TEOLOGIA BIBLICA DEL NUOVO
TESTAMENTO
Il "Mysterion" in Paolo di
Tarso
(una prospettiva esegetica)
di Francesco Cuccaro
Statua e Basilica di S. Paolo fuori le Mura, Roma.
Nell’epistolario paolino
il termine greco ‘mysterion’
ricorre una ventina di volte e non é solo uno dei principali nuclei tematici
della teologìa dell’Apostolo delle Genti, ma anche l’imprescindibile categoria
interpretativa della storia della salvezza e di tutto il Nuovo Testamento. E
della ‘Rivelazione’ propriamente parlando.
E’ un concetto messo a
fuoco molto bene da Paolo nella Prima Lettera ai Corinti ( composta verso il 54
EV ) e, soprattutto, nelle Lettere ai Colossesi e agli Efesini ( risalenti al
61-62 EV circa ).
La parola é greca e, nel
suo etimo originario, deriva da “myein” che significa “chiudere, fermare”,
esprimendo alcune idee come la “chiusura”, il “limite”, la “straordinarietà”,
“qualcosa che stupisce e allo stesso tempo provoca riverenza e timore” (1). E ad
essa é intrecciato l’aspetto rituale o liturgico. Per cui, già dai tempi più
antichi, mistero e
sacramento non appaiono mai
dissociati.
E’ certo che Paolo
l’assimila dal mondo culturale greco–ellenistico, anche se non viene del tutto
ignorata da quello israelitico ( sia palestinese che della Diaspora ); tanto é
vero che essa é ricorrente nella letteratura apocalittica veterotestamentaria
che illustra gli ultimi eventi.
Anche la tradizione
sinottica attribuisce a Gesù di Nazareth la menzione di questo termine, però al
plurale : “mysteria”.
“Gli si avvicinarono
allora i discepoli e gli dissero : ‘Perché parli loro in parabole ?”. Egli
rispose : ‘Perché a voi é dato di conoscere i
misteri del regno dei cieli, ma a
loro non é dato’…” ( Mt. 13,10-11; ma si cfr. pure Mc. 4,11; Lc. 8,10 ).
Con ‘mysteria’ sia la
letteratura apocalittica del tardo Giudaismo sia la tradizione sinottica
intendono i ‘segreti’ che
concernono tanto le vicende finali ( “l’eschatòn” ) quanto il Regno di Dio.
Si associano così i
‘mysteria’ alla ‘profezìa’
, permettendo il
riconoscimento del profondo legame tra
l’agire di Dio, la libertà degli uomini e il senso ultimo della storia.
Ed é vero che Gesù
insegna apertamente al pubblico, ma comunica anche alcune peculiari verità ai
suoi discepoli, in primo luogo agli Apostoli ( Mt. 13,10-11; Mc. 4,11; Lc. 8,10
). Non é che il Maestro galileo faccia discriminazione tra iniziati e profani,
come avviene di solito nell’ambito delle antiche scuole filosofiche o dei culti
misterici. Non si richiede, per accedere ai ‘mysteria’, un linguaggio da
iniziati (2), ma un ‘cuore’ puro
e semplice, una ‘coscienza’ e
una ‘sensibilità di
animo’
non inquinate dal pregiudizio, dall’egoismo e dal peccato.
Ma a chi sono confidate
queste ‘decisioni segrete di Dio sul mondo
dal principio alla fine della
storia’
? Ai
‘piccoli’. ai
‘semplici’, urtando la
suscettibilità del depositario di una sapienza puramente umana ( o di una
presunta divina ) che crede di essere il possessore della verità :
“In quel tempo Gesù
disse : ‘Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai
tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai
piccoli’’
” ( Mt. 11,25 ).
Il Maestro -nei suoi
insegnamenti- non espone una conoscenza riservata, ma un messaggio di
salvezza che riguarda tutto il genere umano e al quale deve essere
comunicato. L’evangelista Giovanni riferisce così le sue parole :
“Non vi chiamo più
servi, perché il servo non sa quello che fa il padrone; ma vi ho chiamato amici,
perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” ( Gv. 15,15
).
Avere una
‘conoscenza dei misteri
divini’
significa entrare in una relazione di
peculiare intimità con il Padre attraverso il Figlio, in una realtà
di piena comunione tra l’uomo e Dio.
Questo schema teologico,
genuinamente evangelico, viene ripreso da Paolo di Tarso che non dice nulla di
suo a livello dottrinale, anche se sembra offrire del concetto di ‘MYSTERION’
un’esposizione più originale, citandolo sempre al singolare. A dispetto di chi
vuol considerare l’Apostolo delle Genti come il vero fondatore del
Cristianesimo.
*****************
Si tratta ora di
scoprire se, nell’epistolario paolino, si dia o meno uno sviluppo semantico di
tale nozione.
L’Apostolo si trova a
vivere in un ambiente originariamente non suo, perché grecofono e tutto permeato
della migliore cultura ellenistica. Sa che in Asia Minore e in Grecia sono
diffusi i culti misterici e da essi prende in prestito il termine ‘mysterion’,
depurandolo di qualsiasi riferimento a contenuti pagani.
Si tratta di un concetto
rigorosamente dialettico che é anche il luogo ermeneutico, per eccellenza,
dell’altro concetto di ‘RIVELAZIONE’. Le due parole sono correlative, nel senso
che si implicano vicendevolmente l’una l’altra. ‘Rivelazione’ deriva dal latino
“ri-velatio” e, con il suo prefisso “ri-“, suggerisce un effetto di
nascondimento. Anche questo termine, in se medesimo, appare dialettico ed
ambivalente ( per non dire ambiguo ), perché nel momento in cui “si toglie il
velo” facendo apparire qualcosa o qualcuno a qualcuno, rendendolo partecipe
della sua intimità, smussando i confini del sacro e del profano, lo si “rivela”,
vale a dire gli “si pone di nuovo davanti il velo”.
Eredi come siamo ( non
solo dell’Illuminismo ) dello spirito razionalistico degli antichi Greci,
abbiamo nei confronti del ‘mistero’ un rapporto fatto di diffidenza e anche di
ostilità. Il mistero ( il cui corrispettivo latino é “mysterium” ) sembra essere
quello che si oppone alla scienza e, in ultima analisi, al lume naturale della
ragione. Per cui l’alternativa assoluta é : o la scienza o il mistero. Se quest’ultimo
“non viene compreso, allora lo si lascia fuori dalle porte della scienza” (3).
Il mito di Prometeo é, al riguardo, eloquente (4).
Eppure -a ben
riflettere- il ‘mistero’ non é alternativo o totalmente refrattario alla ‘conoscenza’.
Anzi, per essa, é un suo continuo ed allettante richiamo. In un certo modo, la
scienza vi si sente condizionata. La più piccola parte della materia o la
massima estensione dell’universo reclamano questo principio regolativo. Se
andiamo a scomporre il mondo corporeo nei suoi elementi semplici, tanto possiamo
ipotizzare l’esistenza di principi primi, quanto dar luogo ad un processo
all’infinito. Oppure, moltiplicando i mondi, a considerare infinito lo stesso
cosmo, o il contrario ( e oltre il limite proprio il nulla ? ).
Ecco l’errore di
presunzione dell’uomo : varcare con le proprie forze i relativi limiti
ontologici e creaturali. Dire che il ‘mysterion’ sorpassa o sopravanza le
capacità sensitive ed intellettuali dell’uomo é esatto. Altra cosa é dire che
esso si oppone alla suddetta capacità : questa é una constatazione sbagliata se
confrontata con la Sacra Scrittura. Non si possiede la verità, nel suo
corrispettivo greco “alethéia” (dove “a” sta per l’alfa privativa), che
significa “negazione del nascondimento” ( e, quindi, ‘rivelazione’ ), ma si
invita a lasciarsi possedere dalla verità. Occorre solo essere predisposti al ‘mistero’.
“……Rispose Gesù : ‘Tu lo
dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo :
per rendere testimonianza alla verità. Chiunque é dalla verità, ascolta la mia
voce’. Gli disse Pilato : ‘Che cos’é la verità ?’……” ( Gv. 18, 37-38 ).
Si é fatta passare alla
storia questa domanda di Pilato come una dichiarazione classica di scetticismo.
Ma, in realtà, Gesù tace perché si trova di fronte ad un interlocutore che non
si palesa con quella coscienza e sensibilità interiore necessarie ad aprirsi al
‘mysterion’. Non occorre essere speculativi, ma neanche eccessivamente
pragmatici, bensì impiegare tutta la propria persona ad aprirsi ad una chiamata,
ad un’offerta e ad una comunicazione con una realtà “nascosta” che interpella e
che si offre come ‘dono’.
Quindi, non é il
‘mysterion’ ( nella sua prospettiva biblica ) ad essere chiuso all’uomo, bensì é
quest’ultimo a non poter accedere ad esso, legato ad una sua presunta
incrollabile autosufficienza.
Esso si presenta come ‘dono’,
frutto dell’iniziativa del Padre celeste, inseparabile dall’amore con il quale
Egli ama gratuitamente il creato -e l’umanità in primo luogo- e con il quale va
ricambiato.
Siamo ben lontani dagli
schemi che contrassegnano il ‘mysterion’ nell’ambiente ellenistico-romano. Anche
quest’ultimo, in modo analogo alla concezione biblica, risulta essere
espressione del volere della divinità e legato ad una prassi rituale ( che poi
giustifica giuridicamente il sacerdozio ). Ma le differenze non sono di poco
conto. Per il contesto pagano il rapporto tra il fedele e il suo dio rimane
distaccato, timoroso, quasi meccanico, ma “una volta amministrata la tecnica del
suo controllo, il mistero, ormai posseduto, cessa di essere fonte di riverenza
per divenire oggetto di manipolazione a piacimento” (5). Ecco che la “religione”
finisce per scadere a livello di “superstizione” e di “magìa” (6). A ben
intendere, il teologo-scienziato Giuseppe Tanzella-Nitti ci ricorda la sfacciata
richiesta, fatta da Simon Mago agli Apostoli, di comprare il potere dello
Spirito Santo, narrata negli At. 8,9-25, per cogliere sul vivo la differenza tra
due diverse concezioni del ‘mysterion’ (7) :
“Vi era da tempo in
città un tale di nome Simone, dedito alla magìa, il quale mandava in visibilio
la popolazione di Samara, spacciandosi per un gran personaggio. A lui aderivano
tutti, piccoli e grandi, esclamando : ‘Questi é la potenza di Dio, quella che é
chiamata Grande. Gli davano ascolto, perché per molto tempo li aveva fatti
strabiliare con le sue magìe. Ma quando cominciarono a credere a Filippo, che
recava la buona novella del regno di Dio e del nome di Gesù Cristo, uomini e
donne si facevano battezzare. Anche Simone credette, fu battezzato e non si
staccava più da Filippo. Era fuori di sé nel vedere i segni e i grandi prodigi
che avvenivano………Simone, vedendo che lo Spirito veniva conferito con
l’imposizione delle mani degli apostoli, offrì loro del denaro dicendo : ‘Date
anche a me questo potere perché a chiunque io imponga le mani, egli riceva lo
Spirito Santo’. Ma Pietro gli rispose : ‘Il tuo denaro vada con te in
perdizione, perché hai osato pensare di acquistare con il denaro il dono di Dio.
Non vi è parte né sorte alcuna per te in questa cosa, perché
il tuo cuore non é retto davanti a
Dio’
“ ( At. 8,9-13.18-21 ).
Il ‘mysterion’ di Dio e
lo Spirito, considerato come suo strumento conoscitivo ed attuativo ( che si
serve degli Apostoli ), vanno intesi come doni. Si evince che la velleitaria
richiesta fatta dal samaritano Simone risponde al criterio puramente
tradizionale in base al quale l’acquisizione tanto di capacità soprannaturali (
e/o anche preternaturali ) quanto di conoscenze iniziatiche sia la fonte
dell’autorità, del potere, e alimento alla volontà di dominio e di
“ap-propriazione” (8). Il passo riportato dagli Atti sottolinea in modo così
schietto la differenza tra la religione e la magìa e la loro reciproca
estraneità, anche in un mondo come quello palestinese del I secolo EV, dove i
rituali magici, sebbene siano condannati dalla Legge di Mosé, non risultano
essere assenti, tanto a contatto con altre popolazioni medio-orientali, quanto
con la civiltà egizia ( dispensatrice di più antichi e supposti saperi ) e con
quella greca *
*Gesù compie i ‘miracoli’.
L’evangelista Giovanni li cita come ‘segni’ ( in greco : ‘semeia’ ) e Giuseppe
Flavio li chiama ‘paradoxon érgon’. Ma per i Farisei più irriducibili non vi
sono dubbi : essi sono opera di Beelzebùl principe dei demoni, altro nome con il
quale si indica il Maligno. Il Maestro di Nazareth respinge le loro accuse,
rivolgendo loro un discorso ferramente logico : “Ma egli conosciuto il loro
pensiero, disse loro : ‘Ogni regno discorde cade in rovina e nessuna famiglia o
città discorde può reggersi. Ora se Satana scaccia Satana, egli é discorde con
se stesso; come potrà dunque reggersi il suo regno ? E se io scaccio i demoni
in nome di Beelzebùl, i vostri figli in nome di chi li scacciano ? Per questo
loro stessi saranno i vostri giudici. Ma se io scaccio i demoni per virtù dello
Spirito di Dio, é certo giunto tra voi il regno di Dio” ( Mt. 12, 25-28 ).
Si evince da alcuni e
più antichi passi del Talmùd ( risalenti ai primi secoli dell’E.V., sempre che
la ricerca storico-critica possa finalmente identificare Gesù nel personaggio di
Yeshu-ha-Nosri, citato da questi scritti ), espressione della più vetusta
tradizione rabbinica, l’accusa di stregonerìa contro il Maestro galileo al fine
di screditarne la figura e il suo messaggio di redenzione, nonché la “ingenua”
fede dei suoi seguaci.
E’ evidente che la
pratica della magìa, per l’antico Giudaismo, era considerata attività di Satana
in quanto dotato di alcuni poteri preternaturali, e gravissima violazione della
Legge mosaica. Ora se la fonte talmudica risultasse molto attendibile, da un
punto di vista storico, nei confronti di Gesù, ci troveremmo di fronte ( assieme
a quella di Giuseppe Flavio ) ad un’altra interessante prova storica
extrabiblica della sua attività taumaturgica.
L’accusa di magìa viene
ripresa, ma in modo alquanto in malafede, anche dal polemista pagano Celso ( II
secolo ), che ritiene come Gesù, durante la sua permanenza in Egitto, sia stato
“iniziato” alle arti di divinazione e di guarigione.
**************
Illustriamo ora lo
specifico cristiano del ‘mistero’.
Non é abbastanza
esplicito, nei Vangeli canonici, il contenuto del ‘mysterion’ del quale sono
banditori i primissimi seguaci di Gesù.
Il Maestro di Nazareth,
pur predicando apertamente alle folle, ama circondarsi di una cerchia di intimi
: i settantadue discepoli ricordati dalla tradizione sinottica ( Mt 11, 10-24;
Lc, 10, 1-20 ) e un gruppetto denominato dei ‘Dodici’ ( Mt. 10, 1-4; Mc. 3,13;
Lc. 6,12-16 ), depositario di rivelazioni più dettagliate in ordine al Regno di
Dio, al messianesimo e agli eventi escatologici.
Gli Evangelisti ci
presentano un Gesù molto vago nelle sue affermazioni spesso ricche di sensi
doppi, di chiaroscuri e allusive ad episodi o personaggi nascosti nonché
paradossali e/o sconcertanti. Anche la figura del ‘Regno di Dio’, tema
principale del suo breve ministero terreno, non é meglio definibile. Assume
tratti, per l’appunto, “misteriosi” e il Maestro, per renderla un poco
comprensibile, si serve dell’analogìa con l’esperienza quotidiana di tutti i
giorni come, per esempio, descrivendola nelle parabole del seminatore ( Mt.
13,1-9; Mc. 4,1-9; Lc. 8,4-8 ) e del granello di senape ( Mt. 13, 31-35; Mc.
4,30-34; Lc. 13, 18-21 ).
Il Quarto Vangelo,
invece, sottolinea come non solo la ‘fede’
, ma anche la comprensione di alcuni speciali segni sensibili, caricati di una
precisa valenza soprannaturale, siano la “conditio sine qua non” della comunione
di intimità con il Padre celeste. In questa angolatura di fede vanno situate le
seguenti parole di Gesù Cristo sul ‘pane di vita’ :
“Gesù rispose : ‘In
verità, in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma
perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo
che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo vi
darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo’. Gli dissero
allora : ‘Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio ?’. Gesù rispose :
‘Questa é l’opera di Dio : credere in colui che egli ha mandato’. Allora gli
dissero : ‘Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo crederti ? Quale
opera compi ? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta
scritto : Diede loro da mangiare un pane dal
cielo ‘ ( Sal. 77, 24 ).
Rispose loro Gesù : ‘In
verità, in verità vi dico : non Mosé vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre
mio vi dà il pane del cielo, quello vero; il pane di Dio é colui che discende
dal cielo e dà la vita al mondo’. Allora gli dissero : ‘Signore, dacci sempre
questo pane’. Gesù rispose : ‘io sono il
pane della vita : chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me
non avrà più sete. Vi ho detto però che voi mi avete visto e non credete. Tutto
ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò,
perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di
colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo
risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti é la volontà del Padre mio, che
chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò
nell’ultimo giorno…..Io sono il pane della
vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono
morti; questo é il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia.
Io sono il pane vivo, disceso
dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò é
la mia carne per la vita del mondo…..Chi mangia la mia carne e beve il mio
sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia
carne é vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve
il mio sangue dimora in me e io in lui” ( Gv. 6,26-40.48-56 ).
Un’altra caratteristica
del ‘mysterion’ cristiano é il ‘synbolon’.
La rivelazione di una realtà o di un avvenimento o di un personaggio nascosti
non si dà se non attraverso dei ‘segni sensibili’. Se vogliamo poi attenerci ad
una certa nostra educazione filosofica, possiamo parlare anche di ‘fenomeni’ (
‘ciò che appare’ ) tanto ordinari quanto eccezionali. Il ‘mistero’ rimane sempre
una nozione rigorosamente dialettica, in quanto serba il rapporto del
significato con la realtà mutevole, della trascendenza e dell’immanenza,
dell’eternità con la storia.
Questo brano giovanneo
ci riferisce come la difficoltà a carpire il significato delle parole di Gesù da
parte degli interlocutori della sinagoga di Cafarnao, e da molti discepoli che
lo abbandonano definitivamente ( Gv. 7,60-67 ), sia dovuto a cattiva volontà
intenzionale, cioé ad una netta chiusura di cuore di fronte a questa rivelazione
sul ‘pane-di-vita’. Tuttavìa, se non chiusura, beninteso, almeno una difficoltà
di comprensione si avverte anche nel gruppo dei ‘Dodici’. E diciamocelo
onestamente : neanche noi avremmo potuto tentare di assimilare questo discorso
di Gesù sul pane vivo, se la Chiesa -dai primordi ad oggi- non avesse insistito
sulla sua allusione alla Divina Eucaristia.
Che Gesù abbia usato
espressioni cariche di valenze simboliche era chiaro agli Apostoli. Per una
mente non ottusa, una analogìa tra Gesù e il pane che si mangia quotidianamente
si dà nella produzione –da parte di entrambi in un certo modo- di vita, di
salute e di benessere. La loro differenza sta nel fatto che il pane di frumento
é un cibo che non ci salva dalla morte e dalle sue ultime conseguenze. La stessa
identità analogica e profonda si dà tra il pane e la carne. Gesù insiste con la
provocazione, aggiungendovi pure il sangue, non certo in modo divertito perché
sa benissimo che, con queste sue “rivelazioni”, firma in anticipo la propria
condanna a morte. I Dottori della Legge insegnano che non si può bere neppure il
sangue degli animali, ritenuto sacro perché sede della vita ed offerto in
libagione all’Altissimo.
Infatti, lo scandalo che
Gesù suscita é enorme ! Cafarnao lo ostracizza. Il discorso sul pane-di-vita,
con molta probabilità, sarà oggetto di accusa da parte di Caifa e del Sinedrio.
Molti discepoli galilei lo rinnegano, non riuscendo ad afferrare il lato
persuasivo delle parole del Maestro.
La glorificazione del
Messìa, dopo la sua morte, rimuoverà anche questo scandalo presso gli Apostoli.
Gesù ha dato in cibo non il suo corpo mortale, bensì quello glorificato e
trasformato dalla forza dello Spirito Santo. “L’umanità di Cristo viene
totalmente spiritualizzata con la resurrezione, diventando sorgente e veicolo di
vita mediante la partecipazione ai Sacramenti e, in modo particolare, all’Eucarestìa”
(9).
Gesù, con le sue
parabole, “educa” la mente altrui nei suoi aspetti intellettuali ed emotivi.
Ritiene il ‘SIMBOLO’ come la porta di accesso alla REALTA’ SOVRASENSIBILE, ed é
un perfetto ‘pedagogo’ che apre alla CONOSCENZA, accende L’IMMAGINAZIONE,
orienta il CUORE ad una maggiore, sincera e amorevole solidarietà con Dio e con
gli uomini, rendendo possibile un riuscito approccio col ‘MYSTERION’.
Il ‘simbolo’ -che é un
segno sensibile concreto- é detto in greco “syn-bolon”, perché ha la capacità di
“mettere insieme” il sensibile con il soprasensibile, permettendo quella che é
la INTUIZIONE, cioé un attingimento più efficace delle realtà soprasensibili
che, invece, la ragione non é in grado di produrre.
Ciò non significa che
quest’ultima venga mortificata o ridotta ad una semplice facoltà che ordina o
classifica ( quello che potrebbe, cioé, essere definito come l’intelletto
astraente ). La ‘ragione’ é come un “lume” che ci permette di approfondire le
cose in se medesime e di stabilire rapporti tra loro. Eppure, noi non siamo
capaci di sopportare una luce così intensa senza uno schermo protettivo che ci
permetta di filtrarla. Il ‘simbolo’ ( un oggetto o un evento che possiamo
constatare con i nostri sensi, anche il più banale ) diviene una porta di
accesso ad una realtà così profonda che ci interpella e che dà ragione della
nostra esistenza. Inoltre, l’Essere é il concetto più vago e indeterminato che
si dia nella sua inesauribilità, eppure é alla base del nostro pensare. Senza di
esso non sarebbero possibili né il pensiero né il linguaggio.
Come risultato delle
considerazioni che stiamo adducendo, si evince che ‘MYSTERION’ e ‘SACRAMENTUM’
sono convertibili l’uno nell’altro ( la Riforma protestante rifiuterà di
considerare l’inseparabilità dell’endiadi ). La parola ‘sacramento’ entrerà in
uso nella liturgia della Chiesa latina solo nel V secolo.
Si può, tuttavìa,
stabilire un punto di convergenza tra il Quarto Vangelo e la letteratura paolina.
La
‘unità’ é la caratteristica più
propria del ‘mistero cristiano’. Il concetto che traspare nei ‘discorsi di
addio del Maestro ai suoi Apostoli’ ( capp. 14-17 ) é quello di ‘pericorési’ che
indica la presenza di uno nell’altro e viceversa :
“Gli disse Filippo :
‘Signore, mostraci il Padre e ci basta’. Gli rispose Gesù : ‘Da tanto tempo sono
con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo ? Chi ha visto me ha visto il
Padre. Come puoi dire : mostraci il Padre ? Non credi che io sono nel Padre e
il Padre é in me ? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che
é in me compie le sue opere. Credetemi : io sono nel Padre e il Padre é in me;
se non altro credetelo per le opere stesse’ “ ( Gv. 14, 8-11 ).
Se Gesù, nel suo breve
ministero terreno, ha compiuto “opere sorprendenti” o “paradoxon érgon” come le
cita Giuseppe Flavio nel suo scritto ‘Antichità giudaiche’ 18,3.3 (10), ciò
vuole dire che Dio era ed é in lui. Tra il Maestro e il Padre celeste sussiste
una unità profonda che non può essere esperita, come invece ritengono
ingenuamente gli Apostoli, a livello di conoscenza sensoriale, come vedere due
persone l’una accanto all’altra, ma solo attraverso un puro e convinto atto di
fede. “Mostraci il Padre e ci basta!”, gli chiede Filippo. Pronta la risposta di
Gesù : il Padre si rivela in lui e nelle sue opere. E la similitudine della vite
e dei tralci ( Gv. 15,1-8 ) serve a rafforzare la consapevolezza dell’unità che
ci deve essere tra Gesù e i suoi Apostoli e chiunque creda in lui. L’amore
disinteressato verso Dio e verso le creature é la condizione imprescindibile
perché si dia una tale unità ( Gv. 15,9-17 ).
“Perché tutti siano una
cosa sola” ( Gv. 17,21 ) : questa sembra essere l’essenza del ‘mysterion’
tratteggiato dall’apostolo Giovanni.
“Come tu, Padre, sei in
me e io in te, siano anche essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che
tu mi hai mandato” ( Gv. 17,21 ), “E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho
data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché
siano perfetti nell’unità e il
mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me” ( Gv.
17,22-23 ) : la categoria dell’in-essere
( o dell’essere-in, come
preferir si voglia ), dedotta dal Vangelo giovanneo, ci induce a pensare come
l’unità, tra il Padre e il Figlio, da un lato, e l’’unione tra il
Padre, il Figlio e i credenti ( e, in generale, tutte le creature ),
dall’altro, non siano intese come accidentali, ma un unico principio di vita, di
esistenza, di coerenza e di intrinseca intelligibilità.
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Paolo di Tarso associa
in modo così stretto il ‘mysterion’ alla figura di Cristo, tale da non essere
possibile concepire l’uno senza l’altro, come si evince nella Prima Lettera
ai
Corinti
e nelle Lettere ai
Colossesi e agli Efesini.
Nel primo documento ecco
che Paolo fa menzione esplicita del ‘mysterion’ al singolare trattando del
rapporto che si dà tra la saggezza divina e la sapienza umana in ordine al
processo salvifico :
“Tra i perfetti però
annunciamo ( anche ) una sapienza
: ma non la sapienza di questo mondo, né dei principi di questo mondo che
vengono distrutti, bensì annunciamo la
sapienza di Dio avvolta nel ‘mistero’, che è stata nascosta, che
Iddio predestinò prima dei secoli per la nostra gloria e che nessuno dei
principi di questo mondo ha conosciuto : se infatti l’avessero conosciuta, non
avrebbero crocifisso il Signore della gloria, Ma come é stato scritto :
‘quelle cose che occhio non vide e orecchio non
udì e in cuore di uomo non salirono giammai queste ha preparato Iddio per
quelli che l’amano’ (
Is.
64,3; 65, 16 ),
A noi però ( le ) ha rivelate Iddio per mezzo dello Spirito, giacché lo Spirito
scruta tutto, anche le profondità di Dio. Infatti quale uomo conosce mai i
segreti dell’uomo, se non lo spirito umano che é in lui, Alla stessa maniera i
segreti di Dio nessuno li conosce se non lo Spirito di Dio” ( 1 Cor. 2, 6-11 ).
Sembra che Paolo sia un
pò debitore della letteratura didattica dell’A.T. che propende alla
personificazione della ‘Sapienza’ divina ( in greco ‘sophìa’ ), nella quale il
Nuovo Testamento ravviserà lo stesso Cristo (11). Iddio ha predestinato in tal
modo l’Incarnazione e la morte redentrice per attuare questo processo di
comunione e di unità tra Sé e il creato e, come asserisce Paolo citando un brano
di Isaia, anche attraverso altre ‘realtà’ che devono ancora accadere.
L’attingimento di questa
nascosta e poi rivelata sapienza divina nel mistero é possibile all’uomo grazie
all’intelligenza ( da “intus legere” : cogliere dentro ) dello Spirito Santo che
é un dono gratuito ma non velleitario. I credenti, nel loro cammino di
perfezione interiore, non sono tutti uguali. Tra di essi, dal punto di vista
della fede, si danno i ‘deboli’ e gli ‘immaturi’, da un lato, e i ‘perfetti’,
dall’altro, che raggiungono un livello più alto nell’esercizio delle virtù e
nello spirito di carità. Pensiamo come su questi versetti paolini siano stati
sprecati, nei secoli, fiumi di inchiostro, veri capolavori di mistica cristiana
che hanno insistito molto sui tre stadi di perfezione corrispondenti ai
principianti, proficienti, perfetti.
Il ‘mysterion’ riguarda
Cristo e serba l’aspetto più propriamente paradossale : la
‘kenosi
della divinità’.
Dio che si fa uomo, “umiliandosi”, accettando il condizionamento
storico-temporale e le leggi della inesorabile necessità, morendo, per giunta,
di una morte infamante, per innalzare l’uomo peccatore a Sé. Insomma, il Cristo
crocifisso costituisce “scandalo per i Giudei e stoltezza per i Greci” ( 1 Cor.
1, 23 ), mettendo in discussione schemi tradizionali e precostituiti nel
concepire la divinità e il suo rapporto con il fedele.
Nella chiesa di Corinto,
tuttavìa, si agita una questione che preoccupa l’Apostolo delle Genti e che non
proviene tanto dall’ambiente esterno rappresentato dai Giudei e dai pagani, ma
dal proprio interno. La 1 Cor. 1, 16-17, al riguardo, riferisce queste parole di
Paolo :
“…..Per il resto non so
se ho battezzato qualche altro. Cristo infatti non mi ha inviato a battezzare ma
ad evangelizzare : non in sapienza di discorso, però, onde non sia svuotata
la ‘Croce di
Cristo’
“ ( 1 Cor. 1, 16-17 )
Come interpretare questa
frase “non sia svuotata la Croce di Cristo” ( 1 Cor. 1,16-17 ) ? Svuotata di
cosa o di che ? Della sua forza di redenzione, come asserisce Mons. Settimio
Cipriani (12) ? Lo può essere in forza di una “sapienza di discorso”, vale a
dire sulla base di un eloquio forbito o di una ardìta speculazione filosofica ?
Si dà, in questa comunità, uno sforzo di razionalizzazione del ‘mistero’ (13)
? Si sfrutta fino in fondo la valenza simbolica e allegorica della croce di
Gesù, con grande pregiudizio non solo del messaggio salvifico legato all’evento
della Passione, ma anche della serietà della morte subita dal Cristo ?
Dunque, il ‘mysterion’
ruota attorno alla Croce. Sembra
che la trattazione del ‘Vangelo’
come
‘divina
sapienza’
( cap. 2 ) sia una lunga pericope aggiunta a dimostrare come non convenga
l’illustrazione agli “psichici” ( detti anche “carnali” ) della
‘straordinarietà del piano divino di
salvezza’.
La Lettera ai Filippesi
ci mostra, in un bellissimo inno cristologico,
il paradosso di un Dio che non solo
si
incarna e si fa uomo, “umiliando” non solo se stesso, ma conoscendo anche la
morte, per giunta orribile
:
“Abbiate in voi gli
stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura
divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò
se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana, umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e
alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che é al
di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo é
il Signore a gloria di Dio Padre” ( Fil. 2, 5-11 ).
Tutta la vicenda di Gesù,
nel contesto dell’incarnazione divina, dalla nascita alla morte e alla
resurrezione, rispecchia un originale
processo
teodrammatico ed ontologico
dove Dio “sembra”
estraniarsi da se stesso per poi ritornare a sé. La categoria della
‘kenosi’
–che traspare nell’inno summenzionato- indica lo svuotamento e l’umiliazione di
Sé da parte di Dio. E’ da notare che l’umiltà di Gesù non vada per niente
indicata come una degradazione del divino. Il Signore non deporrà, mai più per
tutta l’eternità, la natura umana. Per amore, e secondo la propria onnipotenza,
ha disposto, se così si può dire, la propria autolimitazione corrispettiva al
termine di ‘spoliazione’, oggetto anche delle più accese controversie
cristologiche successe dal IV all’VIII secolo.
L’idea dell’incarnazione
divina, di per sé, urta la suscettibilità del mondo religioso ebraico che
considera Jahveh lontano, immateriale ed inaccessibile. Non sembra, però, essere
totalmente ignorata dal mondo greco che, nel suo immaginario collettivo, ha
sempre formulato un vivo desiderio di immortalità e di perenne giovinezza, con
la sua mitologìa condizionata dall’antropomorfismo, aprendosi alla credenza in
eroi e semidei.
Ma l’originalità di
questa nuova religione, inculcata da Paolo, sta nel fatto che Dio incarnandosi,
senza fondersi e, tantomeno, mutare la propria essenza, fa di sé un individuo
concreto umano, facendo propria la condizione di finitezza, di precarietà, di
bisogno, tutto, eccetto il peccato e la concupiscenza carnale. Se l’attività
evangelizzatrice dell’Apostolo si fosse limitata solo a questo, é probabile che
non avrebbe suscitato più di tanto scalpori ed irrisioni da parte dei pagani.
E’ la nozione della
‘kenosi’,
inclusa in quella più ampia di ‘mysterion’, a fare la differenza tra i “redenti”
e i “figli della ribellione” ( Col. 3,6 ) o “quelli-che-si-perdono” ( 1 Cor.
1,18 ) e -anche nell’ambito degli stessi fedeli- tra i ‘perfetti’ (
‘pneumatikòi’ ) e gli immaturi o carnali ( ‘sarkinòi’ ). Questa ‘spoliazione
di sé da parte di
Dio’
raggiunge il suo culmine nella morte violenta di Gesù, nel sacrificio della
Croce. Questa paradossalità dell’agire e dell’essere divini non é facilmente
teorizzabile da una mente chiusa, priva della luce della fede e dello Spirito.
L’evangelizzazione ha i suoi altissimi costi nel curare l’esposizione del
kerygma. Gli ex-pagani convertiti dagli Apostoli non hanno certamente
beneficiato, come questi ultimi e come numerosi correligionari palestinesi,
delle vicende che hanno caratterizzato il personaggio Gesù, compresa
l’esperienza della sua resurrezione. Del resto, non hanno neanche una discreta
padronanza delle Sacre Scritture dell’Antico Testamento come gli Ebrei, sulle
quali si fondano le credenze nel Messìa e nel Regno escatologico. E si devono
appoggiare alla testimonianza e al fervore, alimentati dalla sincerità, dei
missionari. Anche se non si può ignorare la frequenza di miracoli che
accompagnano il loro impegno, come quelli narrati dagli Atti lucani. Non si
spiegano, altrimenti, una certa cospicuità di conversioni e la costituzione di
numerose comunità cristiane nei territori grecofoni.
Paolo non fa altro che
raccomandare, nei fedeli, l’esame delle profezie bibliche e lo studio dell’A.T.,
anche per rendere, se non comprensibile, almeno facilmente tollerabile ai
“nepioi” ( “infanti spirituali” ), la portata del
‘mistero di
Cristo’
, alimentando e
fortificando così, in loro, una fede già incerta ed incipiente. Paolo avrebbe
potuto rovesciare questo paradosso di un Dio che si lascia crocifiggere,
controreplicando, in un altro : “come mai, voi Greci, vi scandalizzate di fronte
al mio messaggio, quando voi stessi credete in Diòniso un dio che viene ucciso e
poi risorge ?”. Ciò vuol dire che la percezione di un’idea magari così lontana e
nebulosa, che concerne il sacrificio di un dio, non era totalmente assente
presso i pagani ( si cfr. pure il mito egiziano di Osiride o quello persiano di
Mithra ).
In un pregevole articolo
di
www.cristianità.it a firma di Bruto Maria Bruti, é sorprendente sapere come
la nozione della ‘kenosi’ sia stata sfiorata perfino da Platone nel suo secondo
libro della Repubblica, anche se il celebre intellettuale ateniese non avrebbe
mai immaginato che l’uomo giusto -“la cui rettitudine risulta davvero perfetta
soltanto se accetta di subire ogni ingiustizia per amore della verità, poiché
solo allora sarebbe evidente che un tale uomo vive non in funzione di una
utilità o di un piacere, ma soltanto per amore della verità” (14)- nientemeno
fosse la divinità in persona.
Vale la pena citare le
sue parole al riguardo :
“un uomo semplice e
nobile, il quale, come dice Eschilo, non vuole sembrare, ma essere buono.
Bisogna dunque togliergli l’apparenza della giustizia; giacché se apparirà esser
giusto, avrà onori e doni per l’apparir egli tale, e non risulterebbe chiaro se
fosse giusto per amor della giustizia o dei doni e degli onori. Perciò va
spogliato di tutto fuorché della
giustizia stessa : (….) abbia egli massima fama di ingiustizia, affinché sia
messo alla prova (….); vada innanzi irremovibile sino alla morte, sembrando per
tutta la vita essere ingiusto ed essendo invece giusto (….); flagellato,
torturato, legato, gli saranno bruciati gli occhi, e infine, dopo aver sofferto
ogni martirio, sarà crocifisso” (15).
E’ un impressionante
“ritratto” di Gesù e della sua Passione quello che Platone “dipinge”, quasi una
sorta di presagio. Agli occhi dei suoi correligionari, il Maestro galileo “non
appare giusto”, perché “sembra” infrangere continuamente la Legge e,
dichiarandosi di natura divina, compie la più grave delle infrazioni secondo il
Giudaismo. Ma in sé é un ‘uomo giusto’ per amore della verità, non per
convenienza, per piacere o per gloria. Risulta essergli inevitabile un destino
di sofferenza e di morte violenta. Una tale osservazione platonica sembra
combaciare perfettamente con la profezia biblica di Isaia (16) :
“disprezzato e reietto
dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire come uno davanti al
quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si é caricato delle nostre sofferenze, si é addossato i nostri
dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato” ( Is. 53,3-4
).
Questo massimo sforzo
speculativo, armonizzato con la Rivelazione biblica, dà origine ad un duraturo
‘umanesimo cristiano’.
La ‘rettitudine’ passa
per la ‘Croce’ che diviene la via obbligata per conseguire la ‘giustizia’, la
‘giustificazione’ ( cioé “fare ed essere giusti” ). Il ‘mysterion’ é questa
‘sapientia crucis’ per “noi-che-ci-salviamo” ( 1 Cor. 1,1-18 ), ma non sarebbe
tale se non alludesse al suo fondamento e ai suoi frutti. Il primo é la ‘PREDESTINAZIONE’;
gli altri la ‘RICONCILIAZIONE’ e la ‘RICAPITOLAZIONE’.
Fondamento del
‘mysterion cristiano’
é DIO, nel suo INTELLETTO e nella sua VOLONTA’. L’inno ‘Benedictus’, esposto
nella Ef. 1, 13-14, riporta queste parole :
“Benedetto sia Dio,
Padre del Signore nostro Gesù Cristo che ci ha benedetti con ogni benedizione
spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha
scelti
prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto
nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di
Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria
della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto; nel quale abbiamo la
redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la
ricchezza della sua grazia. Egli l’ha abbondantemente riversata su di noi con
ogni sapienza e intelligenza, poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero
della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui
prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi : il
‘disegno’ cioè di
‘ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle
del cielo come quelle della
terra’.
In lui siamo stati fatti eredi, essendo
stati predestinati secondo il
‘piano’ di colui che tutto opera efficacemente, conforme alla sua volontà,
perché noi noi fossimo a lode della sua gloria, noi, che per primi abbiamo
sperato in Cristo. In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità,
il vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto il suggello dello
Spirito Santo che era stato promesso, il quale é caparra della nostra eredità,
in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si é acquistato, a lode
della sua gloria” ( Ef. 1,3-14 ).
Si dà, dunque, una
‘preordinazione’ di tutte le cose, degli uomini e di tutti gli eventi storici.
C’é un principio che rende possibili la creazione e la redenzione. Paolo lo
chiama ‘disegno’ che si deve
realizzare nel tempo. Quando usa i termini “proorisas” e “prooristhéntes’ per
indicare la pre-destinazione, vuole far intendere che Dio, nel creare dal nulla
tutte le cose, le orienta ad uno scopo predefinito, come sostiene Mons.
Gianfranco Ravasi, “stabilire un confine prima” (17). La preposizione “pro” non
é da intendersi nel senso che Dio prima ha pensato, poi voluto, poi ancora
creato. In Dio non si dà né un “prima” né un “dopo” : questi due termini
corrispondono alle nostre coordinate spazio-temporali nell’intendere l’azione
divina nella storia. Questo confine del pensiero e dell’agire divini é la
unità di comunione tra Dio e il creato
che si realizza, in sommo grado, in ‘Cristo’
e nel suo prolungamento storico che é la
‘Chiesa’ .
“Essendo stati
predestinati, secondo il ‘piano’
di colui che tutto opera efficacemente, conforme alla sua volontà” ( Ef. 1,11 ).
L’insigne biblista, nel
considerare il ‘mysterion’ come espressione della volontà divina, ritiene che i
due termini greci “boulé” e “thélema” indichino la stessa cosa vista però in due
prospettive diverse. Con “boulé” si intende la “consultazione per decidere” e
con “thélema” la “decisione stabilita”(18). L’operare divino presuppone l’atto
di pensiero.
Un'altra parola greca
pregna di significato é ‘pròthesis’, cioé “qualcosa-che-é-posto-prima” (19), e
con la quale viene indicato il ‘piano’
concepito da Dio dall’eternità. I corrispettivi sono il ‘progetto’ e il ‘disegno’,
desunti da Paolo dall’esperienza quotidiana : non si può procedere senza
alcunché, senza un’idea prefissata, senza un orizzonte......L’orizzonte deriva
dal greco “horizéin” che significa, pressappoco, “confine” e che entra a far
parte della parola greca “proorizo”, cioè ‘predestinare’ o, come riferisce
Ravasi, “definire un perimetro” (20). L’orizzonte che cosa é se non
un’angolatura, una possibile visuale massima che ci permette di vedere e di
sperimentare le cose, heideggerianamente parlando, il “lasciar vedere”, il
“lasciar essere”, l’apparire degli enti ? L’orizzonte può valere anche come ‘destino’.
Ma qual é questo piano,
questo progetto ( al riguardo, si usa anche un altro nome : ‘oikonomìa’ che era,
ai primordi della civiltà greca, un termine filosofico e con una spiccata
valenza religiosa, prima di diventare profano e di uso comune, designando la
disciplina dell’utile e dell’amministrazione ), questo disegno ? Dicendo
Chiesa’
diamo sì una risposta scontata ed esatta, ma in modo riduttivo, in quanto essa é
composta solo di persone di ogni generazione. Il piano divino comprende tutte le
cose, quelle del cielo e quelle della terra, e tutti gli eventi storici. Quello
di ‘Chiesa’, invece, é un termine elastico che si può ampliare, ma si può anche
restringere, inteso come ‘comunione dei credenti con Dio in Cristo’,
partecipando dell’essenza del ‘mysterion’ che richiama, invece, qualcosa di più
elevato.
Lo afferma Paolo nella
Lettera agli Efesini :
“il
‘disegno’,
cioé di ‘ricapitolare in Cristo tutte le
cose’,
quelle del cielo, come quelle della terra” (Ef. 1, 10).
Il piano é questo :
‘ricapitolare’ in Cristo tutte le
cose. Insomma, con questa citazione si indica la causa finale, ultima,
dell’agire di Dio. Per riflettere meglio su questo concetto di
‘ricapitolazione’, riportiamo per
intero Ef. 1,10 :
“Per realizzarlo ( il
progetto di Dio ) nella ‘pienezza dei
tempi’
, il ‘disegno’, cioé di
‘ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle
del cielo come quelle della
terra’
“ ( Ef. 1,10 ).
Interessante, al
riguardo, é l’analisi che fa Mons. Ravasi (21). Paolo –quando utilizza
l’espressione in greco “eis oikonomian”- sembra alludere ad un’idea di governo e
di amministrazione, rifacendosi alla propria o altrui esistenza quotidiana. Ed é
chiaro che per ‘governare’ serve un programma scandito temporalmente. Un’altra
espressione ricorrente ed incisiva é il
‘pleròma’
che avrà molta fortuna nella letteratura cristiana dei primi secoli, riportata
nel Nuovo Testamento sempre come genitivo, a seconda che ci si riferisce ora a
Dio, ora a Cristo ora al tempo ( o tempi ).
Con quest’ultimo termine
si designa sempre un’idea di ‘totalità’,
di ‘interezza’ , di
‘perfezione’, di
‘riempimento’ contrapponendosi al
vuoto e al non-essere.
Nell’ambito dell’ultimo
versetto citato, Paolo parla di “toù pleròmatos tòn kairòn”, alludendo ad un
unico ‘contenuto che colma i momenti storici determinanti’, un ‘contenuto’ che
colma i tempi’ (22).
A dispetto degli
escatologisti di ogni sorta, anche di quelli che fraintendono il suo
insegnamento, l’Apostolo non considera la
‘pienezza dei
tempi’,
oppure i ‘tempi ultimi’, in senso cronologico. Si badi bene che il termine che
utilizza per indicare il tempo é ‘kairòs’
e non “chrònos” ( quest’ultimo indica la spazializzazione e misurazione del
tempo : quello segnato dagli orologi naturali e artificiali, tanto per
intenderci ). Paolo utilizza il termine ‘kairòs’, designando il ‘momento di una
scelta decisiva’ che viene riempito di significato, di contenuto, prodotto
dall’uomo ( previsto da Dio ), dove si opta a favore o contro l’Onnipotente. Che
determina il senso di tutti questi momenti storici fondamentali (“kairòn”) :
‘ricapitolare in Cristo tutte le
cose’
. Il processo salvifico
divino non solo si realizza nella storia, ma assume una valenza cosmica. Questa
convinzione, formulata nelle due lettere della prigionia, non é l’espressione di
una tardiva consapevolezza di fede, maturata negli ultimi anni della vita di
Paolo, ma la possiamo già riscontrare nella 1 Cor 15, 26-28 :
“L’ultimo nemico ad
essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi.
Però quando dice che ‘ogni cosa é stata
sottoposta’,
é chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando
tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui
che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio
sia tutto in tutti “ ( 1 Cor. 15, 26-28 ).
Questo articolo di fede
non é il frutto di un’originale riflessione teologica di Paolo. Il quale,
invece, l’ha assimilato dagli Apostoli, richiamandosi, a loro volta, ad una
rivelazione diretta di Cristo. Ed é probabile che la citazione “ogni cosa é
stata sottoposta” sia un “loghion”, cioé un detto originario di Gesù stesso. Se
questa supposizione verrà suffragata dall’esegesi biblica, allora avremo
un’ulteriore prova che Paolo non risulta essere, proprio per niente, il vero
fondatore del Cristianesimo.
Le due Lettere
accentuano il tema del
‘primato di Cristo nel cosmo, nella storia e nella Chiesa’,
al quale fa allusione già la 1 Cor. 15, 26-28. E’ probabile che il termine
paolino di ‘ricapitolazione’ (“ricapitolare” in
greco é : “anakephalaiòsthai”) sia desunto dall’attività della produzione dei
libri.
Nell’antichità, il
‘libro’ non veniva elaborato, come oggi, attraverso la stampa e la rilegatura di
più fogli di carta (23). La carta, inoltre, non era stata ancora introdotta in
Occidente. Il materiale era fornito dal papiro e dalla pergamena. L’origine
della parola ‘testo’ era legato al fatto che attorno ad un’asta (denominata, per
l’appunto, “testo”) si avvolgeva la pergamena. Il corrispettivo greco dell’asta
é “kephàlaion”, in latino “capitulum”. Donde la convertibilità delle parole
“testo”, “testa” e “capo”. La ‘ricapitolazione’ ( o ‘intestazione’ ), però
espropriato del suo riferimento al contesto librario, equivale a dire ‘ritorno
al principio’, ‘riassunzione’. E nella lettera paolina ; condurre al senso
ultimo delle cose e degli eventi.
Paolo si confronta con
lo spirito razionalistico greco che vede il ‘male’ nel “regno del molteplice e
del disordine”, contrapponendo al fatalismo e pessimismo di una tale cultura
l’ottimismo evangelico. Mons. Ravasi esplicita questo concetto di
‘ricapitolazione’ : “nella mente di Dio c’é sempre stato l’asse attorno a cui
ordinarla ( la storia ), avvolgerla e svolgerla in un unico grande testo
leggibile, comprensibile, un testo scritto dalla mano stessa di Dio. E questo
asse é Cristo” (23).
L’immagine del ‘capo’
può essere anche desunta dalla considerazione tanto dell’organismo biologico
quanto di quello sociale. Esso é ciò che dà coesione e funzionalità alle varie
membra del corpo (Col. 2,19) e le mira a concorrere al tutto. E pensare che
anche i filosofi stoici di questo periodo danno importanza al ‘capo’,
sottolineandone la funzione egemonica.
Mons. Ravasi insiste,
però, sull’affinità tra il concetto paolino di ‘ricapitolazione’ e la visione
–formulata in un canto della liturgia sinagogale della Pentecoste ebraica ( o
“Shavuot” )- del cosmo come di una grande pergamena distesa tra il cielo e la
terra, dove Dio scrive i suoi messaggi e gli uomini le loro lodi (24).
L’autore di quest’articolo,
tuttavìa, crede in un confronto diretto e, soprattutto, aperto tra l’Apostolo
delle Genti e la cultura greca. Tutto questo discorso del
‘mysterion’
e del suo ‘eventuarsi’,
e della ‘ricapitolazione’, ha
senso solo all’interno della confutazione della ‘falsa dottrina dei dottori di
Colossi’ concernente speculazioni sull’angelologìa, evidenziate nello scritto
paolino indirizzato a questa comunità:
“Egli (=Cristo ) é
l’immagine del Dio invisibile, primogenito di ogni creatura, poiché in lui
furono create tutte le cose, quelle che stanno nei cieli e sulla terra, le cose
visibili e quelle invisibili, siano Troni, o Dominazioni, o Principati, o
Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Ed
egli é prima di tutte le cose e tutte le cose hanno in lui consistenza” ( Col.
1, 15-17 ).
Non si tratta tanto di
priorità in ordine al tempo, quanto piuttosto di una
preminenza ontologica di Cristo,
rivendicata pure nella Ef :
“quale infine la
sovraeminente grandezza della sua potenza verso di noi che crediamo, secondo la
efficacia della sua forza irresistibile che egli ha esplicato in Cristo
risuscitandolo dai morti e facendolo sedere alla sua destra nei cieli, al di
sopra di ogni Principato e Potestà, Virtù e Dominazione, al di sopra di ogni
nome che viene nominato non solo in questo secolo, ma anche nel secolo futuro.
‘Tutto, infatti, ( Dio ) ha posto sotto i suoi piedi’
( Sal. 8,6 ), e l’ha
costituito, sopra tutte le cose, Capo della Chiesa, la quale é il suo Corpo, la
pienezza di lui che tutte le cose di ogni bene riempie” ( Ef, 1, 19, 23 ).
E sempre nella Col. :
“Nessuno pertanto vi
condanni riguardo al cibo o a bevande, o a motivo di feste e di noviluni, o di
sabati; tutte le cose che sono ombra di quelle venture, mentre il corpo ormai é
quello di Cristo. Che nessuno vi defraudi a suo arbitrio del premio, con la
scusa di umiltà e del culto degli Angeli, sprofondandosi in ciò che avrebbe
visto, vanamente gonfiato dalla sua mente carnale, non più legato al Capo, da
cui tutto il Corpo, mediante le giunture e i legamenti, riceve sostentamento e
coesione e cresce della crescita di Dio” ( Col. 2,16-19 )
Il falso insegnamento
dei dottori di Colossi concerne una strana misteriosofìa, una protognosi che
amalgama, in modo sincretistico, convinzioni giudaiche e speculazioni
filosofiche greche intorno agli “stoichéia” o ‘elementi del mondo’ non meglio
specificati, dove si insiste molto sulla peccaminosità della materia e su un
falso ascetismo purificatore. Nella cosmovisione di questi novatori giocano un
loro ruolo decisivo le potenze angeliche nel governo e nell’ordinazione
demiurgica del “kòsmos”, quasi a giustificare anche l’uso dell’astrologìa e
della magìa, sulla base di un continuo influsso degli astri sui comportamenti
umani. Che un sano culto degli angeli si dia –questo il pensiero dell’Apostolo-
ma senza offuscare la dignità del vero ‘Capo’ assunta da Cristo stesso, nel
quale tutte le cose sono venute all’essere, compresi Troni, Dominazioni e
Potestà. La posizione paolina é chiara su questo punto : la dignità del ‘corpo
umano’ viene esaltata diventando l’immagine di quello glorioso di Cristo e di
quello mistico della Chiesa :
“Mariti amate le (
vostre ) mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e si é offerto per essa onde
santificarla, purificandola mediante il lavacro dell’acqua accompagnato dalla
parola e così farsi comparire davanti, tutta splendente, la Chiesa, senza
macchia o ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Alla stessa maniera
anche i mariti debbono amare le loro mogli come se fossero i loro stessi corpi :
chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai infatti ha odiato la
propria carne; al contrario la nutre e se ne prende cura come anche Cristo ( fa
per ) la Chiesa, poiché siamo membra del suo Corpo” ( Ef. 5, 25-30 ).
Come si può constatare,
l’Apostolo sottolinea come una cosa normale prendersi cura del proprio corpo,
nutrendolo e amandolo, analogamente all’amore di Cristo per la Chiesa e a quello
tra i coniugi. Non svalutandolo e disprezzandolo come fanno i sostenitori di
correnti dualistiche, ma neanche, all’opposto, concedere nulla alla
fornicazione.
Già il riconoscimento
del ‘primato
universale di Cristo’
permette una adeguata intelligenza del ‘mysterion’
cristiano.
La percezione di tale primato Paolo l’ha avuta anche anni addietro. L’autore
dell’articolo é convinto che già la 1 Cor. presenti un riscontro, su questa
tematica, con le due della prigionia :
“Quando poi tutto sarà a
lui sottoposto, allora lo stesso Figlio sarà sottoposto a colui che gli ha
assoggettato tutto, affinché Iddio sia tutto
in tutti” ( 1 Cor. 15,28 ).
Da questi spunti offerti
dalla 1 Cor, Ef., Col,, si può delineare una
concezione
ontodinamica della Realtà,
imperniata sul concetto di ‘pleròma’.
“Affinché Dio sia tutto in tutti” ( 1 Cor. 15,28 ) non é un’affermazione dal
sapore panteistico, come di primo acchìto potrebbe sembrare. Se Paolo avesse
scritto “Dio é in tutto”, intendendolo alla maniera di Eraclito e di altri
consimili pensatori, allora sì, le creature sarebbero di natura divina.
Altra cosa, invece, é
dire “onde siate riempiti di tutta la pienezza di Dio” ( Ef. 3,19 ). Spiegando
un salmo davidico, “ascendendo in alto, ha trascinato con sé i prigionieri, ha
concesso doni agli uomini (Sal. 68,19), Paolo asserisce :
“( la parola ) ‘ascese’
cosa che sta a significare, se non che egli era anche disceso nelle parti più
basse della terra ? Colui che discese é il medesimo che anche ‘ascese’ al di
sopra di tutti i cieli, per riempire tutte
le cose” ( Ef. 4,9-10 ).
La categorìa del ‘pleròma’,
così desumibile dal contenuto delle lettere della prigionia, é ontologica. Non
si tratta qui di un simbolo o di una pura immagine letteraria. Affinché l’Essere
di Dio ( ma anche la sua Unità ) sia partecipato da tutte le creature,
nonostante la loro finitezza laddove, invece, la pienezza della divinità,
presente corporalmente nell’uomo Gesù, é sostanziale :
“Poiché in lui abita
corporalmente tutta la pienezza della divinità e in lui voi siete stati
riempiti” (Col. 2,9).
Non c’é traccia di
panteismo se analizziamo bene il versetto : la pienezza della natura divina é
permanente nell’uomo Gesù, in quanto Dio si é incarnato in una creatura finita,
una volta sola. “In lui siete stati riempiti” vuol dire che, in virtù della
potenza redentrice di Cristo, i redenti potranno partecipare delle perfezioni
della natura divina. L’esegesi di Mons. Cipriani ci sembra, al riguardo,
eloquente :
Con tale
‘pienezza’ di divinità e di
perfetta umanità, Cristo rappresenta il vertice di ogni realtà, il punto di
incontro e di fusione del mondo visibile e di quello invisibile. E’ la
‘totalità’ che si incontra in lui. Non si stupisce perciò che dalla sua
‘pienezza’ noi tutti siamo stati riempiti, sia come singole creature, sia
soprattutto come membra vive del suo ‘pleròma’ diffuso che é la Chiesa. S.
Giovanni esprime un concetto analogo quando afferma : “é dalla sua pienezza noi
tutti abbiamo ricevuto” (25).
La
‘ricapitolazione’ –con l’unità che
essa comporta- non avrebbe senso senza la ‘RICONCILIAZIONE’ (“riconciliare” in
greco é “apokatallasso”). L’unità suppone il superamento di ogni conflitto e di
ogni divisione. E Paolo non perde occasione di rimproverare, rammaricandosi, i
propri figli spirituali quando si dividono in fazioni e correnti che lacerano lo
stesso ‘Corpo di Cristo’. Uno solo é il Signore ( contro il politeismo e contro
qualsiasi tendenza a moltiplicare le intermediazioni tra Dio e l’uomo,
all’infuori di Gesù ), una la fede, uno il battesimo, uno solo lo Spirito, un
solo Corpo (=cioé la Chiesa ).
“Vi esorto pertanto io,
il prigioniero del Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione a cui
siete stati chiamati, con tutta umiltà e mansuetudine, con longanimità,
sopportandovi a vicenda nella carità, solleciti a conservare la
‘unità dello
Spirito’
mediante quel vincolo che é la pace.
Un solo Corpo e un solo Spirito, così come anche siete chiamati a una sola
speranza, quella della vostra vocazione.
Uno
il Signore, una la fede,
uno il battesimo!
Uno
solo é Iddio e Padre di tutti, egli che é al di sopra di tutti ( agisce ) per
mezzo di tutti ed é in tutti” ( Ef. 4, 1-6 ).
La vita nuova del
credente si caratterizza per una dura lotta contro il male e le concupiscenze.
La quale non deve essere, però, fraintesa come una mortificazione della materia
nei suoi positivi aspetti, alla maniera del dualismo ascetico, oppure come un
disimpegno dalla storia, bensì come una condotta interiore, riflesso di una
panoplia cosmica ( Ef. 6,12 ), da vivere giorno per giorno, in ogni istante :
Il Vangelo comporta una
‘duplice
riconciliazione’
: quella del genere umano con Dio ( Ef. 2, 16-18; si cfr. pure Col. 1,20-22 ) e
quella tra le nazioni pagane e gli israeliti :
“Perciò ricordatevi che
un tempo voi, i Gentili nella carne, chiamati prepuzio, da quelli che si
appellano circoncisione, fatta per mano d’uomo nella carne, ricordatevi che in
quel tempo voi eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele ed
estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio. Ora però in Cristo
Gesù voi, che un tempo eravate lontani, siete divenuti vicini in virtù del
Sangue di Cristo che ha fatto di due una cosa sola, abbattendo il muro di
separazione che era in mezzo a noi, cioé l’inimicizia, distruggendo nella sua
carne la legge dei comandamenti (formulata) in ordinanze, allo scopo di creare
in se stesso i due in un unico uomo nuovo, facendo pace, e di riconciliarli
ambedue a Dio in un solo corpo per mezzo della Croce, uccidendo la inimicizia in
se stesso. Ed essendo venuto annunziò la
pace a voi che eravate lontani e pace ai vicini ( Is. 57,19; Zac,
9,10 ). Per mezzo di lui, infatti, abbiamo tutti e due l’accesso presso il Padre
in un solo Spirito” ( Ef. 2, 11-18 ).
Questo mirabile successo
dell’evangelizzazione dei Gentili, sperimentato dall’Apostolo, é il frutto del
sacrificio di Cristo, con il quale cessa ogni discriminazione razziale basata
non solo sul peccato e sull’ignoranza, ma anche su un provvisorio fondamento
religioso. I Gentili, dal punto di vista della religione mosaica, non potevano
accedere ai beni promessi dall’Antica Alleanza tra Jahveh e Israele : pertanto
dovevano essere considerati impuri, maledetti, perduti.....
Gesù, invece, ha ucciso
( nel senso di “superato” ), in se stesso, l’inimicizia tra i due popoli,
facendo di due una cosa sola e creando un unico
‘uomo
nuovo’
. Con il suo sacrificio
sulla croce, l’esclusivismo ebraico non ha alcuna ragione di esistere.
Davanti a quella suprema prova di obbedienza del Figlio (Fil. 2,8), vale a dire
di fronte alla via della Croce, non esistono più privilegi e prerogative che
valgano.
Non si può perseguire
questa ‘riconciliazione’ di tutto il genere umano in se medesimo e nel suo
rapporto con Dio, senza la previa ‘trasformazione’ di ogni singolo alla luce del
Vangelo, con la realizzazione di un processo di svuotamento di sé, “della
spoliazione cioé del ( nostro ) corpo di carne” (Col. 2,11), per l’appunto una
‘kenosi’ analoga a quella del Signore. Ogni redento deve “deporre” ‘l’uomo
vecchio’ ( Col. 3,9; Ef. 4,22 ) che é in lui, con le sue inclinazioni smodate e
perverse, con la radice dell’egoismo e la cupidigia, per essere ( “rivestirsi )
l’uomo
nuovo’
(Col. 3,10; Ef. 4,24) con l’umiltà, la mansuetudine, la carità come vincolo di
perfezione e la riconoscenza ( Col. 3, 12-15 ).
E’ interessante notare
come Paolo consideri la ‘cupidigia’ una idolatrìa ( Col. 3,5 ), la più grave
delle degenerazioni dell’egoismo, il più totale e bieco asservimento alle cose
materiali che si corrompono, quella che l’evangelista Giovanni cita come la
‘concupiscenza degli occhi’ ( 1 Gv. 2,16 ). L’Apostolo delle Genti ravvisa
nell’esagerato attaccamento di un cuore avido al possesso dei beni ( e nello
sfrenato desiderio di accumularli ) una forma di idolatrìa peggiore di quella
religiosa esistente a suo tempo. E anche la più duratura e pertinace. La
cupidigia acceca l’intelligenza, chiude alla carità e, peggio ancora, corrode il
tessuto del vivere civile, alimentando divisioni e guerre.
Quando, poi, Paolo cita
il verbo “rivestire” a proposito dell’uomo nuovo ( Col. 3,10.14; Ef. 4,24 ), é
chiaro che usa una metafora che non va fraintesa come una specie di estrinseca
copertura di uno stato peccaminoso, così come sosterrà successivamente Lutero,
indotto in errore nell’interpretare questi versetti paolini.
Secondo Paolo, il
processo di trasformazione di un credente, anche da un punto di vista etico, é
reale. Il peccato deve morire per poter trionfare la grazia ed entrambi non
possono coesistere. Non sarà sfuggito al Nostro il corrispettivo ed antico
significato latino del termine “abito” ( “habitus” ) che non corrisponde
all’abbigliamento, come noi oggi lo intendiamo, ma una qualità o una tendenza o
un’inclinazione interiore che contrassegna un individuo concreto.
Abbiamo accennato al
fondamento e ai frutti del ‘mysterion’ cristiano. La Lettera ai Colossesi
esprime una provocazione dell’Apostolo non soltanto diretta ai sostenitori di
una dottrina eterodossa abbastanza nebulosa, ma anche ai fedeli contemporanei (
e a quelli posteri ). E agli studiosi di oggi ! Vediamo di arrivare al
“nocciolo” del suo pensiero.
Mons. Ravasi ritiene che
alcuni studiosi siano convinti che la Col. sia un abbozzo di una
‘teologìa
della conoscenza’
per il fatto che
l’Apostolo insista più sulla ‘fides quae’ ( “fede-che” ) che sulla ‘fides-qua’
(“fede-con-la-quale”). Basti prendere in esame questo versetto :
“Ben radicati e fondati
in lui, saldi nella fede come vi é stato insegnato” ( Ef. 2,7 ).
Come la parola ‘fede’
possa essere affrontata in due prospettive diverse. Vale a dire, come contenuto,
da un lato, e come atto di adesione personale al medesimo, dall’altro. Paolo
risalta, entrambi, gli aspetti della fede, dando preminenza al secondo
soprattutto nelle altre lettere.
Nella Col. é accentuato,
invece, il primo (26).
L’autore insiste molto
sul tema della ‘conoscenza’. Lo
si evince da questi versetti :
“Anche fra voi
fruttifica e si sviluppa il vangelo dal giorno in cui avete ascoltato e
conosciuto la grazia di Dio nella
verità” ( Col. 1,6 );
dove sono relazionate
tra loro ‘conoscenza’ e ‘verità’;
“Anche noi, da quando
abbiamo saputo questo, non cessiamo di pregare per voi, e di chiedere che
abbiate una conoscenza piena della sua
volontà con ogni sapienza e
intelligenza spirituale” ( Col.
1,9 );
“Possiate comportarvi in
maniera degna del Signore, per piacergli in tutto, portando frutto in ogni opera
buona e crescendo nella conoscenza di Dio”
( Col. 1,10 );
“E’ lui infatti che noi
annunziamo, ammonendo e istruendo ogni uomo con ogni
sapienza” ( Col. 1,28 );
“I loro cuori vengano
consolati e così, strettamente congiunti nell’amore, essi acquistino in tutta la
sua ricchezza la piena intelligenza,
e giungano a penetrare nella ‘perfetta
conoscenza del mistero di Dio,
cioé
Cristo’,
nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza ( Col. 2,
2-3 ).
“Bisogna crescere sempre
di più nella piena conoscenza, nella sapienza e nell’intelligenza, vocaboli che
appartengono tutti all’orizzonte conoscitivo”, come specifica Mons. Ravasi (27).
Sebbene abbiamo a che
fare con termini greci di una certa incidenza, nulla ci vieta di sottolineare il
loro substrato concettuale biblico. Per gli israeliti, la ‘conoscenza’ é ‘adesione’,
‘incontro’, ‘unione’. Pertanto, Paolo non intende tanto una conoscenza di tipo
intellettuale alla maniera greca ( anche se ha una sua dignità ), quanto una
‘conoscenza
esistenziale’
(28) che coinvolga il
nucleo più profondo della persona, indicato biblicamente nel “cuore”, nei suoi
aspetti emozionali e pragmatici. Se l’accogliere la salvezza che ci viene donata
é indispensabile per il cristiano, occorre anche “sapere ciò che ci viene
offerto, perché la fede ha un contenuto, un tesoro di sapienza e di scienza”
(29), ma con la giusta consapevolezza che la
‘salvezza’ non proviene dalla
intelligenza (30).
Quello ( il ‘mysterion’
) che può apparire il più povero tra i termini in questione, in realtà racchiude
una profonda ricchezza, trascendente ed immanente, essendo oggetto
dell’intelletto e della decisione divini. Esso ha in sé, tuttavìa, un “confine”,
un “orizzonte”, nell’analisi della nozione di ‘progetto’ o di ‘piano’, nel quale
l’onnipotenza dell’Autore di tutte le cose si é volutamente autolimitata. Il
progetto della ‘ricapitolazione’ richiama la figura di Gesù Cristo. A questo
punto, anche qui, per parlare di ‘mysterion’ ci piace utilizzare la categoria
dello ‘UNIVERSALE CONCRETO’**, valida per designare la stessa
‘Rivelazione’ . “L’Eterno entra nel
tempo, il Tutto si nasconde nel frammento” (31).
**Questa formula é stata
introdotta nella Teologìa cattolica, grazie agli apporti speculativi di Romano
Guardini e di Hans Urs von Balthasar,
Sebbene la paternità di
questa categoria sia da attribuire a Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770 –
1831), successivamente ripresa dai neoidealisti italiani Giovanni Gentile e
Benedetto Croce, si può dire che il suo retroterra storico-filosofico é
abbastanza antico, tanto da affondare le proprie radici nei primi secoli del
Cristianesimo. Il Pié-Ninot (32), addirittura, constata in Gregorio di Nissa e
in Massimo il Confessore l’applicazione di ‘universale concretum’ alla stessa
persona divina di Gesù Cristo. Un recupero della suddetta formula si ha con il
cardinale tedesco Niccolò Cusano ( 1401 – 1464 ) che, nel suo trattato ‘De docta
ignorantia’, elaborando la posizione della ‘coincidentia oppositorum’, ravvisa
in Cristo l’universale contratto : il massimo assoluto é il Dio delle religioni;
il massimo assoluto e contratto in una prospettiva cosmologica é l’universo, in
una antropologica é l’uomo-Cristo.
Si dà una coincidenza
del massimo universale e del minimo concreto che, però, sfugge alla logica
formalistica che si fonda sui principi di identità e di non-contraddizione.
Occorre una ‘intelligenza superiore’ che Cusano denomina ‘sapere di non sapere’,
ma che va oltre il discorso razionale, traducendosi nell’ ‘intellectus’, una
sorta di intuizione (33). Per Hegel,
l’universale concreto é l’Assoluto che si rende consapevole di Sé
nell’esistenza finita, nella concretezza storica e nella soggettività della
coscienza. L’universale si unisce dialetticamente al particolare pur senza
esaurirsi in esso. Per il filosofo tedesco tale formula é adeguata a designare
il ‘carattere assoluto del Cristianesimo’ (34), intendendo quest’ultimo come la
religione assoluta e definitiva, in quanto “il potere di Dio infinito e
universale prende la forma di una realtà finita nella figura dell’uomo concreto
Gesù di Nazareth” (35).
Ora Cristo, oltre ad
essere un personaggio storico e metastorico, é anche
l’Idea universale della Storia, come
von Balthasar suggerisce nel suo libro ‘Teologìa della storia’,
‘universale
concretum personale’
, il ‘sovra-tempo’ nel
tempo (36). Se si asserisce che l’azione dello Spirito Santo conduce alla
verità, vuol dire anche che tale Spirito produce la consapevolezza del Vangelo e
della sua forza redentrice, sempre riferendosi, però, ad una realtà sensibile,
vuoi che sia il ministero terreno di Gesù di Nazareth, vuoi la testimonianza e
il kerygma degli Apostoli e dei loro successori. La vita di Cristo (
l’universale ) non si esaurisce solo nell’elemento sensibile della parola e
dell’attività del Nazareno, ma continua nella Chiesa che ne é il prolungamento
storico. Assolutezza di Cristo e del Cristianesimo quindi. Non vuol dire affatto
assolutezza della Cristianità oppure della Chiesa medesima. Questa differenza é
la stessa che sussiste tra l’universale e il concreto. A maggior ragione il
Pié-Ninot sottolinea l’infondatezza dell’integralismo religioso fatto valere da
certi orientamenti teologici vetusti oppure recenti (37).
L’universale concreto é
solo Cristo. La Chiesa gli é sottomessa come la Sposa allo Sposo : essa può
essere denominata ‘universale concretum sacramentale’, in quanto é “segno
storico della salvezza definitiva data in Gesù Cristo” (38).
E’ una formula che ci
appare la più felice ad esprimere la ricchezza del ‘mysterion
cristiano’
e richiama, ancora una volta, i due concetti di ‘ricapitolazione’ e di
‘riconciliazione’. Con il primo si designa un “processo che permette alla
signorìa di Cristo di affermarsi attraverso la Chiesa, conferendo così una
dimensione storica al compimento e pienezza dell’universo” (39). Tre
corrispettivi latini traducono “anakephalàiosis” :
‘instaurare’ nella Vulgata di San
Girolamo; ‘restaurare’ secondo
Ambrosiaster; ‘reintegrare’
secondo S. Tommaso d’Aquino (40). Cosa sorprendente é che le prime due parole
racchiudono il vocabolo greco “stauròs” con il quale si indica la
‘croce’ , uno strumento di morte, ma
anche paradossale simbolo di vita :
“Sì, proprio voi che
eravate morti per i peccati e per la incirconcisione della vostra carne Egli ha
vivificato insieme con lui, condonandoci tutti i peccati, cancellando il
chirografo stabilito contro di noi, a causa delle prescrizioni ( da noi
trasgredite ) : ( chirografo ) che ci era avverso. Questo egli tolse di mezzo,
inchiodandolo alla Croce” ( Col. 2, 13-14 ).
E la
‘riconciliazione’ non deve avvenire
solamente nell’ambito dei rapporti umani, ma anche attraverso i suoi riflessi
cosmici, estendendosi alle realtà invisibili (41), liberando la creazione da un
oppressivo senso di miseria :
“poiché ( Iddio ) si
compiacque di far abitare in lui ogni pienezza e di
riconciliare a sé per suo mezzo, tutte le cose,
rappacificando mediante il Sangue della sua Croce,
cioé
per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle che stanno nei cieli”
( Col. 1, 19-20 ).
Del resto, con Gesù si
pone la ‘via della
Croce’
come tappa obbligata della sua sequela, impegnativa ed estesa a tutti :
“Convocata la folla
insieme ai suoi discepoli, disse loro : ‘Se qualcuno vuol venire dietro di me
rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la
propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e per il
vangelo, la salverà” ( Mc. 8, 34-35; si cfr. pure Mt. 16, 24-25; Lc. 9, 23-24 ).
Si ha una
sorprendente e
positiva rivalutazione della ‘morte’ e della ‘sofferenza’
, del loro estremo ed
incredibile valore redentivo e sacrificale, ma solo se riferiti alla
causa del Vangelo e al sincero
superamento dell’uomo vecchio,
paolinamente parlando. E non si tratta solamente della cessazione della vita
biologica, ma anche di un ‘morire
a se stessi’
ogni giorno, non alla maniera degli estremisti spagnoli di destra che, con il
generale Millan Astray, scandivano uno slogan necrofilo del tipo “abbasso
l’intelligenza, viva la morte !”, lasciando allibito il professore Miguel De
Umamuno. Non si tratta di una morale debole e decadente, quella del cristiano
secondo Paolo, ma –secondo il filosofo Marco Vannini- della estrema “serietà di
un agire etico” (42) che supera i condizionamenti psicologici che rendono
schiavo e, spesso, ottuso l’io. Questo tipo di ‘morte-a-se-stessi’ permette
quella profonda ‘unità dello spirito’ ( 1 Cor. 6, 17 ) tra il Creatore e la
creatura :
“Al contrario,
chi si unisce al Signore, é un solo spirito con
Lui” ( 1 Cor. 6, 17 ).
Compresa la
‘libertà dello
spirito’
che si raggiunge nell’ ‘amore’ ,
e –concludendo- per citare le parole di questo studioso fiorentino :
“quella ‘forza’
che……pone Dio come altro, e in questo porre ritrova se stesso, altro e insieme
non-altro da Dio nella circolarità di quello spirito che é, appunto, amore e che
vive solo in quanto movimento, dall’infinito al finito e dal finito
all’infinito, dal Padre al Figlio e dal Figlio al Padre” ( 43).
N O T E
:
1) Giuseppe
Tanzella-Nitti, “Documento interdisciplinare di Scienza e Fede”, sito Internet,
voce “mistero”;
2)
idem;
3) idem;
4) idem;
5) idem;
6) idem;
7)
idem;
8) Idem;
9) ( a cura delle
Edizioni Messaggero – Padova ), “Vangelo e Atti degli Apostoli”, nota p. 318;
10) Salvador Pié-Ninot,
“La Teologìa Fondamentale. “Rendere ragione della speranza”, Queriniana, p. 362;
11) Gianfranco Ravasi,
“Lettere agli Efesini e ai Colossesi”, EDB, p. 123;
12) Settimio Cipriani,
“Le Lettere di San Paolo”, Cittadella, pp. 119-120;
13) op. cit., p. 120;
14) Bruto Maria Bruti,
15) op. cit., p.
16) op. cit., p.
17) Gianfranco Ravasi,
op.cit., p.37;
18) op.
cit.., pp. 38-39;
19) op.
cit., p. 38;
20) op.
cit., p. 37;
21) op.
cit.., p. 40;
22) op.
cit., pp. 40-41;
23) op.
cit., p. 42;
24) op.
cit., p. 42;
25) Settimio Cipriani,
op. cit., pp. 520-521;
26) Gianfranco Ravasi,
op. cit., p. 100;
27) op.
cit., p. 1 01;
28) op.
cit., p. 105;
29) op.
cit., p. 105;
30) op.
cit., p. 105;
31)
Salvador Pié-Ninot, op. cit., p. 259;
32) op.
cit., p. 262;
33) op.
cit., p. 263;
34) op.
cit., p. 260-261;
35) op.
cit., p. 261;
36) op.
cit., p. 264;
37) op.
cit., p. 265;
38) op.
cit., p. 265;
39) op.
cit., p. 267;
40) op. cit., pp.
267-268;
41) Settimio Cipriani,
op. cit., p. 514;
42) Marco Vannini,
“Mistica e Filosofìa”, Le Lettere, p. 125;
43) op. cit.., pp.
125-126.
Fonte : scritti e
appunti di Francesco Cuccaro , e-mail
cuccarof@alice.it .
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