mercoledì 24 luglio 2019

La "Parusìa" nella Prima Lettera ai Tessalonicesi di Paolo di Tarso , di Francesco Cuccaro


TEOLOGIA BIBLICA DEL NUOVO TESTAMENTO
La "Parusìa" nella Prima Lettera ai Tessalonicesi di Paolo di Tarso
 
di Francesco Cuccaro
 
 
 

Premessa
A partire dal 29 giugno ha inizio l’anno paolino. Quale migliore occasione per meditare sulla vita, letteratura e teologia dell’Apostolo delle Genti ?
In quest’articolo illustriamo la ‘Parusìa’ così come é stata affrontata nella Prima Lettera ai cristiani di Tessalonica.
Consideriamo ora il contesto nel quale é maturata la decisione di Paolo di scrivere questa epistola.
 
 
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Seguendo la narrazione lucana degli Atti degli Apostoli, Paolo, intorno al 49 EV, intraprende un secondo viaggio missionario che lo conduce non tanto a fondare nuove comunità cristiane nell’Asia Minore, quanto a consolidare, sul piano della fede, quelle già esistenti.
Proprio a Listra conosce un giovane nel quale riporrà tutte le sue speranze nell’attività evangelizzatrice. Il suo nome é Timoteo, tra l’altro figlio di padre greco e di madre giudea. Non sappiamo se Timoteo, prima della conversione al Cristianesimo, sia stato un pagano oppure un timorato di Dio. E’ certo che non era circonciso. Inconveniente presso i Giudei di quel posto, del cui superamento provvede lo stesso Paolo ( At. 16,3 ).
 
Raggiunta la città di Troade, Paolo beneficia di una visione soprannaturale durante una notte :
 
.....gli stava davanti un macedone e lo supplicava : ‘Passa in Macedonia e aiutaci !’” ( At. 16,9 ).
 
L’Apostolo si convince che -dietro quest’apparizione così insolita- ci sia un ordine divino. Dopo esser partito da Troade, con Sila e Timoteo, raggiunge Neapolis e, da qui, Filippi, citata negli Atti come “colonia romana e città del primo distretto di Macedonia” ( At. 16,12 ) , divenendo il primo centro urbano d’Europa a conoscere il Vangelo.
Dopo la conversione di Lidia, una donna benestante che simpatizza per la religione giudaica (“credente in Dio”, At.  16,14), subisce una disavventura ma senza tragiche conseguenze.
Per aver guarito una donna posseduta da uno “spirito di divinazione” (At. 16,16), si trova al centro di un conflitto di interessi che gli fa, assieme a Sila, assaggiare i rigori delle percosse e del carcere, ma per breve tempo ( At. 16,19-40 ).
 
Una volta liberati, Paolo e Sila si dirigono a Tessalonica, seguendo la via di Anfipoli e di Apollonia (At. 17,1). Questa città, fondata ( nel 315 prima EV ) dal generale macedone Cassandro in onore della moglie Thessalonike, sorella di Alessandro il Grande, é situata sulla punta nord del Golfo Termico. Durante l’occupazione turca prende il nome di Salonicco, per poi riassumere quello originario nel 1937.
 
Tessalonica é la capitale della provincia romana di Macedonia, ricchissimo centro commerciale, tanto da divenire cosmopolita, solcata dalla Via Egnatia che la congiunge a Roma attraverso Durazzo. Non vi può mancare in essa una fiorente colonia ebraica.
 
Paolo, come sua consuetudine, inizia a predicare nelle sinagoghe di questa città, per tre sabati consecutivi ( At. 17,2 ), cercando di dimostrare che Gesù é il Messìa e che é risorto. Sebbene alcuni suoi connazionali, assieme ad alcuni Greci proseliti oppure timorati di Dio, si convertano alla nuova fede, la sua attività suscita un’opposizione così violenta, in modo tale che il Nostro decide di abbandonare la città e rifugiarsi a Berea, dove il frutto delle conversioni risulta essere copioso, perfino presso gli Ebrei di questo luogo (  At. 17,10-12 ).
 
I Giudei di Tessalonica non demordono dal perseguitare Paolo. Accecati dall’invidia e da uno spirito di competizione, cercano di aizzargli contro il popolino di Berea, mostrandolo come un sovvertitore della tranquillità pubblica e come un sedizioso ( At. 17,7 ).
 
Per tutelare meglio l’incolumità dell’Apostolo, i neoconvertiti di Berea lo convincono a lasciare la città, mentre vi restano Sila e Timoteo. Paolo si dirige ad Atene e di lì a Corinto, permanendovi circa un anno e mezzo ( At. 18,11) .
 
 
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L’ Apostolo si sente onorato di aver fondato la Chiesa di Tessalonica ( più o meno intorno al 50 EV ), per le maggiori soddisfazioni che, in termini di conversioni e accrescimento nella fede, i neofiti gli hanno offerto. E di questo ringrazia Dio ( 1Tess. 1,1-3 ). I fedeli aumentano in numero e qualità, “in virtù di parola, ma anche di prodigi, di Spirito Santo e di abbondante forza di persuasione” ( 1 Tess. 1,5 ). Una comunità-modello ( 1 Tess. 1,7 ), per intenderci, nata nell’arco di un breve periodo e senza riservare le più grandi preoccupazioni di carattere dottrinale o pastorale che, invece, l’Apostolo ha dovuto subire in altre circostanze e in altri luoghi.
 
Ciò non toglie che si tratta di una comunità fortemente discriminata e combattuta, soprattutto dall’esterno. Quale l’avversario principale ?  I Giudei ortodossi del posto che non hanno perdonato a Paolo la “defezione” dalla religione mosaica di tanti loro compatrioti e, per giunta, l’adesione al Vangelo di un buon numero di pagani.
Ovviamente sussiste, in questo contesto, un clima di persecuzione. Le autorità civili riescono appena a controllare l’eccitazione delle masse, scongiurando gli effetti perversi di rancori e di polemiche accese, tanto più che il Cristianesimo nascente non incontra ancora l’ostilità degli Imperatori.
 
Paolo se ne rende conto di ciò trovandosi a Corinto, dove scrive due Lettere a questi fedeli macedoni, ritenuti da lui un modello per gli altri cristiani, proprio nella tribolazione come Gesù e come lo stesso Paolo a causa dell’ostilità dei Giudei (1 Tess. 2,14).
E’ indubitabile la presenza di un orientamento antigiudaico in queste due epistole e nel quale sarà intesa la prospettiva escatologica dell’Apostolo.
      
Per stornare possibili accuse che potrebbero ravvisarlo come un avventuriero o un soggetto malato di protagonismo, l’Apostolo rivendica, a suo carico, la testimonianza propria di questi credenti che possono attestare come, durante il suo soggiorno a Tessalonica, “non fu di aggravio a nessuno” ( 1 Tess. 2,9 ), lavorando con le proprie mani per l’autosostentamento, comportandosi in modo irreprensibile (1 Tess. 2,10), non volendo ricercare “motivi di gloria dagli uomini” ( 1 Tess. 2,6 ). Soprattutto manifestando amore sincero e disinteressato, paragonabile a quello di una madre per i suoi figli (1Tess. 2,7).
 
Nella Prima Lettera, tuttavia, sostiene che l’impegno per la propria santificazione personale si deve accompagnare all’astinenza dalla fornicazione e al rifiuto dei costumi pagani connessi ad essa ( 1 Tess. 4, 1-3 ), raccomandando inoltre la promozione  ( superflua, occorre dirlo, visti i lodevoli risultati dei cristiani tessalonicesi ) della carità.
 
 
La Parusìa’  secondo  Paolo
L’Apostolo delle Genti espone il tema del ritorno glorioso di Cristo’, confermando questo dato della tradizione apostolica, indicandolo con il termine greco di parousìa che significa ‘presenza’. Anche Platone aveva messo in risalto questa parola per sottolineare la sussistenza di un ideale intelligibile nelle cose sensibili.
Paolo la utilizza, invece, per esprimere la seconda venuta di Gesù, con la quale si conclude la storia umana secondo una concezione lineare prettamente biblica.
 
“Non é chiara la derivazione del termine, come per molti altri vocaboli del N.T. Si discute se provenga dalle descrizioni degli incontri dei re dei cerimoniali greco-romani o dalla letteratura escatologica giudaica o addirittura dall’una o dall’altra fonte” (1). E’ certo che  viene  designato  per  denotare  una  solenne apparizione  di  un esercito,  di  un generale  o di un sovrano (2).
 
Visto il breve soggiorno a Tessalonica, é probabile che Paolo abbia trascurato di approfondire alcune importanti questioni di escatologia cristiana, dal momento che si sente autorizzato, nell’una e nell’altra lettera, a dissipare alcune preoccupazioni sorte tra i neoconvertiti circa il destino dei defunti, compresi i propri cari, tra i quali coloro che hanno creduto in Cristo, soprattutto nel momento della Parusìa, e sulla prossimità o meno di un tale evento.  
 
Per prima cosa Paolo cita i morti con il termine di “dormienti” che, senza alcun dubbio, acquista un valore metaforico. Volendo andare, però, al di là di esso, il Nostro intende la morte non come l’ultima realtà che sopraggiunge nell’esistenza di un individuo, bensì come uno stato di assopimento ( e di sospensione delle funzioni vitali e delle attività connesse ) che dovrà, un giorno, essere superato. E’ facile presentare la ‘resurrezione dei morti’ come unrisveglio’ da questo stato. Anche se poi più tardi, Paolo preciserà, nella Prima Lettera ai Corinti, le modalità di quest’evento ( 1 Cor. 15, 35-55 ).
 
Quindi, non c’é motivo di “rattristarsi” come fanno i pagani senza alcuna speranza ( 1 Tess. 4,13 ). Del resto, é inedita l’idea di un ritorno dall’ aldilà nel mondo ellenistico - romano, se riflettiamo su alcuni versi del poeta latino Catullo (3), vissuto nel I secolo prima EV. :
 
Soles occidere et redire possunt  nobis cum semel occidat brevis lux  /  mors est perpetua una dormiendi” ( Cat. V, 4-6 ).
 
“I soli possono tramontare o sorgere  /  per noi una volta tramontata questa breve vita  /  resta solo il perpetuo sonno della morte”.
 
Analogamente a Cristo morto e risorto, anche gli altri risorgeranno e saranno riuniti con lui ( 1 Tess. 4,14 ). E nella Parusìa del Signore non ci sarà una precedenza dell’ultima generazione vivente rispetto ai morti. Questo evento sarà caratterizzato da due fasi : prima risorgeranno i morti (Paolo utilizza immagini desunte dalla letteratura apocalittica giudaica con i suoi elementi descrittivi come “voce dell’Arcangelo”, “( segnale del )la tromba di Dio”, 1 Tess. 4,16, ecc.); dopo, i viventi saranno “rapiti insieme a loro nelle nuvole per andare incontro al Signore nell’aria” ( 1 Tess. 4,17 ).
Occorre fare una precisazione su quest’ultimo punto. “L’essere rapiti insieme a loro per andare incontro al Signore nell’aria” non racchiude una notizia circa le modalità relative al processo della trasformazione del vivente durante la seconda venuta di Gesù. Ma non possiamo fare una concessione ai bultmanniani insistendo troppo sul lato dell’allegorìa o dell’immagine letteraria, per poi rigettare questo evento solo perché l’Apostolo ha espresso un dato, come questo, in una concezione cosmologica vigente presso gli Ebrei contemporanei. La stessa vaghezza, come sembra indicare la frase, sembrerebbe suggerire un effetto di fantasìa. Risulta chiara questa convinzione di Paolo : nel momento della Parusìa l’ultima generazione umana non vivrà più la stessa vita quotidiana di tutti i giorni, ma sarà trasfigurata nella gloria del Signore. Del resto, Gesù é risorto ed é “asceso” al cielo. Se questo é avvenuto per il Nuovo Adamo, perché non deve avvenire anche ( e analogamente ) per gli altri uomini ?  “Andare incontro al Signore nell’aria” significa avere un corpo dotato di perfezioni che potenziano le facoltà da esso possedute, vincono la stessa forza di gravità o, quanto meno, la tendenza dei corpi gravi verso il basso ( convinzione quasi unanime a quel tempo ), o come Dante definisce -nel suo Paradiso canto I- il “trasumanar”, cioé andare oltre l’umano, trovandosi nel Cielo della Luna con il proprio corpo, senza sapere né come né quando.
 
“Questo infatti vi diciamo sulla parola del Signore : noi, i viventi che potremmo essere rilasciati per la Parusìa del Signore.....” ( 1 Tess. 4,15 ).
 
Questo versetto può essere, giustamente, ritenuto la “croce degli interpreti”.
 
Consideriamo l’espressione “sulla parola del Signore”. Il Nostro non dice nulla di suo, ma si rifà alla tradizione degli Apostoli e, quindi a monte, all’insegnamento di Gesù. Non si tratta né di una opinione personale, tantomeno di una rivelazione comunicata a lui direttamente dal Redentore medesimo.
 
Al riguardo, una chiave esegetica mira a considerare in modo separato, nel versetto 15, i “viventi” dal termine “parusìa” ( manifestazione del Signore ), rendendo possibile questa parafrasi : “noi che viviamo attualmente non saremo separati dai nostri defunti alla venuta del Signore”. Tale posizione, sostenuta dal biblista Francesco Spadafora, si basa sulla presunta impossibilità della costruzione del verbo “perileipomenoi” ( superstiti ) con “eis” ( in ). Ma si scontra ugualmente con il testo che oppone i superstiti ai morti. E non trova il sostegno da parte dei Padri della Chiesa di lingua greca (4).
 
Un’altra interpretazione, quella di Giovanni Rinaldi, ritiene che Paolo non fa altro che riportare il punto di vista degli interroganti, dicendo : “quelli che voi chiamate i superstiti, non precederanno i vostri morti”, correggendo un errore circolante tra i credenti di Tessalonica circa una diversa sorte e dei morti e dell’ultima generazione umana (5). Ma non riusciamo a condividere una tale opinione.
 
Ci può essere una lettura –da parte escatologista- che attualizza questo brano, inducendo a ritenere che Paolo raccomandi il massimo di vigilanza per il carattere improvviso dell’evento della Parusìa, estremizzando la figura retorica dell’énallage (6), quasi come se parlasse a noi, generazione del Duemila, e si sentisse parte di questa stessa generazione, in un’iperbolica affermazione. Non che questo modo di interpretare sia sbagliato o alquanto debole. Tutt’altro. Ma può risultare riduttivo, forzato, deresponsabilizzante e anche pericoloso se fatto proprio dagli sprovveduti.
 
Un’altra lettura, invece, si potrà dare da parte di chi ironizza proprio su questa comunanza di destino di Paolo, nella sua esistenza storica, e della generazione vivente al momento della Parusìa, per sconfessare questo dato rivelato (non c’é e non ci sarà Parusìa perché Paolo é morto, nonostante la fede “ingenua” da lui ostentata in questo avvenimento), e come sono morti i destinatari di questa Prima Lettera, i quali si sono identificati con l’ultima generazione umana.
 
L’Apostolo non é incorso nell’errore riguardo alla prossimità o meno della fine della storia. Altrimenti, verrebbe compromesso il carattere ispirato di questa epistola. E l’ispirazione non può essere mai compatibile con la presenza di tenaci ed ineliminabili contraddizioni logiche . E’ fuorviante sostenere che Paolo abbia creduto, nella prima missiva, nell’imminenza della Parusìa e poi, nella seconda, l’abbia confutata ( o minimizzata ) apertamente. Se si legge con attenzione la 1 Tess. 5, 1-3, si evince bene il carattere dell’incertezza del momento della seconda venuta di Gesù (7) :
 
“Riguardo poi ai tempi e ai momenti precisi non avete bisogno che vi si scriva. Voi stessi infatti sapete molto bene che il giorno del Signore viene come un ladro di notte. Quando diranno ‘pace e sicurezza’ ( Ger.6,14 ), proprio allora improvvisa sopravverrà la catastrofe, come i dolori del parto a una donna gravida, e non potranno sfuggire” ( 1 Tess. 5, 1-3 ).
 
Come dire tutto. Paolo ignora perfettamente quando avverrà questo fatidico giorno. Domani o tra un milione di anni !?  Raccomanda caldamente ai suoi fedeli di non restare impreparati, perché quel giorno si manifesterà come “un ladro di notte” ( 1 Tess. 5,3 ), sottolineando la caratteristica dell’improvvisazione e dell’imprevedibilità della Parusìa.
 
Inoltre, il versetto 10 del cap. 5 sembra suggerire il presentimento dell’Apostolo di non essere più tra i viventi alla fine della storia :
 
....affinché sia che vigiliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui” ( 1 Tess. 5,10 ).
 
Il brano 1 Tess. 5, 1-4 richiama implicitamente i detti escatologici di Gesù riportati dalla tradizione sinottica ( si cfr., per esempio, Mt. 24,8.36-43.50; Mc. 13,1-37; Lc. 21,5-36 ), ricorrenti anche in altri scritti neotestamentari ( come At. 1,7; 2 Pt. 3,10; Ap. 3,10 ).
 
Paolo si convince di aver lasciato nel vago delle sue affermazioni circa l’imprevedibilità della circostanza della Parusìa. Ciò spiega la necessità di scrivere una seconda missiva, nell’arco di pochi mesi, non tanto per affrontare tensioni e polemiche sorte nella Chiesa di Tessalonica, quanto per neutralizzare la possibilità di equivoci e di malintesi sul tempo di questa seconda venuta di Gesù, derivanti da una lettura troppo precipitosa della prima lettera.
 
L’Apostolo capisce che, spinto dall’entusiasmo, ha troppo insistito su quel “noi” come comunanza di destino, sottintendendo il suo più semplice desiderio di essere riunito, ancora in carne ed ossa, al suo Signore.
 
La consapevolezza del carattere improvviso della seconda venuta di Gesù deve comportare, di conseguenza, la ‘vigilanza’ come si conviene ai “figli della luce e figli del giorno” ( 1 Tess. 5,5 ), perché “il giorno del Signore viene come un ladro di notte” ( 1 Tess. 5,2 ). L’invito ad essere sobri non vuol intendersi solo nel senso della moderazione nell’uso dell’alcool e nel cibo, ma piuttosto nel senso del retto cammino sulla via della santità, “indossando la corazza della fede e della carità, ( avendo come ) elmo la speranza della salvezza” ( 1 Tess. 5,8 ).
 
Nella Prima Lettera ai Tessalonicesi Paolo rivolge i suoi ultimi appelli circa i doveri di promozione della carità fraterna e della misericordia spirituale ( 1 Tess. 5, 14-15 ), ma con una precisa discriminazione nei confronti degli “indisciplinati” ( letteralmente “i fuori ordinanza” ), vale a dire quei credenti che, ritenendo imminente la ‘parusìa’ e illudendosi di trovarsi in uno stato di purezza e di santità, manifestano disobbedienza e ingratitudine ai superiori che si sacrificano per correggere, presiedere e fortificare nella fede la stessa comunità, pretendendo di essere mantenuti a spese degli altri fratelli, gettando discredito su questi ultimi all’esterno. Un anticipo di quelle che saranno le degenerazioni dei successivi orientamenti quietistici.
 
“Non vogliate spegnere lo Spirito; non disprezzate le profezie. Esaminate tutto; ritenete ciò che é bene. Guardatevi da ogni apparenza di male” ( 1 Tess. 5, 19-22 ).
 
Anche i ‘carismi’ servono all’edificazione della Chiesa e, pertanto, vanno promossi e, soprattutto, esaminati per discernere quello che é un genuino dono di Dio da una contraffazione di Satana (8) o, semplicemente, da una autosuggestione di origine puramente naturale. Tra questi doni é indispensabile quello della ‘profezìa’ per discernere i segni dei tempi. Ma anche l’intelligenza dello Spirito nell’esaminare le predizioni dell’A.T. per poter verificare il riscontro del contenuto da essi riportato con la realtà contemporanea all’Apostolo.
 
Nell’epilogo del primo scritto, Paolo invoca la benevolenza di Dio sui fedeli di Tessalonica affinché, al momento della ‘Parusìa’, l’essere di ciascuno di loro (spirito, anima e corpo) sia trovato integro, vale a dire puro e ordinato, davanti al cospetto del Cristo solenne.
Paolo espone le nozioni dell’antropologìa giudaica che insiste sull’unità psicofisica dell’individuo umano, utilizzando termini greci come ‘pneuma’, ‘psiché’, ‘soma’. Non offre per niente uno spaccato della concezione metafisica dell’uomo di tipo aristotelico, nel sostenere spirito, anima e corpo come due-tre principi sostanziali, o del tipo platonico come di due  ( o più ) sostanze unite accidentalmente.
Pnéuma’ é anche il termine con il quale si intende sia la ‘ruah Jahveh’, ovvero lo Spirito Santo come principio di vita nuova del redento, sia la parte più alta e più profonda della mente umana che si apre all’influsso dello Spirito.
 
 
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Il tema della ‘Parusìa’ é schiettamente biblico, le cui radici si ravvisano già nell’Antico Testamento.
Una escatologia allo stato germinale è già delineata negli scritti profetici ( i ‘Nebiim’ ), dove si evince la drammaticità della lotta tra il bene e il male nel mondo e nel cosmo fino alla fine dei tempi.
Comprimari di questa lotta sono Jahveh, da un lato, e le forze che lo avversano, dall’altro. Israele -con il suo drammatico rapporto con le nazioni- ne é il teatro. Il peccato ( in ebraico ‘awon’ ) é la causa delgiudizio di Dio’, dell’intervento equilibratore dell’Altissimo che punisce l’empio, ma anche purificatore.
Israele si é lasciato prostituire dal culto di altre divinità, compromettendo l’originaria alleanza con Jahveh, permettendo l’adozione di schemi mentali, appartenenti ad altri popoli, nel vivere e comunicare la propria fede. A questo cedimento idolatrico ne é seguito un rilassamento dei costumi, una morale individualista che alimenta l’ingiustizia nei rapporti umani.
Con i profeti Ezechiele e Zaccarìa si dilata la prospettiva dell’azione divina su tutto l’universo. La stessa figura delnabi’ beneficia di rivelazioni che avvengono per mezzo di ‘visioni’ riguardanti lo svolgimento degli eventi e le entità soprannaturali che vi entreranno in gioco. Soprattutto con Daniele si può dire che prende avvìo il genere della ‘letteratura apocalittica’ con tutto il suo corredo di rappresentazioni plastiche, dove vengono illustrati i tempi e i luoghi della desolazione, le catastrofi cosmiche, un intervento diretto degli angeli e di altre potenze intermedie tra Dio e l’uomo.
 
Cominciano ad assumere un rilievo sempre crescente le tematiche del ‘giorno del Signore’ (denominato anche “giorno dell’ira”, “gran giorno”, si cfr. “…..prima che venga il giorno del Signore grande e terribile”, Gl. 3,4, ecc.; espressioni che non perderanno la loro forza incisiva e la loro efficacia neanche nei discorsi escatologici di Gesù e in tutta la letteratura neotestamentaria), del ‘Regno di Dio’ ( si cfr. Zac. 14, 7 : “sarà un unico giorno, il Signore lo conosce…”, oppure Zac. 14,9 : “Il Signore sarà re di tutta la terra e ci sarà il Signore soltanto, e soltanto il suo nome” ) e del Messìa che ne sarà il titolare ( Dn 2,28, ma si tratta di un dato attestato anche dalla letteratura sapienziale : Sal. 72; Sal. 110, ecc. ). Certo, ogni giorno appartiene al Signore; ma quando si parla delgiorno del Signore’ si intende la ‘manifestazione finale e solenne di Jahveh’, la sua ultima teofanìa con la quale si conclude la lunghissima vicenda umana.
Questo genere apocalittico interessa buona parte degli scritti giudaici del periodo intertestamentario e il Nuovo Testamento cristiano.
 
 
 
 
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RELAZIONE TRA ILREGNO’ E LA ‘PARUSIA’ NELLE NARRAZIONI  EVANGELICHE
 
I Vangeli canonici inquadrano l’attività di Giovanni il Battista e il ministero pubblico di Gesù di Nazareth nell’angolatura escatologica. Entrambi i personaggi insistono sull’imminenza di un Regno dei Cieli’ o di un ‘Regno di Dio’ :
 
“In quei giorni comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto della Giudea, dicendo : ‘Convertitevi, perché il regno dei cieli é vicino’” ( Mt. 3, 1 - 2 );
 
“Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea, predicando il Vangelo di Dio e diceva : ‘Il tempo é compiuto e il regno di Dio é vicino; convertitevi e credete al vangelo’” ( Mc. 1,15; si cfrpure Mt. 4,17 );
 
indicando una signorìa di Dio su tutti ( non solo sui Giudei ) che sarà unica, universale, solenne e definitiva. Non ci soffermeremo sui passi evangelici nei quali ricorre questa ‘figura’ prettamente escatologica e della quale non vengono, tra l’altro, neanche esplicitate natura, funzioni e consistenza.  Nel pensiero di Gesù la rivelazione del Regno dei Cieli deve essere accettata con fede da un cuore possibilmente puro e da una mente elasticizzata ( si cfr. Mc. 12, 32-34 ). Questo spiega perché il Maestro utilizza la figura letteraria della ‘parabola’ nei suoi insegnamenti pubblici.
 
“Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero : ‘Perché parli loro in parabole?’. Egli rispose : ‘Perché a voi é dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non é dato. Così a chi ha sarà dato, e a chi non ha sarà tolto anche quello che non ha. Per questo parlo loro in parabole : perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono” ( Mt. 13, 10-13: si cfr. pure Mc. 4, 10-12 ).
 
E’ evidente che questo misterioso ‘Regno di Dio’ si oppone al secolo presente caratterizzato dalle iniquità degli uomini. Le aspettative di questo evento sono molto vive presso i Giudei dell’epoca di Gesù e di Giovanni il Battista, e tanto più accresciute dalle tensioni derivanti dall’oppressione politico-militare e fiscale dell’Impero Romano. E la purificazione dai propri peccati individuali e collettivi deve essere la premessa per l’instaurazione di un tale ‘Regno’.
Gesù, sebbene accetti e faccia proprio l’argomento di una tale purificazione ( Mt. 17,17 ), delinea, tuttavia, un messianesimo sostanzialmente diverso da quello creduto dai suoi connazionali. Non si caratterizzerà in chiave politica e militare, ma si accompagnerà ad un rinnovamento delle coscienze di tutti ( si cfr. il celebre ‘Sermone della Montagna’ in Mt. 5, 1-12 ), dove la ‘misericordia’, la ‘giustizia’, la ‘pace’, la ‘purezza’, la ‘mitezza’ sono le condizioni per rendersi partecipi di questo Regno, e non certamente l’appartenenza ad un’etnìa o ad un ceto sociale o l’essere depositari di un’elevata sapienza. Ma, soprattutto, l’insegnamento sull’amore verso il prossimo e, addirittura in modo radicale, verso i nemici ( Mt. 5, 43 - 44 ) sembra rendere vana la prospettiva di incanalare ogni discorso relativo al ‘Regno escatologico’ sul piano dell’affermazione della lotta armata ( e i Romani erano nemici più di tutti gli altri ).
 
Un altro dettaglio interessante per qualificare in qualche modo ilRegno di Dio’ é quello suggerito da Gesù stesso :
 
“Interrogato dai farisei : ‘Quando verrà il regno di Dio ?’, rispose : ‘Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà : eccolo qui  o eccolo là. Perché il regno di Dio é in mezzo a voi !”  ( Lc. 17,21 ).
 
Questo versetto si può tradurre anche in questo modo . “Il Regno di Dio é dentro di voi !”. Come interpretare Lc.17,21 ?  In primo luogo, ilRegno’ é una realtà attiva e dinamica già operante in mezzo agli uomini. Secondo : la sua relativizzazione a Gesù, nel senso che non é possibile né concepibile al di fuori di Cristo stesso. L’espressione “in mezzo a voi” ( o “dentro di voi” ) denota la consapevolezza che questa realtà trascenda i limiti spaziali e cronologici, per cui dire “quando verrà” sembra non avere più senso, divenendo un qualcosa che non solo va al di là di ogni immaginazione, ma che si inserisce nella storia, si potrebbe dire, in una maniera quasi impercettibile.
Eppure la vicinanza del Regno é attestata dai ‘miracoli’ che Gesù compie ( Mt. 12,28 ) : l’attuazione di una tale realtà non é possibile, per l’appunto, al di fuori, della sua persona e della sua attività. Relativizzazione anche nei confronti degli uomini, perché occorre disporsi davanti a quest’evento interpellante, accettandolo o rifiutandolo. IlRegno’ fa appello alla fede e al cuore dell’uomo,  come se si trovasse “in interiore homine”, e Gesù lo descrive come qualcosa che si edifica ( utilizzando termini rozzamente materiali ) e che cresce dentro l’uomo, con e nonostante l’uomo. Si prestano bene a questa riflessione alcune parabole, come quella del seminatore’ ( Mt. 13,1-9.18-23; si cfr. pure Mc. 4, 1-9.13-20; Lc. 8,4-8.11-15 ) e quella delgranello di senape’ :
 
“…..Egli parlò loro di molte cose in parabole. E disse : “Ecco, il seminatore uscì a seminare. E mentre seminava, una parte  del seme cadde sulla strada e vennero gli uccelli e la divorarono. Un’altra parte cadde in luogo sassoso, dove non c’era molta terra; subito germogliò, perché il terreno non era profondo. Ma, spuntato il sole, restò bruciata e non avendo radici si seccò. Un’altra parte cadde sulle spine e le spine crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sulla terra buona e diede frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta. Chi ha orecchi, intenda” ( Mt. 13, 1-9 );
 
“Voi dunque intendete la parabola del seminatore : tutte le volte che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che é stato seminato nel suo cuore : questo é il seme seminato lungo la strada. Quello che é stato seminato nel terreno sassoso é l’uomo che ascolta la parola e subito l’accoglie con gioia, ma non ha radice in sé ed é incostante, sicché appena giunge una tribolazione o persecuzione a causa della parola, egli ne resta scandalizzato. Quello seminato tra le spine é colui che ascolta la parola, ma la preoccupazione del mondo e l’inganno della ricchezza soffocano la parola ed essa non dà frutto. Quello seminato nella terra buona é colui che ascolta la parola e la comprende; questi dà frutto e produce ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta”   (  Mt. 13, 18-23 );
 
“Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso é il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, é più grande degli altri legami e diventa un albero, tanto  che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami” ( Mt. 13, 31-32: Mc. 4, 30-32; Lc. 13, 18 – 19 ).
 
Gli interlocutori di Gesù –e in primo luogo i discepoli- non riescono ancora a dissociare la ‘religione’ dalla ‘politica’. Da come si evince dai vangeli canonici, il Maestro parla in modo figurato, per similitudini, lascia nel vago, ma é anche esigente da un punto di vista morale, elencando condizioni imprescindibili per accedere al ‘Regno di Dio’; e, più di una volta, utilizza parole e frasi caricandole di sensi doppi. Ma l’orizzonte mentale del popolo é sempre quello lì e la sua radice é perfettamente veterotestamentaria : ristretto al contesto nazionale ed etnico, in base al quale il rinnovamento morale e religioso deve interessare solo Israele. In questa luce vengono filtrati i messaggi di Gesù, il quale, invece, si impegna a dilatarla, inserendola in una dimensione nuova e in una prospettiva più ampia ed universale possibile. Nei Vangeli e in At. 1, 6-8  Gesù non sconfessa apertamente, a viva voce e una volta per tutte, questo orizzonte mentale ristretto dei suoi interlocutori, nel senso che avrebbe potuto benissimo dire : “Guardate !  Il vero Israele sarà tutta l’umanità redenta nel mio sangue, tutte le nazioni che accetteranno il Vangelo; io sono il Messìa di tutto il genere umano; il regno di Dio non sarà un ricostituito regno di Israele dal carattere militare e trionfalistico……”, all’apparenza rimanendo indifferente di fronte alle interrogazioni degli astanti; anche se dilata un tale orizzonte svuotandolo del suo senso nazionalistico ed esclusivistico, emancipandolo da un pregiudizio di carattere mondano, caricandolo di una precisa e unica valenza spirituale. Come dire che Gesù segue una pedagogia e tempi opportuni, affinché i suoi Apostoli e i suoi Discepoli riescano a pervenire, in forza dello Spirito Santo e delle circostanze nelle quali si troveranno a vivere ( At. 1, 6-8 ), alla nuova consapevolezza che ilRegno di Dio’ non é e non sarà per niente un ‘Regno giudaico’ dal carattere politico-militare, magari inserito in un contesto egemonico che lo vede signoreggiare su tutte le genti della terra.
 
Il Quarto Vangelo non allude mai al tema delRegno’ se non nella narrazione delle circostanze che caratterizzano la Passione di Gesù ( Gv. 18, 33-38; ma si cfr. pure Gv. 19,3. 12. 14-15 ),  presupponendo, però, tutto il kerygma primitivo. Del resto, che senso ha scrivere quei versetti in cui ricorrono le parole ‘re’ e ‘regno’ se non per il fatto che esse sono parte integrante della predicazione del Maestro ?
 
Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse : ‘Sei tu il re dei Giudei ?’. Gesù rispose : ‘Dici questo da te, oppure altri te l’hanno detto sul mio conto ?’. Pilato rispose : ‘Sono forse io giudeo ?  La tua gente e i Sommi Sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto ?’. Rispose Gesù : ‘Il mio Regno non é di questo mondo; se il mio Regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non é di quaggiù’. Allora Pilato gli disse : ‘Dunque tu sei Re ?’. Rispose Gesù : ‘Tu lo dici : io sono Re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo : per rendere testimonianza alla verità. Chiunque é dalla verità, ascolta la mia voce’. Gli disse  Pilato  : “Che cos’é la verità ?’” ( Gv. 18, 33-38 ).
 
Davanti al prefetto romano della Giudea Gesù rivendica a sé il titolo regale, ma il suo ‘Regno’ non si qualifica attraverso categorie politico-sociali. Pilato é abbastanza intelligente da capire questo dettaglio e ciò gli basta. Da funzionario pragmatico dà solo importanza alle cose spicciole. Non gli interessa la consistenza dell’oggetto del discorso dell’imputato. Quello che gli importa appurare é che quest’uomo che gli sta di fronte sia o non sia un sedizioso.
 
Quanto ha dovuto pesare su Gesù questo suo continuo richiamo alla tematica del Regno !?   Sarà la motivazione giuridica della sua condanna a morte alla crocifissione. Per vile opportunismo Pilato  decide, esitante, la morte del Nazareno solo facendo valere l’accusa, da parte del Sinedrio, secondo la quale Gesù si é fatto re, delitto di lesa maestà nei confronti della massima autorità costituita : l’Imperatore di Roma.
 
IlRegno di Dio’, tuttavia, viene delineato come un ‘Regno escatologico’ e Gesù non perde occasione di annunciarne tanto l’imminenza ( Mt. 4,17; Mc. 1,15 ) quanto il tempo incerto della sua attuazione; soprattutto il carattere improvviso di esso  ( si cfr. Lc. 17,21; si cfr. pure Mt. 24, 23-26.37-41 ). La sua instaurazione completa non avverrà se non dopo la sofferenza, il ripudio e la morte del Messìa (Lc. 17,25), e la successione di alcuni eventi con i segni che li contraddistinguono. Come l’insorgenza di falsi cristi e di falsi profeti che travieranno la nazione ebraica ( Mt. 24,4.11.23-26; Mc. 13, 21-23; Lc. 21, 8-9 ) e la condurranno allo sfacelo; la distruzione del Tempio di Gerusalemme ( Mt. 24, 15-20; Mc. 13,1-2; Lc. 21, 5-6 ); una guerra di sterminio contro i Giudei palestinesi ( Lc. 19, 41-44; Lc- 21, 20–24 ). Riprendendo un copione apocalittico già presente nelle profezie di Daniele ( cfr. Dn. 7, 13-14 ), Gesù mette in guardia i suoi discepoli sulle grandi tragedie storiche collettive ( Mt. 24,7; Mc. 13,8; Lc. 21,10 ) e, finanche, sulle sciagure dovute a raccapriccianti calamità naturali ( Mt. 23, 1-2; Mc. 13,8; Lc. 21,11 ). Ma la venuta definitiva del Figlio dell’Uomo ( Mt. 24, 32-35; Mc. 13, 28-31; Lc. 21, 25-36 ) presuppone che il Vangelo dovrà essere proclamato a tutte le genti ( Mt. 24,14; Mc. 13,10 ). Gesù, inoltre, predice la persecuzione e la prova dei dolori per chi avrà creduto in lui, utilizzando la figura dell’énallage, indirizzandosi sì ai suoi discepoli, ma andando oltre, perché sa ( e perché gli evangelisti possono testimoniarlo dopo ) che non tutti troveranno una morte violenta ad attenderli :
 
“Allora vi consegneranno ai supplizi e vi uccideranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome. Molti ne resteranno scandalizzati, ed essi si tradiranno e odieranno a vicenda” ( Mt. 24, 9-10; ma si cfr. pure Mc. 13,9; Lc. 21,12-19 ).
 
Cristo non ha ingannato i suoi primi seguaci. Ha solo dichiarato l’incertezza del tempo dell’evento della Parusìa. Del resto, neanche lui, nella sua natura umana ( come pure gli angeli che conoscono a priori solo i futuri necessari, ma non quelli liberi ), sa quando avverrà il gran giorno del ritorno glorioso del Figlio dell’Uomo :
 
“Quanto a quel giorno e a quell’ora, però, nessuno lo sa, neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre” (Mt. 24,36; Mc. 13,32 ).
 
Raccomanda la vigilanza e la perseveranza nella fede fino a quel giorno (Mt. 24, 13.42-44; Mc.13,13.33-37; Lc. 21,19.34-36)
  
Detto tutto questo, già possiamo riscontrare una continuità teorica tra i ‘discorsi escatologici del Maestro’ e gli eventi successivi vissuti e subìti dai Dodici, dallo stesso Paolo di Tarso e dai fedeli da loro convertiti ( si leggano, in proposito, sia gli Atti degli Apostoli che tutto il resto della letteratura neotestamentaria ). Su cosa può essere garantita questa continuità ?  Andiamo a leggere Mt. 24, 33-34 ( con i suoi paralleli in Mc. 13, 29-31 e in Lc. 21, 31-33, con la variante dello stesso Luca che indica : “il regno di Dio é vicino” ) :
 
“Così anche voi, quando vedrete tutte queste cose, sappiate che Egli é proprio alle porte. In verità vi dico : non passerà questa generazione prima che tutto questo accada. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” ( Mt. 24, 33-34 ).
 
Dunque, abbiamo a che fare con un detto di Gesù molto impegnativo ed incisivo:non passerà questa generazione prima che tutto questo accada”.
 
E all’epoca della stesura delle due Lettere ai Tessalonicesi ( negli anni 51-52 E.V. ), quasi tutti gli Apostoli, buona parte dei discepoli e di coloro che hanno visto ed ascoltato Gesù, sono ancora in vita.
Questo spiega il clima di fervore escatologico-apocalittico e missionario, anche esasperato, dominante nella prima generazione dei credenti in Cristo. Il Vangelo andava diffuso anche nei luoghi più lontani possibili ed impensati, quasi per accelerare i tempi di questa ‘Parusìa’. Gesù ha predetto  discriminazioni e persecuzioni alle quali andranno incontro gli Apostoli e i fedeli della prima ora, e queste si stanno puntualmente verificando ( si cfr. le testimonianze degli Atti e delle Lettere neotestamentarie al riguardo ). Fino al 64 E.V. esse provengono dal mondo giudaico ( dal Sinedrio e dagli Ebrei della Diaspora ), ma anche dalla base popolare del mondo ellenistico-romano, di quella base che rifiuta il Vangelo ritenendolo “exitialis superstitio” ( cfr. Tacito nei suoi ‘Annales’ XV, 44 ).
Proprio in quell’anno, anche l’autorità civile costituita dell’Impero romano scatena la prima ondata persecutoria contro i cristiani; una parentesi che, tra alti e bassi, tra momenti di quiete e altri di recrudescenza, durerà fino ai primi decenni del IV secolo.
Ed é la stessa prima generazione che ravviserà l”l’abominio della desolazione” nel velleitario tentativo dell’imperatore Caligola di insediare una sua statua nel Tempio di Gerusalemme ( 38 E.V. ) :
 
“Quando, dunque, vedrete l’abominio della desolazione, di cui parlò il profeta Daniele, stare nel ‘luogo santo’, chi legge comprenda....” (Mt.24,15; Mc. 13, 14).
 
Anche in questo versetto si riscontra un collegamento teorico con un brano del profeta Daniele a proposito della profanazione dello stesso Tempio, attuato dal sovrano siriaco Antioco IV Epifane :
 
“Forze da lui armate si muoveranno a profanare il santuario della cittadella, aboliranno il sacrificio quotidiano e vi metteranno l’abominio della desolazione” (Dn. 11,31).
 
Questo tragico evento, vaticinato da Daniele, accade nel 175 prima E.V. circa, poco prima della guerra maccabaica :
 
“Non molto tempo dopo, il re inviò un vecchio ateniese per costringere i Giudei ad allontanarsi dalle patrie leggi e a non governarsi più secondo le leggi divine, inoltre per profanare il tempio di Gerusalemme e dedicare questo a Zeus Olimpio e quello sul Garizim a Zeus Ospitale, come si confaceva agli abitanti del luogo” ( 2Mac. 6,1-2 ).
 
Questa generazione assisterà alla sciagurata Prima Guerra Giudaica, con lo sterminio di numerosi Ebrei palestinesi, il saccheggio di Gerusalemme e la distruzione del Tempio. Arriverà a conoscere gravi calamità naturali come la sconvolgente eruzione del Vesuvio del 79 E.V. e la non trascurabile pestilenza del 66 E.V. che si abbatte su Roma (riportata da Tacito nel suo scritto già citato).
 
Il Cristianesimo nascente subisce, inoltre, la prima persecuzione imperiale.
Secondo quanto narra lo storico Tacito nei suoi ‘Annales’, un incendio di ampie proporzioni distrugge parecchi quartieri della città di Roma. Per stornare le voci che vogliono Nerone diretto responsabile del disastro, a causa della sua personalità disturbata, degli eccessi compiuti e della sua megalomania, il sovrano ritorce l’accusa contro i cristiani di Roma ( qualche migliaio nel 64 ), nei cui confronti gravano i più inverosimili pregiudizi ( compendiati tutti nella formula usata da Tacito di “nemici del genere umano” ).
L’Imperatore li fa perseguire penalmente e sottoporre la maggior parte di essi a torture e supplizi per assecondare le masse eccitate. Vi trovano la morte gli Apostoli Pietro e Paolo.
Tacito, pur provando biasimo nei confronti di questi nuovi credenti, non é convinto della loro colpevolezza a proposito dell’incendio, ma neanche offre indizi attendibili su una diretta responsabilità dello stesso Nerone.
 
Crediamo che quest’estremo atteggiamento escatologico –portato avanti dai primi cristiani del mondo greco-romano- abbia giocato un ruolo decisivo nell’eccitazione del popolino, tale da guadagnare nei loro confronti diffidenza e ostilità fino all’avallo imperiale delle persecuzioni. Pietro e Paolo faticano non poco per frenare le intemperanze degli estremisti nelle comunità da loro fondate, i quali non fanno altro che creare confusione, acuire le tensioni tra i fratelli, i cui contraccolpi si avvertono poi all’esterno.
L’Apostolo di Bethsaida ammonisce i fedeli nella sua Seconda Lettera (probabilmente gli stessi destinatari della prima, cioé cristiani di alcune Chiese dell’Asia Minore), mettendoli in guardia non solo dai fanatici che esasperano l’imminenza dell’ultimo giorno, ma anche contro gli scettici e gli increduli che avranno modo, facilmente, di sconfessare la ‘Parusìa’, constatando che, col passare degli anni e dei secoli, tutto rimarrà uguale. Ma Pietro fa ricordare a questi ultimi che la creazione ha avuto un inizio, che c’é stato un diluvio universale facente parte della tradizione dei popoli, che i vari elementi che compongono ilkosmos’ sono tanto in equilibrio quanto in conflitto tra loro. Quindi, non é e non sarà difficile sottovalutare l’eventualità di una conflagrazione universale di immani proporzioni.
 
“Questa, o carissimi,  é già la seconda lettera che vi scrivo, e in tutte e due cerco di ridestare con ammonimenti la vostra sana intelligenza, perché teniate a mente le parole già dette dai santi profeti, e il precetto del Signore e salvatore, trasmessovi dagli apostoli. Questo anzitutto dovete sapere che verranno negli ultimi giorni schernitori beffardi, i quali si comporteranno secondo le proprie passioni e diranno : ‘Dov’é la promessa della sua venuta ? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione’. Ma costoro dimenticano volontariamente che i cieli esistevano già da lungo tempo e che la terra, uscita dall’acqua e in mezzo all’acqua, ricevette la sua forma grazie alla parola di Dio; e che per queste stesse cause, il mondo di allora, sommerso dall’acqua, perì. Ora i cieli e la terra attuali sono conservati dalla medesima parola, riservati al fuoco per il giorno del giudizio e della rovina degli empi. Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi : davanti al Signore un giorno é come mille anni e mille anni come un giorno solo, Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi. Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c’é in essa sarà distrutta.
Poiché dunque tutte queste cose devono dissolversi così, quali non dovete essere voi, nella santità, nella condotta e nella pietà, attendendo e affrettando la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli si dissolveranno e gli elementi incendiati si fonderanno !   E poi, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia”  ( 2 Pt. 3, 1-13 ).
 
E Pietro ci crede pienamente, perché questa informazione l’ha data il suo Maestro durante la sua vita terrena, promettendo, appunto, “nuovi cieli e una terra nuova” ( 2 Pt. 3, 1-13 ). Un dato riportato anche dall’Autore dell’Apocalisse:
 
“Vidi poi un grande trono bianco e Colui che sedeva su di esso. Dalla sua presenza erano scomparsi la terra e il cielo senza lasciar  traccia  di  sé.....” (Apc. 20,11);
 
“Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più” ( Apc. 21,1 ).
 
Del resto, non sono solo i cristiani del I secolo ad illustrare eventi apocalittici di questo tipo.
Anche -presso i pagani- i filosofi stoici dell’epoca parlano di una ‘ecpyrosis’, di una conflagrazione universale che chiude un ciclo naturale per iniziarne un altro. La loro filosofìa rigorosamente materialista ammette un cambiamento dei mondi, pur essendo la materia eterna (  caratterizzato sia dall’esplosione che dall’implosione ), e che il rapporto di equilibrio tra materia ed energia é instabile.
Per la cerchia degli intellettuali attorno a Seneca, il mondo dominato da Roma appare già vecchio. Si ipotizza che andrà soggetto ad una catastrofe cosmica, della quale il fuoco non sarà solo un simbolo, ma anche il principale elemento fisico che la provocherà.
 
Ed é analoga la convinzione dell’Apostolo Pietro al riguardo :
 
“Ora i cieli e la terra attuali sono conservati dalla medesima parola, riservati al fuoco per il giorno del giudizio e della rovina degli empi” ( 2 Pt. 3,7 ).
 
Se pensiamo che questo documento é stato scritto poco prima della persecuzione neroniana a Roma dove, secondo la tradizione, il Principe degli Apostoli vi ha trovato la morte, allora si può capire come un evento contingente, quale il famigerato incendio del 19 luglio del 64 E.V., possa essere stato letto dai primi cristiani secondo questa ottica interpretativa offerta dagli insegnamenti degli Apostoli. Oggi si può dire che quell’episodio sembra non aver cambiato proprio nulla nel corso della storia.
 
Ma, al tempo dell’incendio dell’Urbe, i conti sono ancora aperti. L’Anticristo può essere facilmente ravvisato nel Sinedrio o nello stesso Nerone che hanno perseguitato il Cristianesimo nascente, ma che sono stati spazzati via dalla Provvidenza in poco tempo. Gli Apostoli e i Discepoli di Gesù, secondo dubbie informazioni, hanno raggiunto gli estremi confini del mondo allora conosciuto e ivi manifestato il Vangelo ( Tommaso in India, Bartolomeo in Etiopia, Giuseppe di Arimatea nelle Isole Britanniche, Giacomo il Maggiore e lo stesso Paolo -come supposto in Rom. 15,24 e attestato da Clemente Romano nella sua Prima Lettera ai Corinzi-  nella Penisola Iberica ). Tutti elementi che possono facilmente indurre ad ipotizzare la Parusìa come prossima.
 
Ma una tale imminenza viene, per così dire, sottovalutata da Paolo e dallo stesso Pietro. Infatti, quest’ultimo puntualizza :
 
“Il Signore.....usa pazienza verso di noi non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi”.
 
Insomma, tutto é regolato dalla Provvidenza che, pur conservando il mondo (analogamente alla ‘pronoia’ degli Stoici ma con la differenza che questa ordina in modo necessario), sceglierà i tempi opportuni per manifestarsi compiutamente.
Con il finire del I secolo, con un’altra ondata repressiva che porta la firma di Domiziano, la ‘Parusìa’ non viene neanche più creduta dai radicali come imminente. E sembrano dar forza a questo convincimento le stesse visioni apocalittiche, secondo la tradizione, dell’evangelista Giovanni, in base alle quali i segni che anticiperanno il giudizio universale e la creazione di cieli nuovi e di una terra nuova ( la caduta di Babilonia -Ap. 18-19- nella quale si ravvisa Roma; la disfatta della Bestia, l’era di pace e il regno dei mille anni, Ap. 20,1-7 ) suppongono un tempo più o meno lungo, ma non mettono in discussione minimamente il carattere imprevedibile della teofania finale, tanto meno il vivissimo desiderio degli Apostoli di essere riuniti al loro amato Signore in quel grandioso giorno.
 
 
 
 
 
N O T E
 
(1)     Benito Marconcini, “In attesa del suo ritorno : Le Lettere ai Tessalonicesi”, p. 43 in “Corso Biblico Superiore “La via della salvezza”. Guida alla Lettura della Bibbia, ISSR. “Ut Unum Sint” Roma;
(2)     op.cit., p. 43;
(3)     op.cit., p. 43;
(4)     op.cit., pp.36-37:
(5)     op.cit., p. 37;
(6)     op.cit., p. 37, ma si cfrpure Settimio Cipriani, “Le Lettere di S.Paolo”, Cittadella Editrice, p. 77;
(7)     Settimio Cipriani, “Le Lettere di S.Paolo”, Cittadella Editrice, pp.77-78.
 
 
 
 
 
 



Fonte : scritti e appunti di Francesco Cuccaro , e-mail  cuccarof@alice.it  .












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