mercoledì 24 luglio 2019

Le tematiche della sapienza umana e della Sapienza divina e della resurrezione dei morti nella Prima Lettera ai Corinti di Paolo di Tarso , di Francesco Cuccaro




TEOLOGIA BIBLICA DEL NUOVO TESTAMENTO
Le  tematiche della sapienza umana e della Sapienza divina e della resurrezione dei morti nella Prima Lettera ai Corinti di Paolo di Tarso
 
di Francesco Cuccaro
 
 
 
 
Premessa
 
Nel suo secondo viaggio missionario, Paolo si trova a diffondere il messaggio di Cristo in Grecia.  A Tessalonica converte numerose persone, servendosi del contributo di Sila e Timoteo.
A quanto si legge dagli Atti, non sembra che il suo brevissimo soggiorno ad Atene sia stato programmato, anche se la capitale dell’Attica diviene una tappa obbligata per svolgere altre peregrinazioni.
In questa città ( siamo più o meno intorno al 49 E.V. ), tuttavia, Paolo dà sfogo al suo dinamismo missionario, ma vi sperimenterà un colossale fallimento. Si trova direttamente di fronte ad interlocutori già professanti l’idolatrìa vera e propria. E neanche tanto facili da superare diffidenze addirittura nei confronti di uno straniero banditore di nuovi culti, di un predicatore barbaro.
Paolo ha il senso del limite e delle proporzioni ma, convinto della ‘potenza della Parola’ ( delDabàr’ ), della ‘Parola di Dio’, non si lascia scoraggiare. Anzi, entusiasticamente, si rivolge a quelli che possono apparirgli le energìe intellettuali più vivaci di tutta la cittadinanza ateniese.
Questo capitolo degli Atti degli Apostoli ( At. 17, 16-34 ) può essere visto come la documentazione di una sfida della Rivelazione biblica nei confronti dell’Ellenismo più puro, cioé diverso da quello già incontrato nei territori grecofoni del Medio Oriente. Anzi, appare un confronto critico non tanto verso le forze naturali dell’uomo che si esprimono nel genio poetico, letterario, filosofico, artistico-figurativo della civiltà ellenica, quanto nei confronti dell’orientamento razionalistico difeso e custodito dalle migliori menti dell’epoca. Ma un confronto critico non dà adito per forza ad una controversia o polemica. Paolo ricerca con questi intellettuali ateniesi un punto di equilibrio tra le loro posizioni e le esigenze della sua predicazione.
Quale può essere un fertile terreno d’incontro tra due visioni della vita e della religione così differenti tra loro ?  Per esempio : la critica all’antropomorfismo della religione e della mitologìa olimpiche. E’ innegabile lo sforzo positivo condotto da alcuni filosofi greci nel concepire Dio come primo principio cosmologico, secondo una tendenziale linea che va, grosso modo, da Senofane di Colofane  a Platone, da Aristotele a Plotino. Menzionando un verso poetico di Arato di Soli, ripreso e modificato dallo stoico Cleante di Asso ( At. 17, 28 ), Paolo riconosce questo sforzo, ma anche la sua insufficienza a debellare il politeismo con la conseguente idolatria. Come pure avverte -lui straniero- la difficile coesistenza tra la convinzione in un unico e superiore Dio, come sembra testimoniare la presenza di un’ara dedicata al Dio ignoto ( At. 17,23 ), e la credulità superstiziosa del popolino. Inoltre, deve anche  misurarsi con lo scetticismo che pervade il contesto culturale dei ceti medio-alti.
Immaginiamo una scommessa che Paolo fa a se stesso, con il proposito di vincerla, incentrata proprio su quell’altare con la dedica ad una divinità sconosciuta che sembra essere indeterminata, senza volto e senza forma. Luca riporta fedelmente il testo della predica tenuta all’Areòpago ( sede del tribunale, ma anche luogo di discussioni pubbliche ) :
 “Allora Paolo, alzatosi in mezzo all’Areòpago, disse ‘Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli déi. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione : Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che é signore del cielo e della terra, non dimora in templi costruiti dalle mani dell’uomo, né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa” ( At. 17,22-25 ).
Fermiamoci un attimo. Il ragionamento che fa il Nostro é abbastanza pertinente per un evoluto spirito greco, fino ad essere ritenuto ovvio e di una sorprendente banalità. Nel senso che l’Apostolo non ha detto nulla di nuovo, considerando Dio come Colui che ha fatto il mondo e tutto ciò che esso contiene. Paolo ha evitato di presentare una dottrina della creazione dal nulla, forse per misura prudenziale. Un discorso come questo lo avrebbe portato lontano dai suoi obiettivi e forse urtato più di tanto la suscettibilità dei suoi ascoltatori che considerano la materia come eterna. Quindi, l’idea di un Dio che ha fatto il cielo e la terra non é estranea alla mentalità di chi sostiene la demiurgica ordinazione del mondo dal caos primigenio. Pertinente può apparire anche il discorso di una derivazione da una sola coppia originaria di tutto il genere umano :
“Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto : ‘Poiché di lui stirpe noi siamo’ ” ( At. 17,26-28 ).
Un discorso che avrebbe tuttavia urtato gli interessi di profittatori senza scrupoli e pronti a strumentalizzare l’ingenua credulità popolare, onde ottenere lauti guadagni, come sarebbe accaduto, di lì a qualche anno, ad Efeso con il celebre tumulto di Demetrio e degli argentieri ( At. 19, 21-41 ).
“Essendo noi stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana” ( At. 17,29-30 ).
C’é un fondo velato di ironia in questa esclamazione. I migliori cervelli arrivano a soprannaturalizzare il divino, ma la base popolare rimane ancora legata a credenze superficiali e ormai superate.
“Dopo esser passato sopra ai tempi dell’ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi, poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo…..( At.17, 30-31 ).
Neanche dopo l’incontro, sulla via di Damasco, con il Signore risorto, Paolo abbandona quello che si potrebbe dire lo zelo integralista del pio israelita riguardo alla giustizia di Jahveh, alla condanna del peccato e dell’idolatrìa, alla punizione universale di tutti gli uomini ( senza l’intervento provvidenziale di un uomo ).   
L’ Apostolo delle Genti non ha peli sulla lingua : questo zelo lo esibisce anche, e soprattutto, nei confronti degli idolatri. Onde la necessità di una ‘conversione’ o ‘ravvedimento’ di questi ultimi, cioé uncambiamento di mentalità e di vita’.
Ecco la rivelazione sconcertante :
.....giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti” ( At 17,31 ).
Ma Dio non sembra premiare subito questo zelo rigorista del suo inviato. Questa comunicazione così rapida e immediata non dà il risultato sperato. Il pubblico non solo non aderisce al messaggio di Paolo, ma lo rende oggetto di scherno e di irrisione.
Beninteso, questa fiducia dell’Apostolo nella ‘potenza della Parola’ non verrà mai meno, né durante né dopo l’apparente sconfitta subita all’Areòpago di Atene. Avvertirà la consapevolezza che essa debba andare adeguata alle aspettative, alle esigenze, agli schemi mentali, ai pregiudizi degli uomini, ai tempi opportuni, secondo una pedagogìa progressiva. Lo smacco di Atene, deplorevole in se stesso, ha avuto il merito di inculcare nel predicatore e in noi il rispetto della dignità e della libertà della persona umana che Dio non violenta. L’integralismo religioso va, pertanto, umiliato.
Non si formerà mai una vera e propria comunità cristiana ad Atene, almeno fino al IV secolo quando il Cristianesimo diverrà la religione ufficiale dell’Impero Romano. Fatta eccezione per un piccolo numero di convertiti, come Dionigi e Damaris durante il soggiorno paolino ( At. 17,34 ), la capitale dell’Attica rimarrà, per lungo tempo, la roccaforte inespugnabile della resistenza dell’Ellenismo pagano al Vangelo.
Questo ci sembra l’orizzonte di minima intelligibilità nel quale situare l’insuccesso del kerygma  apostolico ad Atene, sempre che Luca ci garantisca la fedeltà testuale di quello che Paolo ha detto e ha fatto, e che il suo racconto non sia piuttosto un riassunto.
L’immediatezza di una notizia relativa ad un evento storico, quale la resurrezione di un uomo dalla morte, e il vago accenno ad una credenza, diffusa nell’ambiente palestinese, concernente un ritorno dalla morte alla vita per tutti gli uomini in un giorno stabilito da Dio, scandalizzano il pubblico ateniese abituato, da secoli di educazione filosofica e retorica, ad una ricerca di prove ferreamente logiche e ad un consequenziale tessuto di dimostrazioni, per la gioia di Piergiorgio Odifreddi.
Il testo lucano della predica di Paolo offre -potremmo dire- dei chiaroscuri, nel senso che non vengono citati quegli argomenti di carattere biblico che legano la precedente affermazione dell’esistenza di un Dio superiore e nascosto al tema del giudizio universale e a questo insolito discorso sulla resurrezione dei morti.
Se ci mettessimo dalla parte degli interlocutori, pure noi potremmo meravigliarci non solo del senso oscuro delle parole di Paolo, ma soprattutto della mancanza di nesso logico nel passaggio da un tema all’altro.
Ma non che Paolo non sia consapevole di questa inevitabile difficoltà. Dopo lo smacco di Atene e durante la sua permanenza a Corinto, l’Apostolo sarà assillato da questo dilemma : come e a chi presentare il Cristo crocifisso e risorto ?
Questo celebre discorso all’Areopago nasce dall’improvvisazione e dall’entusiasmo, finanche eccessivo e forse anche ingenuo, nell’immediatezza riguardo i copiosi frutti in termini di miracoli, di conversioni, di trasformazioni interiori che una ‘rivelazione soprannaturale’ comporta, omettendo le stesse prove logiche e storiche sulle quali essa, pur tuttavia, si basa ?  Oppure il testo lucano sembra suggerire la presa di coscienza, da parte dell’Apostolo, della mancanza, per così dire, di tempi tecnici per preparare un discorso più articolato, stringente e consequenziale ?  Come pure Paolo ha tenuto conto della totale mancanza di conoscenza -da parte degli Ateniesi- delle Sacre Scritture ebraiche e degli schemi culturali del popolo eletto. Era opportuno, in quel momento, dire che : Dio ha creato dal nulla la prima coppia umana ?  Questa ha peccato contro Dio e ha fatto incorrere il genere umano nella sua “ira”?  Occorreva parlare della necessità della redenzione dal peccato e dalle sue conseguenze per opera dello stesso Dio che doveva assumere la natura umana, incarnandosi, diventare un israelita, per poi morire di una morte infamante e, successivamente, risorgere ?  Che il popolo ebraico é stato il primo depositario di questa rivelazione di salvezza attraverso i profeti ?
Anche una misura prudenziale può rendere comprensibili tutte queste omissioni, ma é stata assente quando si é parlato apertamente della resurrezione dei morti  ( figuriamoci, poi, se Paolo avesse insistito sul Cristo morto in croce ).
Il minimo che gli é capitato é stata la compassione. I suoi connazionali più fanatici gli avrebbero riservato, senza tanti complimenti, il peggio : la lapidazione!
Tutte e tre le ipotesi per cercare di gettare uno spiraglio di luce sul mistero di questo clamoroso fallimento del discorso paolino all’Areòpago sono egualmente valide. Rimane tuttavia una certezza : l’esternazione dell’Apostolo serba i caratteri dell’avventura, del rischio e dell’imprevedibilità che sfugge ad ogni calcolo premeditato.
Questo tema della ‘resurrezione dei morti’ é per giunta estraneo alla mentalità ellenica e non condiviso pienamente da tutta la nazione ebraica ( alcune correnti religiose, come quella dei Sadducei, la contestano addirittura ).
Presso i Greci -e finanche in alcune popolazioni mediorientali- sussiste una sorta di pessimismo circa la sopravvivenza ultraterrena. Si avverte in essi un atteggiamento fatalistico estremo dove domina sovrana l’inesorabile legge della necessità e del determinismo che non permette deroghe di alcun tipo, quale può essere ritenuto il miracolo*. Da secoli l’immaginario collettivo ha sempre insistito sul tema dell’immortalità estendendola agli déi ed agli eroi della mitologìa olimpica e delle religioni misteriche. Immortalità vissuta nel sogno e nel desiderio, difficilmente provata, dal punto di vista filosofico, per quanto concerne la sopravvivenza delle anime umane. E su questo punto le scuole di pensiero dell’epoca si contrappongono l’una all’altra : i Platonici la sostengono in modo deciso e, con gli Orfici, la collegano alla reincarnazione; mentre, al contrario, gli Stoici e gli Epicurei la contestano.
Per non parlare poi del disprezzo unanime verso il corpo e la materia intesi –ontologicamente- come irrilevanti, oltre ad essere corruttibili, anche se viene più che tollerata ed incoraggiata la ricerca dei piaceri della tavola e del sesso. Un tale disprezzo viene portato all’estremo, invece, dai sostenitori di correnti di pensiero dualistiche.
L’argomento della ‘resurrezione dei corpi’, accennato da Paolo nel suo discorso all’Areòpago, non solo appare una sorpresa, ma suscita la totale irrisione da parte degli astanti. Non sarà mai facilmente assimilato dalla coscienza greca, perfino da chi ha accettato il messaggio di salvezza di Cristo, come testimonieranno le stesse lettere paoline ( e, in modo specifico, la prima ai Corinti ).
Con la scomparsa degli Apostoli, la seconda generazione dei credenti vedrà fiorire posizioni –anche se minoritarie ma con un certo peso nel tessuto ecclesiale- che rigetteranno esplicitamente la resurrezione corporea di Gesù Cristo o la intenderanno in un senso morale o allegorico o spirituale, esasperando l’aspetto della partecipazione mistica da parte dei fedeli a questo presunto evento. Posizioni che saranno alla base del pensiero docetico e gnostico, oggetto della letteratura apologistica successiva a quella neotestamentaria.
 
 
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Paolo di Tarso giunge a Corinto e viene ospitato da un giudeo convertito al Cristianesimo, ma proveniente da Roma a seguito di un editto di espulsione emanato dall’imperatore Claudio ( siamo intorno al 50 ) : Aquila. Non solo i due connazionali sono accomunati dalla medesima fede, ma professano il mestiere di fabbricanti di tende ( At. 18, 1-3 ).
 
L’ Apostolo attende tempi migliori per riprendere l’attività missionaria, soprattutto dopo l’arrivo, nella capitale dell’Acaia, dei suoi discepoli Sila e Timoteo  ( At. 18,4 ).
Corinto é una città commerciale e marittima opulenta, situata sull’istmo omonimo che la fa, in un certo senso, da crocevia tra l’Oriente e Roma che, dal 146 prima E.V., la domina direttamente, insediandovi un proconsole di nomina senatoriale (all’epoca del soggiorno paolino é Gallione, probabile fratello del filosofo latino Seneca). La capitale dell’Acaia sembra possedere un volto più pragmatico che speculativo, a differenza di Atene, anche se non vi é assente una classe intellettuale che si diletta di filosofìa e di retorica.
Per il povero Paolo il quadro non si presenta però, di primo acchìto, lusinghiero. Incontra, per la prima volta, una cittadinanza profondamente idolatra e, per di più, dedita al culto di Afrodite, il cui tempio sull’Acrocorinto ospita più di mille prostitute sacre denominate ‘ierodule’, permettendo in tal modo il fiorente malcostume sessuale. “Vivere alla maniera dei Corinzi” significa adottare uno stile di vita disordinato.
A Corinto c’é una cospicua colonia giudaica. Questo dato facilita la predicazione dell’Apostolo che si impegna nella spiegazione delle Sacre Scritture, in giorno di sabato, nelle sinagoghe, cercando di dimostrare che Gesù é il Messìa annunciato dai Profeti e risorto ( At. 18, 5-8 ).
Paolo subisce dai suoi connazionali incomprensioni ed opposizioni anche irriducibili, fino all’ostracismo e alla minaccia alla propria incolumità personale :
“Ma poiché essi gli si opponevano e bestemmiavano, scuotendosi le vesti, disse:Il vostro sangue ricada sul vostro capo: io sono innocente; da ora in poi io andrò dai pagani” ( At. 18,6  )
Non tutti i Giudei, però, si oppongono al messaggio di Cristo. L’arcisinagogo Crispo si converte alla Buona Novella ( At. 18, 8 ).
Fortuna vuole che la religione ebraica abbia fatto, da tempo, sia proseliti che timorati di Dio ( come Tizio Giusto, At. 18,7 ) anche in questa città. E costoro saranno, per Paolo, il trampolino di lancio per l’attività di conversione dei pagani propriamente detti.
N.B. Il nome di Tizio Giusto é latino. I Corinzi del I secolo non sono tutti greci puri da un punto di vista razziale.
All’indomani dell’occupazione romana nel II secolo prima E.V., molti veterani andarono a colonizzare i territori di questo centro marittimo e commerciale, fondendosi con la popolazione locale, “grecizzandosi”. Questo dato ci dice perché molti abitanti della Grecia e dell’Asia Minore portarono nomi latini.
Il successo dell’attività missionaria a Corinto non si spiegherebbe senza il concorso di miracoli, di carismi eccezionali e di mozioni interiori, ma questo discorso esula dalla ricerca storico-critica :
“E una notte in visione il Signore disse a Paolo : ‘Non aver paura, ma continua a parlare e non tacere, perché io sono con te, e nessuno cercherà di farti del male, perché io ho un popolo numeroso in questa città’ ”  ( At. 18,9 )
La difesa del Signore nei confronti del suo inviato non manca in una grave circostanza. A causa di una sollevazione giudaica contro l’Apostolo di Tarso, aizzata da un capo della sinagoga di nome Sòstene, il proconsole Gallione fa cessare questa gazzarra, tutelando Paolo e gli altri fedeli ( At. 18,12–17 ).
Paolo rimane a Corinto un anno e mezzo ( At. 18,11 ), coadiuvato da Sila e Timoteo, ma anche da altri predicatori. Dopo di che si imbarca, con Aquila e Priscilla, per Efeso, la città ionica per eccellenza, dove soggiornerà nel terzo viaggio missionario ( più o meno dal 54 al 57 E.V. ).
La comunità cristiana di Corinto cresce numericamente. Un amico di Aquila di nome Apollo, un giudeo di Alessandria, anche lui convertito al Vangelo, versato nelle Sacre Scritture, si impegna con altri predicatori nell’attività catechetica ( At. 18, 24 - 28 ).
Ma, dopo tre anni -e il nostro Paolo si trova ad Efeso- la Chiesa di Corinto comincia a manifestare tensioni e problematiche al suo interno.........
Che cos’é dunque successo ?
Diversi predicatori –che si alternano l’uno all’altro- confermano nella fede i neoconvertiti, lavorando su un campo già arato dall’Apostolo delle Genti. Ovviamente, chi ammette il soprannaturalismo sa o almeno ha l’intuizione che in questa comunità agisce lo Spirito Santo con i suoi specifici doni o ‘carismi’, tra i quali ildiscernimento degli spiriti’, la profezìa’, l’esorcismo e, perfino, alcuni doni preternaturali come la ‘glossolalìa’ ( la disposizione a parlare lingue diverse e a farsi intendere in quelle stesse lingue ).
La consapevolezza della straordinarietà di tali esperienze, da parte dei neofiti, induce molti di essi a sostenere di far parte già del mondo escatologico e delle realtà ultime, svalutando quello che é un loro diretto impegno nella storia, l’esercizio della carità e delle altre virtù, l’osservanza delle principali norme etiche, l’aiuto fraterno verso i sofferenti e i più svantaggiati che, invece, vengono spinti all’emarginazione.
Paolo capisce la drammaticità del momento che si prospetta male in questa chiesa.
Questo ‘enthousiasmos’ non va per niente bene. C’é il rischio di confondere il culto cristiano con i tanti culti misterici disseminati in Grecia e nell’Oriente ellenistico, alimentando lo spirito settario e un più marcato e deciso individualismo nei rapporti tra gruppo e gruppo, tra fratello e fratello. Rafforza queste preoccupazioni dell’Apostolo di Tarso la presenza di alcune correnti che mirano a compromettere l’unità del tessuto ecclesiale. Partiti che si richiamano all’autorità di questo o di quell’apostolo, di questo o di quest’altro predicatore o, addirittura, alla stessa persona di Cristo, o alla vanagloria religiosa o intellettuale ostentata da qualcuno dei missionari.
I ‘carismi’ sono qualità e disposizioni funzionali ad edificare una comunità e non vanno privilegiati come forze superiori di cui si debba disporre per esercitare una egemonia o condizionare l’immaginazione e la debole mente degli altri. Tanto meno vanno intesi come “esplosioni di esaltazione comuni ai misteri di Dioniso” (1). Paolo affronta questo problema nel capitolo 14 della sua Prima Lettera ai Corinzi.
Il fatto stesso di sentirsi dei ‘predestinati’, in forza di questi doni, invece di alimentare la ‘carità’ e la ‘umiltà’, corrobora in alcuni credenti l’orgoglio di esseri superiori, dimenticando la lotta da intraprendere contro il male che si annida nel cuore di ciascuno e che corrode il tessuto della vita civile.
Considerandosi partecipi di un contesto santo e glorioso, essi ritengono ormai superflue e superate le disposizioni etiche, valide solo per i più deboli e gli imperfetti. Si fa avanti, pericolosamente, quella tendenza che, nei secoli futuri, darà luogo al quietismo con la sua dottrina eterodossa dell’impeccabilità delle anime mistiche.
Per cui se possiedo questi carismi e sono soggetto ad estasi incontrollate, é segno che sono benvoluto da Dio che “agisce” in me. Inutile, quindi, che io padroneggi le passioni.
Con la conseguenza della licenziosità sessuale che tanto preoccupa Paolo, soprattutto in una città come Corinto dove il vizio diviene non solo un principio regolativo del proprio agire, ma una vera e propria “struttura” sociale.
E’ illuminante il capitolo 10 sempre della Prima Lettera ai Corinti  al  riguardo.
Per Paolo ilpeccato’ é ‘andare contro la propria coscienza’, ‘andare contro le proprie convinzioni’. Non ha importanza se si tratta di una coscienza retta o erronea.
Può peccare quel mio fratello debole che ritiene una grave colpa morale cibarsi delle carni offerte agli idoli dietro il mio esempio.
Io, invece, che so che gli déi non esistono, ho il giusto convincimento che adeguarsi a quel tipo di alimento non costituisce nessuna contaminazione. Ma se, per colpa mia ( e in questo commetto uno scandalo ), induco un fratello debole ad andare contro il suo errato convincimento, anch’io commetto un peccato grave contro la carità. Ne segue la logica conclusione che non mangerò carne in eterno, in pubblico, se con quest’atto rovinerò la salute spirituale di un’anima per la quale Cristo é morto ( 1 Cor. 8, 1-13 ).
Come si può dedurre dalla lettura del capitolo sulle carni immolate agli idoli, la disposizione a peccare appartiene sia ai ‘deboli’ che ai ‘perfetti’.
Le divisioni tra fedeli e tra partiti ( anche nelle assemblee liturgiche ), la mancanza di correzione fraterna, l’indulgenza verso il malcostume sessuale ( si cfr., per esempio, la tolleranza verso l’incestuoso citata in 1 Cor. 5, 1-13 ), la vanagloria o il compiacimento della propria santità, sono indici di egoismo. Non solo pregiudicano finora il lavoro svolto dall’Apostolo, ma corroborano una falsa percezione della salvezza cristiana.
Le realtà escatologiche sono ancora da venire e occorre impegnarsi sulla via del bene perché queste si possano attualizzare.
 
 
 
Le tematiche della sapienza umana e della Sapienza divina ( 1Cor. 1,18 – 3, 1-4 )
 
La ‘fede’ é indispensabile all’attuazione del processo salvifico. Tutti sono chiamati alla fede, senza distinzione di razza, di ceto e di sesso. La ‘fede’  ( in greco ‘pistis’ ) é un principio attivo di trasformazione del credente ed é alternativa alla ‘conoscenza razionale’, in grecognosis’, nell’attingimento della verità suprema e della giustificazione. La prima é superiore alla seconda per il suo carattere di ‘dono divino’ e per la concessione di detto dono a tutti gli uomini di buona volontà.
Beninteso, non si afferma ancora lo ‘gnosticismo’ come movimento eterodosso di opinione in seno alla Chiesa primitiva, nelle sue plurime espressioni. Come fenomeno tale movimento appare già nel II secolo. Tuttavìa, i suoi presupposti già si avvertono nel modo come alcuni credenti recepiscono il rapporto tra fede e conoscenza e nella propensione ad attribuire alla resurrezione di Cristo solo un significato morale e allegorico :
 “Se Cristo non é risorto, é vana la vostra fede, siete ancora nei vostri peccati; perciò anche quelli che si sono addormentati in Cristo sono perduti. Se durante questa vita solamente abbiamo sperato in Cristo, noi siamo i più infelici di tutti gli uomini” ( 1Cor. 15, 17-19 ).
Paolo fa appello ai miracoli che hanno accompagnato la sua missione e alla testimonianza oggettiva, oltre che degli Undici ( cioé senza Giuda Iscariota ), di numerosi discepoli ( “più di cinquecento fratelli” ) in Palestina e ancora viventi (1Cor. 15, 2-7), che hanno visto e ascoltato il Signore risorto.
Questa ‘fede’ predispone il credente ad una ‘sapienza’ che é stata nascosta in Dio e avvolta nelmistero’ ( 1 Cor. 2,7 ). Il termine greco che l’Apostolo delle Genti utilizza é ‘sophìa’, corrispettivo del latino ‘sapientia’. Con questa parola Paolo non designa una scienza di tipo intellettuale oggetto di predilezione dei Greci, ma una conoscenza profonda e “gustosa” ( “sapere” e “sapore” sono convertibili ) dei misteri di Dio che coinvolge l’essere umano anche nei suoi aspetti emozionali e pragmatici. E’ evidente che Paolo richiama la letteratura sapienziale dell’A.T. ( i Salmi in primo luogo ). Attraverso la ‘fede’ viene comunicata da Dio la ‘sapienza’ con una pedagogìa progressiva. Il cristiano é un come un infante che deve crescere e maturare. Il suo é un cammino che tende alla perfezione.
Pertanto, il messaggio evangelico non può mai essere ridotto alla stregua di una dottrina esoterica valida solo per gli iniziati. In Paolo é presente, tuttavia, lo schema del rapporto di implicazione dialettica ‘psichici-spirituali’ ( che può anche diventare opposizione ) che sarà perno delle correnti dualistiche successive. Questo schema, tra l’altro, non é ignorato dalla letteratura religiosa giudaica del suo tempo e viene applicato dall’Apostolo non solo per opporre il ‘Vangelo’ al ‘secolo’ ( o ‘mondo’, categoria tipicamente giovannea ), ma anche per designare i credenti stessi in relazione alla pienezza o meno della fede ricevuta :
“Tra i ‘perfetti’ annunciamo ( anche ) una sapienza : ma non la sapienza di questo mondo, né dei principi di questo mondo che vengono distrutti, bensì annunciamo la sapienza di Dio avvolta nel ‘mistero’, che é stata nascosta, che Iddio predestinò prima dei secoli per la nostra gloria e che nessuno dei principi di questo mondo ha conosciuto : se infatti l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Ma come é stato scritto : ‘quelle cose che occhio non vide e orecchio non udì e in cuore non salirono giammai, queste ha preparato Iddio per quelli che l’amano’” ( 1Cor. 2,6-9 ).
Depositari di questa sapienza non sono coloro che si sono distinti nel linguaggio ornato o nelle massime elucubrazioni del raziocinio umano e, tanto meno, i detentori di un potere politico o culturale o socioeconomico, essendo realtà effimere e transitorie.
Dove mai il sapiente ?  Dove il dotto ?  Dove il dialettico di questo secolo ?  Non ha forse Iddio reso stolta la sapienza del mondo ?” ( 1 Cor. 1, 20 ).  Sono tante le scuole filosofiche che non riescono a rispondere in modo incontrovertibile e definitivo alle domande angoscianti dell’uomo, in primo luogo quelle concernenti le realtà della sofferenza e della morte. Dov’é l’investigatore di questo secolo ?  Coloro che hanno inteso scoprire i fondamenti del kosmos si sono contraddetti l’un l’altro.
Ma Dio presenta un’altra ‘sapienza’ alternativa a chi vuole dire l’ultima parola su tutto il creato.
Paolo associa all’espressione ‘Sapienza divina’ il termine ‘mysterion’ che, in greco, designa una ‘realtà nascosta’ in Dio e che corrisponde almistero di Cristo’, al ‘mistero di Cristo crocifisso’.
La ‘logica della Croce’ é, dunque, la ‘logica del paradosso’, tanto di una perfetta coesistenza di contrari, quanto del rovesciamento di una cosa nel suo opposto. La Divina Maestà viene esaltata, nel Logos incarnato, proprio attraverso l’umiliazione della Vittima offerta, e questo contrasto non può essere facilmente assimilato dalle sole facoltà naturali seppur disciplinate. Solo i ‘perfetti’ nella fede possono “gustare” le infinite ricchezze racchiuse nelmysterium crucis’.
Del resto, Paolo é convinto dell’inadeguatezza dei discorsi umani e delle categorie concettuali ad intendere quelle che sono le verità di fede. Quindi, la ‘scienza teologica’ non va confusa con la ‘sapienza divina’, pur avendo la sua legittimità teorica, in quanto é pur sempre un sapere razionale umano, parziale e limitato, pur essendo illuminato dalla fede.
Lo Spirito Santo aiuta ad aprire non soltanto la mente del fedele, ma  anche ilcuore’ a quanto Cristo gli ha rivelato, onde permettere una penetrazione interiore del dato evangelico che lo renda forza operante. Ma lo Spirito Santo si serve dell’Apostolo come di colui che si lascia ammaestrare e, con l’illuminazione, riesce a trovare le parole giuste per presentare agli ‘spirituali’ (non agli psichici) il suo messaggio di salvezza, “agli spirituali adattando cose spirituali” ( 1 Cor. 2,13 ). All’uomo psichico -che ritiene la ragione il metro di tutte le cose- si distingue, fino ad opporsi, ‘l’uomo spirituale’, colui che si dispone a pensare e ad agire sotto la mozione dello Spirito Santo.
Se sussiste opposizione tra due categorie di uomini (e, perché no, anche tra due categorie di credenti), ciò non vuol dire, per forza, che debba esserci un’opposizione di principio tra la ‘psiché’ e il ‘pneuma’. Non é che nella mente delperfetto’ venga eliminato, o quanto meno sostituito, l’aspetto psichico dell’uomo : anzi esso viene informato e potenziato dallo Spirito Santo. I grandi studiosi della mistica cristiana hanno insegnato le vie della purificazione dei sensi e dell’intelletto, e su come le facoltà e le potenze mentali devono essere padroneggiate lungo la strada della perfezione cristiana.
E’ pur vero che tra l’uomo psichico e quello spirituale non può darsi proporzione recettiva, in quanto l’inferiore non può scrutare le cose che appartengono ad un ordine superiore e, pertanto, non può comprenderle. Lo spirituale può discernere le cose che gli appartengono e può giudicare l’inferiore (1). Ma può conoscere, solo perrivelazione’, il ‘disegno di salvezza’, finendo per conformarsi al Figlio di Dio. Chi crede con pienezza, ha la possibilità di concepire e di giudicare tutto con la ‘mente di Cristo’ ( il noùs ). “Per conto nostro, noi abbiamo la ‘mente di Cristo’ ” ( 1 Cor. 2,16 )
Ma finché ci si rimane ancora contrassegnati dall’egoismo e dalla volontà di appropriazione, ci si lascia condizionare da una logica carnale dura ad essere superata. Quindi, comunicare a degli immaturi una sapienza elevata é come offrire un cibo solido a dei lattanti ( 1 Cor. 3,1–4 ).
 
 
Il tema della ‘resurrezione dei morti’  ( 1 Cor. 15, 1- 58 )
 
Paolo scrive ai cristiani di Tessalonica ( siamo più o meno intorno al 51 E.V. ), esponendo una escatologia imperniata sul ritorno del Signore Gesù, ma che non va avvertito come imminente, pur raccomandando nei neofiti la perseveranza nella fede e nell’operosità.  Questa chiesa non presenta alcuna difficoltà ad assimilare il duplice dato rivelato della Resurrezione corporea di Cristo e di tutti gli uomini nel momento finale della loro storia.
Invece, la comunità di Corinto, proprio su questo articolo di fede, manifesta le sue perplessità.
Paolo deve intervenire per ribadire la storicità e le modalità dell’evento della Resurrezione.
E’ probabile che alcuni neoconvertiti siano indotti ad interpretare questa credenza biblica solo in un senso mistico e figurativo. Non si riesce ad accettare, fino in fondo, una ‘resurrezione dei morti’ nell’ultimo giorno stabilito da Dio :
“Ora, se di Cristo si predica che é risorto dai morti, come mai alcuni fra voi dicono che non c’é la resurrezione dei morti ?  Che se la resurrezione dei morti non c’é, neppure Cristo é risorto. Se poi Cristo non é risorto, é dunque vana la nostra predicazione ed é vana anche la vostra fede. Anzi siamo trovati perfino falsi testimoni di Dio, poiché per Iddio testimoniammo che risuscitò Cristo, che egli invece non risuscitò, se davvero i morti non risorgono” ( 1Cor. 15, 12-15 ).
Indubbiamente, in queste persone é forte il pessimismo circa la materia e radicata la convinzione che il corpo sia la prigione dell’anima. Pur ammettendo l’immortalità di quest’ultima come gli Orfici, i Pitagorici e i Platonici, che senso avrebbe tornare di nuovo a vivere con il proprio corpo ?  Del resto, é così diffuso nella mentalità ellenica il preconcetto secondo il quale meglio sarebbe non essere mai nati e cercare di morire al più presto, soprattutto quando si é giovani.
L’Apostolo di Tarso si impegna per sostenere, al riguardo, un inedito principio teologico. Se Cristo non é risorto, vana é la nostra predicazione e vana la vostra fede !  ( 1 Cor. 15,14 ). Che senso ha parlare della resurrezione dell’uomo Gesù e negare, nel contempo stesso, quella futura di tutti gli altri uomini ?  Il Nostro svolge il proprio ragionamento in due direzioni : a ) ribadire la certezza e la veridicità della resurrezione corporea di Gesù, per poi sottolineare questa come il fondamento teologico e storico di quella futura di tutti gli uomini; b) esporre l’argomento della “reductio ad absurdum”.
Da un lato egli fa appello non solo alla testimonianza personale di un incontro diretto ed immediato con il Risorto sulla via di Damasco :
“….ultimo tra tutti apparve anche a me, come a un abortivo” ( 1Cor. 15, 8 ).
Che é poi una cristofanìa posteriore rispetto alle apparizioni di cui hanno beneficiato gli Undici, compreso Cefa ( 1Cor. 15,5 ). Addirittura il Risorto è apparso “in una volta sola, a più di cinquecento fratelli” ( 1 Cor. 15,6 ), molti dei quali vivono ancora in Palestina all’epoca della stesura delle due Lettere ai Corinzi, potendo essere interrogati circa questo evento della Resurrezione. Tutti soggetti che –a differenza di Paolo- hanno conosciuto e frequentato Gesù durante la sua vita terrena.
A ben leggere la Prima Lettera ai Corinti e riflettere proprio su questa tematica, il Nostro non tanto si sofferma sulla Resurrezione di Cristo, considerandola come premessa storica di quella futura di tutti gli uomini nell’ultimo giorno. L’Apostolo non sembra argomentare dal fatto storico obiettivo, ma intende partire dall’ipotesi della non-resurrezione dei corpi, per dichiarare assurda la posizione di chi ritiene che Cristo sia risorto dai morti. Ipotesi che si scontrerà, però, con un dato storicamente accertato.
Paolo crede, tuttavia, nella forza logica stringente di un ragionamento indimostrato ( come quello formulato in 1 Cor. 15, 13-15 ) e la oppone ai negatori dei suoi articoli di fede. Ed é tanto convinto della validità di questa argomentazione da non sottovalutare il potenziale tragico e distruttivo delle sue conseguenze sul piano morale ed esistenziale :
Se non si dà la resurrezione dei morti, allora Cristo non é risorto. E se non é risorto, allora vane sono la nostra predicazione e la vostra fede. Voi rimanete nei vostri peccati. E i vostri cari estinti che sono morti nel nome di Cristo sono perduti.
Questo ragionamento indimostrato di Paolo, la “reductio ad absurdum”, parte da un’ipotesi di fondo che non é una certezza di tipo matematico. Il rapporto che sussiste tra il conseguente e l’antecedente non solo é di connessione, ma risulta valido e corretto.
Se non si dà la resurrezione dei corpi, neppure Cristo é risorto ( se “non p”, dunque “non q” ). E se Cristo non é risorto da morte, sono vane la nostra predicazione e la vostra fede ( ma “non q”, dunque “non r” ).
Si tratta di un’argomentazione condotta in via ipotetica ( “se….ma….dunque” ) e per giunta attraverso la negazione.
Ma sappiamo che Cristo é risorto. Il contrario del conseguente conclude il contrario dell’antecedente : Cristo é risorto, dunque tutti gli uomini risorgeranno  ( se “p”, dunque “q” ).
Questa ri-conversione del ragionamento si regge sulla fede nella “buona novella” della resurrezione corporea di Cristo, attestata dagli Apostoli e da numerosi testimoni oculari.
Se non ci fosse il dato della Resurrezione, il Cristianesimo crollerebbe totalmente. Non varrebbe a salvarlo neanche la riflessione sull’ipotesi dell’immortalità dell’anima, portata avanti da S. Giovanni Crisostomo (3) nel suo commento alla Prima Lettera ai Corinzi :
Ma che dici, Paolo ?    Come speriamo solo in questa vita se i corpi non risorgono, quando resta l’anima immortale ?”.
Ma l’autorevole Padre della Chiesa ignora la constatazione secondo la quale, all’epoca dell’Apostolo dei Gentili, non tutti i Greci ripongono fede in questa credenza (  come, per l’appunto, i filosofi materialisti ), per cui quella nell’immortalità dell’anima rimane una fredda ipotesi che non riesce  ad alimentare una speranza in una felice vita ultraterrena. Ha ragione Mons. Cipriani quando sostiene che non si può, al di fuori del Cristo, fondare la speranza sull’esercizio di una qualche virtù o su una presunta “tranquillità della propria coscienza” (4). Gli Stoici, inoltre, considerano la virtù come il bene supremo da ricercare in questa vita terrena, ma non tale da garantire una felicità oltremondana. Senza la Resurrezione di Gesù non c’é né redenzione né riscatto.
Cristo é risorto dalla morte, dunque tutti beneficeranno della Resurrezione, in forza della legge della nostra assimilazione e solidarietà con il Figlio di Dio. Come Adamo ha accomunato tutti i suoi discendenti in un destino di disobbedienza e di morte, così Cristo assimilerà, nel suo trionfo immortale, tutti coloro che sono uniti a lui nell’amore.
Una prima aporia esegetica la si riscontra nell’uso che fa Paolo del termine greco “ télos”, cioè la ‘fine’.
Occorre capire se l’Apostolo intende la resurrezione corporea in senso universale o solo per alcuni :
“Come infatti in Adamo tutti muoiono, così anche in Cristo tutti saranno vivificati. Ciascuno però nel suo ordine : primizia Cristo; poi coloro che sono di Cristo, al momento della sua Parusìa; quindi la fine, allorquando egli consegnerà il regno al Dio e Padre,…” ( 1 Cor. 15, 22-24 ).
Qualche interprete antico e moderno ( come Teodoreto di Ciro oppure Lietzmann, Loisy e Schweitzer ) ha pensato che, con “fine”, Paolo abbia inteso il “resto dell’umanità”, alludendo ad una terza classe di risorti, cioé gli empi oppure i giusti che hanno ignorato il Vangelo. Come osserva lo stesso Mons. Cipriani, una tale interpretazione si regge su una giustificazione filologica assai debole, dal momento che il termine “télos” ricorre nel discorso escatologico di Gesù riportato dai Sinottici ( Mt. 24,6.13-14; Mt. 28,30; Lc. 21,9; ecc. ) con il significato di cessazione del secolo presente (5).
Non sembrano esserci dubbi sul carattere universale della resurrezione dei morti, dal momento che l’Apostolo stabilisce un’analogìa tra Cristo e Adamo pur con i loro diversi destini. Tutti muoiono in Adamo e tutti saranno vivificati in Cristo, anche se il punto di vista di Paolo sembra rispecchiare solo la condizione dei salvati.
Inoltre, se non si può fondare al di fuori di Cristo alcuna speranza di sopravvivenza ultraterrena, allora appare “ragionevole” la preoccupazione di darsi ai piaceri della carne, e l’Apostolo riporta una citazione di Is. 22,41 :
“Se i morti non risorgono,mangiamo e beviamo : domani infatti moriremo’” ( 1 Cor. 15, 32 ).
Quella che fa il non-redento é un’affermazione grossolana, ma abbastanza plausibile. E addirittura vincente. E Paolo non si contrappone ad essa con l’argomentazione del filosofo che sostiene l’immortalità dell’anima. Per il pio israelita l’individuo umano é un tutt’uno, é un’unità psicofisica che vive o che muore. Che senso ha, per lui, un girovagare dell’anima indipendentemente dal corpo ?   Pur nell’ipotesi che sopravvivesse, la sua condizione sarebbe talmente infelice tanto nello Sheol biblico, quanto nei Campi Elisi o nella valle tartarea della religione ellenica, da non essere auspicata proprio per niente. Allora apparirebbe più desiderabile, per quanto ripugnante, una vita superficiale, inoperosa e licenziosa.
Come pure :  che senso potrebbe avere la ricerca della virtù per se stessa, come vorrebbero gli Stoici ?  Indipendentemente dalla nostra salvezza e dall’amore per Dio ?
Contro coloro che negano la resurrezione dei morti, Paolo offre ai credenti un ammonimento per metterli in guardia contro un contesto che sembra avvelenare, con i suoi preconcetti filosofici oppure con un marcato senso edonistico della vita dei più, la purezza della loro fede assimilata dall’Apostolo. E lo fa menzionando un detto che il drammaturgo Menandro ( 342 – 291 prima dell’E.V. ) riporta nella sua commedia ‘Taide’ :
“Le conversazioni cattive corrompono i buoni costumi” ( 1 Cor. 15, 33 ).
Altre due citazioni desunte dalla cultura greca ( come At. 17,28 che si riferisce ad un detto del poeta Arato di Soli, e Tito 1, 10-11 che registra un verso del filosofo Enesidemo di Cnosso  ) non devono, però, indurci a pensare ad una probabile educazione classica dell’Apostolo delle Genti. Piuttosto, vanno intese come “modi di dire” a guisa di proverbio ricorrenti sulla bocca di tutti. Paolo si trova, infatti, a vivere in un mondo ellenistico originariamente non suo e, certamente, recepisce schemi mentali, concetti, luoghi comuni propri di questo ambiente.
L’ammonimento si conclude con queste parole :
Risvegliatevi dalla crapula come conviene e non vogliate peccare. Taluni, infatti, hanno ignoranza di Dio; ve lo dico per vostra confusione” ( 1 Cor. 15, 34 )
Scrivendo da Efeso, la patria di Eraclito, é probabile che Paolo abbia conosciuto anche il suo pensiero, oltre la sua vita. E il termine “risvegliatevi” -che egli usa per correggere i cristiani di Corinto- così familiare all’Oscuro che criticava costumi e consuetudini dei suoi concittadini, squalificati come “dormienti” in quanto “schiavi dell’opinione dei più”. Il termine ‘crapula’ é metaforico, per cui con esso l’Apostolo non intende tanto i piaceri della tavola, quanto piuttosto l’ottenebramento della mente nell’errore e, conseguentemente, nel peccato.
Tuttavia, tra i neoconvertiti corinzi, non ci sono solo coloro che negano la resurrezione dei morti, ma anche altri che l’accettano, interpretandola però in modo difforme dalla tradizione apostolica. Questo loro insegnamento offre lo spunto a Paolo per un intervento rettificatore. La Resurrezione di Cristo e di tutti gli uomini potrebbe essere intesa anche in un senso figurato o allegorico, o semplicemente morale. E pensare che mancano ancora quarant’anni circa alla comparsa di quella che sarà la dottrina docetica che tanto avrà successo nell’ambito della Chiesa primitiva, contro la quale saranno impegnate, vittoriosamente, le migliori energie dei Padri Apologisti per confutarla e vincerla.
E se gli Apostoli, invece di una visione obiettiva del loro Maestro risorto, avessero avuto una consapevolezza superiore della loro partecipazione al mistero della morte di Cristo e da questa si fossero illusi su un ritorno alla vita di Gesù ?   Del resto, la tomba vuota rimane pur sempre un mistero.
Risulta chiaro che a Paolo non basta confutare una tale opinione protognostica con il richiamo all’obiettività e veracità delle cristofanìepost-resurrectionem”, ma cerca anche di illustrare le modalità di un evento così miracoloso ed eccezionale.
Come avviene la resurrezione corporea ?
E’ pacifico che non risorge il corpo di prima destinato alla corruzione. Non si ha una ricostituzione di organi, di ossa, di giunture, di arti, ecc…..Pur tuttavia l’identità personale rimane la stessa nel corpo mortale e in quello risorto. Per rendere ragionevole un mistero tanto solenne quanto profondo, Paolo si serve di analogìe in relazione all’esperienza quotidiana. Alcune sono attinte dal mondo vegetale.
E’ chiaro che il seme deve morire per produrre o il frumento o il frutto o l’albero. Vale a dire : deve subire delle trasformazioni. Il frumento o l’albero, però, non sono estranei rispetto al seme, dal quale sono derivati.
Altre analogìe sono desunte dalla costituzione fisiologica dei corpi animali. “Non ogni carne é la stessa carne” ( 1Cor. 15, 39 ), in proporzione, qualità e quantità.
Ora, se la Sapienza divina é talmente onnipotente da suscitare una variabilità di forme così insolite e diverse, tanto più sarà in grado di operare una trasformazione da un corpo destinato alla morte ad uno incorruttibile e vivificato, senza che questo passaggio possa compromettere la stessa individualità, soggetto dell’uno e dell’altro corpo.
Che senso avrebbe tornare ad assumere lo stesso corpo animale di prima, cretaceo come lo chiama l’Apostolo ?  Tra l’altro perituro e destinato alla sofferenza, alla fatica, alla vecchiaia e alla morte ?  La resurrezione dei morti non é e non sarà una semplice rianimazione. Che Gesù, nel suo ministero pubblico, e alcuni Profeti come Elìa ed Eliseo, nella storia millenaria di Israele, abbiano operato casi di rianimazione ( e, quindi, di ritorno alla vita peritura ) -anche a distanza di giorni- é risaputo.
Ma la Resurrezione di Cristo e di tutti gli uomini nell’ultimo giorno é ben altra cosa !
Teniamo conto anche dell’antropologìa biblica di cui Paolo é debitore. L’uomo può essere considerato secondo tre accezioni in relazione alla sua corporeità : anima vivente ( nefésh ), spirito incarnato (ruàh), carne decaduta e finita (basàr).
“Si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale. Se c’é un corpo animale, c’é anche ( un corpo ) spirituale. Così anche é scritto : ‘Il primo uomo, Adamo, diventò anima vivente’ ( Gn. 2,7 ), l’ultimo Adamo ( diventò ) Spirito vivificante. Però il primo non é lo spirituale, ma ciò che é animale; dopo ( viene ) lo spirituale. Il primo uomo é dalla terra, fatto di creta; il secondo uomo é dal cielo. Quale il cretaceo, tali anche i cretacei; e quale il celeste, tali anche i celesti. E come portammo l’immagine del cretaceo, porteremo pure l’immagine del celeste”. ( 1Cor. 15, 44 – 49 ).
Questa trasformazione –che si accompagnerà alla Resurrezione- provvederà ad arricchire il nuovo corpo vivificato di qualità e di doti che lo renderanno diverso rispetto al corpo animale o psichico, pur appartenuto al medesimo soggetto. Si muore nella debolezza, ma si risorge nella forza ( giovanile, possiamo aggiungere noi ). Poi – vale per i redenti- si semina nell’ignominia ma si risorge nella gloria.
Questa riflessione motiva il comandamento di fuggire la fornicazione. Il nostro corpo vivificato assumerà lo splendore di Dio, perché sarà animato dallo Spirito Santo che perfezionerà anche le doti dello psichico e asseconderà tutte le aspirazioni definitive dell’uomo caduco.
Fuggire la fornicazione e l’egoismo significa tracciare anche una linea di condotta per il credente, “presentandogli un ideale di perfettibilità indefinita” (6)
“Stolto che sei !”   ( 1 Cor. 15,36 ) : dice Paolo riferendosi a chi ironizza su “un’apparente grossolanità” della predicazione apostolica sul dato della resurrezione dei morti. Quindi, nessuna ricostituzione organica e fisiologica del corpo perituro. Con qual corpo i defunti ritorneranno apparirebbe una questione oziosa, non degna di uno spirito avveduto.
Eppure, a ben riflettere, anche i Greci  ( come, al contrario, i popoli semitici, gli Egiziani con il loro mito di Osiride, i Persiani con gli insegnamenti di Zoroastro, ecc. ) potevano giungere ad una minima percezione di questo mistero, proprio ragionando su queste analogìe prese in prestito dalla natura. Con grande meraviglia di Paolo, alcune correnti hanno postulato l’immortalità dell’anima, altre l’hanno decisamente negata, ma nessuna ha espresso dubbi su una vittoria definitiva della morte.
“Se c’é un corpo animale, c’é anche ( un corpo ) spirituale. Così anche é scritto : ‘Il primo uomo, Adamo, diventò anima vivente’ ( Gn. 2,7 ), l’ultimo Adamo (diventò) Spirito vivificante. Però il primo non é lo spirituale, ma ciò che é animale; dopo ( viene ) lo spirituale”  ( 1Cor. 15, 44-46 ).
Paolo asserisce l’incontrovertibilità del passaggio da un corpo animale ad un corpo spirituale ( “però il primo non é lo spirituale, ma ciò che é animale; dopo viene lo spirituale ), da un corpo animato dalla ‘psiché zosan’ ad un corpo penetrato dallo ‘Spirito di Dio’, denominato ‘pnéuma’, che in esso agisce mediante il ‘noùs’ ( la mente ), soprannaturalmente elevato e potenziato (7).
La 1 Cor.15, 44-46 può facilmente sconfessare la successiva dottrina docetica, secondo la quale Cristo avrebbe assunto un corpo apparente e in realtà non sarebbe morto sulla croce. Non regge neppure l’esegesi di Joachim Jeremias, al riguardo, che finisce per ravvisare in Cristo un eone celeste o una specie di uomo primordiale che sta all’inizio e preesiste all’uomo terrestre. Paolo ha parlato chiaro : il primo Adamo diventò anima vivente, l’ultimo Adamo diventò Spirito vivificante. E queldiventare’ dice tutto. La glorificazione é un processo ontologico che viene dopo e all’ultimo stadio della storia umana. Ciò non toglie che tale processo si realizza in un senso morale e religioso già in questa vita, mediante la ‘grazia’.
“Ecco che io vi annunzio un mistero : tutti, certo, non ci addormenteremo, ma tutti saremo trasformati in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba : suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati” ( 1 Cor. 15, 51-52 ).
Paolo ci induce a pensare che il mistero secondo il quale non tutti moriremo l’abbia ricevuto in forza di una rivelazione che non é contenuta nella tradizione apostolica, denominata ‘paradosis’.
Eppure il Nostro é convinto di quanto asserisce, non nascondendo un vivo desiderio di voler essere in carne ed ossa presente a questa seconda venuta di Cristo
Del resto, anche il Credo Niceno-Costantinopolitano –che recitiamo durante la Messa e le solennità liturgiche- riporta questa citazione : “siede alla destra del Padre e di nuovo verrà a giudicare i vivi e i morti”. Quasi a riferire che la Parusìa avverrà quando sarà vivente l’ultima generazione umana.
Non si può nascondere un senso di disagio di fronte a questa rivelazione, poiché  tutti hanno peccato, tutti discendono da Adamo, anche Cristo è morto, tutti devono morire senza alcuna eccezione.
Mons. Cipriani parla di “quattro lezioni differenti” del versetto 51 (8). La prima é quella già menzionata, rappresentata da antichissimi codici e versioni come la siriana, la copto-saidica, la gotica ed accettata da moltissimi Padri della Chiesa, nonché da Tertulliano e da S. Girolamo. C’é la seconda che riporta il versetto in questo modo : “tutti ci addormenteremo, ma non tutti saremo trasformati” ( lezione dei codici SCFG, 17, della versione armena, di alcuni codici della Vetus latina secondo la testimonianza di S. Girolamo ). La terza cita il versetto : “tutti non ci addormenteremo, ma non tutti saremo trasformati (il solo codice A). Poi c’é la quarta : “tutti risorgeremo, ma non tutti saremo trasformati” ( codice D, moltissimi Padri latini e la Vulgata ).
Le ultime tre lezioni non sono più antiche della prima, risultano essere criticamente insostenibili, pur cercando di correggere la prima. Come la seconda che vuole ammettere la morte di tutti gli uomini precedente la resurrezione universale. La seconda, la terza e la quarta mirano ad escludere gli empi dal processo miracoloso di trasformazione in corpi incorrotti.
Paolo non ritiene imminente la seconda venuta di Cristo. Non possiede la certezza né di essere vivo né di essere morto all’indomani del Grande Evento. Insomma, tutti noi -vivi o morti- saremo trasformati o trasfigurati in corpi spirituali. In lui non assume neanche grande importanza se sussisterà una generazione ancora vivente o meno al momento della Parusìa.
Va subito al nocciolo della questione : tutti saremo trasformati in forza di un atto divino, repentino ed immediato. Questa portentoso miracolo sarà accompagnato da una solenne e spettacolare manifestazione di Dio, dove la “tromba” assume la qualità di un elemento descrittivo dal sapore apocalittico già nell’A.T. per narrare le epifanie di Jahveh.
 
 
 
 
NOTE :
 
*Fino ad essere considerata dai Greci una divinità femminile con il nome di ‘Ananke’ alla quale niente sfugge.
(1)  Giuseppe Barbaglio, “Lettere di Paolo ai Cristiani di Corinto” in “Corso Biblico Superiore : ‘La via della salvezza’. Guida alla lettura della Bibbia”, ISSR. “Ut Unum Sint”, p. 95.
(2)   Settimio Cipriani, “Le Lettere di S. Paolo”, Cittadella Editrice, pp. 130 – 132;     
(3)   op. cit., p.  222;
(4)   op. cit., p.  222;
(5)   op. cit., p.  223;
(6)   op. cit., p.  230;
(7)   op. cit., p.  229;
(8)   op. cit., p.  232.
 
 
 
 


 


Fonte : scritti e appunti di Francesco Cuccaro , e-mail  cuccarof@alice.it  .











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