mercoledì 24 luglio 2019

Il "Mysterion" in Paolo di Tarso (una prospettiva esegetica), di Francesco Cuccaro



TEOLOGIA BIBLICA DEL NUOVO TESTAMENTO
Il "Mysterion" in Paolo di Tarso
(una prospettiva esegetica)
 
di Francesco Cuccaro
 
 
  Statua e Basilica di S. Paolo fuori le Mura, Roma.
 
 
Nell’epistolario paolino il termine greco mysterion’  ricorre una ventina di volte e non é solo uno dei principali nuclei tematici della teologìa dell’Apostolo delle Genti, ma anche l’imprescindibile categoria interpretativa della storia della salvezza e di tutto il Nuovo Testamento. E della ‘Rivelazione’ propriamente parlando.
 
E’ un concetto messo a fuoco molto bene da Paolo nella Prima Lettera ai Corinti ( composta verso il 54 EV )  e, soprattutto, nelle Lettere ai  Colossesi e agli Efesini ( risalenti al 61-62 EV circa ).
 
La parola é greca e, nel suo etimo originario, deriva da “myein” che significa “chiudere, fermare”, esprimendo alcune idee come la “chiusura”, il “limite”, la “straordinarietà”, “qualcosa che stupisce e allo stesso tempo provoca riverenza e timore” (1). E ad essa é intrecciato l’aspetto rituale o liturgico. Per cui, già dai tempi più antichi, mistero  e sacramento  non appaiono mai dissociati.
 
E’ certo che Paolo l’assimila dal mondo culturale greco–ellenistico, anche se non viene del tutto ignorata da quello israelitico ( sia palestinese che della Diaspora ); tanto é vero che essa é ricorrente nella letteratura apocalittica veterotestamentaria che illustra gli ultimi eventi.
Anche la tradizione sinottica attribuisce a Gesù di Nazareth la menzione di questo termine, però al plurale : “mysteria”.
 
“Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero : ‘Perché parli loro in parabole ?”. Egli rispose : ‘Perché a voi é dato di conoscere i misteri  del regno dei cieli, ma a loro non é dato’…”  ( Mt. 13,10-11; ma si cfr. pure Mc. 4,11; Lc. 8,10 ).
 
Con ‘mysteria’ sia la letteratura apocalittica del tardo Giudaismo sia la tradizione sinottica intendono i ‘segreti’  che concernono tanto le vicende finali ( “l’eschatòn” ) quanto il Regno di Dio.
Si associano così i ‘mysteria’ alla profezìa’ , permettendo il riconoscimento del profondo legame tra l’agire di Dio, la libertà degli uomini e il senso ultimo della storia.
 
Ed é vero che Gesù insegna apertamente al pubblico, ma comunica anche alcune peculiari verità ai suoi discepoli, in primo luogo agli Apostoli ( Mt. 13,10-11; Mc. 4,11; Lc. 8,10 ). Non é che il Maestro galileo faccia discriminazione tra iniziati e profani, come avviene di solito nell’ambito delle antiche scuole filosofiche o dei culti misterici. Non si richiede, per accedere ai ‘mysteria’, un linguaggio da iniziati (2), ma un ‘cuore’ puro e semplice, una ‘coscienza’  e una ‘sensibilità di animo’  non inquinate dal pregiudizio, dall’egoismo e dal peccato.
 
Ma a chi sono confidate queste ‘decisioni segrete di Dio sul mondo dal principio alla fine della storia’  ?  Ai ‘piccoli’. ai ‘semplici’, urtando la suscettibilità del depositario di una sapienza puramente umana ( o di una presunta divina ) che crede di essere il possessore della verità :
 
“In quel tempo Gesù disse : ‘Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli’’ ” ( Mt. 11,25 ).
 
Il Maestro -nei suoi insegnamenti- non espone una conoscenza riservata, ma un messaggio di salvezza che riguarda tutto il genere umano e al quale deve essere comunicato. L’evangelista Giovanni riferisce così le sue parole :
 
“Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” ( Gv. 15,15 ).
 
Avere una ‘conoscenza dei misteri divini’  significa entrare in una relazione di peculiare intimità con il Padre attraverso il Figlio, in una realtà di piena comunione tra l’uomo e Dio.
 
Questo schema teologico, genuinamente evangelico, viene ripreso da Paolo di Tarso che non dice nulla di suo a livello dottrinale, anche se sembra offrire del concetto di ‘MYSTERION’ un’esposizione più originale, citandolo sempre al singolare. A dispetto di chi vuol considerare l’Apostolo delle Genti come il vero fondatore del Cristianesimo.
 
 
*****************
 
Si tratta ora di scoprire se, nell’epistolario paolino, si dia o meno uno sviluppo semantico di tale nozione.
 
L’Apostolo si trova a vivere in un ambiente originariamente non suo, perché grecofono e tutto permeato della migliore cultura ellenistica. Sa che in Asia Minore e in Grecia sono diffusi i culti misterici e da essi prende in prestito il termine ‘mysterion’, depurandolo di qualsiasi riferimento a contenuti pagani.
 
Si tratta di un concetto rigorosamente dialettico che é anche il luogo ermeneutico, per eccellenza, dell’altro concetto di ‘RIVELAZIONE’. Le due parole sono correlative, nel senso che si implicano vicendevolmente l’una l’altra. ‘Rivelazione’ deriva dal latino “ri-velatio” e, con il suo prefisso “ri-“, suggerisce un effetto di nascondimento. Anche questo termine, in se medesimo, appare dialettico ed ambivalente ( per non dire ambiguo ), perché nel momento in cui “si toglie il velo” facendo apparire qualcosa o qualcuno a qualcuno, rendendolo partecipe della sua intimità, smussando i confini del sacro e del profano, lo si “rivela”, vale a dire gli “si pone di nuovo davanti il velo”.
 
Eredi come siamo ( non solo dell’Illuminismo ) dello spirito razionalistico degli antichi Greci, abbiamo nei confronti del ‘mistero’ un rapporto fatto di diffidenza e anche di ostilità. Il mistero ( il cui corrispettivo latino é “mysterium” ) sembra essere quello che si oppone alla scienza e, in ultima analisi, al lume naturale della ragione. Per cui l’alternativa assoluta é : o la scienza o il mistero. Se quest’ultimo “non viene compreso, allora lo si lascia fuori dalle porte della scienza” (3). Il mito di Prometeo é, al riguardo, eloquente (4).
 
Eppure -a ben riflettere- il ‘mistero’ non é alternativo o totalmente refrattario alla ‘conoscenza’. Anzi, per essa, é un suo continuo ed allettante richiamo. In un certo modo, la scienza vi si sente condizionata. La più piccola parte della materia o la massima estensione dell’universo reclamano questo principio regolativo. Se andiamo a scomporre il mondo corporeo nei suoi elementi semplici, tanto possiamo ipotizzare l’esistenza di principi primi, quanto dar luogo ad un processo all’infinito. Oppure, moltiplicando i mondi, a considerare infinito lo stesso cosmo, o il contrario ( e oltre il limite  proprio il nulla ? ).
 
Ecco l’errore di presunzione dell’uomo : varcare con le proprie forze i relativi limiti ontologici e creaturali. Dire che il ‘mysterion’ sorpassa o sopravanza le capacità sensitive ed intellettuali dell’uomo é esatto. Altra cosa é dire che esso si oppone alla suddetta capacità : questa é una constatazione sbagliata se confrontata con la Sacra Scrittura. Non si possiede la verità, nel suo corrispettivo greco “alethéia” (dove “a” sta per l’alfa privativa), che significa “negazione del nascondimento” ( e, quindi, ‘rivelazione’ ), ma si invita a lasciarsi possedere dalla verità. Occorre solo essere predisposti al ‘mistero’.
 
“……Rispose Gesù : ‘Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo : per rendere testimonianza alla verità. Chiunque é dalla verità, ascolta la mia voce’. Gli disse Pilato : ‘Che cos’é la verità ?’……” ( Gv. 18, 37-38 ).
 
Si é fatta passare alla storia questa domanda di Pilato come una dichiarazione classica di scetticismo. Ma, in realtà, Gesù tace perché si trova di fronte ad un interlocutore che non si palesa con quella coscienza e sensibilità interiore necessarie ad aprirsi al ‘mysterion’. Non occorre essere speculativi, ma neanche eccessivamente pragmatici, bensì impiegare tutta la propria persona ad aprirsi ad una chiamata, ad un’offerta e ad una comunicazione con una realtà “nascosta” che interpella e che si offre come ‘dono’.
 
Quindi, non é il ‘mysterion’ ( nella sua prospettiva biblica ) ad essere chiuso all’uomo, bensì é quest’ultimo a non poter accedere ad esso, legato ad una sua presunta incrollabile autosufficienza.
Esso si presenta come ‘dono’, frutto dell’iniziativa del Padre celeste, inseparabile dall’amore con il quale Egli ama gratuitamente il creato -e l’umanità in primo luogo- e con il quale va ricambiato.
Siamo ben lontani dagli schemi che contrassegnano il ‘mysterion’ nell’ambiente ellenistico-romano. Anche quest’ultimo, in modo analogo alla concezione biblica, risulta essere espressione del volere della divinità e legato ad una prassi rituale ( che poi giustifica giuridicamente il sacerdozio ). Ma le differenze non sono di poco conto. Per il contesto pagano il rapporto tra il fedele e il suo dio rimane distaccato, timoroso, quasi meccanico, ma “una volta amministrata la tecnica del suo controllo, il mistero, ormai posseduto, cessa di essere fonte di riverenza per divenire oggetto di manipolazione a piacimento” (5). Ecco che la “religione” finisce per scadere a livello di “superstizione” e di “magìa” (6). A ben intendere, il teologo-scienziato Giuseppe Tanzella-Nitti ci ricorda la sfacciata richiesta, fatta da Simon Mago agli Apostoli, di comprare il potere dello Spirito Santo, narrata negli At. 8,9-25, per cogliere sul vivo la differenza tra due diverse concezioni del ‘mysterion’ (7) :
 
“Vi era da tempo in città un tale di nome Simone, dedito alla magìa, il quale mandava in visibilio la popolazione di Samara, spacciandosi per un gran personaggio. A lui aderivano tutti, piccoli e grandi, esclamando : ‘Questi é la potenza di Dio,  quella che é chiamata Grande. Gli davano ascolto, perché per molto tempo li aveva fatti strabiliare con le sue magìe. Ma quando cominciarono a credere a Filippo, che recava la buona novella del regno di Dio e del nome di Gesù Cristo, uomini e donne si facevano battezzare. Anche Simone credette, fu battezzato e non si staccava più da Filippo. Era fuori di sé nel vedere i segni e i grandi prodigi che avvenivano………Simone, vedendo che lo Spirito veniva conferito con l’imposizione delle mani degli apostoli, offrì loro del denaro dicendo : ‘Date anche a me questo potere perché a chiunque io imponga le mani, egli riceva lo Spirito Santo’. Ma Pietro gli rispose : ‘Il tuo denaro vada con te in perdizione, perché hai osato pensare di acquistare con il denaro il dono di Dio. Non vi è parte né sorte alcuna per te in questa cosa, perché il tuo cuore non é retto davanti a Dio’ “ ( At. 8,9-13.18-21 ).
 
Il ‘mysterion’ di Dio e lo Spirito, considerato come suo strumento conoscitivo ed attuativo ( che si serve degli Apostoli ), vanno intesi come doni. Si evince che la velleitaria richiesta fatta dal samaritano Simone risponde al criterio puramente tradizionale in base al quale l’acquisizione tanto di capacità soprannaturali ( e/o anche  preternaturali ) quanto di conoscenze iniziatiche  sia la fonte dell’autorità, del potere, e alimento alla volontà di dominio e di “ap-propriazione” (8). Il passo riportato dagli Atti sottolinea in modo così schietto la differenza tra la religione e la magìa e la loro reciproca estraneità, anche in un mondo come quello palestinese del I secolo EV, dove i rituali magici, sebbene siano condannati dalla Legge di Mosé, non risultano essere assenti, tanto a contatto con altre popolazioni medio-orientali, quanto con la civiltà egizia ( dispensatrice di più antichi e supposti saperi ) e con quella greca *
 
*Gesù compie i ‘miracoli’. L’evangelista Giovanni li cita come ‘segni’ ( in greco : ‘semeia’ ) e Giuseppe Flavio li chiama ‘paradoxon  érgon’. Ma per i Farisei più irriducibili non vi sono dubbi : essi sono opera di Beelzebùl principe dei demoni, altro nome con il quale si indica il Maligno. Il Maestro di Nazareth respinge le loro accuse, rivolgendo loro un discorso ferramente logico :  “Ma egli conosciuto il loro pensiero, disse loro : ‘Ogni regno discorde cade in rovina e nessuna famiglia o città discorde può reggersi. Ora se Satana scaccia Satana, egli é discorde con se stesso; come potrà dunque reggersi il suo regno ?  E se io scaccio i demoni in nome di Beelzebùl, i vostri figli in nome di chi li scacciano ?  Per questo loro stessi saranno i vostri giudici. Ma se io scaccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio, é certo giunto tra voi il regno di Dio” ( Mt. 12, 25-28 ).
Si evince da alcuni e più antichi passi del Talmùd ( risalenti ai primi secoli dell’E.V., sempre che la ricerca storico-critica possa finalmente identificare Gesù nel personaggio di Yeshu-ha-Nosri, citato da questi scritti ), espressione della più vetusta tradizione rabbinica, l’accusa di stregonerìa contro il Maestro galileo  al fine di screditarne la figura e il suo messaggio di redenzione, nonché la “ingenua” fede dei suoi seguaci.
E’ evidente che la pratica della magìa, per l’antico Giudaismo, era considerata attività di Satana in quanto dotato di alcuni poteri preternaturali, e gravissima violazione della Legge mosaica. Ora se la fonte talmudica risultasse molto attendibile, da un punto di vista storico, nei confronti di Gesù, ci troveremmo di fronte ( assieme a quella di Giuseppe Flavio ) ad un’altra interessante prova storica extrabiblica della sua attività taumaturgica.
L’accusa di magìa viene ripresa, ma in modo alquanto in malafede, anche dal polemista pagano Celso ( II secolo ), che ritiene come Gesù, durante la sua permanenza in Egitto, sia stato “iniziato” alle arti di divinazione e di guarigione. 
 
 
**************
 
 
Illustriamo ora lo specifico cristiano del mistero’.
Non é abbastanza esplicito, nei Vangeli canonici, il contenuto del ‘mysterion’ del quale sono banditori i primissimi seguaci di Gesù.
Il Maestro di Nazareth, pur predicando apertamente alle folle, ama circondarsi di una cerchia di intimi : i settantadue discepoli ricordati dalla tradizione sinottica ( Mt  11, 10-24; Lc, 10, 1-20 ) e un gruppetto denominato dei ‘Dodici’ ( Mt. 10, 1-4; Mc. 3,13; Lc. 6,12-16 ), depositario di rivelazioni più dettagliate in ordine al Regno di Dio, al messianesimo e agli eventi escatologici.
Gli Evangelisti ci presentano un Gesù molto vago nelle sue affermazioni spesso ricche di sensi doppi, di chiaroscuri e allusive ad episodi o personaggi nascosti nonché paradossali e/o sconcertanti. Anche la figura del ‘Regno di Dio’, tema principale del suo breve ministero terreno, non é meglio definibile. Assume tratti, per l’appunto, “misteriosi” e il Maestro, per renderla un poco comprensibile, si serve dell’analogìa con l’esperienza quotidiana di tutti i giorni come, per esempio, descrivendola nelle parabole del seminatore ( Mt. 13,1-9; Mc. 4,1-9; Lc. 8,4-8 ) e del granello di senape ( Mt. 13, 31-35; Mc. 4,30-34; Lc. 13, 18-21 ).
Il Quarto Vangelo, invece, sottolinea come non solo la ‘fede’ , ma anche la comprensione di alcuni speciali segni sensibili, caricati di una precisa valenza soprannaturale, siano la “conditio sine qua non” della comunione di intimità con il Padre celeste. In questa angolatura di fede vanno situate le seguenti parole di Gesù Cristo sul ‘pane di vita’ :
 
“Gesù rispose : ‘In verità, in verità vi dico, voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo’. Gli dissero allora : ‘Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio ?’. Gesù rispose : ‘Questa é l’opera di Dio : credere in colui che egli ha mandato’. Allora gli dissero : ‘Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo crederti ?  Quale opera compi ?   I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto : Diede loro da mangiare un pane dal cielo ‘ ( Sal. 77, 24 ).
Rispose loro Gesù : ‘In verità, in verità vi dico : non Mosé vi ha dato il pane dal cielo, ma il Padre mio vi dà il pane del cielo, quello vero; il pane di Dio é colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo’. Allora gli dissero : ‘Signore, dacci sempre questo pane’.  Gesù rispose : ‘io sono il pane della vita : chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete. Vi ho detto però che voi mi avete visto e non credete. Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti é la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno…..Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo é il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo,  disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò é la mia carne per la vita del mondo…..Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne é vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui” ( Gv. 6,26-40.48-56 ).
 
Un’altra caratteristica del ‘mysterion’ cristiano é il synbolon’.  La rivelazione di una realtà o di un avvenimento o di un personaggio nascosti non si dà se non attraverso dei ‘segni sensibili’. Se vogliamo poi attenerci ad una certa nostra educazione filosofica, possiamo parlare anche di  ‘fenomeni’ ( ‘ciò che appare’ ) tanto ordinari quanto eccezionali. Il ‘mistero’ rimane sempre una nozione rigorosamente dialettica, in quanto serba il rapporto del significato con la realtà mutevole, della trascendenza e dell’immanenza, dell’eternità con la storia.
Questo brano giovanneo ci riferisce come la difficoltà a carpire il significato delle parole di Gesù da parte degli interlocutori della sinagoga di Cafarnao, e da molti discepoli che lo abbandonano definitivamente ( Gv. 7,60-67 ), sia dovuto a cattiva volontà intenzionale, cioé ad una netta chiusura di cuore di fronte a questa rivelazione sul ‘pane-di-vita’. Tuttavìa, se non chiusura, beninteso, almeno una difficoltà di comprensione si avverte anche nel gruppo dei ‘Dodici’. E diciamocelo onestamente :  neanche noi avremmo potuto tentare di assimilare questo discorso di Gesù sul pane vivo, se la Chiesa -dai primordi ad oggi- non avesse insistito sulla sua allusione alla Divina Eucaristia.
Che Gesù abbia usato espressioni cariche di valenze simboliche era chiaro agli Apostoli. Per una mente non ottusa, una analogìa tra Gesù e il pane che si mangia quotidianamente si dà nella  produzione –da parte di entrambi in un certo modo- di vita, di salute e di benessere. La loro differenza sta nel fatto che il pane di frumento é un cibo che non ci salva dalla morte e dalle sue ultime conseguenze. La stessa identità analogica e profonda si dà tra il pane e la carne. Gesù  insiste con la provocazione, aggiungendovi pure il sangue, non certo in modo divertito perché sa benissimo che, con queste sue “rivelazioni”, firma in anticipo la propria condanna a morte. I Dottori della Legge insegnano che non si può bere neppure il sangue degli animali, ritenuto sacro perché sede della vita ed offerto in libagione all’Altissimo.
Infatti, lo scandalo che Gesù suscita é enorme !   Cafarnao lo ostracizza. Il discorso sul pane-di-vita, con molta probabilità, sarà oggetto di accusa da parte di Caifa e del Sinedrio. Molti discepoli galilei lo rinnegano, non riuscendo ad afferrare il lato persuasivo delle parole del Maestro.
La glorificazione del Messìa, dopo la sua morte, rimuoverà anche questo scandalo presso gli Apostoli. Gesù ha dato in cibo non il suo corpo mortale, bensì quello glorificato e trasformato dalla forza dello Spirito Santo. “L’umanità di Cristo viene totalmente spiritualizzata con la resurrezione, diventando sorgente e veicolo di vita mediante la partecipazione ai Sacramenti e, in modo particolare, all’Eucarestìa” (9).
 
Gesù, con le sue parabole, “educa” la mente altrui nei suoi aspetti intellettuali ed emotivi. Ritiene il ‘SIMBOLO’ come la porta di accesso alla REALTA’ SOVRASENSIBILE, ed é un perfetto ‘pedagogo’ che apre alla CONOSCENZA, accende L’IMMAGINAZIONE, orienta il CUORE ad una maggiore, sincera e amorevole solidarietà con Dio e con gli uomini, rendendo possibile un riuscito approccio col  ‘MYSTERION’.
Il ‘simbolo’ -che é un segno sensibile concreto- é detto in greco “syn-bolon”, perché ha la capacità di “mettere insieme” il sensibile con il soprasensibile, permettendo quella che é la INTUIZIONE, cioé un attingimento più efficace delle realtà soprasensibili che, invece, la ragione non é in grado di produrre.
 
Ciò non significa che quest’ultima venga mortificata o ridotta ad una semplice facoltà che ordina o classifica ( quello che potrebbe, cioé, essere definito come l’intelletto astraente ). La ‘ragione’ é come un “lume” che ci permette di approfondire le cose in se medesime e di stabilire rapporti tra loro. Eppure, noi non siamo capaci di sopportare una luce così intensa senza uno schermo protettivo che ci permetta di filtrarla. Il ‘simbolo’ ( un oggetto o un evento che possiamo constatare con i nostri sensi, anche il più banale ) diviene una porta di accesso ad una realtà così profonda che ci interpella e che dà ragione della nostra esistenza. Inoltre, l’Essere é il concetto più vago e indeterminato che si dia nella sua inesauribilità, eppure é alla base del nostro pensare. Senza di esso non sarebbero possibili né il pensiero né il linguaggio.
 
Come risultato delle considerazioni che stiamo adducendo, si evince che ‘MYSTERION’ e ‘SACRAMENTUM’ sono convertibili l’uno nell’altro ( la Riforma protestante rifiuterà di considerare l’inseparabilità dell’endiadi ). La parola ‘sacramento’ entrerà in uso nella liturgia della Chiesa latina solo nel V secolo.
 
Si può, tuttavìa, stabilire un punto di convergenza tra il Quarto Vangelo e la letteratura paolina.
La ‘unità’  é la caratteristica più propria del ‘mistero cristiano’.  Il concetto che traspare nei ‘discorsi di addio del Maestro ai suoi Apostoli’ ( capp. 14-17 ) é quello di ‘pericorési’ che indica la presenza di uno nell’altro e viceversa :
 
“Gli disse Filippo : ‘Signore, mostraci il Padre e ci basta’. Gli rispose Gesù : ‘Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo ?  Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire : mostraci il Padre ?  Non credi che io sono nel Padre e il Padre é in me ?  Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che é in me compie le sue opere. Credetemi : io sono nel Padre e il Padre é in me; se non altro credetelo per le opere stesse’ “ ( Gv. 14, 8-11 ).
 
Se Gesù, nel suo breve ministero terreno, ha compiuto “opere sorprendenti” o “paradoxon érgon” come le cita Giuseppe Flavio nel suo scritto ‘Antichità giudaiche’ 18,3.3 (10), ciò vuole dire che Dio era ed é in lui. Tra il Maestro e il Padre celeste sussiste una unità profonda che non può essere esperita, come invece ritengono ingenuamente gli Apostoli, a livello di conoscenza sensoriale, come vedere due persone l’una accanto all’altra, ma solo attraverso un puro e convinto atto di fede. “Mostraci il Padre e ci basta!”, gli chiede Filippo. Pronta la risposta di Gesù : il Padre si rivela in lui e nelle sue opere. E la similitudine della vite e dei tralci ( Gv. 15,1-8 ) serve a rafforzare la consapevolezza dell’unità che ci deve essere tra Gesù e i suoi Apostoli e chiunque creda in lui. L’amore disinteressato verso Dio e verso le creature é la condizione imprescindibile perché si dia una tale unità ( Gv. 15,9-17 ).
 
“Perché tutti siano una cosa sola” ( Gv. 17,21 ) : questa sembra essere l’essenza del ‘mysterion’ tratteggiato dall’apostolo Giovanni.
“Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anche essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” ( Gv. 17,21 ), “E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità  e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me” ( Gv. 17,22-23 ) : la categoria dell’in-essere ( o dell’essere-in, come preferir si voglia ), dedotta dal Vangelo giovanneo, ci induce a pensare come l’unità, tra il Padre e il Figlio, da un lato, e l’’unione tra il Padre, il Figlio e i credenti ( e, in generale,  tutte le creature ), dall’altro, non siano intese come accidentali, ma un unico principio di vita, di esistenza, di coerenza e di intrinseca intelligibilità.
 
 ************************
 
Paolo di Tarso associa in modo così stretto il ‘mysterion’ alla figura di Cristo, tale da non essere possibile concepire l’uno senza l’altro, come si evince nella Prima Lettera ai Corinti e nelle Lettere ai Colossesi e agli Efesini.
 
Nel primo documento ecco che Paolo fa menzione esplicita del ‘mysterion’ al singolare trattando del rapporto che si dà tra la saggezza divina e la sapienza umana in ordine al processo salvifico :
 
“Tra i perfetti però annunciamo ( anche ) una sapienza : ma non la sapienza di questo mondo, né dei principi di questo mondo che vengono distrutti, bensì annunciamo la sapienza di Dio avvolta nel ‘mistero’, che è stata nascosta, che Iddio predestinò prima dei secoli per la nostra gloria e che nessuno dei principi di questo mondo ha conosciuto : se infatti l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria, Ma come é stato scritto : ‘quelle cose che occhio non vide e orecchio non udì e  in cuore di uomo non salirono giammai queste ha preparato Iddio per quelli che l’amano’ ( Is. 64,3; 65, 16 ), A noi però ( le ) ha rivelate Iddio per mezzo dello Spirito, giacché lo Spirito scruta tutto, anche le profondità di Dio. Infatti quale uomo conosce mai i segreti dell’uomo, se non lo spirito umano che é in lui, Alla stessa maniera i segreti di Dio nessuno li conosce se non lo Spirito di Dio” ( 1 Cor. 2, 6-11 ).
 
Sembra che Paolo sia un pò debitore della letteratura didattica dell’A.T. che propende alla personificazione della ‘Sapienza’ divina ( in greco ‘sophìa’ ), nella quale il Nuovo Testamento ravviserà lo stesso Cristo (11). Iddio ha predestinato in tal modo l’Incarnazione e la morte redentrice per attuare questo processo di comunione e di unità tra Sé e il creato e, come asserisce Paolo citando un brano di Isaia, anche attraverso altre ‘realtà’ che devono ancora accadere.
L’attingimento di questa nascosta e poi rivelata sapienza divina nel mistero é possibile all’uomo grazie all’intelligenza ( da “intus legere” : cogliere dentro ) dello Spirito Santo che é un dono gratuito ma non velleitario. I credenti, nel loro cammino di perfezione interiore, non sono tutti uguali. Tra di essi, dal punto di vista della fede, si danno i ‘deboli’ e gli ‘immaturi’, da un lato, e i ‘perfetti’, dall’altro, che raggiungono un livello più alto nell’esercizio delle virtù e nello spirito di carità. Pensiamo come su questi versetti paolini siano stati sprecati, nei secoli, fiumi di inchiostro, veri capolavori di mistica cristiana che hanno insistito molto sui tre stadi di perfezione corrispondenti ai principianti, proficienti, perfetti.
Il ‘mysterion’ riguarda Cristo e serba l’aspetto più propriamente paradossale : la kenosi della divinità’. Dio che si fa uomo, “umiliandosi”, accettando il condizionamento storico-temporale e le leggi della inesorabile necessità, morendo, per giunta, di una morte infamante, per innalzare l’uomo peccatore a Sé. Insomma, il Cristo crocifisso costituisce “scandalo per i Giudei e stoltezza per i Greci” ( 1 Cor. 1, 23 ), mettendo in discussione schemi tradizionali e precostituiti nel concepire la divinità e il suo rapporto con il fedele.
Nella chiesa di Corinto, tuttavìa, si agita una questione che preoccupa l’Apostolo delle Genti e che non proviene tanto dall’ambiente esterno rappresentato dai Giudei e dai pagani, ma dal proprio interno. La 1 Cor. 1, 16-17, al riguardo, riferisce queste parole di Paolo :
 
“…..Per il resto non so se ho battezzato qualche altro. Cristo infatti non mi ha inviato a battezzare ma ad evangelizzare  :  non in sapienza di discorso, però, onde non sia svuotata la ‘Croce di Cristo’ “ ( 1 Cor. 1, 16-17 )
 
Come interpretare questa frase “non sia svuotata la Croce di Cristo” ( 1 Cor. 1,16-17 ) ?   Svuotata di cosa o di che ?   Della sua forza di redenzione, come asserisce Mons. Settimio Cipriani (12) ?   Lo può essere in forza di una “sapienza di discorso”, vale a dire sulla base di un eloquio forbito o di una ardìta speculazione filosofica ?   Si dà, in questa comunità, uno sforzo di razionalizzazione del ‘mistero’ (13) ?  Si sfrutta fino in fondo la valenza simbolica e allegorica della croce di Gesù, con grande pregiudizio non solo del messaggio salvifico legato all’evento della Passione, ma anche della serietà della morte subita dal Cristo ?
 
Dunque, il ‘mysterion’ ruota attorno alla Croce.  Sembra che la trattazione del Vangelo’  come ‘divina sapienza’ ( cap. 2 ) sia una lunga pericope aggiunta a dimostrare come non convenga l’illustrazione agli “psichici” ( detti anche “carnali” )  della ‘straordinarietà del piano divino di salvezza’.
 
La Lettera ai Filippesi ci mostra, in un bellissimo inno cristologico, il paradosso di un Dio che non solo si incarna e si fa uomo, “umiliando” non solo se stesso, ma conoscendo anche la morte, per giunta orribile :
 
“Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un  tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che é al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo é il Signore a gloria di Dio Padre” ( Fil. 2, 5-11 ).
 
Tutta la vicenda di Gesù, nel contesto dell’incarnazione divina, dalla nascita alla morte e alla resurrezione, rispecchia un originale processo teodrammatico ed ontologico dove Dio “sembra” estraniarsi da se stesso per poi ritornare a sé. La categoria della kenosi’ –che traspare nell’inno summenzionato- indica lo svuotamento e l’umiliazione di Sé da parte di Dio. E’ da notare che l’umiltà di Gesù non vada per niente indicata come una degradazione del divino. Il Signore non deporrà, mai più per tutta l’eternità, la natura umana. Per amore, e secondo la propria onnipotenza, ha disposto, se così si può dire, la propria autolimitazione corrispettiva al termine di ‘spoliazione’, oggetto anche delle più accese controversie cristologiche successe dal IV all’VIII secolo.
 
L’idea dell’incarnazione divina, di per sé, urta la suscettibilità del mondo religioso ebraico che considera Jahveh lontano, immateriale ed inaccessibile. Non sembra, però, essere totalmente ignorata dal mondo greco che, nel suo immaginario collettivo, ha sempre formulato un vivo desiderio di immortalità e di perenne giovinezza, con la sua mitologìa condizionata dall’antropomorfismo, aprendosi alla credenza in eroi e semidei.
Ma l’originalità di questa nuova religione, inculcata da Paolo, sta nel fatto che Dio incarnandosi, senza fondersi e, tantomeno, mutare la propria essenza, fa di sé un individuo concreto umano, facendo propria la condizione di finitezza, di precarietà, di bisogno, tutto, eccetto il peccato e la concupiscenza carnale. Se l’attività evangelizzatrice dell’Apostolo si fosse limitata solo a questo, é probabile che non avrebbe suscitato più di tanto scalpori ed irrisioni da parte dei pagani.
E’ la nozione della kenosi’, inclusa in quella più ampia di ‘mysterion’, a fare la differenza tra i “redenti” e i “figli della ribellione” ( Col. 3,6 ) o “quelli-che-si-perdono” ( 1 Cor. 1,18 ) e -anche nell’ambito degli stessi fedeli- tra i ‘perfetti’ ( ‘pneumatikòi’ ) e gli immaturi o carnali ( ‘sarkinòi’ ). Questa ‘spoliazione di sé da parte di Dio’ raggiunge il suo culmine nella morte violenta di Gesù, nel sacrificio della Croce. Questa paradossalità dell’agire e dell’essere divini non é facilmente teorizzabile da una mente chiusa, priva della luce della fede e dello Spirito. L’evangelizzazione ha i suoi altissimi costi nel curare l’esposizione del kerygma. Gli ex-pagani convertiti dagli Apostoli non hanno certamente beneficiato, come questi ultimi e come numerosi correligionari palestinesi, delle vicende che hanno caratterizzato il personaggio Gesù, compresa l’esperienza della sua resurrezione. Del resto, non hanno neanche una discreta padronanza delle Sacre Scritture dell’Antico Testamento come gli Ebrei, sulle quali si fondano le credenze nel Messìa e nel Regno escatologico. E si devono appoggiare alla testimonianza e al fervore, alimentati dalla sincerità, dei missionari. Anche se non si può ignorare la frequenza di miracoli che accompagnano il loro impegno, come quelli narrati dagli Atti lucani. Non si spiegano, altrimenti, una certa cospicuità di conversioni e la costituzione di numerose comunità cristiane nei territori grecofoni.
Paolo non fa altro che raccomandare, nei fedeli, l’esame delle profezie bibliche e lo studio dell’A.T., anche per rendere, se non comprensibile, almeno facilmente tollerabile ai “nepioi” ( “infanti spirituali” ), la portata del ‘mistero di Cristo’ , alimentando e fortificando così, in loro, una fede già incerta ed incipiente. Paolo avrebbe potuto rovesciare questo paradosso di un Dio che si lascia crocifiggere, controreplicando, in un altro : “come mai, voi Greci, vi scandalizzate di fronte al mio messaggio, quando voi stessi credete in Diòniso un dio che viene ucciso e poi risorge ?”. Ciò vuol dire che la percezione di un’idea magari così lontana e nebulosa, che concerne il sacrificio di un dio, non era totalmente assente presso i pagani ( si cfr. pure il mito egiziano di Osiride o quello persiano di Mithra ).
In un pregevole articolo di www.cristianità.it a firma di Bruto Maria Bruti, é sorprendente sapere come la nozione della ‘kenosi’ sia stata sfiorata perfino da Platone nel suo secondo libro della Repubblica, anche  se il celebre intellettuale ateniese non avrebbe mai immaginato che l’uomo giusto -“la cui rettitudine risulta davvero perfetta soltanto se accetta di subire ogni ingiustizia per amore della verità, poiché solo allora sarebbe evidente che un tale uomo vive non in funzione di una utilità o di un piacere, ma soltanto per amore della verità” (14)- nientemeno fosse la divinità in persona.
 
Vale la pena citare le sue parole al riguardo :
 
“un uomo semplice e nobile, il quale, come dice Eschilo, non vuole sembrare, ma essere buono. Bisogna dunque togliergli l’apparenza della giustizia; giacché se apparirà esser giusto, avrà onori e doni per l’apparir egli tale, e non risulterebbe chiaro se fosse giusto per amor della giustizia o dei doni e degli onori. Perciò va spogliato  di tutto fuorché della giustizia stessa : (….) abbia egli massima fama di ingiustizia, affinché sia messo alla prova (….);  vada innanzi irremovibile sino alla morte, sembrando per tutta la vita essere ingiusto ed essendo invece giusto (….); flagellato, torturato, legato, gli saranno bruciati gli occhi, e infine, dopo aver sofferto ogni martirio, sarà crocifisso” (15).
 
E’ un impressionante “ritratto” di Gesù e della sua Passione quello che Platone “dipinge”, quasi una sorta di presagio. Agli occhi dei suoi correligionari, il Maestro galileo “non appare giusto”, perché “sembra” infrangere continuamente la Legge e, dichiarandosi di natura divina, compie la più grave delle infrazioni secondo il Giudaismo. Ma in sé é un ‘uomo giusto’ per amore della verità, non per convenienza, per piacere o per gloria. Risulta essergli inevitabile un destino di sofferenza e di morte violenta. Una tale osservazione platonica sembra combaciare perfettamente con la profezia biblica di Isaia (16) :
 
“disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si é caricato delle nostre sofferenze, si é addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato” ( Is. 53,3-4 ).
 
Questo massimo sforzo speculativo, armonizzato con la Rivelazione biblica, dà origine ad un duraturo ‘umanesimo cristiano’.
 
La ‘rettitudine’ passa per la ‘Croce’ che diviene la via obbligata per conseguire la ‘giustizia’, la ‘giustificazione’ ( cioé “fare ed essere giusti” ). Il ‘mysterion’ é questa ‘sapientia crucis’ per “noi-che-ci-salviamo” ( 1 Cor. 1,1-18 ), ma non sarebbe tale se non alludesse al suo fondamento e ai suoi frutti. Il primo é la ‘PREDESTINAZIONE’;  gli altri la  ‘RICONCILIAZIONE’ e la  ‘RICAPITOLAZIONE’.
 
Fondamento del ‘mysterion cristiano’ é DIO, nel suo INTELLETTO e nella sua VOLONTA’.  L’inno ‘Benedictus’, esposto nella Ef. 1, 13-14,  riporta queste parole :
 
“Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto; nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia. Egli l’ha abbondantemente riversata su di noi con ogni sapienza e intelligenza, poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi : il ‘disegno’ cioè di ‘ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra’. In lui siamo stati fatti eredi, essendo stati predestinati secondo il ‘piano’ di colui che tutto opera efficacemente, conforme alla sua volontà, perché noi noi fossimo a lode della sua gloria, noi, che per primi abbiamo sperato in Cristo. In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto il suggello dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale é caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si é acquistato, a lode della sua gloria” ( Ef. 1,3-14 ).
 
Si dà, dunque, una ‘preordinazione’ di tutte le cose, degli uomini e di tutti gli eventi storici. C’é un principio che rende possibili la creazione e la redenzione. Paolo lo chiama ‘disegno’ che si deve realizzare nel tempo. Quando usa i termini “proorisas” e “prooristhéntes’ per indicare la pre-destinazione, vuole far intendere che Dio, nel creare dal nulla tutte le cose, le orienta ad uno scopo predefinito, come sostiene Mons. Gianfranco Ravasi, “stabilire un confine prima” (17). La preposizione “pro” non é da intendersi nel senso che Dio prima ha pensato, poi voluto, poi ancora creato. In Dio non si dà né un “prima” né un “dopo” : questi due termini corrispondono alle nostre coordinate spazio-temporali nell’intendere l’azione divina nella storia. Questo confine del pensiero e dell’agire divini é la unità di comunione tra Dio e il creato che si realizza, in sommo grado, in ‘Cristo’  e nel suo prolungamento storico che é la ‘Chiesa’ .
 
“Essendo stati predestinati, secondo il piano’  di colui che tutto opera efficacemente, conforme alla sua volontà” ( Ef. 1,11 ).
 
L’insigne biblista, nel considerare il ‘mysterion’ come espressione della volontà divina, ritiene che i due termini greci “boulé” e “thélema” indichino la stessa cosa vista però in due prospettive diverse. Con “boulé” si intende la “consultazione per decidere” e con “thélema” la “decisione stabilita”(18). L’operare divino presuppone l’atto di pensiero.
 
Un'altra parola greca pregna di significato é ‘pròthesis’, cioé “qualcosa-che-é-posto-prima” (19), e con la quale viene indicato il ‘piano’  concepito da Dio dall’eternità. I corrispettivi sono il ‘progetto’ e il ‘disegno’, desunti da Paolo dall’esperienza quotidiana : non si può procedere senza alcunché, senza un’idea prefissata, senza un orizzonte......L’orizzonte deriva dal greco “horizéin” che significa, pressappoco, “confine” e che entra a far parte della parola greca “proorizo”, cioè ‘predestinare’ o, come riferisce Ravasi, “definire un perimetro” (20). L’orizzonte che cosa é se non un’angolatura, una possibile visuale massima che ci permette di vedere e di sperimentare le cose, heideggerianamente parlando, il “lasciar vedere”, il “lasciar essere”, l’apparire degli enti ?  L’orizzonte può valere anche come ‘destino’.
 
Ma qual é questo piano, questo progetto ( al riguardo, si usa anche un altro nome : ‘oikonomìa’ che era, ai primordi della civiltà greca, un termine filosofico e con una spiccata valenza religiosa, prima di diventare profano e di uso comune, designando la disciplina dell’utile e dell’amministrazione ), questo disegno ?   Dicendo Chiesa’  diamo sì una risposta scontata ed esatta, ma in modo riduttivo, in quanto essa é composta solo di persone di ogni generazione. Il piano divino comprende tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra, e tutti gli eventi storici. Quello di ‘Chiesa’, invece, é un termine elastico che si può ampliare, ma si può anche restringere, inteso come ‘comunione dei credenti con Dio in Cristo’, partecipando dell’essenza del ‘mysterion’ che richiama, invece, qualcosa di più elevato.
 
Lo afferma Paolo nella Lettera agli Efesini :
 
“il disegno’,  cioé di ‘ricapitolare in Cristo tutte le cose’, quelle del cielo, come quelle della terra” (Ef. 1, 10).
 
Il piano é questo : ‘ricapitolare’  in Cristo tutte le cose. Insomma, con questa citazione si indica la causa finale, ultima, dell’agire di Dio. Per riflettere meglio su questo concetto di ‘ricapitolazione’, riportiamo per intero Ef. 1,10 :
 
“Per realizzarlo ( il progetto di Dio ) nella ‘pienezza dei tempi’ , il ‘disegno’,  cioé di ‘ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra’  “ ( Ef. 1,10 ).
 
Interessante, al riguardo, é l’analisi che fa Mons. Ravasi (21). Paolo –quando utilizza l’espressione in greco “eis oikonomian”- sembra alludere ad un’idea di governo e di amministrazione, rifacendosi alla propria o altrui esistenza quotidiana. Ed é chiaro che per ‘governare’ serve un programma scandito temporalmente. Un’altra espressione ricorrente ed incisiva é il ‘pleròma  che avrà molta fortuna nella letteratura cristiana dei primi secoli, riportata nel Nuovo Testamento sempre come genitivo, a seconda che ci si riferisce ora a Dio, ora a Cristo ora al tempo ( o tempi ).
Con quest’ultimo termine si designa sempre un’idea di ‘totalità’, di ‘interezza’ , di ‘perfezione’, di ‘riempimento’  contrapponendosi al vuoto e al non-essere.
Nell’ambito dell’ultimo versetto citato, Paolo parla di “toù pleròmatos tòn kairòn”, alludendo ad un unico ‘contenuto che colma i momenti storici determinanti’, un ‘contenuto’ che colma i tempi’ (22).
A dispetto degli escatologisti di ogni sorta, anche di quelli che fraintendono il suo insegnamento, l’Apostolo non considera la ‘pienezza dei tempi’,  oppure i ‘tempi ultimi’, in senso cronologico. Si badi bene che il termine che utilizza per indicare il tempo é kairòs’ e non “chrònos” ( quest’ultimo indica la spazializzazione e misurazione del tempo : quello segnato dagli orologi naturali e artificiali, tanto per intenderci ). Paolo utilizza il termine ‘kairòs’, designando il ‘momento di una scelta decisiva’ che viene riempito di significato, di contenuto, prodotto dall’uomo ( previsto da Dio ), dove si opta a favore o contro l’Onnipotente. Che determina il senso di tutti questi momenti storici fondamentali (“kairòn”) : ‘ricapitolare in Cristo tutte le cose’ .  Il processo salvifico divino non solo si realizza nella storia, ma assume una valenza cosmica. Questa convinzione, formulata nelle due lettere della prigionia, non é l’espressione di una tardiva consapevolezza di fede, maturata negli ultimi anni della vita di Paolo, ma la possiamo già riscontrare nella 1 Cor 15, 26-28 :
 
“L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ‘ogni cosa é stata sottoposta’, é chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti “ ( 1 Cor. 15, 26-28 ).
 
Questo articolo di fede non é il frutto di un’originale riflessione teologica di Paolo. Il quale, invece, l’ha assimilato dagli Apostoli, richiamandosi, a loro volta, ad una rivelazione diretta di Cristo. Ed é probabile che la citazione “ogni cosa é stata sottoposta” sia un “loghion”, cioé un detto originario di Gesù stesso. Se questa supposizione verrà suffragata dall’esegesi biblica, allora avremo un’ulteriore prova che Paolo non risulta essere, proprio per niente, il vero fondatore del Cristianesimo.
Le due Lettere accentuano il tema del ‘primato di Cristo nel cosmo, nella storia e nella Chiesa’, al quale fa allusione già la 1 Cor. 15, 26-28. E’ probabile che il termine paolino di ‘ricapitolazione’  (“ricapitolare”  in  greco  é : “anakephalaiòsthai”) sia desunto dall’attività della produzione dei libri.
 
Nell’antichità, il ‘libro’ non veniva elaborato, come oggi, attraverso la stampa e la rilegatura di più fogli di carta (23). La carta, inoltre, non era stata ancora introdotta in Occidente. Il materiale era fornito dal papiro e dalla pergamena. L’origine della parola ‘testo’ era legato al fatto che attorno ad un’asta (denominata, per l’appunto, “testo”) si avvolgeva la pergamena. Il corrispettivo greco dell’asta é “kephàlaion”, in latino “capitulum”. Donde la convertibilità delle parole “testo”, “testa” e “capo”. La ‘ricapitolazione’ ( o ‘intestazione’ ), però espropriato del suo riferimento al contesto librario, equivale a dire  ‘ritorno al principio’, ‘riassunzione’. E nella lettera paolina ; condurre al senso ultimo delle cose e degli eventi.
 
Paolo si confronta con lo spirito razionalistico greco che vede il ‘male’ nel “regno del molteplice e del disordine”, contrapponendo al fatalismo e pessimismo di una tale cultura l’ottimismo evangelico. Mons. Ravasi esplicita questo concetto di ‘ricapitolazione’ : “nella mente di Dio c’é sempre stato l’asse attorno a cui ordinarla ( la storia ), avvolgerla e svolgerla in un unico grande testo leggibile, comprensibile, un testo scritto dalla mano stessa di Dio. E questo asse é  Cristo” (23).
L’immagine del ‘capo’ può essere anche desunta dalla considerazione tanto dell’organismo biologico quanto di quello sociale. Esso é ciò che dà coesione e funzionalità alle varie membra del corpo (Col. 2,19) e le mira a concorrere al tutto. E pensare che anche i filosofi stoici di questo periodo danno importanza al ‘capo’, sottolineandone la funzione egemonica.
Mons. Ravasi insiste, però, sull’affinità tra il concetto paolino di ‘ricapitolazione’ e la visione –formulata in un canto della liturgia sinagogale della Pentecoste ebraica ( o “Shavuot” )- del cosmo come di una grande pergamena distesa tra il cielo e la terra, dove Dio scrive i suoi messaggi e gli uomini le loro lodi (24).
 
L’autore di quest’articolo, tuttavìa, crede in un confronto diretto e, soprattutto, aperto tra l’Apostolo delle Genti e la cultura greca. Tutto questo discorso del ‘mysterion  e del suo eventuarsi’, e della ‘ricapitolazione’, ha senso solo all’interno della confutazione della ‘falsa dottrina dei dottori di Colossi’ concernente speculazioni sull’angelologìa, evidenziate nello scritto paolino indirizzato a questa comunità:
 
“Egli (=Cristo ) é l’immagine del Dio invisibile, primogenito di ogni creatura, poiché in lui furono create tutte le cose, quelle che stanno nei cieli e sulla terra, le cose visibili e quelle invisibili, siano Troni, o Dominazioni, o Principati, o Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Ed egli é prima di tutte le cose e tutte le cose hanno in lui consistenza” ( Col. 1, 15-17 ).
 
Non si tratta tanto di priorità in ordine al tempo, quanto piuttosto di una preminenza ontologica di Cristo, rivendicata pure nella Ef :
 
“quale infine la sovraeminente grandezza della sua potenza verso di noi che crediamo, secondo la efficacia della sua forza irresistibile che egli ha esplicato in Cristo risuscitandolo dai morti e facendolo sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni Principato e Potestà, Virtù e Dominazione, al di sopra di ogni nome che viene nominato non solo in questo secolo, ma anche nel secolo futuro. ‘Tutto, infatti, ( Dio ) ha posto sotto i suoi piedi’  ( Sal. 8,6 ), e l’ha costituito, sopra tutte le cose, Capo della Chiesa, la quale é il suo Corpo, la pienezza di lui che tutte le cose di ogni bene riempie” ( Ef, 1, 19, 23 ).
 
E sempre nella Col. :
 
“Nessuno pertanto vi condanni riguardo al cibo o a bevande, o a motivo di feste e di noviluni, o di sabati; tutte le cose che sono ombra di quelle venture, mentre il corpo ormai é quello di Cristo. Che nessuno vi defraudi a suo arbitrio del premio, con la scusa di umiltà e del culto degli Angeli, sprofondandosi in ciò che avrebbe visto, vanamente gonfiato dalla sua mente carnale, non più legato al Capo, da cui tutto il Corpo, mediante le giunture e i legamenti, riceve sostentamento e coesione e cresce della crescita di Dio” ( Col. 2,16-19 )
 
Il falso insegnamento dei dottori di Colossi concerne una strana misteriosofìa, una protognosi che amalgama, in modo sincretistico, convinzioni giudaiche e speculazioni filosofiche greche intorno agli “stoichéia” o ‘elementi del mondo’ non meglio specificati, dove si insiste molto sulla peccaminosità della materia e su un falso ascetismo purificatore. Nella cosmovisione di questi novatori giocano un loro ruolo decisivo le potenze angeliche nel governo e nell’ordinazione demiurgica del “kòsmos”, quasi a giustificare anche l’uso dell’astrologìa e della magìa, sulla base di un continuo influsso degli astri sui comportamenti umani. Che un sano culto degli angeli si dia –questo il pensiero dell’Apostolo-  ma senza offuscare la dignità del vero ‘Capo’ assunta da Cristo stesso, nel quale tutte le cose sono venute all’essere, compresi Troni, Dominazioni e Potestà. La posizione paolina é chiara su questo punto : la dignità del ‘corpo umano’ viene esaltata diventando l’immagine di quello glorioso di Cristo e di quello mistico della Chiesa :
 
“Mariti amate le ( vostre ) mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e si é offerto per essa onde santificarla, purificandola mediante il lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola e così farsi comparire davanti, tutta splendente, la Chiesa, senza macchia o ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Alla stessa maniera anche i mariti debbono amare le loro mogli come se fossero i loro stessi corpi : chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai infatti ha odiato la propria carne; al contrario la nutre e se ne prende cura come anche Cristo ( fa per ) la Chiesa, poiché siamo membra del suo Corpo” ( Ef. 5, 25-30 ).
 
Come si può constatare, l’Apostolo sottolinea come una cosa normale prendersi cura del proprio corpo, nutrendolo e amandolo, analogamente all’amore di Cristo per la Chiesa e a quello tra i coniugi. Non svalutandolo e disprezzandolo come fanno i sostenitori di correnti dualistiche, ma neanche, all’opposto, concedere nulla alla fornicazione.
 
Già il riconoscimento del primato universale di Cristo’ permette una adeguata intelligenza del ‘mysterion’ cristiano. La percezione di tale primato Paolo l’ha avuta anche anni addietro. L’autore dell’articolo é convinto che già la 1 Cor. presenti un riscontro, su questa tematica, con le due della prigionia :
 
“Quando poi tutto sarà a lui sottoposto, allora lo stesso Figlio sarà sottoposto a colui che gli ha assoggettato tutto, affinché Iddio sia tutto in tutti” ( 1 Cor. 15,28 ).
 
Da questi spunti offerti dalla 1 Cor, Ef., Col,, si può delineare una concezione ontodinamica della Realtà, imperniata sul concetto di pleròma’. “Affinché Dio sia tutto in tutti” ( 1 Cor. 15,28 ) non é un’affermazione dal sapore panteistico, come di primo acchìto potrebbe sembrare. Se Paolo avesse scritto “Dio é in tutto”, intendendolo alla maniera di Eraclito e di altri consimili pensatori, allora sì, le creature sarebbero di natura divina. 
Altra cosa, invece, é dire “onde siate riempiti di tutta la pienezza di Dio” ( Ef. 3,19 ). Spiegando un salmo davidico, “ascendendo in alto, ha trascinato con sé i prigionieri, ha concesso doni agli uomini (Sal. 68,19), Paolo asserisce :
 
“( la parola ) ‘ascese’ cosa che sta a significare, se non che egli era anche disceso nelle parti più basse della terra ? Colui che discese é il medesimo che anche ‘ascese’ al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose” ( Ef. 4,9-10 ).
 
La categorìa del ‘pleròma’, così desumibile dal contenuto delle lettere della prigionia, é ontologica. Non si tratta qui di un simbolo o di una pura immagine letteraria. Affinché l’Essere di Dio ( ma anche la sua Unità ) sia partecipato da tutte le creature, nonostante la loro finitezza laddove, invece, la pienezza della divinità, presente corporalmente nell’uomo Gesù, é sostanziale :
 
“Poiché in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità e in lui voi siete stati riempiti” (Col. 2,9).
 
Non c’é traccia di panteismo se analizziamo bene il versetto : la pienezza della natura divina é permanente nell’uomo Gesù, in quanto Dio si é incarnato in una creatura finita, una volta sola. “In lui siete stati riempiti” vuol dire che, in virtù della potenza redentrice di Cristo, i redenti potranno partecipare delle perfezioni della natura divina. L’esegesi di Mons. Cipriani ci sembra, al riguardo, eloquente :
 
Con tale ‘pienezza’  di divinità e di perfetta umanità, Cristo rappresenta il vertice di ogni realtà, il punto di incontro e di fusione del mondo visibile e di quello invisibile. E’ la ‘totalità’ che si incontra in lui. Non si stupisce perciò che dalla sua ‘pienezza’ noi tutti siamo stati riempiti, sia come singole creature, sia soprattutto come membra vive del suo ‘pleròma’ diffuso che é la Chiesa. S. Giovanni esprime un concetto analogo quando afferma : “é dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto” (25).
 
La ‘ricapitolazione’ –con l’unità che essa comporta- non avrebbe senso senza la ‘RICONCILIAZIONE’ (“riconciliare” in greco é “apokatallasso”). L’unità suppone il superamento di ogni conflitto e di ogni divisione. E Paolo non perde occasione di rimproverare, rammaricandosi, i propri figli spirituali quando si dividono in fazioni e correnti che lacerano lo stesso ‘Corpo di Cristo’. Uno solo é il Signore ( contro il politeismo e contro qualsiasi tendenza a moltiplicare le intermediazioni tra Dio e l’uomo, all’infuori di Gesù ), una la fede, uno il battesimo, uno solo lo Spirito, un solo Corpo (=cioé la Chiesa ).
 
“Vi esorto pertanto io, il prigioniero del Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione a cui siete stati chiamati, con tutta umiltà e mansuetudine, con longanimità, sopportandovi a vicenda nella carità, solleciti a conservare la ‘unità dello Spirito’  mediante quel vincolo che é la pace. Un solo Corpo e un solo Spirito, così come anche siete chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione. Uno  il Signore, una  la fede, uno  il battesimo!
Uno  solo é Iddio e Padre di tutti, egli che é al di sopra di tutti ( agisce ) per mezzo di tutti ed é in tutti” ( Ef. 4, 1-6 ).
 
La vita nuova del credente si caratterizza per una dura lotta contro il male e le concupiscenze. La quale non deve essere, però, fraintesa come una mortificazione della materia nei suoi positivi aspetti, alla maniera del dualismo ascetico, oppure come un disimpegno dalla storia, bensì come una condotta interiore, riflesso di una panoplia cosmica ( Ef. 6,12 ), da vivere giorno per giorno, in ogni istante :
 
Il Vangelo comporta una ‘duplice riconciliazione’  : quella del genere umano con Dio ( Ef. 2, 16-18; si cfr. pure Col. 1,20-22 ) e quella tra le nazioni pagane e gli israeliti :
 
“Perciò ricordatevi che un tempo voi, i Gentili nella carne, chiamati prepuzio, da quelli che si appellano circoncisione, fatta per mano d’uomo nella carne, ricordatevi che in quel tempo voi eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele ed estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio. Ora però in Cristo Gesù voi, che un tempo eravate lontani, siete divenuti vicini in virtù del Sangue di Cristo che ha fatto di due una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che era in mezzo a noi, cioé l’inimicizia, distruggendo nella sua carne la legge dei comandamenti (formulata) in ordinanze, allo scopo di creare in se stesso i due in un unico uomo nuovo, facendo pace, e  di riconciliarli ambedue a Dio in un solo corpo per mezzo della Croce, uccidendo la inimicizia in se stesso. Ed essendo venuto annunziò la pace a voi che eravate lontani e pace ai vicini  ( Is. 57,19; Zac,  9,10 ). Per mezzo di lui, infatti, abbiamo tutti e due l’accesso presso il Padre in un solo Spirito” ( Ef. 2, 11-18 ).
 
Questo mirabile successo dell’evangelizzazione dei Gentili, sperimentato dall’Apostolo, é il frutto del sacrificio di Cristo, con il quale cessa ogni discriminazione razziale basata non solo sul peccato e sull’ignoranza, ma anche su un provvisorio fondamento religioso. I Gentili, dal punto di vista della religione mosaica, non potevano accedere ai beni promessi dall’Antica Alleanza tra Jahveh e Israele : pertanto dovevano essere considerati impuri, maledetti, perduti.....
Gesù, invece, ha ucciso ( nel senso di “superato” ), in se stesso, l’inimicizia tra i due popoli, facendo di due una cosa sola e creando un unico ‘uomo nuovo’ . Con il suo sacrificio sulla croce, l’esclusivismo ebraico  non  ha  alcuna  ragione  di esistere. Davanti a quella suprema prova di obbedienza del Figlio (Fil. 2,8), vale a dire di fronte alla via della Croce, non esistono più privilegi e prerogative che valgano.
 
Non si può perseguire questa ‘riconciliazione’ di tutto il genere umano in se medesimo e nel suo rapporto con Dio, senza la previa ‘trasformazione’ di ogni singolo alla luce del Vangelo, con la realizzazione di un processo di svuotamento di sé, “della spoliazione cioé del ( nostro ) corpo di carne” (Col. 2,11), per l’appunto una ‘kenosi’ analoga a quella del Signore. Ogni redento deve “deporre” ‘l’uomo vecchio’ ( Col. 3,9; Ef. 4,22 ) che é in lui, con le sue inclinazioni smodate e perverse, con la radice dell’egoismo e la cupidigia, per essere ( “rivestirsi ) l’uomo nuovo’ (Col. 3,10; Ef. 4,24) con l’umiltà, la mansuetudine, la carità come vincolo di perfezione e la riconoscenza ( Col. 3, 12-15 ).
 
E’ interessante notare come Paolo consideri la ‘cupidigia’ una idolatrìa ( Col. 3,5 ), la più grave delle degenerazioni dell’egoismo, il più totale e bieco asservimento alle cose materiali che si corrompono, quella che l’evangelista Giovanni cita come la ‘concupiscenza degli occhi’ ( 1 Gv. 2,16 ). L’Apostolo delle Genti ravvisa nell’esagerato attaccamento di un cuore avido al possesso dei beni ( e nello sfrenato desiderio di accumularli ) una forma di idolatrìa peggiore di quella religiosa esistente a suo tempo. E anche la più duratura e pertinace. La cupidigia acceca l’intelligenza, chiude alla carità e, peggio ancora, corrode il tessuto del vivere civile, alimentando divisioni e guerre.
Quando, poi, Paolo cita il verbo “rivestire” a proposito dell’uomo nuovo ( Col. 3,10.14; Ef. 4,24 ), é chiaro che usa una metafora che non va fraintesa come una specie di estrinseca copertura di uno stato peccaminoso, così come sosterrà successivamente Lutero, indotto in errore nell’interpretare questi versetti paolini.
Secondo Paolo, il processo di trasformazione di un credente, anche da un punto di vista etico, é reale. Il peccato deve morire per poter trionfare la grazia ed entrambi non possono coesistere. Non sarà sfuggito al Nostro il corrispettivo ed antico significato latino del termine “abito” ( “habitus” ) che non corrisponde all’abbigliamento, come noi oggi lo intendiamo, ma una qualità o una tendenza o un’inclinazione interiore che contrassegna un individuo concreto.
 
Abbiamo accennato al fondamento e ai frutti del ‘mysterion’ cristiano. La Lettera ai Colossesi esprime una provocazione dell’Apostolo non soltanto diretta ai sostenitori di una dottrina eterodossa abbastanza nebulosa, ma anche ai fedeli contemporanei ( e a quelli posteri ). E agli studiosi di oggi !     Vediamo di arrivare al “nocciolo” del suo pensiero.
Mons. Ravasi ritiene che alcuni studiosi siano convinti che la Col. sia un abbozzo di una teologìa della conoscenza’  per il fatto che l’Apostolo insista più sulla ‘fides quae’ ( “fede-che” ) che sulla ‘fides-qua’ (“fede-con-la-quale”). Basti prendere in esame questo versetto :
 
“Ben radicati e fondati in lui, saldi nella fede come vi é stato insegnato”  ( Ef. 2,7 ).
 
Come la parola ‘fede’ possa essere affrontata in due prospettive diverse. Vale a dire, come contenuto, da un lato, e come atto di adesione personale al medesimo, dall’altro. Paolo risalta, entrambi, gli aspetti della fede, dando preminenza al secondo soprattutto nelle altre lettere.
 
Nella Col. é accentuato, invece, il primo (26).
 
L’autore insiste molto sul tema della ‘conoscenza’.  Lo si evince da questi versetti :
 
“Anche fra voi fruttifica e si sviluppa il vangelo dal giorno in cui avete ascoltato e conosciuto  la grazia di Dio nella verità” ( Col. 1,6 );
 
dove sono relazionate tra loro ‘conoscenza’ e ‘verità’;
 
“Anche noi, da quando abbiamo saputo questo, non cessiamo di pregare per voi, e di chiedere che abbiate una conoscenza piena della sua volontà  con ogni sapienza  e intelligenza spirituale” ( Col. 1,9 );
 
“Possiate comportarvi in maniera degna del Signore, per piacergli in tutto, portando frutto in ogni opera buona e crescendo nella conoscenza di Dio” ( Col. 1,10 );
 
“E’ lui infatti che noi annunziamo, ammonendo e istruendo ogni uomo con ogni sapienza” ( Col. 1,28 );
 
“I loro cuori vengano consolati e così, strettamente congiunti nell’amore, essi acquistino in tutta la sua ricchezza la piena intelligenza,  e giungano a penetrare nella ‘perfetta conoscenza del mistero di Dio, cioé Cristo’,  nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza ( Col. 2, 2-3 ).
 
“Bisogna crescere sempre di più nella piena conoscenza, nella sapienza e nell’intelligenza, vocaboli che appartengono tutti all’orizzonte conoscitivo”, come specifica Mons. Ravasi (27).
Sebbene abbiamo a che fare con termini greci di una certa incidenza, nulla ci vieta di sottolineare il loro substrato concettuale biblico. Per gli israeliti, la ‘conoscenza’ é ‘adesione’, ‘incontro’, ‘unione’. Pertanto, Paolo non intende tanto una conoscenza di tipo intellettuale alla maniera greca ( anche se ha una sua dignità ), quanto una ‘conoscenza  esistenziale’ (28) che coinvolga il nucleo più profondo della persona, indicato biblicamente nel “cuore”, nei suoi aspetti emozionali e pragmatici. Se l’accogliere la salvezza che ci viene donata é indispensabile per il cristiano, occorre anche “sapere ciò che ci viene offerto, perché la fede ha un contenuto, un tesoro di sapienza e di scienza” (29), ma con la giusta consapevolezza che la ‘salvezza’  non proviene dalla intelligenza (30).
 
Quello ( il ‘mysterion’ ) che può apparire il più povero tra i termini in questione, in realtà racchiude una profonda ricchezza, trascendente ed immanente, essendo oggetto dell’intelletto e della decisione divini. Esso ha in sé, tuttavìa, un “confine”, un “orizzonte”, nell’analisi della nozione di ‘progetto’ o di ‘piano’, nel quale l’onnipotenza dell’Autore di tutte le cose si é volutamente autolimitata. Il progetto della ‘ricapitolazione’ richiama la figura di Gesù Cristo. A questo punto, anche qui, per parlare di ‘mysterion’ ci piace utilizzare la categoria dello ‘UNIVERSALE CONCRETO’**, valida per designare la stessa ‘Rivelazione’ . “L’Eterno entra nel tempo, il Tutto si nasconde nel frammento” (31).
 
**Questa formula é stata introdotta nella Teologìa cattolica, grazie agli apporti speculativi di Romano Guardini e di Hans Urs von Balthasar,
Sebbene la paternità di questa categoria sia da attribuire a Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770 – 1831), successivamente ripresa dai neoidealisti italiani Giovanni Gentile e Benedetto Croce, si può dire che il suo retroterra storico-filosofico é abbastanza antico, tanto da affondare le proprie radici nei primi secoli del Cristianesimo. Il Pié-Ninot (32), addirittura, constata in Gregorio di Nissa e in Massimo il Confessore l’applicazione di ‘universale concretum’ alla stessa persona divina di Gesù Cristo. Un recupero della suddetta formula si ha con il cardinale tedesco Niccolò Cusano ( 1401 – 1464 ) che, nel suo trattato ‘De docta ignorantia’, elaborando la posizione della ‘coincidentia oppositorum’, ravvisa in Cristo l’universale contratto : il massimo assoluto é il Dio delle religioni; il massimo assoluto e contratto in una prospettiva cosmologica é l’universo, in una antropologica é l’uomo-Cristo.
Si dà una coincidenza del massimo universale e del minimo concreto che, però, sfugge alla logica formalistica che si fonda sui principi di identità e di non-contraddizione. Occorre una ‘intelligenza superiore’  che Cusano denomina ‘sapere di non sapere’, ma che va oltre il discorso razionale, traducendosi nell’ ‘intellectus’, una sorta di intuizione (33). Per Hegel, l’universale concreto  é l’Assoluto che si rende consapevole di Sé nell’esistenza finita, nella concretezza storica e nella soggettività della coscienza. L’universale si unisce dialetticamente al particolare pur senza esaurirsi in esso. Per il filosofo tedesco tale formula é adeguata a designare il ‘carattere assoluto del Cristianesimo’ (34), intendendo quest’ultimo come la religione assoluta e definitiva, in quanto “il potere di Dio infinito e universale prende la forma di una realtà finita nella figura dell’uomo concreto Gesù di Nazareth” (35).
 
Ora Cristo, oltre ad essere un personaggio storico e metastorico, é anche l’Idea universale della Storia, come von Balthasar suggerisce nel suo libro ‘Teologìa della storia’, universale concretum personale’ , il ‘sovra-tempo’ nel tempo (36). Se si asserisce che l’azione dello Spirito Santo conduce alla verità, vuol dire anche che tale Spirito produce la consapevolezza del Vangelo e della sua forza redentrice, sempre riferendosi, però, ad una realtà sensibile, vuoi che sia il ministero terreno di Gesù di Nazareth, vuoi la testimonianza e il kerygma degli Apostoli e dei loro successori. La vita di Cristo ( l’universale ) non si esaurisce solo nell’elemento sensibile della parola e dell’attività del Nazareno, ma continua nella Chiesa che ne é il prolungamento storico. Assolutezza di Cristo e del Cristianesimo quindi. Non vuol dire affatto assolutezza della Cristianità oppure della Chiesa medesima. Questa differenza é la stessa che sussiste tra l’universale e il concreto. A maggior ragione il Pié-Ninot sottolinea l’infondatezza dell’integralismo religioso fatto valere da certi orientamenti teologici vetusti oppure recenti (37).
L’universale concreto é solo Cristo. La Chiesa gli é sottomessa come la Sposa allo Sposo : essa può essere denominata ‘universale concretum sacramentale’, in quanto é “segno storico della salvezza definitiva data in Gesù Cristo” (38).
 
E’ una formula che ci appare la più felice ad esprimere la ricchezza del ‘mysterion cristiano’ e richiama, ancora una volta, i due concetti di ‘ricapitolazione’ e di ‘riconciliazione’. Con il primo si designa un “processo che permette alla signorìa di Cristo di affermarsi attraverso la Chiesa, conferendo così una dimensione storica al compimento e pienezza dell’universo” (39). Tre corrispettivi latini traducono “anakephalàiosis” : ‘instaurare’  nella Vulgata di San Girolamo; ‘restaurare’  secondo Ambrosiaster; ‘reintegrare’  secondo S. Tommaso d’Aquino (40).  Cosa sorprendente é che le prime due parole racchiudono il vocabolo greco “stauròs” con il quale si indica la ‘croce’ , uno strumento di morte, ma anche paradossale simbolo di vita :
 
“Sì, proprio voi che eravate morti per i peccati e per la incirconcisione della vostra carne Egli ha vivificato insieme con lui, condonandoci tutti i peccati, cancellando il chirografo stabilito contro di noi, a causa delle prescrizioni ( da noi trasgredite ) : ( chirografo ) che ci era avverso. Questo egli tolse di mezzo, inchiodandolo alla Croce” ( Col. 2, 13-14 ).
 
E la ‘riconciliazione’  non deve avvenire solamente nell’ambito dei rapporti umani, ma anche attraverso i suoi riflessi cosmici, estendendosi alle realtà invisibili (41), liberando la creazione da un oppressivo senso di miseria :
 
“poiché ( Iddio ) si compiacque di far abitare in lui ogni pienezza e di riconciliare a sé per suo mezzo, tutte le cose, rappacificando mediante il Sangue della sua Croce, cioé  per mezzo di lui, le cose che stanno sulla terra e quelle che stanno nei cieli” ( Col. 1, 19-20 ).
 
Del resto, con Gesù si pone la ‘via della Croce’  come tappa obbligata della sua sequela, impegnativa ed estesa a tutti :
 
“Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro : ‘Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e per il vangelo, la salverà” ( Mc. 8, 34-35; si cfr. pure Mt. 16, 24-25; Lc. 9, 23-24 ).
 
Si ha una sorprendente e positiva rivalutazione della ‘morte’ e della ‘sofferenza’ , del loro estremo ed incredibile valore redentivo e sacrificale, ma solo se riferiti alla causa del Vangelo e al sincero superamento dell’uomo vecchio, paolinamente parlando. E non si tratta solamente della cessazione della vita biologica, ma anche di un morire a se stessi’  ogni giorno, non alla maniera degli estremisti spagnoli di destra che, con il generale Millan Astray, scandivano uno slogan necrofilo del tipo “abbasso l’intelligenza, viva la morte !”, lasciando allibito il professore Miguel De Umamuno. Non si tratta di una morale debole e decadente, quella del cristiano secondo Paolo, ma –secondo il filosofo Marco Vannini- della estrema “serietà di un agire etico” (42) che supera i condizionamenti psicologici che rendono schiavo e, spesso, ottuso l’io. Questo tipo di ‘morte-a-se-stessi’ permette quella profonda ‘unità dello spirito’ ( 1 Cor. 6, 17 ) tra il Creatore e la creatura :
 
“Al contrario, chi si unisce al Signore, é un solo spirito con Lui” ( 1 Cor. 6, 17 ).
 
Compresa la ‘libertà dello spirito’  che si raggiunge nell’ ‘amore’ , e –concludendo- per citare le parole di questo studioso fiorentino :
 
“quella ‘forza’ che……pone Dio come altro, e in questo porre ritrova se stesso, altro e insieme non-altro da Dio nella circolarità di quello spirito che é, appunto, amore e che vive solo in quanto movimento, dall’infinito al finito e dal finito all’infinito, dal Padre al Figlio e dal Figlio al Padre” ( 43).
 
 
 
 
N O T E    :
 
 1)   Giuseppe Tanzella-Nitti, “Documento interdisciplinare di Scienza e Fede”, sito Internet, voce “mistero”;
 2)   idem;
 3)   idem;
 4)   idem;
 5)   idem;
 6)   idem;
 7)   idem;
 8)   Idem;
 9)   ( a cura delle Edizioni Messaggero – Padova ), “Vangelo e Atti degli Apostoli”, nota p. 318;
10)  Salvador Pié-Ninot, “La Teologìa Fondamentale. “Rendere ragione della speranza”, Queriniana, p. 362;
11)   Gianfranco Ravasi, “Lettere agli Efesini e ai Colossesi”, EDB, p. 123;
12)  Settimio Cipriani, “Le Lettere di San Paolo”, Cittadella, pp. 119-120;
13)  op. cit., p. 120;
14)  Bruto Maria Bruti,
15)  op. cit., p.
16)  op. cit., p.
17)  Gianfranco Ravasi, op.cit., p.37;
18)  op. cit.., pp. 38-39;
19)  op. cit.,  p. 38;
20) op. cit.,  p. 37;
21)  op. cit.., p. 40;
22)  op. cit., pp. 40-41;
23)  op. cit., p. 42;
24)  op. cit., p. 42;
25)  Settimio Cipriani, op. cit., pp. 520-521;
26)  Gianfranco Ravasi, op. cit., p. 100;
27)  op. cit., p. 1 01;
28)  op. cit., p. 105;
29)  op. cit., p. 105;
30)  op. cit., p. 105;
31)  Salvador Pié-Ninot, op. cit., p. 259;
32)  op. cit., p. 262;
33)  op. cit., p. 263;
34)  op. cit., p. 260-261;
35)  op. cit., p. 261;
36)  op. cit., p. 264;
37)  op. cit., p. 265;
38)  op. cit., p. 265;
39)  op. cit., p. 267;
40)  op. cit., pp. 267-268;
41)   Settimio Cipriani, op. cit., p. 514;
42)  Marco Vannini, “Mistica e Filosofìa”, Le Lettere,  p. 125;
43)  op. cit.., pp. 125-126.
 
 
 



 


Fonte : scritti e appunti di Francesco Cuccaro , e-mail  cuccarof@alice.it  .













Nessun commento:

Posta un commento

Post più popolari negli ultimi 30 giorni