TEOLOGIA BIBLICA DEL NUOVO
TESTAMENTO
Le tematiche della
sapienza umana e della Sapienza divina e della resurrezione dei morti nella
Prima Lettera ai Corinti di Paolo di Tarso
di Francesco Cuccaro
Premessa
Nel suo secondo viaggio missionario, Paolo si trova a diffondere il messaggio di
Cristo in Grecia. A Tessalonica
converte numerose persone, servendosi del contributo di Sila e Timoteo.
A quanto si legge dagli Atti, non sembra che il suo brevissimo soggiorno ad
Atene sia stato programmato, anche se la capitale
dell’Attica diviene una tappa obbligata per
svolgere altre peregrinazioni.
In questa città ( siamo più o meno
intorno al 49 E.V. ), tuttavia, Paolo dà sfogo al suo dinamismo missionario, ma
vi sperimenterà un colossale fallimento. Si trova direttamente di fronte ad
interlocutori già professanti l’idolatrìa
vera e propria. E neanche
tanto facili da superare diffidenze addirittura nei confronti di uno straniero
banditore di nuovi culti, di un predicatore barbaro.
Paolo ha il senso del limite e delle proporzioni ma, convinto della ‘potenza
della Parola’ ( del
‘Dabàr’ ),
della ‘Parola di Dio’,
non si lascia scoraggiare. Anzi, entusiasticamente, si rivolge a quelli che
possono apparirgli le energìe
intellettuali più vivaci di tutta la cittadinanza ateniese.
Questo capitolo degli Atti degli Apostoli (
At. 17, 16-34 )
può essere visto come la documentazione di una
sfida della Rivelazione biblica nei confronti dell’Ellenismo più puro,
cioé diverso da quello
già incontrato nei territori grecofoni
del Medio Oriente. Anzi, appare un confronto critico non tanto verso le forze
naturali dell’uomo che si esprimono nel genio poetico, letterario, filosofico,
artistico-figurativo
della civiltà ellenica, quanto nei confronti dell’orientamento razionalistico
difeso e custodito dalle migliori menti dell’epoca.
Ma un confronto critico non dà adito per forza
ad una controversia o polemica. Paolo ricerca con questi intellettuali ateniesi
un punto di equilibrio tra
le loro posizioni e le esigenze della sua predicazione.
Quale può essere un fertile terreno d’incontro tra due visioni della vita e
della religione così differenti tra loro ? Per
esempio : la critica
all’antropomorfismo della religione e della
mitologìa olimpiche. E’ innegabile lo sforzo
positivo condotto da
alcuni filosofi greci nel concepire Dio come primo principio cosmologico,
secondo una tendenziale linea che va, grosso modo, da
Senofane di
Colofane a Platone, da
Aristotele a Plotino.
Menzionando un verso poetico di
Arato di Soli, ripreso e modificato dallo stoico Cleante di Asso ( At.
17, 28 ), Paolo riconosce
questo sforzo, ma anche la sua insufficienza a debellare il politeismo con la
conseguente idolatria. Come pure avverte -lui straniero- la difficile
coesistenza tra la
convinzione in un unico e superiore Dio, come sembra testimoniare la presenza di
un’ara dedicata al Dio ignoto ( At. 17,23 ), e la credulità superstiziosa del
popolino. Inoltre, deve anche misurarsi con lo
scetticismo che pervade il contesto
culturale dei ceti medio-alti.
Immaginiamo una scommessa che Paolo fa a se stesso, con il proposito di
vincerla, incentrata proprio su quell’altare
con la dedica ad una divinità sconosciuta che sembra essere indeterminata, senza
volto e senza forma. Luca riporta fedelmente il testo della predica tenuta all’Areòpago
( sede del tribunale, ma anche luogo di discussioni pubbliche )
:
“Allora Paolo, alzatosi in mezzo all’Areòpago,
disse ‘Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati
degli déi. Passando
infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato
anche un’ara con l’iscrizione : Al Dio
ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio.
Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che
contiene, che é signore del cielo e della terra, non dimora in templi
costruiti dalle mani dell’uomo, né dalle mani dell’uomo si lascia servire come
se avesse bisogno di qualche cosa, essendo lui che dà
a tutti la vita e il respiro e ogni cosa” (
At. 17,22-25 ).
Fermiamoci un attimo. Il ragionamento
che fa il Nostro é abbastanza pertinente per un evoluto spirito greco, fino ad
essere ritenuto ovvio e di una sorprendente banalità. Nel senso
che l’Apostolo non ha detto nulla di nuovo, considerando Dio come
Colui che ha fatto il
mondo e tutto ciò che esso contiene. Paolo ha evitato di presentare una dottrina
della creazione dal nulla, forse per misura prudenziale. Un discorso come questo
lo avrebbe portato lontano dai suoi obiettivi e forse urtato più di tanto la
suscettibilità dei suoi ascoltatori che considerano la materia
come eterna.
Quindi, l’idea di un Dio che ha fatto il
cielo e la terra non é estranea alla mentalità di chi sostiene la demiurgica
ordinazione del mondo dal caos primigenio. Pertinente può apparire
anche il discorso di una derivazione da una sola coppia originaria di tutto il
genere umano :
“Egli creò da uno solo tutte le nazioni
degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per
essi ha stabilito l’ordine
dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a
trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In
lui infatti viviamo, ci
muoviamo ed esistiamo, come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto :
‘Poiché di lui stirpe noi
siamo’ ” ( At. 17,26-28 ).
Un discorso che avrebbe tuttavia urtato gli interessi di profittatori senza
scrupoli e pronti a strumentalizzare
l’ingenua credulità popolare, onde ottenere lauti guadagni, come sarebbe
accaduto, di lì a qualche anno, ad Efeso con il celebre tumulto di Demetrio e
degli argentieri ( At. 19, 21-41 ).
“Essendo noi stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile
all’oro, all’argento e alla pietra che porti l’impronta dell’arte e
dell’immaginazione umana” ( At.
17,29-30 ).
C’é un fondo velato di
ironia in questa esclamazione. I migliori cervelli arrivano a
soprannaturalizzare il
divino, ma la base popolare rimane ancora legata a credenze superficiali e ormai
superate.
“Dopo esser passato sopra ai tempi dell’ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli
uomini di tutti i luoghi di ravvedersi, poiché egli
ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per
mezzo di un uomo…..”
( At.17,
30-31 ).
Neanche dopo l’incontro, sulla via di Damasco, con il Signore risorto, Paolo
abbandona quello che si potrebbe dire lo zelo integralista
del pio israelita riguardo alla giustizia di
Jahveh, alla condanna del peccato e dell’idolatrìa,
alla punizione universale di tutti gli uomini ( senza
l’intervento provvidenziale di un
uomo ).
L’ Apostolo delle Genti non ha peli sulla lingua
: questo zelo lo esibisce anche, e soprattutto, nei confronti
degli idolatri. Onde la necessità di una ‘conversione’ o ‘ravvedimento’ di
questi ultimi, cioé un
‘cambiamento di mentalità e di
vita’.
Ecco la rivelazione sconcertante :
“.....giudicare la terra
con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova
sicura col risuscitarlo dai morti” ( At 17,31 ).
Ma
Dio non sembra premiare subito questo zelo rigorista del suo inviato. Questa
comunicazione così rapida e immediata non dà il risultato sperato. Il pubblico
non solo non aderisce al messaggio di Paolo, ma lo rende oggetto di scherno e
di irrisione.
Beninteso, questa fiducia dell’Apostolo nella ‘potenza della
Parola’ non verrà mai
meno, né durante né dopo l’apparente sconfitta subita all’Areòpago
di Atene. Avvertirà la
consapevolezza che essa debba
andare adeguata alle aspettative, alle esigenze, agli schemi mentali, ai
pregiudizi degli uomini, ai tempi opportuni, secondo una
pedagogìa progressiva. Lo smacco
di Atene, deplorevole in
se stesso, ha avuto il merito di inculcare nel predicatore e in noi il rispetto
della dignità e della libertà della persona umana che Dio non violenta.
L’integralismo religioso va, pertanto, umiliato.
Non si formerà mai una vera e propria comunità cristiana ad Atene, almeno fino
al IV secolo quando il
Cristianesimo diverrà la religione ufficiale dell’Impero Romano.
Fatta eccezione per un piccolo numero di
convertiti, come Dionigi e
Damaris durante il soggiorno
paolino
( At. 17,34 ), la capitale
dell’Attica rimarrà, per lungo tempo, la
roccaforte inespugnabile della resistenza dell’Ellenismo pagano al Vangelo.
Questo ci sembra l’orizzonte di minima intelligibilità nel quale situare
l’insuccesso del kerygma
apostolico ad Atene, sempre che Luca ci
garantisca la fedeltà testuale di quello che
Paolo ha detto e ha fatto, e che il suo racconto non sia piuttosto un riassunto.
L’immediatezza di una notizia relativa ad un evento storico, quale la
resurrezione di un uomo dalla morte, e il vago accenno ad una credenza, diffusa
nell’ambiente palestinese, concernente un ritorno dalla morte alla vita per
tutti gli uomini in un giorno stabilito da Dio, scandalizzano il pubblico
ateniese abituato, da secoli di
educazione filosofica e retorica, ad una ricerca di prove
ferreamente logiche e ad
un consequenziale tessuto di dimostrazioni, per la gioia di Piergiorgio
Odifreddi.
Il testo lucano della predica di Paolo offre -potremmo dire- dei chiaroscuri,
nel senso che non vengono
citati quegli argomenti di carattere biblico che legano la precedente
affermazione dell’esistenza di un Dio superiore e nascosto al tema del giudizio
universale e a questo insolito discorso sulla resurrezione dei morti.
Se
ci mettessimo dalla parte degli interlocutori, pure noi potremmo meravigliarci
non solo del senso oscuro delle parole di Paolo, ma soprattutto della mancanza
di nesso logico nel passaggio da un tema all’altro.
Ma non che Paolo non sia consapevole di
questa inevitabile difficoltà. Dopo lo smacco
di Atene e durante la sua permanenza a
Corinto, l’Apostolo sarà assillato da questo dilemma :
come e a chi presentare il Cristo crocifisso e
risorto ?
Questo celebre discorso all’Areopago nasce dall’improvvisazione e
dall’entusiasmo, finanche eccessivo e forse anche ingenuo, nell’immediatezza
riguardo i copiosi frutti
in termini di miracoli, di conversioni, di trasformazioni interiori che una
‘rivelazione soprannaturale’
comporta, omettendo le stesse prove logiche e storiche sulle quali essa, pur
tuttavia, si basa ? Oppure il testo lucano sembra suggerire la presa di
coscienza, da parte dell’Apostolo, della mancanza, per così dire, di tempi
tecnici per preparare un discorso più articolato, stringente e consequenziale ?
Come pure Paolo ha tenuto conto della totale mancanza di conoscenza -da parte
degli Ateniesi- delle Sacre Scritture ebraiche e degli schemi culturali del
popolo eletto. Era opportuno, in quel momento,
dire che : Dio ha creato dal nulla la prima
coppia umana ? Questa ha peccato contro Dio e ha fatto incorrere il genere
umano nella sua “ira”? Occorreva parlare della necessità della redenzione dal
peccato e dalle sue conseguenze per opera dello stesso Dio che doveva assumere
la natura umana, incarnandosi, diventare un israelita, per poi morire di una
morte infamante e, successivamente, risorgere ? Che
il popolo ebraico é stato il primo depositario di questa rivelazione di salvezza
attraverso i profeti ?
Anche una misura prudenziale può rendere comprensibili tutte queste
omissioni, ma é stata
assente quando si é parlato apertamente della resurrezione dei morti (
figuriamoci, poi, se Paolo avesse insistito sul Cristo morto in croce ).
Il minimo che gli é capitato é stata la
compassione. I suoi connazionali più fanatici gli avrebbero riservato, senza
tanti complimenti, il peggio :
la lapidazione!
Tutte e tre le ipotesi per cercare di gettare uno spiraglio di luce sul mistero
di questo clamoroso fallimento del discorso paolino all’Areòpago
sono egualmente valide. Rimane tuttavia una certezza
: l’esternazione dell’Apostolo serba i caratteri dell’avventura,
del rischio e dell’imprevedibilità che sfugge ad ogni calcolo premeditato.
Questo tema della ‘resurrezione dei
morti’ é per giunta
estraneo alla mentalità ellenica e non condiviso pienamente da
tutta la nazione ebraica ( alcune correnti religiose, come quella dei
Sadducei, la contestano
addirittura ).
Presso i Greci -e finanche in alcune popolazioni mediorientali- sussiste una
sorta di pessimismo circa la sopravvivenza ultraterrena. Si avverte in
essi un atteggiamento
fatalistico estremo dove domina sovrana l’inesorabile legge della necessità e
del determinismo che non permette deroghe di alcun
tipo, quale può essere ritenuto il
miracolo*. Da secoli l’immaginario collettivo ha sempre insistito
sul tema dell’immortalità estendendola
agli déi ed agli eroi della
mitologìa olimpica e delle religioni
misteriche.
Immortalità vissuta nel sogno e nel
desiderio, difficilmente provata, dal punto di vista filosofico, per quanto
concerne la sopravvivenza delle anime umane. E su questo punto le
scuole di pensiero dell’epoca si contrappongono l’una all’altra
: i Platonici la sostengono in modo deciso e, con gli Orfici, la
collegano alla reincarnazione; mentre, al contrario, gli Stoici e gli Epicurei
la contestano.
Per non parlare poi del
disprezzo unanime verso il corpo e la materia intesi –ontologicamente-
come irrilevanti, oltre ad essere corruttibili, anche se viene più che tollerata
ed incoraggiata la ricerca dei piaceri della tavola e del sesso.
Un tale disprezzo viene
portato all’estremo, invece, dai sostenitori di correnti di pensiero
dualistiche.
L’argomento della ‘resurrezione dei
corpi’, accennato da Paolo nel suo discorso all’Areòpago,
non solo appare una sorpresa, ma suscita la totale irrisione da parte degli
astanti. Non sarà mai facilmente assimilato dalla coscienza greca, perfino da
chi ha accettato il messaggio di salvezza di Cristo, come testimonieranno le
stesse lettere paoline (
e, in modo specifico, la prima ai
Corinti ).
Con la scomparsa degli Apostoli, la seconda generazione dei credenti vedrà
fiorire posizioni –anche se minoritarie ma con un certo peso nel tessuto
ecclesiale- che rigetteranno
esplicitamente la resurrezione corporea di
Gesù Cristo o la intenderanno in un senso
morale o allegorico o spirituale, esasperando l’aspetto della partecipazione
mistica da parte dei fedeli a questo presunto evento.
Posizioni che saranno alla base del pensiero
docetico e gnostico,
oggetto della letteratura apologistica
successiva a quella neotestamentaria.
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Paolo di Tarso giunge a Corinto e viene
ospitato da un giudeo convertito al Cristianesimo, ma proveniente da Roma a
seguito di un editto di espulsione emanato dall’imperatore Claudio ( siamo
intorno al 50 ) : Aquila. Non solo i due connazionali sono accomunati dalla
medesima fede, ma professano il mestiere di fabbricanti di tende (
At. 18, 1-3 ).
L’ Apostolo attende tempi migliori per riprendere l’attività missionaria,
soprattutto dopo l’arrivo, nella capitale dell’Acaia,
dei suoi discepoli Sila e Timoteo (
At. 18,4 ).
Corinto é una città
commerciale e marittima opulenta, situata sull’istmo omonimo che la fa, in un
certo senso, da crocevia tra l’Oriente e Roma
che, dal 146 prima
E.V.,
la domina direttamente, insediandovi un proconsole di nomina senatoriale
(all’epoca del soggiorno
paolino é
Gallione, probabile
fratello del filosofo latino
Seneca). La capitale dell’Acaia
sembra possedere un volto più pragmatico che speculativo, a differenza
di Atene, anche se non vi
é assente una classe intellettuale che si diletta di
filosofìa e di retorica.
Per il povero Paolo il
quadro non si presenta però, di primo
acchìto, lusinghiero. Incontra, per la prima volta, una
cittadinanza profondamente idolatra e, per di più, dedita al culto
di Afrodite, il cui tempio
sull’Acrocorinto ospita
più di mille prostitute sacre denominate ‘ierodule’,
permettendo in tal modo il fiorente malcostume sessuale. “Vivere alla maniera
dei Corinzi” significa adottare uno stile di vita disordinato.
A Corinto c’é una cospicua colonia giudaica. Questo dato facilita la
predicazione dell’Apostolo che si
impegna nella spiegazione delle Sacre Scritture, in giorno di sabato,
nelle sinagoghe, cercando di dimostrare che
Gesù é il
Messìa annunciato dai Profeti e risorto ( At.
18, 5-8 ).
Paolo subisce dai suoi connazionali incomprensioni ed opposizioni anche
irriducibili, fino all’ostracismo e alla minaccia alla propria incolumità
personale :
“Ma poiché essi gli si opponevano e bestemmiavano, scuotendosi le vesti, disse:
‘Il vostro sangue ricada sul vostro capo: io sono innocente; da
ora in poi io andrò dai pagani” ( At. 18,6 )
Non tutti i Giudei, però, si oppongono al messaggio di Cristo. L’arcisinagogo
Crispo si converte alla
Buona Novella ( At. 18, 8
).
Fortuna vuole che la religione ebraica abbia fatto, da tempo, sia proseliti
che timorati di Dio ( come
Tizio Giusto, At. 18,7 ) anche in questa città.
E costoro saranno, per Paolo, il trampolino di
lancio per l’attività di conversione dei pagani propriamente detti.
N.B. Il nome di Tizio Giusto é latino. I Corinzi del
I secolo non sono tutti greci puri da un punto
di vista razziale.
All’indomani dell’occupazione romana nel
II secolo prima E.V.,
molti veterani andarono a colonizzare i territori di questo centro marittimo e
commerciale, fondendosi con la popolazione locale, “grecizzandosi”. Questo dato
ci dice perché molti abitanti della Grecia e dell’Asia Minore portarono nomi
latini.
Il successo dell’attività missionaria a Corinto non si spiegherebbe senza il
concorso di miracoli, di carismi eccezionali e di mozioni
interiori, ma questo discorso esula dalla
ricerca storico-critica :
“E una notte in visione il Signore disse a Paolo
: ‘Non aver paura, ma continua a parlare e non tacere, perché io
sono con te, e nessuno cercherà di farti del male, perché io ho un popolo
numeroso in questa città’
” ( At. 18,9 )
La difesa del Signore nei confronti del suo inviato non manca in una grave
circostanza. A causa di una sollevazione
giudaica contro l’Apostolo di Tarso, aizzata da un capo della sinagoga di nome
Sòstene,
il proconsole Gallione
fa cessare questa gazzarra, tutelando Paolo e gli altri fedeli (
At. 18,12–17 ).
Paolo rimane a Corinto un anno e mezzo (
At. 18,11 ), coadiuvato da Sila e Timoteo, ma
anche da altri predicatori. Dopo di che
si imbarca, con Aquila e Priscilla, per Efeso, la città ionica per
eccellenza, dove soggiornerà nel terzo viaggio missionario ( più o meno dal 54
al 57 E.V. ).
La comunità cristiana di Corinto cresce numericamente. Un amico
di Aquila di nome Apollo,
un giudeo di Alessandria, anche lui convertito al Vangelo, versato nelle Sacre
Scritture, si impegna con altri predicatori nell’attività
catechetica ( At. 18, 24 - 28 ).
Ma,
dopo tre anni -e il nostro Paolo si trova ad
Efeso- la Chiesa di Corinto comincia a
manifestare tensioni e problematiche al suo interno.........
Che cos’é dunque successo ?
Diversi predicatori –che si alternano l’uno
all’altro- confermano nella fede i
neoconvertiti, lavorando su un campo già arato dall’Apostolo delle Genti.
Ovviamente, chi ammette il
soprannaturalismo sa o almeno ha l’intuizione che in questa
comunità agisce lo Spirito Santo con i suoi specifici doni o ‘carismi’, tra i
quali il ‘discernimento
degli spiriti’, la
profezìa’, l’esorcismo
e, perfino, alcuni doni preternaturali come la ‘glossolalìa’
( la disposizione a parlare lingue diverse e a farsi intendere in quelle stesse
lingue ).
La consapevolezza della straordinarietà di tali esperienze, da parte dei
neofiti, induce molti di essi
a sostenere di far parte già del mondo escatologico e delle realtà ultime,
svalutando quello che é un loro diretto impegno nella storia, l’esercizio della
carità e delle altre virtù, l’osservanza delle principali norme etiche, l’aiuto
fraterno verso i sofferenti e i più svantaggiati che, invece, vengono spinti
all’emarginazione.
Paolo capisce la drammaticità del momento che si prospetta male in questa
chiesa.
Questo ‘enthousiasmos’
non va per niente bene. C’é il rischio
di confondere il culto cristiano con i tanti culti
misterici disseminati in
Grecia e nell’Oriente ellenistico, alimentando lo spirito settario
e un più marcato e deciso individualismo nei rapporti tra gruppo e gruppo, tra
fratello e fratello. Rafforza queste preoccupazioni dell’Apostolo di Tarso la
presenza di alcune
correnti che mirano a compromettere l’unità del tessuto ecclesiale. Partiti che
si richiamano all’autorità di questo o di
quell’apostolo, di questo o di
quest’altro predicatore
o, addirittura, alla stessa persona di Cristo, o alla vanagloria religiosa o
intellettuale ostentata da qualcuno dei missionari.
I ‘carismi’ sono qualità e disposizioni funzionali ad edificare una comunità e
non vanno privilegiati come forze superiori di cui si
debba disporre per esercitare una egemonia o
condizionare l’immaginazione e la debole mente degli altri. Tanto meno vanno
intesi come “esplosioni di
esaltazione comuni ai misteri di Dioniso” (1). Paolo affronta
questo problema nel capitolo 14
della sua Prima Lettera ai Corinzi.
Il fatto stesso di sentirsi
dei ‘predestinati’, in forza di questi doni, invece di alimentare la ‘carità’ e
la ‘umiltà’, corrobora in alcuni credenti l’orgoglio di
esseri superiori, dimenticando la lotta da intraprendere contro il male
che si annida nel cuore di ciascuno e che corrode il tessuto della vita civile.
Considerandosi partecipi di un contesto
santo e glorioso, essi ritengono ormai superflue e superate le disposizioni
etiche, valide solo per i più deboli e gli imperfetti. Si fa avanti,
pericolosamente, quella tendenza che, nei secoli futuri, darà luogo al quietismo
con la sua dottrina eterodossa dell’impeccabilità delle anime mistiche.
Per cui se possiedo questi carismi e sono soggetto ad estasi incontrollate, é
segno che sono benvoluto da Dio che “agisce” in me. Inutile, quindi, che io
padroneggi le passioni.
Con la conseguenza della licenziosità sessuale che tanto preoccupa Paolo,
soprattutto in una città come Corinto dove il vizio diviene non solo un
principio regolativo del
proprio agire, ma una vera e propria
“struttura” sociale.
E’ illuminante il capitolo 10 sempre della Prima Lettera ai
Corinti al
riguardo.
Per Paolo il ‘peccato’ é
‘andare contro la propria coscienza’,
‘andare contro le proprie convinzioni’.
Non ha importanza se si tratta di una coscienza retta o erronea.
Può peccare quel mio fratello debole che ritiene una grave colpa morale cibarsi
delle carni offerte agli idoli dietro il mio esempio.
Io, invece, che so che gli
déi non esistono, ho il giusto convincimento che adeguarsi a quel tipo di
alimento non costituisce nessuna contaminazione.
Ma se, per colpa mia ( e in questo commetto
uno scandalo ), induco un fratello debole ad andare contro il suo errato
convincimento, anch’io commetto un peccato grave contro la carità. Ne segue la
logica conclusione che non mangerò
carne in eterno, in pubblico, se con
quest’atto rovinerò la salute spirituale di un’anima per la quale
Cristo é morto ( 1 Cor. 8, 1-13 ).
Come si può dedurre dalla lettura del capitolo sulle carni immolate agli idoli,
la disposizione a peccare appartiene sia ai ‘deboli’
che ai ‘perfetti’.
Le divisioni tra fedeli e tra partiti ( anche nelle assemblee liturgiche ), la
mancanza di correzione fraterna, l’indulgenza verso il malcostume sessuale (
si
cfr., per esempio, la tolleranza verso
l’incestuoso citata in 1 Cor. 5, 1-13 ), la vanagloria o il compiacimento della
propria santità, sono indici di
egoismo. Non solo pregiudicano finora il lavoro svolto dall’Apostolo, ma
corroborano una falsa percezione della salvezza cristiana.
Le realtà escatologiche sono ancora da venire e occorre impegnarsi sulla via del
bene perché queste si possano attualizzare.
Le
tematiche
della sapienza umana e della Sapienza divina ( 1Cor. 1,18 – 3, 1-4 )
La ‘fede’ é indispensabile
all’attuazione del processo salvifico. Tutti sono chiamati alla fede, senza
distinzione di razza, di ceto e di sesso.
La ‘fede’ ( in greco ‘pistis’
) é un principio attivo di trasformazione del credente ed é alternativa alla
‘conoscenza razionale’,
in greco ‘gnosis’,
nell’attingimento della
verità suprema e della giustificazione. La prima é superiore alla seconda per il
suo carattere di ‘dono
divino’
e per la concessione di detto dono a tutti gli uomini di buona
volontà.
Beninteso, non si afferma ancora lo ‘gnosticismo’ come movimento eterodosso
di opinione in seno alla
Chiesa primitiva, nelle sue plurime espressioni. Come fenomeno tale movimento
appare già nel II secolo.
Tuttavìa,
i suoi presupposti già si avvertono nel modo come alcuni credenti
recepiscono il rapporto tra fede e conoscenza e nella
propensione ad attribuire alla resurrezione di Cristo solo un significato morale
e allegorico :
“Se Cristo non é risorto,
é vana la vostra fede, siete ancora nei vostri peccati; perciò anche quelli che
si sono addormentati in Cristo sono perduti. Se durante questa vita solamente
abbiamo sperato in Cristo,
noi siamo i più infelici di tutti gli uomini” ( 1Cor. 15, 17-19 ).
Paolo fa appello ai miracoli che hanno accompagnato la sua missione e alla
testimonianza oggettiva, oltre che degli Undici (
cioé senza Giuda Iscariota ), di numerosi
discepoli ( “più di cinquecento fratelli” ) in Palestina e ancora viventi (1Cor.
15, 2-7), che hanno visto e ascoltato il Signore risorto.
Questa ‘fede’ predispone il credente ad una ‘sapienza’ che é stata nascosta in
Dio e avvolta nel ‘mistero’
( 1 Cor. 2,7 ). Il termine greco che l’Apostolo delle Genti utilizza é ‘sophìa’,
corrispettivo del latino ‘sapientia’.
Con questa parola Paolo non designa una scienza di tipo intellettuale oggetto di
predilezione dei Greci, ma
una conoscenza profonda e “gustosa” ( “sapere” e “sapore” sono convertibili )
dei misteri di Dio che coinvolge l’essere umano anche nei suoi aspetti
emozionali e pragmatici. E’ evidente che Paolo richiama la letteratura
sapienziale dell’A.T. (
i Salmi in primo luogo ). Attraverso la ‘fede’
viene comunicata da Dio la ‘sapienza’ con una
pedagogìa progressiva.
Il cristiano é un
pò
come un infante che deve crescere e maturare. Il suo é un cammino
che tende alla perfezione.
Pertanto, il messaggio evangelico non può mai essere ridotto alla stregua di una
dottrina esoterica valida solo per gli iniziati. In Paolo é presente, tuttavia,
lo schema del rapporto di
implicazione dialettica ‘psichici-spirituali’
( che può anche diventare opposizione ) che sarà perno delle correnti
dualistiche successive. Questo schema, tra l’altro, non é ignorato dalla
letteratura religiosa giudaica del suo tempo e
viene applicato dall’Apostolo non solo per
opporre il ‘Vangelo’ al ‘secolo’ ( o ‘mondo’, categoria tipicamente giovannea ),
ma anche per designare i credenti stessi in relazione alla pienezza o meno della
fede ricevuta :
“Tra i ‘perfetti’ annunciamo ( anche ) una sapienza
: ma non la sapienza di questo mondo, né dei principi di questo
mondo che vengono distrutti, bensì annunciamo la sapienza di Dio avvolta nel ‘mistero’,
che é stata nascosta, che Iddio predestinò prima dei secoli per la nostra gloria
e che nessuno dei principi di questo mondo ha conosciuto : se infatti l’avessero
conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Ma come é stato
scritto :
‘quelle cose che occhio non vide e orecchio non
udì e in cuore non salirono giammai, queste ha preparato Iddio per quelli che
l’amano’” ( 1Cor. 2,6-9 ).
Depositari di questa sapienza non sono coloro che si sono distinti nel
linguaggio ornato o nelle massime elucubrazioni del raziocinio umano e, tanto
meno, i detentori di un potere politico o culturale o
socioeconomico, essendo realtà effimere e
transitorie.
“Dove mai il sapiente ?
Dove il dotto ? Dove il dialettico di questo secolo ? Non ha forse
Iddio reso stolta la sapienza del mondo ?” ( 1 Cor.
1, 20 ). Sono tante le scuole filosofiche che
non riescono a rispondere in modo incontrovertibile e definitivo alle domande
angoscianti dell’uomo, in primo luogo quelle concernenti le realtà della
sofferenza e della morte. Dov’é l’investigatore di questo secolo ?
Coloro che hanno inteso scoprire i fondamenti del
kosmos si sono contraddetti l’un
l’altro.
Ma
Dio presenta un’altra ‘sapienza’ alternativa a chi vuole dire l’ultima parola su
tutto il creato.
Paolo associa all’espressione ‘Sapienza
divina’ il termine ‘mysterion’
che, in greco, designa una ‘realtà
nascosta’ in Dio e che corrisponde al
‘mistero di Cristo’,
al ‘mistero di Cristo crocifisso’.
La ‘logica della
Croce’
é, dunque, la ‘logica del
paradosso’,
tanto di una perfetta coesistenza di contrari, quanto del rovesciamento di una
cosa nel suo opposto.
La Divina Maestà viene
esaltata, nel Logos incarnato, proprio attraverso l’umiliazione della Vittima
offerta, e questo contrasto non può essere facilmente assimilato dalle sole
facoltà naturali seppur disciplinate. Solo i ‘perfetti’ nella fede possono
“gustare” le infinite ricchezze racchiuse nel
‘mysterium
crucis’.
Del resto, Paolo é convinto
dell’inadeguatezza dei discorsi umani e delle categorie concettuali ad intendere
quelle che sono le verità di fede.
Quindi, la ‘scienza
teologica’ non va
confusa con la ‘sapienza divina’,
pur avendo la sua legittimità teorica, in quanto é pur sempre un sapere
razionale umano, parziale e limitato, pur essendo illuminato dalla fede.
Lo Spirito Santo aiuta ad aprire non soltanto la mente del fedele, ma
anche il ‘cuore’ a
quanto Cristo gli ha rivelato, onde permettere una penetrazione interiore del
dato evangelico che lo renda forza operante. Ma lo Spirito Santo si serve
dell’Apostolo come di colui che
si lascia ammaestrare e, con l’illuminazione, riesce a trovare le parole giuste
per presentare agli ‘spirituali’ (non agli psichici) il suo messaggio di
salvezza, “agli spirituali adattando cose spirituali” ( 1 Cor. 2,13 ). All’uomo
psichico -che ritiene la ragione il metro di tutte le
cose- si distingue, fino ad opporsi, ‘l’uomo
spirituale’, colui che
si dispone a pensare e ad agire sotto la mozione dello Spirito Santo.
Se sussiste opposizione tra due categorie
di uomini (e, perché no, anche tra due
categorie di credenti), ciò non vuol dire, per forza, che debba esserci
un’opposizione di principio tra la ‘psiché’
e il ‘pneuma’. Non é che
nella mente del ‘perfetto’
venga eliminato, o quanto meno sostituito, l’aspetto psichico dell’uomo : anzi
esso viene informato e potenziato dallo Spirito Santo. I grandi studiosi della
mistica cristiana hanno insegnato le vie della purificazione dei sensi e
dell’intelletto, e su come le facoltà e le potenze mentali devono essere
padroneggiate lungo la strada della perfezione cristiana.
E’ pur vero che tra l’uomo psichico e quello spirituale non può darsi
proporzione recettiva, in quanto l’inferiore non può scrutare le cose che
appartengono ad un ordine superiore e, pertanto, non può comprenderle. Lo
spirituale può discernere le cose che gli appartengono e può giudicare
l’inferiore (1). Ma può conoscere, solo per
‘rivelazione’, il ‘disegno di
salvezza’, finendo per conformarsi al Figlio
di Dio. Chi crede con pienezza, ha la possibilità di concepire e di giudicare
tutto con la ‘mente di Cristo’
( il noùs ). “Per conto nostro, noi abbiamo
la ‘mente di Cristo’ ” (
1 Cor.
2,16 )
Ma finché ci si rimane ancora contrassegnati dall’egoismo e dalla volontà
di appropriazione, ci si
lascia condizionare da una logica carnale dura ad essere superata.
Quindi, comunicare a degli immaturi una
sapienza elevata é come offrire un cibo solido a dei lattanti ( 1 Cor.
3,1–4 ).
Il tema
della ‘resurrezione dei
morti’
( 1
Cor.
15, 1- 58 )
Paolo scrive ai cristiani di
Tessalonica ( siamo più o
meno intorno al 51 E.V. ), esponendo una escatologia imperniata
sul ritorno del Signore Gesù,
ma che non va avvertito come imminente, pur raccomandando nei neofiti la
perseveranza nella fede e nell’operosità. Questa chiesa non presenta alcuna
difficoltà ad assimilare il duplice dato rivelato della Resurrezione corporea di
Cristo e di tutti gli uomini nel momento finale della loro storia.
Invece, la comunità di Corinto, proprio su
questo articolo di fede, manifesta le sue
perplessità.
Paolo deve intervenire per ribadire
la storicità e le modalità dell’evento della Resurrezione.
E’ probabile che alcuni neoconvertiti siano indotti ad interpretare questa
credenza biblica solo in un senso mistico e figurativo. Non si riesce ad
accettare, fino in fondo, una ‘resurrezione dei
morti’ nell’ultimo giorno stabilito da Dio
:
“Ora, se di Cristo si predica che é risorto dai morti, come mai alcuni fra voi
dicono che non c’é la
resurrezione dei morti ? Che se la resurrezione dei morti non c’é, neppure
Cristo é risorto. Se poi Cristo non é
risorto, é dunque vana la nostra predicazione ed é vana anche la vostra fede.
Anzi siamo trovati perfino falsi
testimoni di Dio, poiché per Iddio testimoniammo che risuscitò Cristo, che egli
invece non risuscitò, se davvero i morti non risorgono” ( 1Cor.
15, 12-15 ).
Indubbiamente, in queste
persone é forte il pessimismo circa la materia e radicata la convinzione che il
corpo sia la prigione dell’anima.
Pur ammettendo l’immortalità di
quest’ultima
come gli Orfici, i Pitagorici e i Platonici, che senso avrebbe tornare di nuovo
a vivere con il proprio corpo ? Del resto, é così diffuso nella mentalità
ellenica il preconcetto secondo il quale meglio sarebbe non essere mai nati e
cercare di morire al più presto, soprattutto quando si é giovani.
L’Apostolo di Tarso si
impegna per sostenere, al riguardo, un inedito principio teologico.
Se Cristo non é risorto, vana é la
nostra predicazione e vana la vostra fede ! ( 1 Cor. 15,14 ). Che
senso ha parlare della resurrezione dell’uomo
Gesù e negare,
nel contempo stesso, quella futura di tutti
gli altri uomini ? Il Nostro svolge il proprio ragionamento in due direzioni :
a ) ribadire la certezza e la
veridicità della resurrezione
corporea di Gesù, per
poi sottolineare questa come il fondamento teologico e storico di quella futura
di tutti gli uomini; b) esporre l’argomento della “reductio ad
absurdum”.
Da un lato egli fa appello non solo alla testimonianza personale di un incontro
diretto ed immediato con il Risorto sulla via di Damasco
:
“….ultimo tra tutti
apparve anche a me, come a un abortivo” ( 1Cor. 15, 8 ).
Che é poi una cristofanìa
posteriore rispetto alle apparizioni di cui
hanno beneficiato gli Undici, compreso
Cefa ( 1Cor. 15,5 ).
Addirittura il Risorto è apparso “in una volta sola, a più di cinquecento
fratelli” ( 1 Cor. 15,6 ),
molti dei quali vivono ancora in Palestina all’epoca della stesura delle due
Lettere ai Corinzi, potendo essere interrogati circa
questo evento della Resurrezione. Tutti
soggetti che –a differenza di Paolo- hanno conosciuto e frequentato
Gesù durante la sua vita
terrena.
A ben leggere la Prima Lettera ai
Corinti e riflettere proprio su questa
tematica, il Nostro non tanto si sofferma
sulla Resurrezione di Cristo, considerandola come premessa storica di quella
futura di tutti gli uomini nell’ultimo giorno. L’Apostolo non sembra argomentare
dal fatto storico obiettivo, ma intende partire dall’ipotesi della
non-resurrezione dei corpi, per dichiarare assurda la posizione di chi ritiene
che Cristo sia risorto dai morti. Ipotesi che si scontrerà, però, con un dato
storicamente accertato.
Paolo crede, tuttavia, nella forza logica stringente di un ragionamento
indimostrato ( come
quello formulato in 1 Cor.
15, 13-15 ) e la oppone ai negatori dei suoi articoli di fede. Ed é tanto
convinto della validità di questa
argomentazione da non sottovalutare il potenziale tragico e distruttivo
delle sue conseguenze sul piano morale ed esistenziale :
Se non si dà la resurrezione
dei morti, allora Cristo non é risorto.
E se
non é risorto, allora vane sono la nostra predicazione e la vostra fede.
Voi rimanete nei vostri peccati. E i vostri cari estinti che sono morti nel nome
di Cristo sono perduti.
Questo ragionamento indimostrato
di Paolo, la “reductio ad absurdum”,
parte da un’ipotesi di fondo
che non é una certezza di tipo matematico. Il rapporto che sussiste tra il
conseguente e l’antecedente non solo é di connessione, ma
risulta valido e corretto.
Se non si dà la resurrezione
dei corpi, neppure Cristo é risorto ( se “non p”, dunque “non q”
). E se Cristo non é
risorto da morte, sono vane la nostra predicazione e la vostra fede ( ma “non
q”, dunque “non r” ).
Si tratta di un’argomentazione condotta in via ipotetica ( “se….ma….dunque” ) e
per giunta attraverso la negazione.
Ma
sappiamo che Cristo é risorto. Il contrario del conseguente
conclude il contrario dell’antecedente :
Cristo é risorto, dunque tutti gli uomini risorgeranno ( se “p”, dunque “q” ).
Questa ri-conversione del ragionamento si regge sulla fede nella “buona novella”
della resurrezione corporea di Cristo, attestata dagli Apostoli e da numerosi
testimoni oculari.
Se
non ci fosse il dato della Resurrezione, il Cristianesimo crollerebbe
totalmente. Non varrebbe a salvarlo neanche la riflessione sull’ipotesi
dell’immortalità dell’anima, portata avanti da S. Giovanni Crisostomo (3) nel
suo commento alla Prima Lettera ai Corinzi
:
“Ma che dici, Paolo ?
Come speriamo solo in questa vita se i corpi non risorgono, quando resta
l’anima immortale ?”.
Ma l’autorevole Padre della Chiesa ignora la constatazione secondo la quale,
all’epoca dell’Apostolo dei Gentili, non tutti i Greci ripongono fede in questa
credenza ( come, per l’appunto, i filosofi
materialisti ), per cui
quella nell’immortalità dell’anima rimane una fredda ipotesi che non riesce ad
alimentare una speranza in una felice vita ultraterrena. Ha ragione
Mons.
Cipriani
quando sostiene che non si può, al di fuori del Cristo, fondare la
speranza sull’esercizio di una qualche virtù o su una presunta “tranquillità
della propria coscienza” (4). Gli Stoici, inoltre, considerano la virtù come il
bene supremo da ricercare in questa vita terrena, ma non tale da garantire una
felicità oltremondana. Senza la
Resurrezione di Gesù
non c’é né redenzione né riscatto.
Cristo é risorto dalla morte, dunque tutti beneficeranno della Resurrezione, in
forza della legge della nostra assimilazione e solidarietà con il Figlio di Dio.
Come Adamo ha accomunato tutti i suoi discendenti in un destino di disobbedienza
e di morte, così Cristo assimilerà, nel suo trionfo immortale, tutti
coloro che sono uniti a
lui nell’amore.
Una prima aporia esegetica la si
riscontra nell’uso che fa Paolo del termine greco “tò
télos”, cioè la ‘fine’.
Occorre capire se l’Apostolo intende la resurrezione corporea in senso
universale o solo per alcuni :
“Come infatti in Adamo
tutti muoiono, così anche in Cristo tutti saranno vivificati. Ciascuno però nel
suo ordine : primizia
Cristo; poi coloro che sono di Cristo, al momento della sua
Parusìa; quindi la fine, allorquando egli
consegnerà il regno al Dio e Padre,…” ( 1 Cor. 15, 22-24 ).
Qualche interprete antico e moderno ( come
Teodoreto di Ciro oppure
Lietzmann,
Loisy e
Schweitzer ) ha pensato che, con “fine”,
Paolo abbia inteso il “resto dell’umanità”, alludendo ad una terza classe di
risorti, cioé gli empi
oppure i giusti che hanno ignorato il Vangelo. Come osserva lo stesso
Mons.
Cipriani, una tale
interpretazione si regge su una giustificazione filologica assai debole,
dal momento che il termine
“télos” ricorre nel
discorso escatologico di Gesù
riportato dai Sinottici ( Mt. 24,6.13-14; Mt. 28,30;
Lc. 21,9; ecc. ) con il significato di
cessazione del secolo presente (5).
Non sembrano esserci dubbi sul carattere universale della resurrezione dei morti, dal momento che l’Apostolo stabilisce un’analogìa tra Cristo e Adamo pur con i loro diversi destini. Tutti muoiono in Adamo e tutti saranno vivificati in Cristo, anche se il punto di vista di Paolo sembra rispecchiare solo la condizione dei salvati.
Non sembrano esserci dubbi sul carattere universale della resurrezione dei morti, dal momento che l’Apostolo stabilisce un’analogìa tra Cristo e Adamo pur con i loro diversi destini. Tutti muoiono in Adamo e tutti saranno vivificati in Cristo, anche se il punto di vista di Paolo sembra rispecchiare solo la condizione dei salvati.
Inoltre, se non si può fondare al di fuori di Cristo alcuna speranza di
sopravvivenza ultraterrena, allora appare “ragionevole” la preoccupazione di
darsi ai piaceri della carne, e l’Apostolo riporta una citazione
di
Is. 22,41 :
“Se i morti non risorgono, ‘mangiamo
e beviamo : domani
infatti moriremo’” ( 1
Cor. 15, 32 ).
Quella che fa il non-redento
é un’affermazione grossolana, ma abbastanza plausibile.
E addirittura vincente. E
Paolo non si contrappone ad essa
con l’argomentazione del filosofo che sostiene l’immortalità dell’anima. Per il
pio israelita l’individuo
umano é un tutt’uno, é
un’unità psicofisica che vive o che muore.
Che senso ha, per lui, un girovagare
dell’anima indipendentemente dal corpo ? Pur
nell’ipotesi che sopravvivesse, la sua condizione sarebbe talmente infelice
tanto nello Sheol
biblico, quanto nei Campi Elisi o nella valle tartarea della religione ellenica,
da non essere auspicata proprio per niente. Allora apparirebbe più desiderabile,
per quanto ripugnante, una vita superficiale, inoperosa e licenziosa.
Come pure : che senso
potrebbe avere la ricerca della virtù per se stessa, come vorrebbero gli Stoici
? Indipendentemente dalla nostra salvezza e dall’amore per Dio ?
Contro coloro che negano
la resurrezione dei morti, Paolo offre ai credenti un ammonimento per metterli
in guardia contro un contesto che sembra avvelenare, con i suoi preconcetti
filosofici oppure con un marcato senso edonistico della vita dei più, la purezza
della loro fede assimilata dall’Apostolo. E lo fa menzionando un detto che il
drammaturgo Menandro (
342 – 291 prima dell’E.V. ) riporta nella sua commedia ‘Taide’
:
“Le conversazioni cattive corrompono i buoni costumi” ( 1
Cor. 15, 33 ).
Altre due citazioni desunte dalla cultura greca ( come
At.
17,28 che si riferisce ad un detto del poeta Arato di Soli, e Tito 1, 10-11 che
registra un verso del filosofo
Enesidemo di
Cnosso ) non devono,
però, indurci a pensare ad una probabile educazione classica dell’Apostolo delle
Genti. Piuttosto, vanno intese come “modi di dire” a guisa di
proverbio ricorrenti sulla bocca di tutti. Paolo si trova, infatti, a vivere in
un mondo ellenistico originariamente non suo e, certamente,
recepisce schemi mentali, concetti, luoghi
comuni propri di questo ambiente.
L’ammonimento si conclude
con queste parole :
“Risvegliatevi dalla crapula come
conviene e non vogliate peccare. Taluni, infatti, hanno ignoranza di Dio; ve lo
dico per vostra confusione” ( 1 Cor.
15, 34 )
Scrivendo da Efeso, la patria di
Eraclito, é probabile che Paolo abbia conosciuto anche il suo pensiero,
oltre la sua vita. E il
termine “risvegliatevi” -che egli usa per correggere
i cristiani di Corinto- così familiare all’Oscuro che criticava costumi e
consuetudini dei suoi concittadini, squalificati come “dormienti” in quanto
“schiavi dell’opinione dei più”. Il termine ‘crapula’ é metaforico,
per cui con esso
l’Apostolo non intende tanto i piaceri della tavola, quanto piuttosto
l’ottenebramento della mente nell’errore e, conseguentemente, nel peccato.
Tuttavia, tra i neoconvertiti corinzi, non ci sono solo
coloro che negano la resurrezione dei morti,
ma anche altri che l’accettano, interpretandola però in modo difforme dalla
tradizione apostolica. Questo loro insegnamento offre lo spunto a Paolo per un
intervento rettificatore. La Resurrezione di Cristo e di tutti gli uomini
potrebbe essere intesa
anche in un senso figurato o allegorico, o semplicemente morale. E pensare che
mancano ancora quarant’anni
circa alla comparsa di quella che sarà la dottrina
docetica che tanto
avrà successo nell’ambito della Chiesa
primitiva, contro la quale saranno impegnate, vittoriosamente, le migliori
energie dei Padri Apologisti per confutarla e vincerla.
E se gli Apostoli, invece di una visione obiettiva del loro Maestro risorto,
avessero avuto una consapevolezza superiore della loro partecipazione al mistero
della morte di Cristo e da
questa si fossero illusi su un ritorno alla vita di
Gesù ? Del resto, la tomba vuota rimane pur
sempre un mistero.
Risulta
chiaro che a Paolo non basta confutare una tale opinione
protognostica con il richiamo all’obiettività
e veracità delle cristofanìe
“post-resurrectionem”,
ma cerca anche di illustrare le modalità di un evento così miracoloso ed
eccezionale.
Come avviene la resurrezione corporea ?
E’ pacifico che non risorge il corpo di prima destinato alla corruzione. Non si
ha una ricostituzione di
organi, di ossa, di giunture, di arti, ecc…..Pur tuttavia l’identità personale
rimane la stessa nel corpo mortale e in quello risorto. Per rendere ragionevole
un mistero tanto solenne quanto profondo,
Paolo si serve di analogìe
in relazione all’esperienza quotidiana. Alcune sono attinte dal mondo vegetale.
E’ chiaro che il seme deve morire per produrre o il frumento o il frutto o
l’albero. Vale a dire :
deve subire delle trasformazioni. Il frumento o l’albero, però, non sono
estranei rispetto al seme, dal quale sono derivati.
Altre analogìe sono
desunte dalla costituzione fisiologica dei corpi animali. “Non ogni carne é la
stessa carne” ( 1Cor. 15,
39 ), in proporzione, qualità e quantità.
Ora, se la Sapienza divina é talmente onnipotente da suscitare una variabilità
di forme così insolite e diverse, tanto più sarà in grado di operare una
trasformazione da un corpo destinato alla morte ad uno incorruttibile e
vivificato, senza che questo passaggio possa compromettere la stessa
individualità, soggetto dell’uno e dell’altro corpo.
Che senso avrebbe tornare ad
assumere lo stesso corpo animale di prima, cretaceo come lo chiama l’Apostolo ?
Tra l’altro perituro e destinato alla sofferenza, alla fatica, alla vecchiaia e
alla morte ? La resurrezione dei morti non é e non sarà una semplice
rianimazione.
Che Gesù, nel suo
ministero pubblico, e alcuni Profeti come
Elìa ed
Eliseo, nella storia millenaria
di Israele, abbiano
operato casi di rianimazione ( e, quindi, di ritorno alla vita peritura ) -anche
a distanza di giorni- é risaputo.
Ma la Resurrezione di Cristo e di tutti gli uomini nell’ultimo giorno é ben
altra cosa !
Teniamo conto anche dell’antropologìa
biblica di cui Paolo é debitore. L’uomo può essere considerato secondo tre
accezioni in relazione alla
sua corporeità : anima vivente (
nefésh ), spirito incarnato (ruàh),
carne decaduta e finita (basàr).
“Si semina un corpo animale, risorge
un corpo spirituale. Se c’é un corpo
animale, c’é anche ( un corpo ) spirituale. Così anche é scritto
: ‘Il primo uomo, Adamo, diventò anima
vivente’ (
Gn. 2,7 ), l’ultimo Adamo ( diventò ) Spirito
vivificante. Però il primo
non é lo spirituale, ma ciò che é animale; dopo ( viene ) lo spirituale.
Il primo uomo é dalla terra, fatto di
creta; il secondo uomo é dal cielo.
Quale il cretaceo, tali anche i cretacei; e quale il
celeste, tali anche i celesti.
E come portammo l’immagine del cretaceo,
porteremo pure l’immagine del celeste”. ( 1Cor. 15, 44 – 49 ).
Questa trasformazione –che si accompagnerà alla Resurrezione-
provvederà ad arricchire
il nuovo corpo vivificato di qualità e di doti che lo renderanno diverso
rispetto al corpo animale o psichico, pur appartenuto al medesimo soggetto. Si
muore nella debolezza, ma si risorge nella forza ( giovanile, possiamo
aggiungere noi ). Poi – vale per i redenti- si semina nell’ignominia
ma si risorge nella gloria.
Questa riflessione motiva il comandamento di fuggire la fornicazione. Il nostro
corpo vivificato assumerà lo splendore di Dio, perché sarà animato dallo Spirito
Santo che perfezionerà anche le doti dello psichico e asseconderà tutte le
aspirazioni definitive dell’uomo caduco.
Fuggire la fornicazione e l’egoismo significa tracciare anche una linea di
condotta per il credente, “presentandogli un ideale di perfettibilità
indefinita” (6)
“Stolto che sei !” ( 1
Cor. 15,36 )
: dice Paolo riferendosi a chi ironizza su “un’apparente
grossolanità” della predicazione apostolica sul dato della resurrezione dei
morti. Quindi,
nessuna ricostituzione organica e fisiologica del corpo perituro. Con
qual corpo i defunti ritorneranno
apparirebbe una questione oziosa, non degna di uno spirito avveduto.
Eppure, a ben riflettere, anche i Greci ( come, al
contrario, i popoli semitici, gli Egiziani con il loro mito
di Osiride, i Persiani con gli insegnamenti di
Zoroastro, ecc. )
potevano giungere ad una minima percezione di questo mistero, proprio ragionando
su queste analogìe prese
in prestito dalla natura. Con grande
meraviglia di Paolo, alcune correnti hanno postulato l’immortalità dell’anima,
altre l’hanno decisamente negata, ma nessuna ha espresso dubbi su una vittoria
definitiva della morte.
“Se c’é un corpo animale,
c’é anche ( un corpo ) spirituale.
Così anche é scritto : ‘Il
primo uomo, Adamo, diventò anima
vivente’ ( Gn.
2,7 ), l’ultimo Adamo (diventò) Spirito vivificante.
Però il primo non é lo spirituale, ma ciò che
é animale; dopo ( viene ) lo spirituale” ( 1Cor. 15,
44-46 ).
Paolo asserisce l’incontrovertibilità del passaggio da un corpo animale ad un
corpo spirituale ( “però il primo non é lo spirituale, ma ciò che é animale;
dopo viene lo spirituale ), da un corpo animato dalla ‘psiché
zosan’ ad un corpo
penetrato dallo ‘Spirito di Dio’,
denominato ‘pnéuma’, che
in esso agisce mediante il
‘noùs’ ( la mente ),
soprannaturalmente elevato e potenziato (7).
La 1 Cor.15,
44-46 può facilmente sconfessare la successiva dottrina
docetica,
secondo la quale Cristo avrebbe assunto un corpo apparente e in realtà non
sarebbe morto sulla croce.
Non regge neppure l’esegesi di Joachim
Jeremias, al riguardo,
che finisce per ravvisare in Cristo un
eone celeste o una specie
di uomo primordiale che sta all’inizio e
preesiste all’uomo terrestre. Paolo ha parlato chiaro
: il primo Adamo diventò anima vivente, l’ultimo Adamo diventò
Spirito vivificante. E quel ‘diventare’
dice tutto. La glorificazione é un
processo ontologico che viene dopo e all’ultimo stadio della storia umana.
Ciò non toglie che tale processo si realizza in un senso morale e religioso già
in questa vita, mediante la ‘grazia’.
“Ecco che io vi annunzio un mistero :
tutti, certo, non ci addormenteremo, ma tutti saremo trasformati in un istante,
in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba : suonerà infatti la tromba e
i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati” ( 1 Cor. 15, 51-52 ).
Paolo ci induce a pensare
che il mistero secondo il quale non tutti moriremo l’abbia ricevuto in forza di
una rivelazione che non é contenuta nella tradizione apostolica, denominata ‘paradosis’.
Eppure il Nostro é convinto di quanto asserisce, non nascondendo un vivo
desiderio di voler essere in carne ed ossa presente a questa seconda venuta di
Cristo
Del resto, anche il Credo
Niceno-Costantinopolitano –che recitiamo durante la Messa e le
solennità liturgiche- riporta
questa citazione : “siede alla destra del Padre e di nuovo verrà a giudicare i
vivi e i morti”. Quasi a riferire
che la Parusìa
avverrà quando sarà
vivente l’ultima generazione umana.
Non si può nascondere un senso di disagio di fronte a questa rivelazione, poiché
tutti hanno peccato, tutti discendono da Adamo, anche Cristo è morto,
tutti devono morire senza alcuna
eccezione.
Mons.
Cipriani parla di
“quattro lezioni differenti” del versetto 51 (8). La prima é quella già
menzionata, rappresentata da antichissimi codici e versioni come la siriana, la
copto-saidica, la gotica
ed accettata da moltissimi Padri della Chiesa,
nonché da Tertulliano e da S. Girolamo. C’é la
seconda che riporta il versetto in questo modo
: “tutti ci addormenteremo, ma non tutti saremo trasformati” (
lezione dei codici SCFG, 17, della versione armena, di alcuni codici della
Vetus latina secondo la
testimonianza di S. Girolamo ). La terza cita il versetto
: “tutti non ci addormenteremo, ma non tutti saremo trasformati
(il solo codice A). Poi c’é la quarta :
“tutti risorgeremo, ma non tutti saremo trasformati” ( codice D, moltissimi
Padri latini e la Vulgata ).
Le ultime tre lezioni non sono più
antiche della prima, risultano essere criticamente insostenibili,
pur cercando di correggere la prima. Come la seconda che vuole ammettere la
morte di tutti gli uomini precedente la
resurrezione universale. La seconda, la terza e la quarta mirano ad escludere
gli empi dal processo miracoloso di trasformazione in corpi incorrotti.
Paolo non ritiene imminente la seconda venuta di Cristo. Non possiede la
certezza né di essere vivo
né di essere morto all’indomani del Grande Evento. Insomma, tutti noi -vivi o
morti- saremo trasformati
o trasfigurati in corpi spirituali. In lui non assume neanche grande importanza
se sussisterà una generazione ancora vivente o meno al momento della
Parusìa.
Va subito al nocciolo della questione :
tutti saremo trasformati in forza di un atto divino, repentino ed immediato.
Questa portentoso miracolo
sarà accompagnato da una solenne e spettacolare manifestazione di Dio, dove la
“tromba” assume la qualità di un elemento descrittivo dal sapore apocalittico
già nell’A.T. per narrare le epifanie di
Jahveh.
NOTE
:
*Fino ad
essere considerata dai Greci una divinità femminile con il nome di ‘Ananke’
alla quale niente
sfugge.
(1) Giuseppe
Barbaglio, “Lettere di Paolo ai Cristiani di Corinto” in “Corso Biblico
Superiore : ‘La via della
salvezza’. Guida alla
lettura della Bibbia”, ISSR. “Ut
Unum Sint”, p. 95.
(2) Settimio
Cipriani, “Le Lettere di
S. Paolo”, Cittadella Editrice, pp. 130 – 132;
(3) op.
cit., p. 222;
(4) op.
cit., p. 222;
(5) op.
cit., p. 223;
(6) op. cit., p. 230;
(7) op. cit., p. 229;
(8) op.
cit., p.
232.
Fonte : scritti e
appunti di Francesco Cuccaro , e-mail
cuccarof@alice.it .
Fonte foto:
http://www.motortravel.it/atene.php
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