, sono una preghiera secondo Dio.
Frutto plurisecolare della pietà di tutto un popolo, essi insegnano all’individuo e alla comunità l’atteggiamento che si deve assumere davanti a Dio nelle circostanze più diverse.
Riflesso di situazioni psicologicamente infinitamente varie, i salmi sono una scuola di preghiera per qualsiasi anima amante del dialogo personale con Dio.
Vi si ritrovano di volta in volta il soffio profetico e la meditazione sapienziale, lo slancio messianico e il ricordo del passato, la fede sincera e profonda, l’esaltazione della legge, la promozione dell’individuo e il sentimento comunitario, le tradizioni patriarcali, la consapevolezza dell’elezione e le esigenze dell’alleanza, il ricordo dell’Esodo e la speranza del ritorno… ecc.
Questa ricchezza multiforme viene divisa in varie categorie secondo i contenuti: Inni (preghiere nelle quali l’anima si compiace nel lodare Dio), Suppliche (nelle quali ci si rivolge a Dio per implorare il suo soccorso), Ringraziamenti, ecc.
Essi riflettono gli stati d’animo più vari, corrispondono ai bisogni interiori più diversi, esprimono una pietà personale e collettiva di qualità assai elevata.
Il loro valore è garantito anche dall’uso personale che ne fanno Nostro Signore, la Vergine, gli Apostoli e i primi martiri.
Sono la preghiera ufficiale della Chiesa.
La fede, la speranza e la carità ne sono il sostegno intimo; e il Gloria che pone termine a ciascuno di essi sta ad indicare che ora il cristiano ha fatto sua la preghiera ispirata di Israele, nella consapevolezza del suo rapporto personale con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

Un suggerimento semplice per pregare i Salmi:
Ogni Salmo accompagna una particolare situazione di vita: momenti di gioia oppure di tristezza; quando ci sentiamo vicini al Signore o nella sensazione della sua lontananza. Essi sono uno specchio fedele dei sentimenti dell’uomo ed ogni nostro atteggiamento si riflette in uno di essi.
La comunità cristiana, guidata dallo Spirito Santo, ha fatto proprie queste preghiere dei salmi, applicando al Signore e a se stessa ciò che nei Salmi è detto del popolo di Dio, del tempio, della terra promessa, del regno, dell’alleanza.
Qui di seguito viene suggerito come servirci dei Salmi per la propria preghiera personale, secondo le situazioni e gli stati d’animo:
INNI DI LODE, attraverso i quali l’uomo loda Dio ora Creatore, ora Salvatore, ora misericordioso e vicino:
-  Salmo 8: Quanto è grande il tuo nome su tutta la terra.
-  Salmo 29: Ti esalterò, Signore, perchè mi hai liberato.
-  Salmo 32: Il piano del Signore sussiste per sempre.
-  Salmo 33: Gustate e vedete quanto è buono il Signore.
-  Salmo 56: Invocherò Dio l’Altissimo.
-  Salmo 66: Ci benedica Dio.
-  Salmo 91: Mi rallegri, Signore, con le tue meraviglie.
-  Salmo 99: Servite il Signore nella gioia.
-  Salmo 102: La tenerezza di Dio.
-  Salmo 103: Splendore delle opere di Dio.
-  Salmo 107: Su tutta la terra splende la tua gloria.
-  Salmo 110: Dio si ricorda sempre della sua alleanza.
-  Salmo 112: La gloria e la misericordia di Dio.
-  Salmo 117: Benedetto colui che viene nel nome del Signore.
-  Salmo 139: Signore, tu mi scruti e mi conosci.
-  Salmo 144: Il Signore è santo in tutte le sue opere.
-  Salmo 145: Beato chi ha per aiuto il Signore.

CANTI DI RINGRAZIAMENTO con i quali si enumerano i benefici di Dio che richiamano sempre alla riconoscenza:
-  Salmo 4: La gioia della fiducia in Dio.
-  Salmo 22: Felicità e grazia perenni.
-  Salmo 85: Dio di pietà, compassionevole.
-  Salmo 114-115: Amo il Signore perchè ascolta.
-  Salmo 123: Se il Signore non fosse stato con noi.
-  Salmo 137: Il Signore completerà per me l’opera sua.

PER INVOCARE L’AIUTO DI DIO:
-  Salmo 26: Il tuo volto, Signore, io cerco.
-  Salmo 30: Nelle tue mani consegno il mio spirito.
-  Salmo 40: Preghiera del malato abbandonato.
-  Salmo 53: Dio, per il tuo nome, salvami.
-  Salmo 61: Fondarsi unicamente in Dio.
-  Salmo 65: Acclamate a Dio da tutta la terra.
-  Salmo 76: Può Dio aver dimenticato la misericordia?
-  Salmo 84: Mostraci, Signore, la tua misericordia.
-  Salmo 141: Io grido a te, Signore.
-  Salmo 142: Nessun vivente davanti a te è giusto.

PER CHIEDERE PERDONO A DIO:
-  Salmo 31: La gioia dell’uomo perdonato.
-  Salmo 50: Pietà di me o Dio.
-  Salmo 89: Come contare i nostri giorni?
-  Salmo 129: Dal profondo a te grido, o Signore.

NEI MOMENTI DI SOFFERENZA:
-  Salmo 6: Il Signore ascolta la voce del mio pianto.

PREGHIERA DEL MATTINO:
-  Salmo 5: Ascolta la mia voce, Signore.
-  Salmo 56: In te mi rifugio.

PREGHIERA DELLA SERA:
-  Salmo 4: La gioia della fiducia in Dio.
-  Salmo 15: Proteggimi o Dio.
-  Salmo 90: Tu che abiti al riparo dell’Altissimo.

Con l’augurio di una preghiera nella pace !




L'interrogativo di Qohelet   (10)

Il libro di Qohelet (o Ecclesiaste) pone interrogativi e inquietudini che sono il passaggio obbligato verso un'autentica esperienza spirituale.
Mentre Giobbe lascia supporre che una vita ricca di benessere e di successo è degna di essere vissuta, Qohelet va oltre e si chiede: a che serve?
Fra la credenza nella giustizia sulla terra, che è rigettata, e la credenza nella giustizia oltre la morte, che non è ancora intravista, la fede passa attraverso una crisi.
Il mondo nuovo che l'uomo si sforza di costruire sfugge continuamente dalle mani, e così ogni generazione è costretta a ricominciare da capo. Sempre ci sarà il limite della morte, l'occhio dell'uomo continuerà a non saziarsi di vedere e l'orecchio di ascoltare, e alla ricerca dell'uomo continuerà a sfuggire il senso dell'insieme.
Qohelet non è uno scettico o un miscredente o un deluso: è più semplicemente un uomo lucido. Bene e male non sono distribuiti secondo un criterio accettabile – continua Qohelet – e saggezza e stupidità non sono trattate come meritano. Ma l’esistenza umana è vanità soprattutto perché urta contro il limite invalicabile della morte.
Occorre ovviamente tenere presente che siamo ancora nell’Antico Testamento, e Qohelet vede la morte come i suoi contemporanei, cioè senza la chiarezza di una positiva esistenza ultraterrena.
Perché Dio – ecco la domanda ineludibile – ha costruito l’uomo così, squilibrato e pieno di limiti ?  Ma la sua risposta mostra la sua profonda religiosità: “Dio agisce così perché l’uomo abbia timore di lui” (3,14). Risposta breve, quasi evasiva ma importante.
Temere Dio significa essere consapevole dei propri limiti. Significa avere fiducia in lui nonostante tutto. Significa accettare la situazione serenamente e lucidamente, e afferrare il dono di Dio volta per volta.
Qohelet registra un progresso su Giobbe. Quest'ultimo considera il benessere terrestre come una soddisfazione adeguata; Qohelet arriva fino ad associare il dolore alla felicità stessa che si può provare quaggiù.
Giobbe si meraviglia che il giusto non sia colmato di beni; Qohelet constata che anche quando è colmo e sazio l'uomo non è felice.
Nei suoi aspetti apparentemente negativi l'autore testimonia la necessità d'una più completa rivelazione divina sul destino dell'uomo nell'al di là, collegato al comportamento dell'uomo sulla terra.
Il libro ha il carattere di un'opera di transizione. Le certezze tradizionali sono scosse, ma niente di fermo viene a rimpiazzarle.
Mettendo in evidenza l'insufficienza delle antiche concezioni e forzando gli spiriti ad affrontare gli enigmi umani, il libro fa appello a una rivelazione più alta. Dà una lezione sul distacco dai beni terrestri e, negando la felicità dei ricchi, prepara il mondo a udire: "Beati voi poveri" (Lc 6,20).


La risposta del Libro della Sapienza   (11)

Mentre secondo Qohelet la morte rappresenta lo scacco radicale dell'esistenza dell'uomo, il Libro della Sapienza porta, alle soglie del Nuovo Testamento, una apertura assolutamente nuova: "in realtà Dio ha creato l'uomo per l'immortalità" (2,21-23).
Contrariamente alle apparenze Dio è fedele e non abbandona il giusto nella morte, non lo mette al pari dello stolto.
La morte non delude la speranza dei giusti, ma la conferma (3,4), e non si tratta di una semplice sopravvivenza ma di una comunione di vita con Dio (15,3), prolungamento di quell'amicizia con la sapienza che già qui il discepolo si è sforzato di instaurare (3,9).
Si può parlare di una duplice morte: quella fisica, a cui anche i giusti sono soggetti ma che va vista come un passaggio da una esistenza tormentata a una vita con Dio (2,19; 3,9; 5,15); e la morte eterna, quella dell'empio che si identifica con la separazione definitiva da Dio (2,24).
C'è da chiedersi a questo punto come sia avvenuta questa illuminazione, che in definitiva ha salvato tutta l'esperienza spirituale di Israele.
In ogni caso la conclusione è che Dio è fedele e non può abbandonare l'uomo: non può averlo creato con una sete di vita per poi deluderlo, non può invitarlo alla sapienza per poi tradirlo.
Naturalmente anche queste conclusioni non sono giunte all’improvviso: già alcuni Salmi ne fanno cenno (73; 17; 49; 16).
L’intuizione della sopravvivenza fu anche agevolata dall’esperienza dei martiri (2 Mac 7,9; 12,43-45; 14,16): è mai possibile che Dio abbandoni alla morte coloro che muoiono per essere fedeli alla sua legge?
Tale speranza ha una caratteristica fondamentale. Essa non poggia su ragionamenti umani ma è tutta sospesa alla fedeltà di Dio; è religiosa: la vittoria sulla morte è assicurata dalla promessa di Dio, ed è a partire da Dio che si comprende la necessità che la morte sia vinta.


Note sintetiche importanti   (12)

A questo punto la lettura “a grandi linee” dell'Antico Testamento, evidenziando un percorso di spiritualità, è pressochè conclusa, ma rimangono alcuni aspetti generali molto interessanti che è bene sottolineare:

a) La fedeltà alla storia:
C'è un principio base, la convinzione della presenza salvifica di Dio nella storia umana. Israele pone al centro della propria fede una "storia di salvezza", e ciò significa la persuasione che Dio agisce nel mondo storico in maniera e in forme umane, condividendo la nostra esistenza; che l'uomo trova Dio e il suo dono di salvezza dentro la storia, non fuori di essa; che la storia non è soltanto il luogo in cui inserirsi per servire Dio, ma ancor prima il luogo dove è possibile conoscerlo: la storia è luogo di rivelazione.
L’uomo biblico parte da ciò che è singolare e concreto. Solo dopo tenta di analizzare i fatti e di coglierne il senso universale.
Chi vive e comprende il momento storico di Dio è chiamato ad essere un testimone che ricorda e racconta di fronte a tutti.
L’Antico Testamento orienta la fede a quanto accade nel mondo e la costringe a rimanere ancorata agli avvenimenti, comunque siano: ancorata alla storia anche quando gli avvenimenti sembrano smentire la concezione religiosa che Israele aveva della storia stessa.
Così l’esperienza spirituale di Israele è sempre aperta alla sfida e alla minaccia degli avvenimenti.
L’uomo biblico è coinvolto nella storia; la sua esperienza è confrontata con gli avvenimenti che vive, sia con quelli che parlano della provvidenza divina, come con quelli che sembrano negare la presenza di Dio.
In tutti i casi l’uomo biblico si rifiuta non solo di disperare di Dio, ma anche di separarlo dalla storia e di cercar rifugio nel misticismo o nella fuga dal mondo.

b) La memoria
Israele legge la propria storia presente e si apre al futuro traendo luce da alcune gesta di Dio particolarmente rivelatrici: ad esempio le gesta delle origini, dei patriarchi e dell’esodo; avvenimenti che sono stati costantemente conservati nella memoria per decifrare, a partire da essi, le vie di Dio.
Ma Israele non ricorda semplicemente le gesta di Dio, ma le gesta commentate dalle parole e fissate nei segni. Le gesta di Dio resterebbero mute senza la parola che le spieghi e senza i segni che accreditano la parola di spiegazione.
Si comprende in tal modo come la liturgia abbia svolto una funzione fondamentale: le feste, il sabato, i gesti liturgici sono memoriali.
Nella liturgia si ricorda e si attualizza: le gesta del passato, ricordate e interpretate, ridiventano contemporanee e interpellano il popolo. La memoria diventa un oggi.

c: la concezione di Dio nell'A.T.
Israele ha fatto l'esperienza che Dio è presente e operante nella storia, ma ha anche sperimentato la sensazione della sua assenza, del suo silenzio.
Dio si nasconde, così come si manifesta. Accanto alle professioni di fede: "Dio è con noi!", "Dio ci ha tratto dall'Egitto!" c'è l'interrogativo dell'abbandono: "dov'è Dio?", "che cosa fa Dio per noi?".   (Es 14,11; 16,3; 17,3; Nm 11,4-6; 11,31-34; Gdc 6,13).
Certo l'agire di Dio è misterioso.
Le assenze di Dio non si spiegano sempre e semplicemente come frutto del peccato e, quindi, come un castigo. Obbediscono piuttosto a una pedagogia di Dio, sono una "prova", la strada obbligata per raggiungere il vero Dio.
Profeti e salmisti ripetono che Dio si nasconde "per farsi ritrovare". Normalmente infatti Dio fa percepire la sua Presenza e la sua voce interiore a chi è davvero pronto ad accoglierlo; e questo è segno di amore e di misericordia nei confronti dell'uomo sua creatura.
Ma nonostante queste spiegazioni, è di fronte a queste assenze di Dio che Israele sente, perennemente, la tentazione di cercare altre presenze o altri appoggi: cercare un Dio più programmabile, meno inquietante.
Nel mistero di Dio si può constatare: 
che Dio è nei cieli e tuttavia è coinvolto nella storia;
è il protagonista della storia e tuttavia la storia è nelle mani della libertà dell’uomo;
è il Signore della storia e tuttavia nella storia c’è il male;
la sua azione è per l’uomo e tuttavia non si lascia strumentalizzare dall’uomo.
La Bibbia riconosce tutto questo ma l’Antico Testamento non è ancora in grado di dare soluzioni.
In ogni caso la ricerca di Dio non è uno sforzo di conoscenza fine a se stessa: è sempre un cercare Dio in rapporto a noi uomini e dentro la vita concreta.

d) La concezione dell'uomo nell'Antico Testamento
Dio per Israele è costantemente presente nella storia degli individui, del popolo eletto e degli altri popoli: in una parola, dirige la storia.
Questa fede potrebbe portare a sminuire o a negare la parte dell’uomo.
E invece no.  E’ proprio all’interno di un quadro in cui Dio è al di sopra di ogni cosa che Israele afferma il primato dell’uomo.
L’uomo biblico non è giunto ad affermare la grandezza dell’uomo osservando concretamente l’uomo e la sua capacità di dominare la natura, la sua distanza dalle cose e la sua superiorità su di esse.  L’esperienza biblica è religiosa: ha colto la grandezza dell’uomo, di ogni uomo, riflettendo sul comportamento di Dio, sul suo amore, sulla sua alleanza. Ed ha alla fine compreso che l’esistenza dell’uomo sarà riscattata dalla vanità e dalla morte proprio partendo dalla fedeltà di Dio.
Tutto questo è significativo.
L’esperienza biblica ripete dunque che il riconoscimento della signoria di Dio non è a scapito del senso dell’uomo, ma ne è il fondamento.
Dio e l’uomo sono legati: l’uomo soltanto “insieme” con Dio si salva o si perde.


L'esperienza spirituale originaria: il Cristo e i discepoli  (13)

L’esperienza spirituale originaria è quella del Cristo e dei primi discepoli al suo seguito:
1)  L’esperienza spirituale dell’uomo Gesù.
2)  L’esperienza spirituale dei discepoli al suo seguito.
3)  Lo scontro fra Gesù (il messaggio e i suoi gesti) e l’ambiente religioso in cui egli è vissuto.
Gesù è assolutamente un uomo reale che si è espresso in parole e gesti: ha lasciato trapelare qualcosa di sé. Inoltre i testimoni della fede hanno inteso comunicarci la sostanziale realtà degli avvenimenti.
Ed è altrettanto chiaro che tali testimonianze, al di là delle differenze dovute a situazioni comunitarie e ad esperienze diverse, riportano affermazioni costanti e comuni. Pertanto noi accogliamo con fiducia quanto ci hanno tramandato.
Non è facile definire Gesù non soltanto nella sua divinità, ma anche nella sua fisionomia umana. Non è infatti un uomo comune.
Già all’inizio del suo ministero (Mc 1,21ss), di fronte ai suoi primi discorsi e ai suoi primi gesti, la folla si pone l’interrogativo: Che significa tutto questo?
La risposta è che Gesù insegna con autorità (non come gli scribi) e che il suo insegnamento è nuovo.
Di fronte a Gesù nasceva la domanda: chi sei? donde vieni?
Non è facile rispondere. Da una parte la pretesa di Gesù di essere inviato da Dio, da un'altra parte la realtà umana, quotidiana che sembra smentirla: così è accaduto a Nazaret (Mc 6,1ss) e ai giudei della sinagoga di Cafarnao (Gv 6,41-42).
Da una parte l'affermazione che il regno è giunto, dall'altra il fallimento della croce.
Tutto questo ci introduce all'itinerario spirituale che il discepolo, chiamato da Gesù al suo seguito, ha percorso.
I discepoli hanno seguito Gesù nei suoi viaggi, hanno ricevuto da lui un insegnamento particolare, lo hanno interrogato: hanno fatto vita comune con lui.
Tutto questo rientrava nella normalità: ogni rabbì era circondato da un gruppo di discepoli che lo seguivano. Ma al di là di questa comune ambientazione il rapporto che lega il discepolo a Gesù è originale.
L'appello di Gesù (Mc 1,16-20) esige prontezza di decisione, distacco e condivisione. L'elemento centrale è il seguire, che suppone una chiamata e una adesione personale.
Sta qui il nocciolo dell'originalità del discepolato evangelico.
Normalmente è il discepolo che va in cerca del rabbì celebre, attirato dalla sua fama e desideroso di impossessarsi della sua dottrina; nel vangelo è invece in primo piano la persona di Gesù, non la dottrina; ed è Gesù che chiama, invita a seguirlo.
Normalmente la condizione di discepolo è una situazione transitoria: il discepolo frequenta un maestro per diventare a sua volta maestro. Nulla di ciò nel vangelo: l'essere discepolo è una condizione permanente.
L'unico Maestro rimane e rimarrà sempre il Signore Gesù.

Il discepolo di Gesù, chiamato a vivere un’esperienza originale di discepolato, è invitato a percorrere lo stesso itinerario del maestro, cioè la via della croce.
Per questo gli è richiesta una profonda e radicale conversione: Mc 8,27-35. Non basta confessare apertamente come Pietro la messianicità di Gesù per essere discepolo; occorre condividerne la strategia.
Anche il discepolo può correre il rischio di cadere nella logica degli uomini attribuendo a Gesù una messianicità che viene “dalla carne e dal sangue”: una messianicità secondo gli uomini, conforme a quello schema di grandezza che gli uomini sognano.
Invece il discepolo deve “rinnegare se stesso” (Mc 8,34), capovolgendo l’immagine di messia che si è costruito e convertendo radicalmente la speranza che ha coltivato.
E’ una conversione che va alla radice, tantopiù che il discepolo deve applicare a se stesso la via della croce: la sua via è come quella del maestro, ugualmente incamminata verso la croce.
In concreto il discepolo deve, a sua volta, progettare l’esistenza in termini di donazione: “chi crede di salvare l’esistenza la perde, chi la dona la ritrova” (Mc 8,35).
I discepoli, ponendosi al seguito di Gesù, avevano idee sbagliate su di lui, dal momento che la pensavano sostanzialmente allo stesso modo delle folle. Tutta la vicenda evangelica lo dimostra, fino all’ultimo.
Eppure, a differenza delle folle e nonostante la loro incomprensione, rimasero sempre accanto al maestro. Ciò dimostra che in loro c’era un attaccamento personale a Gesù, più profondo del progetto che si erano costruiti.
Sta qui, in questo appassionato e incrollabile attaccamento al Signore, l’essenza della spiritualità cristiana.


Gesù testimone della verità di Dio  (14)
La spiritualità dell'uomo Gesù  

Una cosa è subito evidente: nei numerosi dibattiti in cui Gesù fu coinvolto, egli va sempre al fondo del problema. Così è a proposito del sabato, del puro e dell’impuro, del tributo a Cesare e di altro ancora.
Di fronte ad ogni questione Gesù cerca di condurre gli interroganti a una visione nuova del problema.
Non si lascia imprigionare nei termini angusti entro i quali si era soliti porre la questione. Si mostra convinto che c’è qualcosa più indietro da recuperare, qualcosa che rinnova i problemi dalle fondamenta.
Questa capacità di Gesù che fa scorgere il fondo vero delle cose, è già un motivo che lo rende diverso.
La folla se ne accorge e, come Marco annota, rimane ammirata di lui (Mc 12,17) e “nessuno più ardiva interrogarlo” (12,34) e “lo si ascoltava volentieri” (12,37).
Dove sta la radice della sua originalità? 
Gesù parla di Dio e soltanto di Dio. Egli trae da una profonda comunione con il Padre i criteri della propria azione e i giudizi per le proprie valutazioni. Valuta le cose a partire da Dio.

Per penetrare almeno un poco questo profondo mistero della spiritualità dell'uomo Gesù, evidenziamo tre aspetti:
1) in tutto ciò che fa Gesù intende unicamente rivelare il volto del Padre, il suo atteggiamento verso l'uomo, il suo amore.
Se Gesù cerca gli oppressi, i peccatori, gli emarginati di ogni genere, ricava i criteri del proprio atteggiamento dalla sua conoscenza perfetta del comportamento di Dio che ama ogni uomo. Ciò è particolarmente chiaro nelle parabole della misericordia di Lc 15: in questi brani si fa presente la misericordia di Dio che ama i peccatori e li attende come un padre; Dio gioisce del loro ritorno e vuole che la sua gioia sia condivisa.
2) Gesù è un uomo di profonda preghiera: sappiamo che ha pregato al battesimo, prima di eleggere i dodici, a Cafarnao, al Getzemani, sulla croce.
I momenti cruciali della sua vita sono commentati da una preghiera personale e solitaria al Padre.
La preghiera di Gesù esprime anzitutto la sua consapevolezza di essere unito al Padre: è la comunione col Padre che affiora nella sua coscienza e si traduce in colloquio.
Ma è anche vero che la preghiera di Gesù esprime la sua attenzione al piano di Dio e alla Parola: nella preghiera Gesù ritrova il coraggio e la nitidezza della propria scelta.
Gesù è consapevole della sua figliolanza divina, mistero unico, originale, irripetibile. Per questo egli si ritira da solo a pregare. Non gli basta parlare con gli uomini, neppure gli basta morire per i fratelli.
Avverte una solitudine che solo il Padre può colmare, una ricchezza che solo il Padre può capire e condividere.
3) la profonda religiosità di Gesù si esprime nella sua incondizionata obbedienza al volere del Padre. In tutto ciò che egli fa e dice è attento a conformarsi al Padre, così da esserne l'immagine perfetta: "Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e portare a compimento la sua opera" ( Gv 4,34).
Gesù è proteso in una totale obbedienza. Non è venuto a dire parole proprie, originali, tali da mettere in mostra se stesso: è venuto a dire unicamente le parole del Padre.


Gesù uomo per gli altri. La via della croce.   (15)

Gesù è in ogni circostanza proteso nel dono di sè.
Progetta l'esistenza in termini di donazione, non di possesso.
Consapevole di essere messia e figlio di Dio, non si mette al di fuori della storia degli uomini: solidarizza con essa e la assume. Dice di essere venuto non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per le moltitudini (Mc 10,45; 14,24). Non si rifugia nel disinteresse, non prende le distanze, ma si sente completamente coinvolto e solidale.
E' a questo punto che si inserisce e prende senso la via della croce.
Gesù previde la sua passione e morte non semplicemente come sbocco logico, inevitabile e prevedibile di ciò che diceva e faceva e della reazione che suscitava, ma come volontà di Dio.
I gesti e le parole dell'ultima Cena (Mc 14,22-25) - il pane spezzato e il vino condiviso, il richiamo all'antica alleanza (Es 24,8) e al Servo di Dio (Is 53) - rivelano che Gesù vide la sua morte come un'obbedienza totale al Padre, un abbandono totale nelle sue mani e un dono incondizionato agli uomini.
Così Gesù è morto come ha vissuto, portando a compimento quegli atteggiamenti che lo hanno guidato in tutta la sua esistenza: l'incondizionata obbedienza al Padre, la solidarietà con i peccatori, l'abbandono senza riserve all'amore.
In tal modo la croce diventa la rivelazione ultima dell'originalità di Gesù (e del volto del Padre che egli intende appunto svelare) e, per ciò stesso la rivelazione di ogni spiritualità cristiana: l'apertura al Padre come obbedienza e l'apertura ai fratelli come dono e solidarietà.


Vera e falsa ricerca di Dio.   (16)

Gesù visse, insegnò e operò (e fu rifiutato) in una società grandemente religiosa.
Ma c’è anche una falsa ricerca di Dio, c’è anche l’incredulità del credente. E’ contro questa falsa ricerca che Gesù prima, e la comunità primitiva poi, dirigono gran parte della loro denuncia, non solo smascherando le forme molteplici in cui questa falsa religiosità si esprime, ma anche mettendo a nudo i moventi e le occulte radici.
Il vangelo descrive la falsa ricerca di Dio incarnata in situazioni e persone del tempo: ciò vale, ad esempio, per il fariseo e lo scriba, per la folla, per gli stessi discepoli.
Nel vangelo di Mc (7,1-23) troviamo una forte polemica contro la spiritualità farisaica, con aspetti chiari e importanti per conoscere alcune fra le principali deviazioni che possono riprodursi nella stessa spiritualità cristiana anche nel nostro tempo.
C’è una prima affermazione: comandamento di Dio e tradizioni degli uomini devono essere tenuti distinti (7,8-13), perché il primo è perenne mentre le seconde sono provvisorie.
Una seconda affermazione: non ci si purifica dalla vita ordinaria per incontrare Dio altrove, ma ci si deve purificare dal peccato per incontrare Dio proprio nella vita quotidiana.
Inoltre non è ciò che entra nell’uomo che lo contamina, ma ciò che esce dal suo cuore (7,15).  Con questa piccola parabola Gesù afferma la morale del cuore e non solo delle azioni.
E’ l’uomo che deve essere in ordine: solo da un uomo ordinato procedono azioni morali.
Il cuore deve essere pulito se vuole essere in grado di cogliere la volontà di Dio; volontà che non è semplice lettera scritta, ma che solo può essere compresa in un rapporto personale di profonda amicizia tra l’uomo e il suo Signore.
Occorre dunque crearsi, con sforzo personale e perseveranza, una situazione interiore capace di conoscere Dio, il vero Dio, e di leggere la sua autentica volontà. 
 
L'uomo di fronte alla rivelazione nel vangelo di Giovanni.   (17)

Il filo conduttore del quarto vangelo viene individuato nel progressivo svelarsi di Cristo e, parallelamente, nel progressivo manifestarsi della fede e della incredulità.
Gli episodi sono disposti uno dopo l’altro, in modo da formare un crescendo: il Cristo rivela sempre più chiaramente il suo mistero, e gli uomini rivelano sempre più la loro incredulità.
L’evangelista Giovanni considera l’uomo unicamente all’interno di questo dramma. E’ l’opzione pro o contro la luce che qualifica l’uomo, collocandolo nella luce o nelle tenebre, tra i figli di Dio o i figli del diavolo (cf. capitolo 8).
Di fronte a questa rivelazione di Cristo l’uomo non comprende: ad esempio Nicodemo (capitolo 3) e i galilei (capitolo 6) pretendono di passare direttamente dal segno (miracolo) alla fede mentre occorre invece passare attraverso la parola che rigenera.
Inoltre l’uomo pretende di chiudere il dono di Dio entro la propria attesa secondo il suo modo di pensare (cf. la samaritana  4,15; i galilei  6,26).
Il fatto è che la rivelazione di Cristo richiede conversione, occorre aprirsi e abbandonare la “propria” sicurezza religiosa e la “propria” ricerca di Dio per cercare finalmente “secondo il cuore di Dio”.
Così Giovanni sottolinea l’impotenza dell’uomo abbandonato a se stesso, totalmente incapace di comprendere.
Anche i discepoli non comprendono: pensano al cibo terreno e non sospettano in Gesù la presenza di un’altra fame e di un’altra ricerca (4,33). Ma questo è un passaggio che solo Dio può compiere nel cuore del credente sincero, un passaggio che rinnova dalle fondamenta, dal momento che la conversione è totalmente grazia (6,65).
E’ la realtà dell’amore di Dio apparso sulla croce (3,16), mistero di innalzamento e glorificazione; si tratta di comprendere che la croce è vita.
Infatti Dio non abbandona mai l’uomo (capitolo 11), anche quando proprio quella è l’apparenza.
Piuttosto, con il suo comportamento, Gesù vuole indicare che la morte e la sofferenza non sono un segno dell’abbandono di Dio, ma rientrano in un disegno di salvezza e di amore.
E’ il mistero della via del Cristo (la croce), ma è nel tempo stesso il mistero dell’esistenza dell’uomo.


L'itinerario del discepolo   (18)

Ecco come appare il cammino di fede del discepolo secondo il vangelo di Giovanni.
Nei suoi tratti caratteristici il discepolo è colui che accetta la testimonianza, segue, cerca, viene, vede, dimora, e si fa a sua volta testimone.
In sostanza, il discepolato è anzitutto caratterizzato dal “vedere”. E nel vocabolario di Giovanni “vedere” è possibile all’interno di un “noi” e non singolarmente, come mostra l’espressione al plurale del prologo.
Si tratta dunque di un vedere comunitario, che si realizza all’interno di una comunità che lotta contro il peccato, che vive con sincerità l’amicizia con il Signore, e rimane costantemente fedele alla tradizione apostolica.
E’ un vedere ciò che accade e, infine, un andare oltre, per cogliere la realtà profonda che la carne nasconde: è un raggiungere il mistero della persona di Gesù.
Il discepolato è caratterizzato dal verbo “rimanere” (1,38-39) cioè da una comunanza di vita e di destino con il maestro, e da una profonda comunione con lui.
Non manca certo la prova, la tentazione, e il discepolo allora sperimenta che la testimonianza si svolge all’interno di un conflitto, fra il Cristo da una parte e il mondo dall’altra. Perché l’annuncio di Gesù si oppone alla logica mondana e alle sue valutazioni, e suscita consensi e rifiuti (da parte del mondo che non vi si riconosce e si sente minacciato). 
Il testimone è coinvolto in tutto questo: la testimonianza esige disponibilità al dono di sé, sull’esempio del Maestro, da praticare con perseveranza.
La comunione con Gesù, il rapporto di amicizia personale con lui è in ogni caso un fatto perennemente contemporaneo, aperto alla esperienza diretta e personale di tutti coloro che si aprono alla fede in ogni tempo.


La comunità, il mondo e lo Spirito.   (19)

L'insegnamento dello Spirito non è un insegnamento nuovo rispetto a quello di Gesù, ma la memoria (Gv 14,26) di cui lo Spirito è il garante e il portavoce, non è ripetitiva.
Per questo si dice “vi introdurrà all’intera verità” (Gv 16,13).
Si tratta di un insegnamento fedele alla memoria di Gesù, ma nello stesso tempo approfondito, attualizzato, posseduto dall’interno, non più per sentito dire ma per esperienza personale.
Lo Spirito conduce la comunità alla pienezza della comprensione della verità di Cristo.
C’è un secondo compito dello Spirito: la testimonianza.
Davanti all’ostilità del mondo i discepoli saranno esposti al dubbio, allo scandalo e allo scoraggiamento: lo Spirito li aiuterà, spiegherà loro la grandezza di essere “con” Cristo. Li fortificherà nella loro fedeltà al Maestro.
Il compito primo del discepolo è di “rimanere” in Gesù come il tralcio rimane attaccato alla vite (Gv 15,1-17). Ma che significa “rimanere” in Cristo?
Rimanere significa amarci l’un l’altro. “Nessuno ha mai visto Dio, ma se ci amiamo l’un l’altro Dio dimora in noi” (1 Gv 4,12).
L’incontro con il mistero di Cristo è qualcosa di contagioso: chi ne fa esperienza non può tenerlo per sé, ma deve testimoniarlo, realizzando una autentica comunione fra il Padre e il Figlio, e fra di noi.


Continuità e novità del messaggio di Gesù.   (20)

Il discorso della montagna in Matteo si apre con due affermazioni in apparenza contrastanti. Da una parte si legge “Non crediate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti: non sono venuto per abolire ma per compiere” (Mt 5,17).
Dall’altra un chiaro e ribadito atteggiamento di rottura: “Avete udito ciò che fu detto agli antichi… ma io vi dico… “ (Mt 5,21 ss).
Risolvere e comprendere questo apparente contrasto significa comprendere non soltanto una delle tesi centrali del vangelo di Matteo, ma anche una delle caratteristiche più importanti e costanti della esperienza spirituale delle prime comunità cristiane.
Il messaggio di Gesù è in continuità con l’Antico Testamento e Gesù non fa correzioni, confermandone la validità. Ricupera invece l’intenzione profonda della storia della salvezza e la porta a compimento.
Continuità dunque, dal momento che si tratta sempre e comunque di Parola di Dio, ma si tratta di una continuità che ha carattere di novità. Esige conversione, perché è critica nei confronti degli schemi precedenti.
Gesù sa che l’Antico Testamento è per essenza realtà aperta, avvio, promessa: essergli fedeli significa superarlo e portarlo a maturazione.
La tensione fra continuità e novità non è unicamente racchiusa nel rapporto fra Antico e Nuovo Testamento: si riproduce in forme nuove, ma analoghe, nel rapporto tra tradizione e contemporaneità, perché la coscienza cristiana è fedele alla tradizione ma non è ripetitiva, e viene costantemente attualizzata nel tempo.



La salvezza è grazia.   (21)

E' concezione unanime nel Nuovo Testamento che la salvezza è grazia.
La grazia cambia alla radice il rapporto con Dio, fra di noi e con il mondo e cambia la comprensione che l’uomo ha di se stesso.
Il rapporto con Dio diventa così essenzialmente un rapporto di accoglienza e di gratitudine. Non è la via dell’uomo che sale a Dio, ma è la via di Dio che discende verso l’uomo. E l’obbedienza dell’uomo, la sua decisione, sono risposta a un dono gratuitamente già ricevuto.
E’ proprio questo il vangelo, il lieto annuncio da portare a tutti, atteso e desiderato: Cristo è morto e risorto per noi e, di conseguenza siamo salvati dall’amore gratuito di Dio apparso sulla croce, non dalle nostre opere.
La nostra sicurezza poggia sull’amore di Dio non soprattutto sulla nostra risposta, anche se una nostra risposta positiva è necessaria: per questo è lieta notizia.
La grazia muta i rapporti all’interno della comunità, nella quale deve regnare l’ordine della donazione reciproca, gratuita e disinteressata, e non della giustizia soltanto (cf. Fil 2,1-4).
L’uomo deve concepirsi come dono gratuito, come un’esistenza donata, cioè grazia, che non può quindi rimanere chiuso in se stesso, ma deve aprirsi e farsi dono generoso per tutti.
Se questo non avvenisse, l’amore gratuito di Dio per l’uomo, per tutti gli uomini verrebbe trasformato : non più dono ma possesso, non più servizio ma potere.
Grazie e servizio sono due realtà che devono rimanere sempre unite (1 Cor 12,4). Ed è vivendo la grazia in tutte queste sue dimensioni che si fa esperienza del Dio di Gesù Cristo.


GESU’ CRISTO   (22)

Per un incontro vivo con Gesù Cristo nel nostro tempo occorre avere ben chiaro che il fatto determinante e caratterizzante che gli conferisce un significato unico è l’evento della sua risurrezione, attestato da testimoni che con la massima convinzione e chiarezza hanno fatto l’esperienza di Gesù vivo, mostratosi loro con una presenza inequivocabile e fonte di una nuova comprensione di Gesù stesso e dell’esistenza umana.
Alla luce della risurrezione i discepoli di Gesù comprendono che egli aveva ragione, che le sue parole e la sua causa erano vere e una vita nuova è stata donata a lui. Egli è il vincitore, il Cristo di Dio, il suo inviato e il suo consacrato, la rivelazione definitiva di Dio, la sua Parola diventata carne.
Con l’evento della risurrezione egli è glorificato alla destra del Padre ed è il mediatore necessario della salvezza.
Questa realtà è tradotta dai primi cristiani nella formula “Gesù Cristo è il Signore”.
E’ dunque indispensabile all’uomo d’oggi seguire il tragitto dei primi cristiani. Agli apostoli Gesù rivela i misteri del regno e dona loro dei responsabili con ampi poteri e con l’incarico speciale di insegnare, battezzare, rimettere i peccati e perpetuare la Cena pasquale.
Egli si identifica con loro: “Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me” e assicura la sua presenza perenne.
Chi si accosta con animo disponibile ai testi del Nuovo Testamento scopre con gioia che Gesù di Nazaret non offre risposte parziali risolutive di questioni contingenti, ma prospettive che coinvolgono tutta la vita nelle sue dimensioni di fondo e le conferiscono un significato globale:
-      Per mezzo di Gesù Cristo l’uomo scopre l’autentico volto di Dio.
-      In Gesù Cristo l’uomo percorre la traiettoria del suo supremo destino.
-      Con Gesù l’uomo assume impegni di solidarietà e di liberazione
Con Gesù Cristo che lotta contro l’ipocrisia e si impegna instancabilmente per l’uomo è possibile compromettersi con lui per liberare il mondo dalle tante miserie e ingiustizie per favorire la fraternità e la pace.
La singolarità storica di Gesù Cristo consiste nel fatto che egli è stato sempre presente in migliaia di coscienze. Ha suscitato in ogni generazione degli esseri che erano più attaccati a lui che a se stessi e che avevano il principio e il modello della loro vita: i santi hanno avuto una profonda esperienza di Cristo, i martiri offrirono la loro vita per lui.
Se Cristo è presente nel suo corpo che è la Chiesa è in seno a questa comunità di amore e di preghiera che si può fare esperienza di lui. I sacramenti non debbono essere considerati solo mezzi di salvezza, ma incontro personale con il Cristo che prolunga nel tempo i suoi gesti salvifici di liberazione dal peccato, di perdono, di donazione dello Spirito, di comunicazione di vita o di conforto.
Da quando i vangeli e gli scritti apostolici sono stati accolti nella chiesa come Parola di Dio, il ricorso ad essi è divenuto prassi abituale dei cristiani. La frequente lettura biblica è un accesso alla sublime scienza di Gesù Cristo, poiché l’ignoranza delle scritture è ignoranza di Cristo, come afferma San Girolamo.
L’imitazione di Cristo consiste nel riprodurre l’ordine interno della sua vita in una situazione sempre nuova e diversa da persona a persona.
Se Cristo è il tempio di Dio in cui abita la pienezza della divinità, anche il cristiano, anzi ogni uomo, è tempio di Dio e dello Spirito, ed anche dimora di Cristo in quanto questi si identifica con i fratelli più piccoli e ritiene fatto a se stesso ogni atto di amore rivolto loro.
Ne consegue che incontriamo il Signore nei nostri incontri con gli uomini, in particolare con i più poveri, gli emarginati e gli sfruttati dagli uomini.
Spetta ad ognuno accogliere Cristo nella propria esistenza, penetrare progressivamente nel suo mistero, identificarsi sempre più intimamente con la sua persona.
Spiritualità cristiana deve significare in modo inequivocabile e attualizzato per l’uomo in cammino verso Dio, un incontro personale, intimo, perseverante, esperienziale con Gesù Cristo, il Signore glorificato, capo della Chiesa e presente nell’universo, realtà suprema che appaga il suo cuore inquieto.
Gesù Cristo è l’unica immagine umana vera di Dio Padre. Noi siamo chiamati a manifestare l’immagine filiale di Dio che è propria del Cristo: per questo siamo chiamati a convivere con lui, ora nel corpo mistico e, in seguito nella comunione dei santi.
Dio ha creato l’immagine sua nell’uomo nell’istante creativo e, insieme va realizzando e completando tale immagine in maniera progressiva attraverso tutta la storia salvifica.
La Parola di Dio afferma che l’immagine divina si esplicita gradualmente attraverso l’attività conoscitiva ed affettiva dell’uomo: “Amiamoci l’un l’altro perché l’amore è da Dio” (1 Gv 4,7): conoscere Dio così da lasciarsi conoscere da lui; conoscere come un rimettersi integralmente al Signore, consentendo che ci trasformi; conoscere in quanto si rimane in contemplazione di Dio come si rivela in Cristo.
Si tratta di un conoscere come conversione, come rinnovamento personale, così da non ridurre Dio a una nostra interiore immagine, ma uniformando la nostra mente al conoscerlo nel suo spirito e secondo il suo spirito (2 Cor 4,16; Ef 3,16).
Perché l’amore umano, anche quando è oblativo, non è perfetto. Mentre l’amore che lo Spirito comunica è quello che contemporaneamente ama uno come se fosse il solo amato e, insieme, in lui e con lui ama tutti gli altri con eguale indiviso amore.
Proprio per questo l’uomo è chiamato a sperimentare il mistero pasquale di Cristo per morire alla conoscenza ed all’amore umani e imparare a conoscere e ad amare ogni cosa in Dio mediante lo Spirito di Cristo.


Sintesi conclusiva:   (23)

L’esperienza vissuta della Parola di Dio, sia sotto l’aspetto personale che comunitario, implica che questa parola chiami, porti ad un dialogo e lo approfondisca: è la parola che Dio rivolge a qualcuno per una risposta.
Da questo punto di vista la Bibbia deve essere intesa, dall’inizio alla fine, come “una domanda” che interpella l’uomo nella profondità del suo essere e lo pone di fronte alle decisioni fondamentali dell’esistenza umana e del disegno divino della salvezza.
La Scrittura, ricorda San Gregorio Magno, cresce nell’uomo con lo spirito di colui che la legge, divenendo “sorgente zampillante per la vita eterna.
L’itinerario spirituale cristiano è, dai primi gradi ai suoi più alti vertici, segnato da una simile esperienza.



Testimonianza di Sant’Efrem, diacono, sulla Sacra Scrittura:

La Parola di Dio è sorgente inesauribile di vita ! 
Chi è capace, Signore, di comprendere tutta la ricchezza di una sola delle tue parole ?
Perdiamo più di quanto riusciamo ad afferrare, come quelli che bevono a una sorgente d'acqua.
Siccome la Parola di Dio si presenta in profondità diverse secondo la capacità del suo ascoltatore, e il Signore ha arricchito il suo messaggio di molti colori, in modo che chi osserva possa trovare quello che è più adatto per lui.
In essa ci sono nascosti innumerevoli tesori, perchè ciascuno di noi possa diventare più ricco man mano che porta avanti la sua ricerca.
La Parola di Dio è un albero di vita che offre frutti benedetti da ciascuno dei suoi rami. Proprio come quella roccia nel deserto che percossa con una verga da Mosè ha offerto una abbondante bevanda spirituale.
Inoltre, quando scopriamo qualche aspetto di questo tesoro non dobbiamo pensare di averlo già trovato tutto.
Invece dobbiamo considerare quel momento come una tappa del nostro cammino di ricerca.
Sii felice perchè la sua immensità ti supera senza rattristarti perchè non la puoi contenere.
Un uomo assetato è felice di bere e non si preoccupa se vede che non ha prosciugato la sorgente.
Perciò lascia che questa fonte calmi la tua sete e successivamente avrai ancora la possibilità di continuare.
Ringrazia per quanto hai ricevuto e non essere triste man mano che ti rendi conto che non potrai esaurire la sua immensità: quello che hai potuto comprendere è la tua porzione di oggi, e quanto rimane sarà la tua porzione futura.
Quello che ti sfugge per la tua debolezza, sarà tuo in seguito grazie alla perseveranza, fino al giorno in cui i nostri occhi potranno aprirsi completamente, entrando personalmente nella Vita e vedremo Dio faccia a faccia con gioia immensa.





 



Fonte :  Padre Claudio Traverso , e-mail: padreclaudio_c@libero.it 


Su You Tube  queste Meditazioni Bibliche sono rappresentate con 23 video pubblicati nel canale attivato da Padre Claudio Traverso,
vedi il seguente link
https://www.youtube.com/channel/UCncVZ2qXM4Wan_gttx8h-bQ 

Gli stessi video sono pubblicati anche in Gloria TV : http://gloria.tv/?user=11912&medias=videos&language=KiaLEJq2fBR   (home page dei video)












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