Francesco di Ciaccia
Il “Saluto alla Vergine”
e la pietà mariana di
Francesco d’Assisi
«Ti
saluto».
La composizione mariana di san Francesco è all’inizio determinata,
strutturalmente, dal saluto evangelico dell’angelo[1].
Ma
ciò in cui essenzialmente l’Autore segue, nell’insieme dello scritto,
il
racconto biblico è nell’inquadrare con essenzialità familiare e
rispettosa
insieme la figura del singolare personaggio. Quanto al resto, egli si
eleva e
si mantiene in una dimensione poetica del tutto originale.
Il
linguaggio
e lo stile, semplicissimi e limpidi seconda la consueta scrittura del
Cantore
assisiate, sono altrettanto incisivi ed attenti. La parola è scavata,
ma senza
ostentazione; è lirica, ma con naturalezza. Manca l’enfasi, e c’è la
commozione. Potremmo dire subito però che non è, questa poesia, una
poesia. È
un colloquio attraverso il saluto, è dichiarazione ammirata, è
preghiera
cadenzata; ma il colloquio è soave, l’ammirazione è affettuosa, la
preghiera è
un canto. Le prerogative della «Signora» esprimono ciò che di più dolce
può
sentire un innamorato, e lo dicono più nella dolcezza dell’incanto
ispirato che
nei singoli titoli in se stessi, quali «madre», «sposa», «signora
santa»,
«casa», ecc.
Con
uno stato
emotivo inebriato spiritualmente e umanamente, ma con la massima
pacatezza e
discrezione, Francesco ha creato la poesia mariana più bella forse di
tutti i
tempi, degna del livello della preghiera dantesca. E se un confronto
con quella
del Paradiso, XXXIII, non può essere
instaurato, è perché la Salutatio Virgini
(Saluto alla Vergine) trascende lo
stesso orizzonte letterario. In questo senso dicevamo che questa
splendida
lirica, nel suo latino a volte scorretto ma sempre tagliente, non è una
poesia:
è più che poesia, è un canto che, nella sua semplicità interiore, si
impone
senza volerlo ai più alti livelli lirici.
«Ti
saluto,
Signora». Il femminile, «domina», richiama tradizionalmente il
«Dominus», Dio.
Ma l’irrompente sostantivo in posizione privilegiata non può non
richiamare la
figura della «Signora del castello», di cultura provenzale. Se è così,
e ciò
non appare dubbio, Francesco si pone con ingenuità, ma non meno con
forza, tra
la poesia «cortese», che egli conosceva, ed il suo sviluppo
stilnovistico;
erede nella cultura e nella spiritualità.
Infatti
dice:
«Ti saluto, Signora santa». Se l’attribuzione di «santità» non è nuova
in
mariologia, è degno di nota che il Poeta non va a specificare la
«Signora» con
qualifiche proprie della «signoria», come pur avrebbe fatto un
francescano,
Giacomino da Verona, vissuto in un contesto tuttavia feudale[2].
Il
primo attributo è, invece, «santa», che non esclude il diritto al
«vassallaggio», ma lo purifica da ogni morbosità della cultura
contemporanea[3].
Inoltre,
già
il primo versetto, concettuoso teologicamente ma vivo e fresco, mostra
una
poetica mariana più semplice anche delle più popolari e antiche Laudes. Fra queste, la lauda
maggiormente ricca di umanità e più immediata si rifà, con spirito
liturgico,
all’annuncio evangelico, ma non riesce a semplificare l’idea e, pur
restando
suggestiva, manca della partecipazione lirica dello splendido
illetterato san
Francesco: «Ave Maria, de gratia piena - […] o salve, regina»[4].
Il
crescendo
grammaticale e concettuale fa balzare, poi, con lo scatto di tre
passaggi,
l’immagine di Maria nel centro del suo universo divino: «[…] santa,
santissima,
Madre di Dio». È solo ora, dopo il suo collocamento giusto, che compare
il
termine «Vergine»: «che sempre sei Vergine». Abitualmente san Francesco
non
chiama Maria con l’aggettivo sostantivato di «Vergine», se non quando
esso è
imposto dal riferimento preciso a tale prerogativa: «Ecco, ogni giorno
(Gesù)
si umilia, come quando dalla sede regale discese nel grembo della
Vergine»[5].
In
genere egli parla di «Vergine Madre» o di «Vergine Maria»[6].
Nel Saluto, egli inoltre esprime la
prerogativa mariana con una proposizione. E ciò non può essere ozioso,
in un
poeta dalla scrittura essenziale. Francesco contempla la Vergine nel
suo
essere, e il verbo al presente, «sei», lo sottolinea. Ma lo contempla
nella sua
dimensione storico-temporale. Con ciò l’Assisiate trascende la
speculazione
patristica e medioevale sui tempi fisici e successivi della verginità
della
Madonna, e al contempo non sorvola, anzi incalza stilisticamente, sulla
effettività del valore verginale. Qui, Francesco si dimostra non
soltanto un
mistico, né soltanto un teologo lucido e consapevole, ma un poeta
forte, che
trova nell’intuizione estetica l’unità fra la contemplazione e la
cultura
teologica[7].
«Madre
di
Dio, Maria»: espressione ovviamente comune, né più né meno di «Santa
Vergine»
dell’«Antifona» dell’Ufficio della
Passione, uno scritto di san Francesco da lui stesso recitato. Ma,
nel Saluto, l’espressione tradizionale e
scontata, seguendo l’incalzare degli aggettivi culminanti nel grado
assoluto e
anticipando il nome proprio di «Maria» a conclusione dei sostantivi
«Signora»,
«regina», «Madre», si carica di una partecipazione gioiosa alla
«maternità» e,
insieme, di una gratitudine cordiale per la funzione di lei.
In
effetti,
egli «circondava di indicibile amore la Madre del Signore Gesù, per il
fatto
che ha reso nostro fratello il Signore della Maestà, e ci ha ottenuto
la
misericordia»[8].
San Bonaventura è uno dei
migliori interpreti del Fondatore, e noi ravvisiamo nella causale («perché ha reso nostro fratello…») la
verità di quella compartecipazione e gratitudine cui accennavamo. Nella
seconda
parte del verso 6 riscontriamo una ripetizione: «Ti saluto, sua Madre».
Ma
non è una
ripetizione. Qui non c’è più la maternità «regale» del primo verso; c’è
solo
maternità. In quel possessivo «sua», poi, è contenuta la gioia
dell’«aver reso
nostro fratello il Signore Gesù» indicato, all’inizio del Saluto,
come «santissimo Figlio diletto». Questi è il Verbo, Figlio
di Dio; ma, per l’accentuazione del termine «madre», egli appare anche
proposto
come «fratello» dell’uomo. Il francescano Jacopone esprimerà
addirittura l’idea
della «fratellanza» del fedele nei confronti di Maria: «Tu (Maria) sai
che ti
son prossimo e fratello»[9].
Nel Saluto, san Francesco è, possiamo dire,
dalla parte di Dio; ma nella riconoscenza gioiosa a motivo della
funzione di
Maria nei riguardi degli uomini, come sarà ancora sottolineato dal
francescano
Giacomino da Verona, il quale chiama la Madonna «tutrix, nostra
confalonera»,
disposta ad accogliere «entre soe brace i suoi fedeli»[10].
In
questo
senso dobbiamo affermare che la venerazione di Francesco d’Assisi per
la
Madonna era, in particolar modo, per la «Madre della misericordia»,
come si
esprime san Bonaventura, secondo il quale ella «ottenne con i suoi
meriti che
lui stesso concepisse e partorisse lo spirito della verità evangelica»[11].
Il
concetto bonaventuriano, inserito in un contesto apologetico teso a
presentare,
in una concezione ortodossa ed equilibrata, la figura del
rivoluzionario
Fondatore in perfetta coerenza con la «verità evangelica» di cui egli
rappresenterebbe il «nuovo araldo», è di fatto ravvisabile nella poesia
stessa.
Mirabilmente originale, nell’uso «sacrale» della parola essenziale e
profonda,
Francesco non ricorre al termine «misericordia»; ma sottende l’idea non
solo
nel termine «madre», che di per sé è riferito al rapporto Maria-Dio, ma
anche e
soprattutto nel finale della lirica. Qui il Poeta saluta le virtù.
Egli
non
pensa soltanto alle virtù della Vergine. Infatti dice: «siete infuse
nei cuori
dei fedeli». Apparentemente, questo potrebbe sembrare un salto di temi,
dalla
Madonna alle virtù. In realtà il «saluto» alle virtù consegue a tutta
la
contemplazione degli attributi mariani precedenti. Quello che
Bonaventura
annotava come una grazia concessa specificamente da Maria a Francesco,
Francesco lo spera, con la gioia del saluto festoso e sicuro, per tutti
i
fedeli, come ricordano e ricorderanno anche le Laudes:
Maria è «magistra de cortesie e de grand humilitae»[12].
Con
il pudore tipico di Francesco, che molto crede e poco dice, che molto
insegna
senza tante parole, la poesia dice solo: «voi tutte, sante virtù».
Essenziale e
tremendo. Qui non trovi le caratterizzazioni della cultura feudale, non
ravvisi
né polemiche né esaltazioni settoriali: «voi tutte, sante…». Non c’è
neppure il
riferimento terminologico, benché personalizzato, ai testi biblici come
nell’elencazione degli attribuiti mariani indicati dal Poeta nei versi
4-6. Le
virtù o sono «tutte», o nessuna di esse vale, come Francesco stesso
afferma
nelle Lodi delle virtù: «Chi ne ha
una e le altre non offende, le ha tutte, e chi ne offende una non ne ha
alcuna
e le offende tutte; e ciascuna (virtù) confonde i vizi e i peccati»
(vv. 6-8).
Può sembrare strano che il «Poverello» non menzioni in particolare la
povertà;
ma vedremo che essa c’è, e l’Autore la indica, nella composizione, in
modo
diverso che con la parola. È questione, per Francesco, di delicatezza,
non di
dimenticanza; egli si rivolge alla Madonna, e parla per tutti i
«fedeli»: non
potrà imporre la propria specificità. Francesco è «piccolino e servo»,
e non
esalta, qui, l’umiltà fra le virtù; ma l’ha in mente, la fa capire, la
connota,
con discrezione ardente, con severa modestia in quella semplice verità,
in cui
veracemente consiste l’umiltà e fuori della quale essa è un gesto, non
una
convinzione: «(virtù), che per grazia e lume dello Spirito Santo»… Il
testo
latino dice «illuminationem», di agostiniana ed anche liturgica
memoria, ma
esprime francescanamente l’atto e la funzione globale dello Spirito di
Dio. È
in lui e da lui soltanto che si danno le virtù, se virtù ci sono, «nei
cuori
dei fedeli»; poiché esse sono «ricevute», o «infuse», come dice il
Poeta. E
solo mediante l’operazione dello Spirito Santo può compiersi
quell’elevazione a
Dio della vita umana, cui l’Autore efficacemente si riferisce
nell’ultimo verso
della lirica, e che idealmente spiega molto bene la nota preghiera
francescana:
«Chi se’ tu, che sono io?»[13].
Se
il Saluto inizia con la «Signora» e finisce
con «Dio», vuol dire che esso contiene la fede francescana – che qui è
ispirazione poetica – nella funzione mediatrice e ispiratrice di Maria.
Di
essa, testimonianza biografica è la Porziuncola, ricordata da tutti i
biografi
e scultoreamente da Bonaventura: «[…] amò questo luogo più di ogni
altro nel
mondo»[14].
Qui
Francesco riteneva avvenuto l’inizio dell’Ordine e, ricorda san
Bonaventura,
«per i meriti di lei». A parte la devozione universale del Medioevo
verso la
Madonna, qui c’è da rilevare la ragione specifica della pietà e
dell’ammirazione di Francesco per la Madre di Dio.
Dai
«dicta»
di san Francesco consta che egli soleva attribuire a Maria l’aggettivo
«poverella». Egli «non poteva pensare senza piangere in quanta penuria
si era
trovata in quel giorno (del Natale) la Vergine poverella»[15].
Una
volta, mentre mangiava, Francesco, ricordandogli un frate «la povertà
della
beata Vergine», scoppiò a piangere e continuò a consumare «il resto del
pane
sulla nuda terra». È, questo, un pianto non di compatimento, né solo di
compassione, ma di compenetrazione e partecipazione all’affettuosa
sofferenza e
privazione accettate da Maria, insieme con Gesù, per l’uomo. Spiegando
l’amore
di san Francesco per la povertà Bonaventura lo giustifica riportando
l’idea del
Fondatore: «perché la si vede brillare così fulgidamente nel Re dei Re
e nella
Regina sua Madre»[16].
Ma
dobbiamo anche segnalare, entro il contesto globale della mentalità
francescana, quello che il medesimo Bonaventura premette al brano
citato: il
rapporto fra «le ricchezze della semplicità» e l’«altissima povertà»,
grazie al
cui «amore» la semplicità si nutre e cresce autenticamente. «Povertà» e
«umiltà» sono, nelle Lodi delle virtù,
2, «sorelle» fra loro, e vengono subito dopo la «santa semplicità»,
«sorella»
primigenia, «pura e santa», addirittura della «regina sapienza» (v. 1),
e ad
essa è attribuito di «confondere ogni sapienza di questo mondo e la
sapienza
della carne» (v. 10). Noi riteniamo che proprio nelle composizioni, in
se
stesse, di Francesco si imponga, nell’amore per la povertà ammirata
nella
Madonna, tutto il valore spirituale e letterario di quella ricca
«semplicità»,
la quale si manifesta nell’immediatezza dell’ispirazione, estetica e
religiosa
insieme, e si concreta nell’uso della parola come «necessità»[17],
per
dirla con il Getto. In questa «necessità» c’è l’urgenza, ma anche il
rispetto,
c’è l’ammirazione, ma anche il pudore.
È
ragionevole
pensare che il giovane Francesco, appena smesso l’abito secolare, e
quando fu
colpito dal «misero stato» della chiesa di Santa Maria degli Angeli,
abbia
congiunto nel suo vissuto la povertà e la Madre di Dio[18].
Non
è forse ozioso confrontare la descrizione di questa «antica chiesa in
onore
della Beata Vergine Maria Madre di Dio», chiesa «ormai abbandonata e
negletta»,
«trascurata e abbandonata[19],
con
le vicissitudini della povertà scolpite mirabilmente nel Paradiso,
XI, 64-66. Qui si riscontra l’attribuzione «dispetta e
scura» che, se non lessicalmente, senz’altro semanticamente collega la
condizione della «povertà», sposa di Francesco, con la chiesa, in cui
avvenne
il matrimonio.
Ma
ben più
vasta è la simbologia, insinuata dalla poesia dell’Autore dello Specchio di perfezione, fra la
Porziuncola e la Chiesa di Dio: «Era tutta in rovina e Francesco la
restaurò»[20].
Ciò
è detto della chiesetta, ma corrisponde, strutturalmente, al noto
comando
divino: «Francesco, va’, ripara la mia casa, che, come vedi, va tutta
in
rovina»[21].
Secondo i biografi, l’invito era da intendersi nel senso della Chiesa
spirituale, «che Cristo acquistò con lo scambio del suo
sangue,
come lo Spirito Santo gli
(a Francesco) avrebbe insegnato ed egli stesso (Francesco) in seguito
avrebbe
rivelato ai suoi intimi». La citata poesia dello Specchio
di perfezione, indicando i diversi fatti avvenuti in
«Santa Maria degli Angeli», vi annette, come tutti gli altri biografi
ma con
una sottolineatura particolare, l’inizio della conversione di
Francesco, la
«rinascita» della povertà, l’umiliazione della «vanagloria», la
glorificazione
della Croce, la «pace», la consolazione dello «spirito». Ora, questa
accentuazione, oltre alla ritmicità innodica, riveste una simbologia
lirica
così generalizzata, che è difficile non scorgervi un profondo
riferimento alla
stessa «Maria regina» degli Angeli. La chiesetta sembra essere, nella
composizione citata, in primo piano, ma come significante, e la Madonna
essere,
invece, in primo piano come significato.
Se
è così,
l’Autore dello Specchio di perfezione
sembra aver interpretato, con biografico dispiegamento di ricordi,
l’enunciato
del Saluto di san Francesco: «Tu in
cui fu ed è ogni pienezza di grazia e ogni bene», «in qua fuit et est
omnis
plenitudo gratiae et omne bonum». La «pienezza di grazia» è un titolo
che
risale al saluto evangelico, entrato con ovvietà nella tradizione
letteraria
mariologica, fra cui quella dei Laudari,
sì che Jacopone inizierà la lauda sull’Incarnazione proprio con: «Ave
Maria,
gratia piena». E se anche il termine «plenitudo» è ereditato, questa
volta da
san Paolo, benché in un insieme stilistico del tutto personale al Poeta
d’Assisi, la seconda parte del verso citato ha un sapore ed una
caratterizzazione
del tutto francescana: «et omne bonum».
Il
«bene»
sta, fondamentalmente e teologicamente, per «Dio», che è «pienezza di
bene,
totalità di bene, completezza di bene […], che solo è buono,
misericordioso e
mite, soave e dolce, che solo è santo, giusto, vero e retto, che solo è
benigno, innocente e puro»[22].
Ma,
anche, il termine sta ad esprimere l’idea dell’essere in Dio, con Dio e
da Dio,
poiché «tutti i beni sono suoi e di tutti rendiamo grazie in quanto
procedono
tutti da Lui»[23].
È da Lui che « viene
ogni bene»[24].
Ordunque, poiché è da
«attribuire a Lui ogni bene»[25],
allora il saluto a Maria è anch’esso una lode a Dio. Tuttavia, ella è
l’unica,
dopo Dio, cui sia attribuito il bene. E ciò non solo nel senso che ella
ebbe ed
ha, come madre di Dio, la fonte di ogni bene («Tu in cui…»), ma anche
nel senso
che ella è tale bene, in forza di un
privilegio divino dovuto all’«elezione», cui il Poeta fa riferimento in
questa
stessa parte della lirica. In tal modo Maria si offre, nell’ispirazione
poetica
di Francesco, come il modello di ogni virtù, l’esempio di ogni bene.
L’espressione
jacoponiana, «Per grazia fusti eletta»[26],
coerente con la lirica mariana del ‘200, ha in Francesco una
formulazione più
semplice ma non meno decisa, per il rapporto con la causa efficiente
che è Dio.
Con estremo rigore teologico, nonostante l’apparenza «ingenua» del
Santo, e
comunque nella potenza dell’intuizione poetico-estatica, l’Autore
riferisce
l’«elezione» al «santissimo Padre celeste», inizio e fonte trinitaria
di ogni
«elezione» originaria, compresa quella di Gesù. «Con» il Padre, il
«santissimo
Figlio diletto» e lo «Spirito Santo Paraclito» completano e consumano
l’elezione mediante la «consacrazione». Il Poeta non si sofferma sui
rapporti
di Maria con la Trinità, pur menzionati dalla patristica e dai Laudari; egli sottende tali rapporti
nell’enunciazione dell’opera trinitaria stessa: quanto è necessario, e
sufficiente, per fissare poeticamente e con sobrietà tale
«consacrazione» di
Maria.
Lo
stesso
discorso poetico e teologico vale per la «Reina rosa aulente», per
dirla con
Jacopone da Todi. Molte sono le Laudes
del ‘200 che insistono sia sulla regalità, sia sulla «florealità» della
figura
mariana[27]:
e
ciò imprimerà, letterariamente, un carattere alla figura stilnovistica
della
donna[28].
Ma,
anche in questo caso, Francesco è essenziale. L’elogio è tutto fondato,
e
risolto, nel rapporto trinitario visto dalla parte di Dio. In tale
raffigurazione si nota tutta l’attenzione del poeta alla sostanza della
santità
di Maria e la sua pura contemplazione senza travalicamenti retorici. Il
«Benedetta infra le donne» jacoponiano, che tanta suggestione,
immaginificamente, offrirà alla poesia del Due-Trecento, è, in
Francesco,
scavato in un unico participio: «consacrata». Tuttavia, nell’«Antifona»
dell’Ufficio della Passione del Signore
san Francesco, biblicamente più dispiegato, anticipa stilisticamente il
Dolcestilnovo[29]:
«non vi è alcuna simile
a te, nata nel mondo, fra le donne, dice l’Assisiate in modo più
asciutto e
«prosaico», ma più suggestivo ad esempio della lauda bolognese: «fusti
a Dio
tanto piacente - più che neuna altra mai sia»[30].
È
su tale
elezione e consacrazione che Francesco fonda la sua sicura e tenera
fiducia
nella Madonna. «In lei principalmente, dopo Cristo, riponeva la sua
fiducia, e,
perciò, la costituì avvocata sua e dei suoi. In suo onore digiunava con
grande
devozione dalla festa degli Apostoli Pietro e Paolo fino alla festa
dell’Assunzione»[31].
È degno di nota che il
termine «avvocata», che sarà invece molto comune nelle Laudes
mariane, non compare nel testo francescano, nonostante la
precisa concezione dell’Autore al riguardo. Anche in questo, Francesco
si
rivela il delicato amante quale è: non pensa a sé, pensa a lei. Ed è
qui
l’essenza dello spirito del «Poverello».
Anche
la
«regina», di cultura cortese e poi stilnovistica, come dimostra l’uso
fatto dal
Cavalcanti all’Alighieri, sebbene con termini sinonimici, non conosce
in
Francesco altra aggettivazione che: «santissima». Inoltre, tutti i
titoli
mariani del Saluto sono, sì, di
dignità sovrana, ma di una dignità accogliente. Ella è «palatium»,
«tabernaculum»,
«domus», «vestimentum»; ella è ciò che contiene
colui che la sublima.
Se
è vero che
i simboli sono biblici e patristici[32],
il
loro senso è tutto francescano. Il «palatium» – si badi bene:
l’Assisiate non
usa il termine «tempio», pur molto più diffuso e sacro! – non è il
luogo della castellana, ingentilita dal possesso
del palazzo. In Francesco, il
«palazzo» è di Dio, «suo»: Maria trova dunque dignità nell’essere
l’accoglimento
di Lui. Come il «palazzo» è preso da Pier Damiani[33],
il
«tabernaculum» è preso, originariamente, da Esodo
26, 1. Esso indica la compiacenza di Dio fra gli uomini, e,
nell’episodio della
Trasfigurazione, la soddisfazione dell’uomo di stare con il Cristo. Ma
in
Francesco non manca il riferimento al «tabernaculum» eucaristico, il
quale
rivela, secondo il suo stesso pensiero[34],
l’umiltà addirittura di Dio! Il «vestimentum» conferma questa umiltà,
sia per
la concezione francescana del vestire, sia per il sotteso rapporto
all’Eucaristia.
«Ti
saluto,
sua ancella». Anche questa è espressione
tradizionale e usata, di origine ovviamente scritturistica e raccolta
poi nel
verso jacoponiano: «Sono l’Ancella del Signore». Ma, anche qui,
l’umiltà della
parola non emerge tanto nella definizione, quanto nella modestia dello
stile.
Con «sua ancella» è detto tutto.
Poi
il saluto
trapassa nell’atmosfera più dolce e familiare: «Ti saluto, sua Madre»,
parola
che, nel testo latino, è con la lettera minuscola. Da notare che, oltre
a
quello di Dio e di Spirito Santo, l’unico sostantivo ripetuto una
seconda volta
nel Saluto è «madre». Non v’è dubbio
che ciò connoti accenni alla misericordia materna, con reminiscenze
autobiografiche. La madre di Francesco fu comprensiva e compassionevole
con lo
strano figlio[35],
e Francesco stesso
ricorderà proprio l’amore «materno» come quello cui deve ispirarsi
l’affetto
tra i frati[36].
È indicativo che tale
richiamo sia stato lasciato nella Regola
bollata e ripreso dalla Bolla di
papa Innocenzo IV; sta di fatto che una lauda mariana del ‘200, di
Garzo
dall’Incisa, dirà che la «natura della Madre» è di «compiacere al fiolo
in ogni
cosa». Francesco sottolinea dunque con ciò sia l’obbedienza di Maria a
Dio,
nella cui sottomissione egli faceva consistere l’essenza della santità,
sia la
sua capacità misericordiosa nei confronti dell’uomo, nella quale egli
faceva
consistere l’essenza del ruolo gerarchico nel suo Ordine[37].
Teologicamente,
la Salutatio glorifica la grandezza
di quell’umiltà, esemplificata nell’ancella
per antonomasia, che è espressa ripetutamente negli scritti del Santo:
«secondo
il beneplacito di Dio». Questo atteggiamento, pur in tutt’altro stile,
infonderà alla poesia dei francescani, fra cui lo stesso austero
Jacopone, un
tono di umanità e di soavità, forte, senza debolezze. Ma,
indirettamente, il Saluto di Francesco ha un’altra
eredità:
il «saluto» dolcestilnovista, ben diverso ideologicamente ma soffuso di
quell’alone soave, specialmente nell’Alighieri, che rimanda in parte
alla spiritualità
francescana.
[1]
Per
il testo in traduzione italiana, cfr. Francesco Mattesini, Scritti
di Francesco d’Assisi, in Fonti Francescane,
Assisi 1978, p. 176. Testo latino in Opuscula S. P.
Francisci Assisiensis, a
cura di Caietanus Esser, Grottaferrata 1978, pp. 299-300. Per tutte le
citazioni in tr. it. degli scritti francescani e degli scritti
biografici, cfr.
le stesse Fonti Francescane.
[2]
Laude mariane, in Mustafia,
«Sitzungsberichte d. Kaiserl. Akab.
d. Wissenschaften», apr.-mag.
1864, pp.
191-196. Lo stesso
discorso si
può fare per Jacopone da Todi,
nell’Ave Maria, gratia plena, che pure,
soprattutto nella canzone Maria Vergine bella ha recepito tanto
dell’insegnamento francescano.
[3]
Per
l’ideologia della poetica «cortese», cfr. A. Hauser, Storia
sociale dell’arte, Torino 1955, pp. 318-331; G. Dugy, L’arte
e la società medievale, Bari
1977, pp. 318-321. - La conoscenza di Francesco della cultura
provenzale è
nota; per l’aspetto specifico del «cavalierato», si ricorda Leggenda
perugina, 71, Specchio di perfe-zione, I, 72.
[4]
De ve salve, virgina Maria, in E.
Monaci, Crestomazia italiana dei primi
secoli, II, Città di Castello 1889-1912, p. 456, vv. 20-21.
[5]
Ammonizioni, I, 16.
[6]
Solo per fare un esempio, cfr. Ufficio della Passione del Signore, Vespro di Natale,
3:
«(che) nacque dalla beata Vergine Maria».
[7]
Si consideri, ad esempio, la
strofe jacoponiana di Ave Maria, gratia plena, vv. 41-45: «Or da noi si crede e legge
- Che
vergine concepesti - e vergine partoresti, e po ‘l parto
permanesti -
Verginella al santo Sposo», che è teologica, ma pesante.
[8]
Bonaventura, Leggenda maggiore, II,
8; cfr. anche Tommaso da Celano, Vita Seconda,
CL, 198.
[9]
Maria Vergine bella, vv. 31-32.
[10]
Lauda cit., vv. 62 e 58.
[11]
Leggenda maggiore, III, 1.
[12]
Laudes B.M. Virginis, v. 16, in G.
Mariotta, Lirica mariana, Torino
1932, p. 24.
[13]
Fioretti di san Francesco, «Della
seconda considerazione delle sacre sante Istimate».
[14]
Leggenda maggiore, II, 8.
[15]
Tommaso da Celano, Vita Seconda, CLI,
200. Stessa referenza per la citazione successiva.
[16]
Leggenda maggiore, VII, 1; cfr. anche Leggenda
perugina, 3.
[17]
Letteratura religiosa dal Due al Novecento,
Firenze 1967, p. 35.
[18]
Tommaso da Celano, Vita prima, IX, 21, per le due
referenze.
[19]
Idem, Ibidem; cfr. anche Bonaventura, Leggenda
maggiore, II, 8.
[20]
Specchio di perfezione, IV, 84.
[21]
Bonaventura, Leggenda maggiore, V. Stessa referenza
per la cit. successiva.
[22]
Regola non bollata, XXIII, 28-29. Cfr.
anche Lodi per ogni ora, 10.
[23]
Regola non bollata, XVII, 17.
[24]
Commento al «Pater noster», 4.
[25]
Parole del Santo in Tommaso da Celano, Vita
Seconda, XCVII, 134.
[26]
Maria Vergine bella, v. 25.
[27]
Ad
es., «fresca rosa sì vermiglia», «roxa del giardino», in Ave,
verzene Maria, v. 12, in Regola dei Servi della Vergine gloriosa,
Bologna 1281, pubbl. da G. Ferrero, Livorno
1875. Cfr. tuttavia anche Garzo dall’Incisa. Per Jacopone, Ave
Maria, gratia
plena, v. 61.
[28]
Cfr. G. Guinizelli, XV, 2; G.
Cavalcanti, III, 1;
V, 7; VI, 1: «rosa novella»; Lapo Gianni, V, 1.
[29]
Ad
esempio, già in G. Guinizelli, XIV, 7-8: «Non credo che nel mondo sia
cristiana
- sì piena di beltate e di valore». In Cino da Pistola, XLIX, 51:
«v’elesse Dio
fra gli angeli più bella»; XLVI, 21: «Non po’ dir né saver quel che
simiglia».
In Lapo Gianni, IV, 6: «il novo esemplo ched ella simiglia».
[30]
Ave, verzene Maria, cit., vv. 21-22.
[31]
Bonaventura, Leggenda maggiore, IX,
3.
[32]
Stanislao da Campagnola, Introduzione
alle Fonti Francescane, cit., p. 84.
[33]
Sermo de Nativitate B.M. Virginis, in Archivum
Franciscanum Historicum, 20
(1927) pp. 13-14.
[34]
Lettera al Capitolo generale e a tutti i
frati, II, 36.
[35]
Cfr.
Tommaso da Celano, Vita Prima, VI,
13.
[36]
Cfr.
Regola bollata, VI, 10.
[37]
Cfr.
Lettera ad un ministro, 8-11, uno dei
più lirici brani, in prosa, di Francesco d’Assisi.
Fonte :
Francesco
di Ciaccia, Il “Saluto alla Vergine” e la
pietà mariana di Francesco d’Assisi, SF, 1-2 (1982) pp. 55-64 ; poi
Literary.it (2016).
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