TEOLOGIA BIBLICA DEL NUOVO
TESTAMENTO
La "Parusìa" nella Prima
Lettera ai Tessalonicesi di Paolo di Tarso
di Francesco Cuccaro
Premessa
A
partire dal
29 giugno ha inizio l’anno
paolino.
Quale migliore occasione per meditare sulla vita, letteratura e
teologia
dell’Apostolo delle Genti
?
In
quest’articolo
illustriamo la ‘Parusìa’
così come é stata affrontata nella Prima Lettera ai cristiani di
Tessalonica.
Consideriamo ora il
contesto
nel quale é maturata la decisione di Paolo di scrivere questa epistola.
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Seguendo la narrazione lucana degli Atti degli Apostoli, Paolo, intorno al 49
EV, intraprende un secondo viaggio missionario che lo conduce non tanto a
fondare nuove comunità cristiane nell’Asia Minore, quanto a consolidare, sul
piano della fede, quelle già esistenti.
Proprio a
Listra
conosce un giovane nel quale riporrà tutte le sue speranze nell’attività
evangelizzatrice.
Il suo nome é Timoteo, tra
l’altro figlio di padre greco e di madre giudea.
Non sappiamo se
Timoteo, prima
della conversione al Cristianesimo, sia stato un pagano oppure un timorato di
Dio. E’ certo che non era circonciso.
Inconveniente presso i Giudei di quel posto, del cui superamento provvede lo
stesso Paolo ( At.
16,3 ).
Raggiunta la città di
Troade,
Paolo beneficia di una visione soprannaturale durante una notte
:
“.....gli
stava davanti un macedone e lo supplicava : ‘Passa in Macedonia e aiutaci !’” (
At. 16,9 ).
L’Apostolo si convince che -dietro
quest’apparizione
così insolita- ci sia un ordine divino. Dopo esser partito da
Troade,
con Sila e Timoteo,
raggiunge
Neapolis
e, da qui,
Filippi,
citata negli Atti come “colonia romana e città del primo distretto di Macedonia”
( At. 16,12 )
,
divenendo il primo centro urbano d’Europa a conoscere il Vangelo.
Dopo la conversione di Lidia, una donna benestante che simpatizza per la
religione giudaica (“credente in Dio”, At.
16,14), subisce una disavventura ma senza tragiche conseguenze.
Per aver guarito una donna
posseduta da uno “spirito di divinazione” (At.
16,16), si trova al centro di un conflitto
di
interessi che gli fa,
assieme a Sila, assaggiare i rigori delle percosse e del carcere, ma per breve
tempo ( At. 16,19-40 ).
Una volta liberati,
Paolo e Sila si dirigono a
Tessalonica,
seguendo la via di
Anfipoli
e di Apollonia (At. 17,1).
Questa
città, fondata ( nel 315 prima EV ) dal generale macedone
Cassandro
in onore della moglie
Thessalonike,
sorella
di
Alessandro il Grande, é situata
sulla punta nord
del Golfo Termico.
Durante l’occupazione turca prende il nome di Salonicco, per poi riassumere
quello originario nel 1937.
Tessalonica
é la capitale della provincia romana di Macedonia, ricchissimo centro
commerciale, tanto da divenire cosmopolita, solcata dalla Via
Egnatia che la congiunge a Roma attraverso
Durazzo.
Non vi può mancare in
essa
una fiorente colonia ebraica.
Paolo, come sua consuetudine, inizia a predicare nelle sinagoghe di questa
città, per tre sabati consecutivi (
At.
17,2 ), cercando di
dimostrare che Gesù é il Messìa
e che é risorto.
Sebbene alcuni suoi connazionali, assieme ad alcuni Greci proseliti oppure
timorati di Dio, si convertano alla nuova fede, la sua attività
suscita un’opposizione così violenta, in modo tale
che il Nostro decide di abbandonare la città e rifugiarsi a
Berea,
dove il frutto delle conversioni risulta essere copioso, perfino presso gli
Ebrei di questo luogo ( At. 17,10-12 ).
I Giudei di
Tessalonica
non demordono dal perseguitare Paolo. Accecati dall’invidia e da uno spirito di
competizione, cercano di aizzargli contro il popolino di
Berea,
mostrandolo come un sovvertitore della tranquillità pubblica e come un sedizioso
(
At.
17,7 ).
Per tutelare meglio
l’incolumità dell’Apostolo, i neoconvertiti di Berea
lo convincono a lasciare la città, mentre vi restano Sila e Timoteo.
Paolo si dirige ad Atene e di lì a Corinto, permanendovi circa un anno e mezzo (
At.
18,11) .
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L’ Apostolo si sente onorato di aver fondato la Chiesa di
Tessalonica
(
più o meno
intorno al 50 EV ), per le maggiori soddisfazioni che, in termini di conversioni
e accrescimento nella fede, i neofiti gli hanno offerto.
E
di questo ringrazia Dio ( 1Tess. 1,1-3 ). I fedeli aumentano in numero e
qualità, “in virtù di parola, ma anche di prodigi, di Spirito Santo e
di
abbondante forza di persuasione” ( 1
Tess.
1,5 ). Una comunità-modello ( 1
Tess.
1,7 ), per intenderci, nata nell’arco di un breve periodo e senza riservare le
più grandi preoccupazioni di carattere dottrinale o pastorale che, invece,
l’Apostolo ha dovuto subire in altre circostanze e in
altri
luoghi.
Ciò non toglie che si tratta di una comunità
fortemente
discriminata e combattuta, soprattutto dall’esterno.
Quale l’avversario
principale ? I Giudei ortodossi del posto che non hanno perdonato a Paolo la
“defezione” dalla religione mosaica di tanti loro
compatrioti e, per giunta, l’adesione al Vangelo di un buon numero di pagani.
Ovviamente sussiste, in questo
contesto,
un clima di persecuzione. Le autorità civili riescono appena a controllare
l’eccitazione delle masse, scongiurando gli effetti perversi di rancori e di
polemiche accese, tanto più che il Cristianesimo nascente non incontra ancora
l’ostilità degli Imperatori.
Paolo se ne rende conto di ciò trovandosi a Corinto, dove scrive due Lettere a
questi fedeli macedoni, ritenuti da lui un modello per gli altri cristiani,
proprio nella tribolazione come
Gesù
e come lo stesso Paolo a causa dell’ostilità dei Giudei (1
Tess.
2,14).
E’ indubitabile la presenza di un orientamento antigiudaico in queste due
epistole e nel quale
sarà intesa la
prospettiva escatologica dell’Apostolo.
Per stornare possibili accuse che potrebbero ravvisarlo come un avventuriero o
un soggetto malato di protagonismo, l’Apostolo rivendica, a suo carico, la
testimonianza propria di questi credenti che possono attestare come, durante il
suo soggiorno a
Tessalonica,
“non fu
di
aggravio a nessuno” ( 1
Tess.
2,9 ), lavorando con le
proprie mani per l’autosostentamento, comportandosi
in modo irreprensibile (1 Tess.
2,10), non volendo ricercare “motivi di gloria dagli uomini” ( 1
Tess.
2,6 ).
Soprattutto manifestando
amore sincero e disinteressato, paragonabile a quello di una madre per i suoi
figli (1Tess.
2,7).
Nella Prima Lettera, tuttavia, sostiene che l’impegno per la propria
santificazione personale si deve accompagnare all’astinenza dalla fornicazione e
al rifiuto dei costumi pagani connessi ad
essa
( 1
Tess.
4, 1-3 ), raccomandando inoltre la promozione
( superflua,
occorre dirlo, visti i lodevoli risultati dei
cristiani
tessalonicesi
) della carità.
La
‘Parusìa’
secondo Paolo
L’Apostolo delle Genti espone il tema del
‘ritorno
glorioso di
Cristo’,
confermando questo dato della tradizione apostolica, indicandolo con il termine
greco di ‘parousìa’
che significa ‘presenza’. Anche
Platone aveva messo in risalto questa parola per
sottolineare
la sussistenza di un ideale intelligibile nelle cose sensibili.
Paolo la utilizza, invece, per esprimere la seconda venuta di
Gesù,
con la quale si
conclude
la storia umana secondo una concezione lineare prettamente biblica.
“Non é chiara la derivazione del termine, come per molti altri vocaboli del N.T.
Si discute se provenga dalle descrizioni degli incontri dei re
dei
cerimoniali greco-romani o dalla letteratura escatologica giudaica o addirittura
dall’una o dall’altra fonte” (1). E’ certo che
viene designato
per denotare una solenne apparizione di un esercito, di un generale o
di un sovrano
(2).
Visto il breve soggiorno a
Tessalonica,
é probabile che Paolo abbia trascurato di approfondire alcune importanti
questioni
di
escatologia cristiana, dal momento che si sente autorizzato, nell’una e
nell’altra lettera, a dissipare alcune preoccupazioni sorte tra i neoconvertiti
circa il destino dei defunti, compresi i propri cari, tra i quali coloro che
hanno creduto in Cristo, soprattutto nel momento della
Parusìa,
e sulla prossimità o meno di un tale evento.
Per prima cosa Paolo cita i morti con il termine di “dormienti” che,
senza alcun dubbio,
acquista un valore metaforico. Volendo andare, però,
al di là di
esso, il Nostro intende la morte non come l’ultima realtà che sopraggiunge
nell’esistenza di un individuo, bensì come uno stato di assopimento ( e di
sospensione delle funzioni vitali e delle attività connesse ) che dovrà, un
giorno, essere superato. E’ facile presentare la ‘resurrezione dei
morti’
come un
‘risveglio’
da questo stato.
Anche
se poi più tardi, Paolo preciserà, nella Prima Lettera ai
Corinti,
le modalità di
quest’evento
( 1 Cor. 15, 35-55 ).
Quindi, non c’é motivo di
“rattristarsi” come fanno i pagani senza alcuna speranza ( 1
Tess.
4,13 ). Del resto, é inedita l’idea di un ritorno
dall’
aldilà nel mondo ellenistico - romano, se riflettiamo su alcuni versi del poeta
latino Catullo (3), vissuto nel I secolo prima
EV.
:
“Soles
occidere
et
redire
possunt
/
nobis
cum
semel
occidat
brevis
lux /
mors
est perpetua una
dormiendi”
(
Cat.
V, 4-6 ).
“I soli possono tramontare o sorgere
/ per noi una volta
tramontata questa breve vita / resta solo il perpetuo sonno della morte”.
Analogamente a Cristo morto e risorto, anche gli altri risorgeranno e saranno
riuniti con lui ( 1
Tess.
4,14 ).
E
nella
Parusìa
del Signore non ci sarà una precedenza dell’ultima generazione vivente rispetto
ai morti. Questo evento sarà caratterizzato da due fasi
:
prima risorgeranno i morti (Paolo utilizza immagini desunte dalla letteratura
apocalittica giudaica con i suoi elementi descrittivi come “voce
dell’Arcangelo”, “( segnale del )la tromba di Dio”, 1
Tess.
4,16, ecc.); dopo, i viventi saranno “rapiti insieme
a
loro nelle nuvole per andare incontro al Signore nell’aria” ( 1
Tess.
4,17 ).
Occorre fare una precisazione su
quest’ultimo
punto. “L’essere rapiti insieme
a
loro per andare incontro al Signore nell’aria” non racchiude una notizia circa
le modalità relative al processo della trasformazione del vivente durante la
seconda venuta di
Gesù.
Ma non possiamo fare una concessione ai
bultmanniani
insistendo troppo sul lato dell’allegorìa
o dell’immagine letteraria, per poi rigettare
questo
evento solo perché
l’Apostolo ha espresso un dato, come questo, in una concezione cosmologica
vigente presso gli Ebrei contemporanei. La stessa vaghezza, come sembra indicare
la frase,
sembrerebbe
suggerire un effetto di
fantasìa.
Risulta
chiara questa convinzione di Paolo : nel momento della
Parusìa
l’ultima generazione umana non vivrà più la stessa vita quotidiana di tutti i
giorni, ma sarà trasfigurata nella gloria del Signore. Del resto,
Gesù
é risorto ed é “asceso” al cielo. Se questo é avvenuto per il Nuovo Adamo,
perché non deve avvenire anche ( e analogamente ) per gli altri uomini ?
“Andare incontro al
Signore nell’aria” significa avere un corpo dotato di perfezioni che potenziano
le facoltà da
esso
possedute, vincono la stessa forza di gravità o, quanto meno, la tendenza dei
corpi gravi verso il basso ( convinzione quasi unanime a quel tempo ), o come
Dante definisce -nel suo Paradiso canto I- il “trasumanar”,
cioé
andare oltre l’umano, trovandosi nel Cielo della Luna con il proprio corpo,
senza sapere né come né quando.
“Questo
infatti
vi diciamo sulla parola del Signore : noi,
i viventi che potremmo essere rilasciati per la Parusìa
del Signore.....”
(
1
Tess.
4,15 ).
Questo versetto può essere, giustamente, ritenuto la “croce degli interpreti”.
Consideriamo l’espressione “sulla parola del Signore”. Il Nostro non dice nulla
di suo, ma si rifà alla tradizione degli Apostoli e, quindi
a monte,
all’insegnamento di
Gesù.
Non si tratta né di
una
opinione personale,
tantomeno
di una rivelazione comunicata a lui direttamente dal Redentore medesimo.
Al riguardo, una chiave esegetica mira a considerare in modo separato, nel
versetto 15, i “viventi” dal termine “parusìa”
( manifestazione del Signore ), rendendo possibile questa parafrasi
:
“noi che viviamo attualmente non saremo separati dai nostri defunti alla venuta
del Signore”. Tale posizione, sostenuta dal
biblista
Francesco
Spadafora,
si basa sulla presunta impossibilità della costruzione del verbo “perileipomenoi”
( superstiti ) con “eis”
( in ).
Ma
si scontra ugualmente con il testo che oppone i superstiti ai morti.
E
non trova il sostegno da parte dei Padri della Chiesa di lingua greca (4).
Un’altra interpretazione, quella di Giovanni Rinaldi, ritiene che Paolo non fa
altro che riportare il punto di vista degli interroganti, dicendo
:
“quelli che voi chiamate i superstiti, non precederanno i vostri morti”,
correggendo un errore circolante tra i credenti di
Tessalonica
circa una diversa sorte e dei morti e dell’ultima generazione umana (5).
Ma
non riusciamo a condividere una tale opinione.
Ci può essere una lettura –da parte
escatologista-
che attualizza questo brano, inducendo a ritenere che Paolo raccomandi il
massimo di vigilanza per il carattere improvviso dell’evento della
Parusìa,
estremizzando la figura retorica dell’énallage
(6), quasi come se parlasse a noi, generazione del Duemila, e si
sentisse
parte di questa stessa generazione, in un’iperbolica affermazione.
Non che questo modo di
interpretare sia sbagliato o alquanto debole.
Tutt’altro.
Ma può
risultare
riduttivo, forzato, deresponsabilizzante e anche pericoloso se fatto proprio
dagli sprovveduti.
Un’altra lettura, invece, si potrà dare da parte di chi ironizza proprio su
questa comunanza di destino di Paolo, nella sua esistenza storica, e della
generazione vivente al momento della
Parusìa,
per sconfessare questo dato rivelato (non c’é e non ci sarà
Parusìa
perché Paolo é morto, nonostante la fede “ingenua” da lui ostentata in questo
avvenimento), e come sono morti i destinatari di questa Prima Lettera, i quali
si sono identificati con l’ultima generazione umana.
L’Apostolo non é incorso
nell’errore riguardo alla prossimità o meno della fine della storia.
Altrimenti,
verrebbe
compromesso il carattere ispirato di questa epistola. E l’ispirazione non può
essere mai compatibile con la presenza di tenaci ed ineliminabili contraddizioni
logiche
.
E’ fuorviante sostenere che Paolo abbia creduto, nella prima missiva,
nell’imminenza della
Parusìa
e poi, nella seconda, l’abbia confutata ( o minimizzata ) apertamente.
Se si legge con attenzione
la 1 Tess.
5, 1-3, si evince bene il carattere dell’incertezza del momento della seconda
venuta di
Gesù
(7)
:
“Riguardo poi ai tempi e ai momenti precisi non avete bisogno che vi si
scriva.
Voi stessi
infatti
sapete molto bene che il giorno del Signore viene come un ladro di notte. Quando
diranno ‘pace e
sicurezza’
( Ger.6,14
), proprio allora
improvvisa
sopravverrà la catastrofe, come i dolori del parto a una donna gravida, e non
potranno sfuggire” ( 1
Tess.
5, 1-3 ).
Come dire tutto. Paolo ignora
perfettamente quando
avverrà questo fatidico giorno. Domani o tra un milione
di
anni !? Raccomanda caldamente ai suoi fedeli di non restare impreparati, perché
quel giorno si manifesterà come “un ladro di notte” ( 1
Tess.
5,3 ),
sottolineando
la caratteristica dell’improvvisazione e dell’imprevedibilità della
Parusìa.
Inoltre, il versetto 10 del cap. 5 sembra suggerire il presentimento
dell’Apostolo di non essere più tra i viventi alla fine della storia
:
“....affinché
sia che vigiliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui” ( 1
Tess.
5,10 ).
Il brano 1
Tess.
5, 1-4 richiama implicitamente i detti escatologici di
Gesù
riportati dalla tradizione sinottica (
si
cfr.,
per esempio, Mt. 24,8.36-43.50;
Mc.
13,1-37;
Lc.
21,5-36 ), ricorrenti anche in altri scritti neotestamentari ( come
At.
1,7; 2 Pt. 3,10;
Ap.
3,10 ).
Paolo si convince di aver lasciato nel vago delle sue affermazioni circa
l’imprevedibilità della circostanza della
Parusìa.
Ciò spiega la necessità di scrivere una seconda missiva, nell’arco di pochi
mesi, non tanto per affrontare tensioni e polemiche sorte nella Chiesa di
Tessalonica,
quanto per neutralizzare la possibilità
di
equivoci e di malintesi sul
tempo di questa seconda venuta di
Gesù,
derivanti da una lettura troppo precipitosa della prima lettera.
L’Apostolo capisce che, spinto dall’entusiasmo, ha troppo insistito su quel
“noi” come comunanza di destino, sottintendendo il suo più semplice desiderio
di
essere riunito, ancora in carne ed ossa, al suo Signore.
La consapevolezza del carattere improvviso della seconda venuta
di
Gesù
deve comportare, di conseguenza, la ‘vigilanza’ come si conviene ai “figli della
luce e figli del giorno” ( 1
Tess.
5,5 ), perché “il giorno del Signore viene come un ladro di notte” ( 1
Tess.
5,2 ).
L’invito ad essere sobri
non vuol intendersi solo nel senso della moderazione nell’uso dell’alcool e nel
cibo, ma piuttosto nel senso del retto cammino sulla via della santità,
“indossando la corazza della fede e della carità, ( avendo come ) elmo la
speranza della salvezza” ( 1
Tess.
5,8 ).
Nella Prima Lettera ai
Tessalonicesi
Paolo rivolge i suoi ultimi appelli circa i doveri di
promozione della
carità fraterna e della misericordia spirituale ( 1
Tess.
5, 14-15 ), ma con una precisa discriminazione nei confronti degli
“indisciplinati” ( letteralmente “i
fuori ordinanza”
), vale a dire quei credenti che, ritenendo imminente la ‘parusìa’
e illudendosi di trovarsi in uno stato di purezza e di santità, manifestano
disobbedienza e ingratitudine ai superiori che si sacrificano per correggere,
presiedere e fortificare nella fede la stessa comunità, pretendendo di essere
mantenuti a spese degli altri fratelli, gettando discredito su questi ultimi
all’esterno. Un anticipo di quelle che saranno le degenerazioni dei successivi
orientamenti quietistici.
“Non vogliate spegnere lo Spirito; non disprezzate le profezie. Esaminate tutto;
ritenete ciò che é bene. Guardatevi da ogni apparenza di male” ( 1
Tess.
5, 19-22 ).
Anche i ‘carismi’ servono all’edificazione della Chiesa e, pertanto, vanno
promossi e, soprattutto, esaminati per discernere quello che é un genuino dono
di Dio da una contraffazione di Satana (8) o, semplicemente, da
una
autosuggestione di origine puramente naturale.
Tra questi doni é
indispensabile quello della ‘profezìa’ per
discernere i segni dei tempi.
Ma anche l’intelligenza dello Spirito nell’esaminare le predizioni dell’A.T. per
poter verificare il riscontro del contenuto da
essi
riportato con la realtà contemporanea all’Apostolo.
Nell’epilogo del primo scritto, Paolo invoca la benevolenza di Dio sui fedeli di
Tessalonica
affinché, al momento della ‘Parusìa’,
l’essere di ciascuno di loro (spirito, anima e corpo) sia trovato integro, vale
a dire puro e ordinato, davanti al cospetto del Cristo solenne.
Paolo espone le nozioni dell’antropologìa
giudaica che
insiste
sull’unità psicofisica dell’individuo umano, utilizzando termini greci come ‘pneuma’,
‘psiché’,
‘soma’. Non offre per niente uno spaccato della concezione metafisica dell’uomo
di
tipo aristotelico, nel sostenere spirito, anima e corpo come
due-tre
principi sostanziali, o del tipo platonico come di due
( o più ) sostanze
unite accidentalmente.
‘Pnéuma’
é anche il termine con il quale si intende sia la ‘ruah
Jahveh’,
ovvero lo Spirito Santo come principio di vita nuova del redento, sia la parte
più alta e più profonda della mente umana che si apre all’influsso dello
Spirito.
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Il tema della ‘Parusìa’
é schiettamente biblico, le cui radici si ravvisano già nell’Antico Testamento.
Una
escatologia allo stato germinale è già delineata negli scritti profetici ( i ‘Nebiim’
), dove si evince la drammaticità della lotta tra il bene e il male nel mondo e
nel cosmo fino alla fine dei tempi.
Comprimari di questa lotta sono
Jahveh,
da un lato, e le forze che lo avversano, dall’altro.
Israele -con il suo
drammatico rapporto con le nazioni- ne é il teatro.
Il peccato ( in ebraico ‘awon’
) é la causa del
‘giudizio
di
Dio’,
dell’intervento equilibratore dell’Altissimo che punisce l’empio, ma anche
purificatore.
Israele si é lasciato prostituire dal culto
di
altre divinità,
compromettendo l’originaria alleanza con
Jahveh,
permettendo l’adozione di schemi mentali, appartenenti ad altri popoli, nel
vivere e comunicare la propria fede. A questo cedimento
idolatrico
ne é seguito un rilassamento dei costumi, una morale individualista che alimenta
l’ingiustizia nei rapporti umani.
Con i profeti Ezechiele e
Zaccarìa
si dilata la prospettiva dell’azione divina su tutto l’universo. La stessa
figura del
‘nabi’
beneficia di rivelazioni che avvengono per mezzo di ‘visioni’ riguardanti lo
svolgimento degli eventi e le entità soprannaturali che vi entreranno in gioco.
Soprattutto con Daniele si può
dire
che prende
avvìo
il genere della ‘letteratura
apocalittica’
con tutto il suo corredo di rappresentazioni plastiche, dove vengono illustrati
i tempi e i luoghi della desolazione, le catastrofi cosmiche, un intervento
diretto degli angeli e di altre potenze intermedie tra Dio e l’uomo.
Cominciano ad assumere un rilievo sempre crescente le
tematiche
del ‘giorno del
Signore’
(denominato anche “giorno dell’ira”, “gran giorno”, si
cfr.
“…..prima
che venga il giorno del Signore grande e terribile”,
Gl.
3,4, ecc.;
espressioni che non perderanno la loro forza incisiva e la loro efficacia
neanche nei discorsi escatologici di
Gesù
e in tutta la letteratura neotestamentaria), del
‘Regno di
Dio’
( si
cfr.
Zac.
14, 7
:
“sarà un unico giorno, il Signore lo conosce…”, oppure
Zac.
14,9
:
“Il Signore sarà re di tutta la terra e ci sarà il Signore soltanto, e soltanto
il suo nome” ) e del ‘Messìa’
che ne sarà il titolare (
Dn
2,28, ma si tratta di un dato attestato anche dalla letteratura
sapienziale
:
Sal.
72;
Sal.
110, ecc. ). Certo, ogni giorno appartiene al Signore; ma quando si parla del
‘giorno
del
Signore’
si intende la ‘manifestazione finale e solenne di
Jahveh’,
la sua ultima
teofanìa
con la quale si conclude la lunghissima vicenda umana.
Questo genere apocalittico interessa buona parte degli scritti giudaici del
periodo intertestamentario e il Nuovo Testamento cristiano.
**************************************************
RELAZIONE TRA IL
‘REGNO’
E LA ‘PARUSIA’ NELLE NARRAZIONI EVANGELICHE
I Vangeli canonici inquadrano l’attività di Giovanni il Battista e il ministero
pubblico di
Gesù
di Nazareth nell’angolatura escatologica. Entrambi i personaggi insistono
sull’imminenza di un
‘Regno
dei
Cieli’
o di un ‘Regno di
Dio’
:
“In quei giorni comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto della
Giudea, dicendo
:
‘Convertitevi, perché il regno dei cieli é
vicino’”
( Mt. 3, 1 - 2 );
“Dopo che Giovanni fu arrestato,
Gesù
si recò
nella Galilea,
predicando il Vangelo di Dio e diceva : ‘Il tempo é compiuto e il regno di Dio é
vicino; convertitevi e credete al
vangelo’”
(
Mc.
1,15;
si
cfr. pure
Mt. 4,17 );
indicando
una
signorìa
di Dio su tutti ( non solo sui Giudei ) che sarà unica, universale, solenne e
definitiva. Non ci soffermeremo sui passi evangelici nei quali ricorre questa
‘figura’ prettamente escatologica e della quale non vengono, tra l’altro,
neanche esplicitate natura, funzioni e consistenza. Nel pensiero di
Gesù
la rivelazione del Regno dei Cieli deve essere accettata con fede da un cuore
possibilmente puro e da una mente elasticizzata (
si
cfr.
Mc.
12, 32-34 ). Questo spiega perché il Maestro utilizza la figura letteraria della
‘parabola’ nei suoi insegnamenti pubblici.
“Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero
:
‘Perché parli loro in parabole?’. Egli rispose
:
‘Perché a voi é dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non é
dato. Così a chi ha sarà dato, e a chi non ha sarà tolto anche quello che non
ha. Per questo parlo loro in parabole
:
perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono” ( Mt.
13, 10-13: si
cfr.
pure
Mc.
4, 10-12 ).
E’ evidente che questo misterioso ‘Regno di
Dio’
si oppone al secolo presente caratterizzato dalle iniquità degli uomini. Le
aspettative
di questo evento sono molto vive presso i Giudei dell’epoca di
Gesù
e di Giovanni il Battista, e tanto più accresciute dalle tensioni derivanti
dall’oppressione politico-militare e fiscale dell’Impero Romano.
E
la purificazione dai propri peccati individuali e collettivi deve essere la
premessa per l’instaurazione di un tale ‘Regno’.
Gesù,
sebbene accetti e
faccia
proprio l’argomento di una tale purificazione ( Mt. 17,17 ), delinea, tuttavia,
un
messianesimo
sostanzialmente diverso da quello creduto dai suoi connazionali. Non si
caratterizzerà in chiave politica e militare, ma si accompagnerà ad un
rinnovamento delle coscienze di tutti (
si
cfr.
il
celebre ‘Sermone della
Montagna’
in Mt. 5, 1-12 ), dove la ‘misericordia’, la ‘giustizia’, la ‘pace’, la ‘purezza’,
la ‘mitezza’ sono le condizioni per rendersi partecipi di questo Regno, e non
certamente l’appartenenza ad un’etnìa
o ad un ceto sociale o l’essere depositari di un’elevata sapienza. Ma,
soprattutto, l’insegnamento sull’amore verso il prossimo e, addirittura in modo
radicale, verso i nemici ( Mt. 5, 43 - 44 ) sembra rendere vana la prospettiva
di incanalare ogni discorso
relativo al
‘Regno
escatologico’
sul piano dell’affermazione della lotta armata ( e i Romani erano nemici più di
tutti gli altri ).
Un altro dettaglio interessante per qualificare in qualche modo il
‘Regno
di
Dio’
é quello suggerito da
Gesù
stesso :
“Interrogato dai farisei
:
‘Quando verrà il regno di Dio ?’, rispose : ‘Il regno di Dio non viene in modo
da attirare l’attenzione, e nessuno dirà : eccolo qui o eccolo là.
Perché
il regno di Dio é in mezzo a voi !”
(
Lc.
17,21 ).
Questo versetto si può tradurre anche in questo modo
.
“Il Regno di Dio é dentro di voi !”. Come interpretare
Lc.17,21
?
In primo luogo, il
‘Regno’
é una realtà attiva e dinamica già operante in mezzo agli uomini. Secondo
:
la sua
relativizzazione
a
Gesù,
nel senso che non é possibile né concepibile al di fuori di Cristo stesso.
L’espressione “in mezzo a voi” ( o “dentro di voi” ) denota la consapevolezza
che questa realtà
trascenda
i limiti spaziali e cronologici, per cui dire “quando verrà” sembra non avere
più senso, divenendo un qualcosa che non solo va al di là di ogni immaginazione,
ma che si inserisce nella storia, si potrebbe dire, in una maniera quasi
impercettibile.
Eppure la vicinanza del Regno é attestata
dai
‘miracoli’ che
Gesù
compie ( Mt. 12,28 ) : l’attuazione di una tale realtà non é possibile, per
l’appunto, al di fuori, della sua persona e della sua attività.
Relativizzazione
anche nei confronti degli uomini, perché occorre disporsi davanti a
quest’evento interpellante, accettandolo o
rifiutandolo.
Il
‘Regno’
fa appello alla fede e al cuore dell’uomo, come se si trovasse “in interiore
homine”,
e
Gesù
lo descrive come qualcosa che si edifica ( utilizzando termini rozzamente
materiali ) e che cresce dentro l’uomo, con e nonostante l’uomo. Si prestano
bene a questa riflessione alcune parabole, come quella del
‘seminatore’ ( Mt. 13,1-9.18-23; si cfr.
pure
Mc.
4,
1-9.13-20;
Lc.
8,4-8.11-15 ) e quella del
‘granello
di
senape’
:
“…..Egli
parlò loro di molte cose in parabole. E disse
:
“Ecco, il seminatore uscì a seminare.
E
mentre seminava, una parte
del seme cadde sulla
strada e vennero gli uccelli e la divorarono. Un’altra parte cadde in luogo
sassoso, dove non c’era molta terra; subito germogliò, perché il terreno non era
profondo.
Ma,
spuntato il sole, restò bruciata e non avendo radici si seccò. Un’altra parte
cadde sulle spine e le
spine
crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sulla terra buona e diede
frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta. Chi ha orecchi,
intenda” ( Mt. 13, 1-9 );
“Voi dunque intendete la parabola del seminatore
:
tutte le volte che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il
Maligno e ruba ciò che é stato seminato nel suo cuore : questo é il seme
seminato lungo la strada. Quello che é stato seminato nel terreno sassoso é
l’uomo che ascolta la parola e subito l’accoglie con gioia, ma non ha radice in
sé ed é incostante, sicché appena giunge una tribolazione o persecuzione a causa
della parola, egli ne resta scandalizzato. Quello seminato tra le spine é
colui che
ascolta la parola, ma la preoccupazione del mondo e l’inganno della ricchezza
soffocano la parola ed essa non dà frutto. Quello seminato nella terra buona é
colui che
ascolta la parola e la comprende; questi dà frutto e produce ora il cento, ora
il sessanta, ora il trenta” ( Mt. 13, 18-23 );
“Il regno dei cieli si può paragonare
a
un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso é il
più piccolo
di tutti i semi ma, una
volta cresciuto,
é più grande degli altri legami e diventa un albero, tanto
che vengono gli
uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami” ( Mt. 13, 31-32:
Mc.
4, 30-32;
Lc.
13, 18 – 19 ).
Gli interlocutori di
Gesù
–e in primo luogo i discepoli- non riescono ancora a dissociare la ‘religione’
dalla ‘politica’. Da come si evince dai vangeli canonici, il Maestro parla in
modo figurato, per similitudini, lascia nel
vago, ma
é anche esigente da un punto di vista morale, elencando condizioni
imprescindibili per accedere al ‘Regno di
Dio’;
e, più di una volta, utilizza parole e frasi caricandole di sensi doppi. Ma
l’orizzonte mentale del popolo é sempre quello lì e la sua radice é
perfettamente
veterotestamentaria
:
ristretto al contesto nazionale ed etnico, in base al quale il rinnovamento
morale e religioso deve interessare solo Israele. In questa luce
vengono
filtrati i messaggi di
Gesù,
il quale, invece, si impegna a dilatarla, inserendola in una dimensione nuova e
in una prospettiva più ampia ed universale possibile. Nei Vangeli e in
At.
1, 6-8
Gesù
non sconfessa apertamente, a viva voce e
una volta per tutte,
questo orizzonte mentale ristretto dei suoi interlocutori, nel senso che avrebbe
potuto benissimo dire : “Guardate ! Il vero Israele sarà tutta l’umanità
redenta nel mio sangue, tutte le nazioni che accetteranno il Vangelo; io sono il
Messìa
di tutto il genere umano; il regno di Dio non sarà un ricostituito regno di
Israele dal carattere militare e trionfalistico……”, all’apparenza rimanendo
indifferente di fronte alle interrogazioni degli astanti; anche se dilata un
tale orizzonte svuotandolo del suo senso nazionalistico ed esclusivistico,
emancipandolo da un pregiudizio di carattere mondano, caricandolo di una precisa
e unica valenza spirituale. Come
dire
che
Gesù
segue una pedagogia e tempi opportuni, affinché i suoi Apostoli e i suoi
Discepoli riescano a pervenire, in forza dello Spirito Santo e delle circostanze
nelle quali si troveranno a vivere ( At. 1, 6-8 ), alla nuova consapevolezza che
il
‘Regno
di
Dio’
non é e non sarà per niente un ‘Regno
giudaico’
dal carattere politico-militare, magari inserito in un contesto egemonico che lo
vede signoreggiare su tutte le genti della terra.
Il Quarto Vangelo non allude mai al tema del
‘Regno’
se non nella narrazione delle circostanze che caratterizzano la Passione di
Gesù
(
Gv.
18, 33-38; ma
si
cfr.
pure
Gv.
19,3. 12. 14-15 ),
presupponendo, però,
tutto il
kerygma
primitivo. Del resto, che senso ha scrivere quei versetti in cui ricorrono le
parole ‘re’ e ‘regno’ se non per il fatto che esse sono parte integrante della
predicazione del Maestro
?
“Pilato
allora rientrò nel pretorio, fece chiamare
Gesù
e gli disse
:
‘Sei tu il re dei Giudei ?’.
Gesù
rispose
:
‘Dici questo da te, oppure altri te l’hanno detto sul mio conto ?’.
Pilato
rispose
:
‘Sono forse io giudeo ? La tua gente e i Sommi Sacerdoti ti hanno consegnato a
me; che cosa hai fatto ?’. Rispose
Gesù
:
‘Il mio Regno non é di questo
mondo; se il mio Regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero
combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non é di
quaggiù’.
Allora
Pilato
gli disse
:
‘Dunque tu sei Re ?’. Rispose
Gesù
:
‘Tu lo dici : io sono Re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel
mondo
:
per rendere testimonianza alla verità. Chiunque é dalla verità, ascolta la mia
voce’.
Gli disse
Pilato
:
“Che cos’é la verità ?’” (
Gv.
18, 33-38 ).
Davanti al prefetto romano della Giudea
Gesù
rivendica a sé il titolo regale, ma il suo ‘Regno’ non si qualifica attraverso
categorie politico-sociali.
Pilato
é abbastanza intelligente da capire questo dettaglio e ciò gli basta. Da
funzionario pragmatico dà solo importanza alle cose spicciole. Non gli interessa
la consistenza dell’oggetto del discorso
dell’imputato.
Quello che gli importa appurare é che
quest’uomo
che gli sta di fronte sia o non sia un sedizioso.
Quanto ha dovuto pesare su
Gesù
questo suo continuo richiamo alla
tematica
del Regno !? Sarà la motivazione giuridica della sua condanna a morte alla
crocifissione. Per vile opportunismo
Pilato
decide, esitante, la
morte del Nazareno solo facendo valere l’accusa, da parte del Sinedrio, secondo
la quale
Gesù
si é fatto re, delitto di lesa maestà nei confronti della massima autorità
costituita : l’Imperatore di Roma.
Il
‘Regno
di
Dio’,
tuttavia, viene delineato come un ‘Regno
escatologico’
e
Gesù
non perde occasione di annunciarne tanto l’imminenza ( Mt. 4,17;
Mc.
1,15 ) quanto il tempo incerto della sua attuazione; soprattutto il carattere
improvviso di
esso
( si
cfr.
Lc.
17,21;
si
cfr.
pure
Mt. 24, 23-26.37-41 ). La sua instaurazione completa non avverrà se non dopo la
sofferenza, il ripudio e la morte del
Messìa
(Lc.
17,25), e
la successione
di
alcuni eventi con i segni che li contraddistinguono.
Come l’insorgenza di falsi
cristi e di falsi profeti che travieranno la nazione ebraica ( Mt.
24,4.11.23-26; Mc.
13, 21-23;
Lc.
21, 8-9 ) e la condurranno
allo sfacelo; la distruzione del Tempio di Gerusalemme ( Mt. 24, 15-20;
Mc.
13,1-2;
Lc.
21, 5-6 ); una guerra di sterminio contro i Giudei palestinesi (
Lc.
19, 41-44;
Lc-
21, 20–24 ). Riprendendo un copione apocalittico già presente nelle profezie di
Daniele (
cfr.
Dn.
7, 13-14 ),
Gesù
mette in guardia i suoi discepoli sulle grandi tragedie storiche collettive (
Mt. 24,7;
Mc.
13,8;
Lc.
21,10 ) e, finanche, sulle
sciagure dovute a raccapriccianti calamità naturali ( Mt. 23, 1-2;
Mc.
13,8;
Lc.
21,11 ).
Ma la venuta definitiva del
Figlio dell’Uomo ( Mt. 24, 32-35; Mc.
13, 28-31;
Lc.
21, 25-36 ) presuppone che il Vangelo dovrà essere proclamato a tutte le genti (
Mt. 24,14;
Mc.
13,10 ).
Gesù,
inoltre, predice la persecuzione e la prova dei dolori per chi
avrà creduto
in lui, utilizzando la figura dell’énallage,
indirizzandosi sì ai suoi discepoli, ma andando oltre, perché sa ( e perché gli
evangelisti possono testimoniarlo dopo ) che non tutti troveranno una morte
violenta ad attenderli :
“Allora vi consegneranno ai supplizi e vi uccideranno, e sarete odiati da tutti
i popoli a causa del mio nome. Molti ne resteranno scandalizzati, ed essi si
tradiranno e odieranno a vicenda” ( Mt. 24, 9-10; ma
si
cfr.
pure
Mc.
13,9;
Lc.
21,12-19 ).
Cristo non ha ingannato i suoi primi seguaci. Ha solo dichiarato
l’incertezza del tempo dell’evento
della
Parusìa.
Del resto, neanche lui, nella sua natura umana ( come pure gli angeli che
conoscono a priori solo i futuri necessari, ma non quelli liberi ),
sa quando
avverrà il gran giorno del ritorno glorioso del Figlio dell’Uomo :
“Quanto a quel giorno e a
quell’ora,
però, nessuno lo sa, neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo
il Padre” (Mt. 24,36;
Mc.
13,32 ).
Raccomanda la vigilanza e la
perseveranza nella fede fino a quel giorno (Mt. 24, 13.42-44;
Mc.13,13.33-37; Lc.
21,19.34-36)
Detto tutto questo, già possiamo riscontrare una continuità teorica tra i
‘discorsi escatologici del
Maestro’
e gli eventi successivi vissuti e
subìti
dai Dodici, dallo stesso
Paolo
di Tarso e dai fedeli da loro convertiti ( si leggano, in proposito, sia gli
Atti degli Apostoli
che
tutto il resto della letteratura neotestamentaria ). Su cosa può essere
garantita
questa
continuità ? Andiamo a leggere Mt. 24, 33-34 ( con i suoi paralleli in
Mc.
13, 29-31 e in
Lc.
21, 31-33, con la variante dello stesso Luca che indica
:
“il regno di Dio é vicino” ) :
“Così anche voi, quando vedrete tutte queste cose, sappiate che Egli é proprio
alle porte. In verità vi dico
:
non passerà questa generazione prima che tutto questo accada. Il cielo e la
terra passeranno, ma le mie parole non
passeranno”
( Mt. 24, 33-34 ).
Dunque, abbiamo a che fare con un detto di
Gesù
molto impegnativo ed incisivo:
“non
passerà questa generazione prima che tutto questo accada”.
E all’epoca della stesura delle due Lettere ai
Tessalonicesi
( negli anni 51-52 E.V. ), quasi tutti gli Apostoli, buona parte dei discepoli e
di
coloro che hanno
visto ed ascoltato
Gesù,
sono ancora in vita.
Questo spiega il clima di fervore
escatologico-apocalittico
e missionario, anche esasperato, dominante nella prima generazione dei credenti
in Cristo. Il Vangelo andava diffuso anche nei luoghi più lontani possibili ed
impensati, quasi per accelerare i tempi di questa ‘Parusìa’.
Gesù
ha predetto discriminazioni
e persecuzioni alle quali andranno incontro gli Apostoli e i fedeli della prima
ora, e queste si stanno puntualmente verificando (
si
cfr.
le
testimonianze degli Atti e delle Lettere neotestamentarie al riguardo ). Fino al
64 E.V. esse provengono dal mondo giudaico ( dal Sinedrio e dagli Ebrei della
Diaspora ), ma anche dalla base popolare del mondo
ellenistico-romano,
di quella base che rifiuta il Vangelo ritenendolo “exitialis
superstitio”
(
cfr.
Tacito nei suoi ‘Annales’
XV, 44 ).
Proprio in
quell’anno,
anche l’autorità civile costituita dell’Impero romano scatena la prima ondata
persecutoria contro i cristiani; una parentesi che, tra alti e bassi, tra
momenti di quiete e altri di recrudescenza, durerà fino ai primi decenni
del
IV secolo.
Ed é la stessa prima generazione che ravviserà l”l’abominio della desolazione”
nel velleitario tentativo dell’imperatore
Caligola
di insediare una sua statua nel Tempio di Gerusalemme ( 38 E.V. )
:
“Quando, dunque,
vedrete
l’abominio della desolazione, di
cui parlò il profeta Daniele, stare nel
‘luogo
santo’,
chi legge comprenda....”
(Mt.24,15;
Mc.
13, 14).
Anche in questo versetto si riscontra un collegamento teorico con un brano del
profeta Daniele a proposito della profanazione dello stesso Tempio, attuato dal
sovrano
siriaco
Antioco IV
Epifane
:
“Forze da lui armate si muoveranno a profanare il santuario della cittadella,
aboliranno il sacrificio quotidiano e vi metteranno
l’abominio della desolazione” (Dn.
11,31).
Questo tragico evento, vaticinato da Daniele, accade nel 175 prima E.V. circa,
poco prima della guerra
maccabaica
:
“Non molto tempo dopo, il re inviò un vecchio ateniese per costringere i Giudei
ad allontanarsi dalle patrie leggi e a non governarsi più
secondo le
leggi divine, inoltre per profanare il tempio di Gerusalemme e dedicare questo a
Zeus Olimpio e quello sul
Garizim
a Zeus Ospitale, come si confaceva agli abitanti del luogo” ( 2Mac. 6,1-2 ).
Questa generazione assisterà alla sciagurata Prima Guerra Giudaica, con lo
sterminio di numerosi Ebrei palestinesi, il saccheggio di Gerusalemme e la
distruzione del Tempio. Arriverà a conoscere gravi calamità naturali come la
sconvolgente eruzione del Vesuvio del 79 E.V. e la non trascurabile pestilenza
del 66 E.V. che si abbatte su Roma (riportata da Tacito nel suo scritto già
citato).
Il Cristianesimo nascente subisce, inoltre, la
prima
persecuzione imperiale.
Secondo quanto narra lo storico Tacito nei suoi ‘Annales’,
un incendio
di
ampie proporzioni distrugge parecchi quartieri della città di Roma. Per stornare
le voci che vogliono Nerone diretto responsabile del disastro, a causa della sua
personalità disturbata, degli eccessi compiuti e della sua megalomania, il
sovrano ritorce l’accusa contro i cristiani di Roma ( qualche migliaio nel 64 ),
nei cui
confronti
gravano i più inverosimili pregiudizi ( compendiati tutti nella formula usata da
Tacito di “nemici del genere umano” ).
L’Imperatore li fa perseguire penalmente e sottoporre la maggior parte di
essi
a torture e supplizi per assecondare le masse eccitate. Vi trovano la morte gli
Apostoli Pietro e Paolo.
Tacito, pur provando biasimo nei confronti di questi nuovi credenti, non é
convinto della loro colpevolezza a proposito dell’incendio, ma neanche offre
indizi attendibili su una diretta responsabilità dello stesso Nerone.
Crediamo che
quest’estremo
atteggiamento escatologico –portato avanti dai primi cristiani del mondo
greco-romano-
abbia
giocato un ruolo decisivo nell’eccitazione del popolino, tale da guadagnare nei
loro confronti diffidenza e ostilità fino all’avallo imperiale delle
persecuzioni. Pietro e Paolo
faticano
non poco per frenare le intemperanze degli estremisti nelle comunità da loro
fondate, i quali non fanno altro che creare confusione, acuire le tensioni tra i
fratelli, i cui contraccolpi si avvertono poi all’esterno.
L’Apostolo di
Bethsaida
ammonisce i fedeli nella sua Seconda Lettera (probabilmente gli stessi
destinatari della prima,
cioé
cristiani
di
alcune Chiese dell’Asia Minore), mettendoli in guardia non solo dai fanatici che
esasperano l’imminenza dell’ultimo giorno, ma anche contro gli scettici e gli
increduli che avranno modo, facilmente, di sconfessare la ‘Parusìa’,
constatando che, col passare degli anni e dei secoli, tutto rimarrà uguale. Ma
Pietro fa ricordare a questi ultimi che la creazione ha avuto un inizio, che c’é
stato un diluvio universale facente parte della tradizione dei popoli, che i
vari elementi che compongono il
‘kosmos’
sono tanto in equilibrio quanto in conflitto tra loro. Quindi, non é e non sarà
difficile sottovalutare l’eventualità di una conflagrazione universale
di
immani proporzioni.
“Questa, o carissimi,
é già la seconda
lettera che vi scrivo, e in tutte e due cerco di ridestare con ammonimenti la
vostra sana intelligenza, perché teniate a mente le parole già dette dai santi
profeti, e il precetto del Signore e salvatore, trasmessovi dagli apostoli.
Questo anzitutto
dovete
sapere che verranno negli ultimi giorni schernitori beffardi, i quali si
comporteranno secondo le proprie passioni e diranno : ‘Dov’é
la promessa della sua venuta ? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli
occhi tutto rimane come al principio della
creazione’.
Ma
costoro dimenticano volontariamente che i cieli esistevano già da lungo tempo e
che la terra, uscita dall’acqua e in mezzo all’acqua, ricevette la sua forma
grazie alla parola di Dio; e che per queste stesse cause, il mondo di allora,
sommerso dall’acqua, perì. Ora i cieli e la terra attuali sono conservati dalla
medesima parola, riservati al fuoco
per il giorno del giudizio e della rovina degli empi. Una cosa però non dovete
perdere
di vista, carissimi
: davanti al Signore un giorno é come mille anni e mille anni come un giorno
solo, Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni
credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che
tutti abbiano modo di pentirsi. Il giorno
del Signore verrà come un ladro;
allora i cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si
dissolveranno e la terra con quanto c’é in
essa
sarà distrutta.
Poiché
dunque tutte queste cose devono dissolversi così, quali non dovete essere voi,
nella santità, nella condotta e nella pietà, attendendo e affrettando la venuta
del giorno di Dio, nel quale i cieli si dissolveranno e gli elementi incendiati
si fonderanno !
E poi, secondo la sua
promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una
terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia” ( 2
Pt. 3, 1-13 ).
E Pietro ci crede pienamente, perché
questa
informazione l’ha data il
suo Maestro durante la sua vita terrena, promettendo, appunto, “nuovi cieli e
una terra nuova” ( 2 Pt. 3, 1-13 ). Un dato
riportato anche dall’Autore dell’Apocalisse:
“Vidi poi un
grande
trono bianco e Colui che sedeva su di esso. Dalla sua presenza erano scomparsi
la terra e il cielo senza lasciar
traccia di sé.....”
(Apc.
20,11);
“Vidi poi un nuovo cielo e una
nuova
terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era
più” (
Apc.
21,1 ).
Del resto, non sono solo i cristiani del
I secolo
ad illustrare eventi apocalittici di questo tipo.
Anche
-presso i pagani- i filosofi stoici dell’epoca parlano di una ‘ecpyrosis’,
di una conflagrazione universale che chiude un ciclo naturale per iniziarne un
altro. La loro
filosofìa
rigorosamente materialista
ammette
un cambiamento dei mondi, pur essendo la materia eterna ( caratterizzato sia
dall’esplosione che dall’implosione ), e che il rapporto di equilibrio tra
materia ed energia é instabile.
Per la cerchia degli intellettuali attorno a
Seneca,
il mondo dominato da Roma appare già vecchio.
Si
ipotizza che andrà soggetto
ad una catastrofe cosmica, della quale il fuoco non sarà solo un simbolo, ma
anche il principale elemento fisico che la provocherà.
Ed é analoga la convinzione dell’Apostolo Pietro al riguardo
:
“Ora i cieli e la terra attuali sono conservati dalla medesima parola, riservati
al fuoco per il giorno del
giudizio e della rovina degli empi” ( 2 Pt. 3,7 ).
Se pensiamo che questo documento é stato scritto poco prima della persecuzione
neroniana
a Roma dove, secondo
la tradizione, il
Principe degli Apostoli vi ha trovato la morte, allora si può capire come un
evento contingente, quale il famigerato incendio del 19 luglio del 64
E.V.,
possa essere stato letto dai primi cristiani secondo questa ottica
interpretativa offerta dagli insegnamenti degli Apostoli. Oggi si può
dire
che
quell’episodio
sembra non aver cambiato proprio nulla nel corso della storia.
Ma,
al tempo dell’incendio dell’Urbe, i conti sono ancora aperti. L’Anticristo può
essere facilmente ravvisato nel Sinedrio o nello stesso Nerone che
hanno
perseguitato il Cristianesimo nascente, ma che sono stati spazzati via dalla
Provvidenza in poco tempo. Gli Apostoli e i Discepoli di
Gesù,
secondo dubbie informazioni, hanno raggiunto gli estremi confini del mondo
allora conosciuto e ivi manifestato il Vangelo ( Tommaso in India, Bartolomeo in
Etiopia, Giuseppe
di
Arimatea
nelle Isole Britanniche, Giacomo il Maggiore e lo stesso Paolo -come supposto in
Rom.
15,24 e attestato da
Clemente Romano nella sua Prima Lettera ai Corinzi- nella Penisola Iberica ).
Tutti elementi che possono facilmente indurre ad ipotizzare la
Parusìa come prossima.
Ma
una tale imminenza viene, per così dire, sottovalutata da Paolo e dallo stesso
Pietro. Infatti,
quest’ultimo
puntualizza
:
“Il Signore.....usa
pazienza verso di noi non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo
di pentirsi”.
Insomma, tutto é regolato dalla Provvidenza che, pur conservando il mondo
(analogamente alla ‘pronoia’
degli Stoici ma con la differenza che questa ordina in modo necessario),
sceglierà i tempi opportuni per manifestarsi compiutamente.
Con il finire del
I secolo,
con un’altra ondata repressiva che porta la firma di Domiziano, la ‘Parusìa’
non viene neanche più creduta dai radicali come imminente.
E
sembrano dar forza a questo convincimento le stesse visioni apocalittiche,
secondo la tradizione, dell’evangelista Giovanni, in base alle quali i segni che
anticiperanno il giudizio universale e la creazione di cieli nuovi e di una
terra nuova ( la caduta di Babilonia
-Ap.
18-19- nella quale si
ravvisa Roma; la disfatta della Bestia, l’era di pace e il regno dei mille anni,
Ap.
20,1-7 ) suppongono un tempo
più o meno
lungo, ma non mettono in discussione minimamente il carattere imprevedibile
della teofania finale, tanto meno il vivissimo desiderio degli Apostoli di
essere riuniti al loro amato Signore in quel grandioso giorno.
N O T E
(1)
Benito
Marconcini,
“In
attesa del suo ritorno : Le Lettere ai
Tessalonicesi”,
p. 43 in “Corso Biblico Superiore “La via della salvezza”. Guida alla Lettura
della Bibbia, ISSR. “Ut
Unum
Sint”
Roma;
(2)
op.cit.,
p. 43;
(3)
op.cit.,
p. 43;
(4)
op.cit.,
pp.36-37:
(5)
op.cit.,
p. 37;
(6)
op.cit.,
p. 37, ma
si
cfr.
pure
Settimio
Cipriani,
“Le Lettere di
S.Paolo”,
Cittadella Editrice, p. 77;
(7)
Settimio
Cipriani,
“Le Lettere di
S.Paolo”,
Cittadella Editrice, pp.77-78.
Fonte : scritti e
appunti di Francesco Cuccaro , e-mail
cuccarof@alice.it .
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