PER UN CORRETTO PROCESSO
D'EVANGELIZZAZIONE DEI CINESI SUL NOSTRO TERRITORIO
di Vincenza Cinzia Capristo
PREMESSA
Se da circa un ventennio
si parla di invasione cinese nella nostra economia, è da pochi anni che si pone
attenzione su chi siano realmente i cinesi. La legge del mercato globalizzato
sembra aver svuotato l’essenza stessa dell’individuo. La globalizzazione (come
tutti i processi storici) non andrebbe intesa e non può essere limitata al solo aspetto economico, bensì
come un processo di incontro-confronto tra diverse culture e, perciò, come un
movimento di apertura culturale “al diverso”.
I recenti eventi
internazionali hanno portato in auge il problema religioso, dal quale non si può
prescindere parlando di globalizzazione e di processi transculturali. Tuttavia,
se quando si parla di Medio Oriente (Paesi arabi) si fa sempre riferimento al
problema religioso nell’orizzonte del confronto tra i tre grandi monoteismi
(giudaico, cristiano e islamico), nel parlare di Estremo Oriente, Cina o
Giappone, si fa spesso esclusivo riferimento “all’economia di mercato”.
Con il pontificato di
Giovanni Paolo II è iniziata una nuova fase di avvicinamento tra la più grande
Potenza cattolica del mondo e la Cina comunista. Se, nella prima parte del suo
pontificato, i toni del Papa polacco verso la Cina erano ancora alquanto duri, è
nella seconda parte che il rapporto si è fatto più costruttivo, ponendo le basi
per un reale avvicinamento.
Il dialogo – interrotto
nel 1952, subito dopo la presa di potere di Mao e l’allontanamento di tutti i
missionari cattolici dal suolo cinese – in questi ultimi anni sembra aver
ritrovato un possibile spiraglio, tanto da spingere la Santa Sede a
riconsiderare la riapertura di rapporti diplomatici. Ma l’eventuale ripresa del
dialogo tra la Cina e il Vaticano avrebbe ripercussioni molto rilevanti sia
sugli equilibri della sfera internazionale, sia nella sfera interna degli Stati
terzi. Le conseguenze politiche e giuridiche di un evento di tale portata
investirebbero, in primis, il campo
dei rapporti diplomatici stricto sensu, trattandosi
di Stati sovrani che
agiscono come soggetti indipendenti nell’ambito della comunità internazionale.
In secondo luogo, gli Stati terzi si troverebbero nelle condizioni dover
adattare le loro politiche settoriali nei rapporti con le comunità cinesi
presenti sul proprio territorio.
Per rendersi conto di
quanto sia importante il secondo aspetto della questione, è sufficiente
osservare la massiccia ed estesa presenza delle comunità cinesi in quasi tutti i
paesi
del mondo. La questione
tocca, quindi, molto da vicino anche lo Stato italiano, il cui territorio ospita
comunità cinesi in misura piuttosto consistente. Queste comunità si sono
talmente radicate in alcune realtà del nostro Paese che, oltre a lavorarvi, si
sono avvicinate e confrontate con confessioni religiose diverse da quelle
professate nel paese d’origine.
Processo di
evangelizzazione dei cinesi in Italia: il “caso” Prato
Negli anni ’30 del
secolo scorso i missionari occidentali che operavano in Cina si domandavano se i
cinesi fossero “refrattari” alla religione cristiana e, sulla base delle
esperienze maturate con il contatto diretto in loco, concludevano che
essi effettivamente lo fossero.
In quegli anni, però,
l’evangelizzazione era correlata ad un “processo di colonizzazione”, che portava
ad un’omogeneizzazione dei processi in tutti i paesi da “cristianizzare”. Ma i
processi storici mutano e, con essi, i modi e gli strumenti dell’annuncio del
Vangelo. Tuttavia, a distanza di un secolo, siamo ancora nelle condizioni di
dover parlare di un “processo di evangelizzazione” in atto nei confronti degli
esponenti del popolo cinese. Questa volta non solo nella lontana terra di Cina,
ma “a casa nostra”. Le comunità cinesi presenti sul nostro
territorio sono composte da “nuclei familiari allargati”, tipici della
conformazione sociale di questo popolo, e si sono diffuse a macchia d’olio
ritagliandosi fette di città in cui i loro profitti sono cresciuti insieme con
le diffidenze degli autoctoni.
Ma conosciamo
effettivamente i cinesi e le loro usanze, o siamo pieni di superate convinzioni?
Nel 1933, Celso Costantini, I Delegato Apostolico della Santa Sede in Cina,
avvertiva già sui rischi degli stereotipi: «Mi pare che certe idee sui cinesi,
che si ripetono come un luogo comune tra gli stranieri, meritano una radicale
revisione. In ogni caso, se mi ingannerò, sarà meglio che mi inganni pensando
bene piuttosto che pensando male di questo immenso popolo»1.
Tali parole dovrebbero risuonare come monito in vista di una convivenza pacifica
tra i popoli e di un libero confronto interreligioso. Tuttavia, a distanza di
più di mezzo secolo, possiamo affermare che tale ossservazione sia esplicativa
di quanto poco negli anni sia effettivamente cambiato e di come spesso “l’altro”
sia visto ancora come una “minaccia”. Pochi sanno, ad esempio, che i cinesi sono
portati all’associazionismo: riunirsi è uno dei tanti modi per affermare la loro
identità.
Per verificare se i
cinesi che risiedono in Italia siano “refrattari” o meno alla religione
cristiana, è stata condotta una piccola inchiesta in loco, precisamente
presso la comunità cinese di Prato. Nella cittadina toscana è presente, infatti,
una delle più nutrite comunità cinesi d’Italia2,
all’interno della quale esiste un buon numero di cinesi cattolici praticanti,
esattamente nella Parrocchia di S. Paolo. Pur non essendo ancora in presenza di
una vera e propria fase d’evangelizzazione, quanto piuttosto di una fase di “pre-evangelizzazione”,
si può comunque iniziare a studiarne i comportamenti in riferimento al problema
religioso.
Seguendo un approccio
scientifico, questi fedeli sono stati intervistati mediante un questionario
predisposto ad hoc, scoprendo che, accanto ai neofiti, esiste anche un
nucleo di “vecchi cristiani” provenienti da zone della Cina con una forte
tradizione cattolica. Le statistiche estrapolate dai questionari ci forniscono
dei dati apprezzabili. Sul totale delle famiglie intervistate, il 10% proviene
dalla Cina già convertito, il 50% risulta essere stato convertito in Italia,
mentre il restante 40% è in una fase di pre-evangelizzazione, ossia di primo
accostamento al Vangelo cristiano. Stando ai dati forniti dalla Caritas,
esistono a Prato ben 60 famiglie3
cattoliche. La maggior parte di essi ha
ricevuto il battesimo, una minoranza ha raggiunto la comunione e la cresima.
Inoltre, si attendono le due festività cristiane più importati, ossia Natale e
Pasqua, per incrementare il numero dei battezzati.
Purtroppo, non si è
potuto contare, per il computo esatto dei convertiti, sui dati forniti dal
Comune di Prato che ha peraltro già svolto, sia sull’immigrazione sia sulle
scuole del territorio pratese, una esaustiva ricerca. La seconda generazione
adulta presente a Prato risulta ormai scollegata dalla realtà cinese d’origine,
nonché da quella italiana e vive la sensibilità dell’immigrato. Al riguardo,
come precisa il sociologo Adel Jabbar, «il mondo di questi soggetti (immigrati)
è innanzi tutto un mondo “scosso”, poiché la loro identità rimane, almeno
inizialmente, come incompiuta, sospesa tra il paese d’origine e il luogo
d’arrivo»4.
Il migrante lavora e non ha tempo per la pratica religiosa; non a caso, alla
domanda: “Ogni quanto vieni in parrocchia?”, gli intervistati rispondono:
“Quando non lavoro!”.
È, dunque, solo questo
l’unico vero ostacolo all’evangelizzazione? La terza generazione d’immigrati sta
intanto crescendo con “modelli” occidentali, ma non ancora con una coscienza e
“valori” occidentali. È in questa terza generazione che si hanno le maggiori
conversioni al cristianesimo; tuttavia, essa presenta, come la generazione
precedente, due difficoltà oggettive per un pastore d’anime che intende
evangelizzare: incontrarli e infondere fiducia.
Se tra i tanti luoghi
comuni sulla comunità cinese vi è quello di attribuirgli l’appellativo di
“chiusa”, una certa resistenza all’approccio interpersonale va correlata ad una
sorta di diffidenza e riservatezza, insite nell’humus culturale cinese;
non per questo tale atteggiamento deve essere letto come indisponibilità alla
vita comunitaria. Anzi, a ben vedere, i cinesi sono così propensi ad associarsi
che uno degli intervistati alla domanda: “Cosa ne pensi della religione
cattolica?”, ha risposto: “Questa religione ha un valore positivo: la comunità”.
Se i cattolici, in particolare dopo il Concilio Vaticano II, sottolineano il
significato che la Chiesa è “comunione” e “comunità”, allora i cinesi di casa
nostra non sono poi
così distanti da tale
orizzonte. È da questo senso di “fare comunità” che si potrebbe, probabilmente,
partire per avvicinare opportunamente due culture diverse.
Il campione di soggetti
intervistati rientra in un’età compresa tra i 13 e i 49 anni, provenienti quasi
tutti, eccetto una piccola sparuta minoranza, dalla regione di Zhejiang5.
Frequentano con una certa regolarità la parrocchia; la domenica pomeriggio si
ritrovano per la celebrazione della Santa Messa, si preparano ad essa leggendo
un passo del Vangelo o della Bibbia, a cui segue la preparazione dei canti. I
ragazzi cinesi spesso frequentano l’ora di religione senza un reale interesse
verso il cristianesimo o qualsivoglia religione, piuttosto la
considerano una normale ora di lezione; solo come ultima ratio alcuni di
loro, come prevede la legislazione vigente in Italia in materia, non si
avvalgono dell’ora di religione6.
Se la comunicazione
nell’ambito delle istituzioni territoriali, come rivela lo stesso Adel Jabbar,
almeno in alcuni settori, diventa una tappa quasi obbligata, non così avviene
con l’istituzione
ecclesiastica. Rimane forte l’attaccamento alla famiglia e alle tradizioni per
cui la fede è trasmessa a livello familiare: dal marito alla moglie e viceversa,
dai genitori ai figli. Nessuno di loro è diventato cattolico senza che almeno
uno dei componenti familiari non sia o fosse stato cattolico (zii, sorelle o
altri componenti familiari). Alla domanda: “Che ne pensi di questa religione
cattolica?”, uno di questi ha risposto: “Se la famiglia crede, io credo”.
Coloro che arrivano
dalla Cina già convertiti hanno notato una differenza tra la liturgia cinese e
quella della Chiesa di Roma, evidenziando che i riti in Occidente sono più
“originali”. Apprezzano una fede che sollecita l’uomo a non compiere il male e,
secondo alcuni, la religione cattolica cristiana è portatrice di una forte
“etica della persona”. Quest’ultima considerazione ha suscitato particolare
attenzione poiché, ancora oggi, in Cina i diritti umani più elementari vengono
negati. Tra i neofiti la maggior parte era atea ed una minoranza buddista. Tutti
concordano nel dire che l’unica differenza tra Oriente ed Occidente è
“l’ambiente”, inteso come clima più mite e migliore qualità della vita. Alla
domanda se in Cina avessero conosciuto dei preti cattolici cinesi, una buona
parte ha risposto di averli conosciuti ed aver incontrato anche dei vescovi
cinesi. Non esiste per loro nessuna differenza tra “Chiesa
clandestina” e “Chiesa ufficiale”, esiste soltanto una sola e vera Chiesa
cattolica ossia quella riconosciuta dal Governo cinese; la questione sulla
suddivisione tra Chiesa clandestina e Chiesa ufficiale sembra porsi solo in
Occidente. Questa non distinzione è da ricercare nella tradizione culturale
cinese.
Del resto, la Cina è
stata da sempre terra di sette. I vari Governi cinesi che si sono succeduti fino
ad oggi, sin dall’inizio della Repubblica nel 1912, hanno sempre cercato di
colpire queste sette, quasi sempre segrete, e considerate fonti di
superstizione. Numerosi pseudo-missionari o pseudo-chiese celavano, soprattutto
all’inizio del XX secolo, organizzazioni clandestine che nulla avevano a che
fare con la religione, pregiudicando l’operato missionario che molti preti
occidentali svolgevano o avevano svolto tra le masse. Nel 1929, sotto il Governo
di Chiang Kai-shek7, le scuole cattoliche
fondate da missionari cattolici, ma anche quelle fondate dai protestanti,
dovettero uniformarsi alle direttive governative e subire ispezioni, poiché
sotto la nomenclatura “scuole cattoliche” spesso si celavano delle sette.
Ritornando all’inchiesta
svolta a Prato, alcuni cinesi provenienti dal paese d’origine e con forti
tradizioni cattoliche stanno cercando di formare una sorta di Apostolato laico
tra le comunità cinesi, ciò permetterebbe un maggiore apporto
all’evangelizzazione in atto nelle chiese italiane, oltre a far comprendere in
maniera più chiara agli orientali le tematiche specifiche del cristianesimo. Pur
essendo ancora lontani dal parlare di “interculturalismo” si può auspicare che,
un giorno non troppo lontano, si possano concretizzare, in maniera non
utopistica, quei valori di convivenza pacifica alla base della comunità
internazionale sanciti dai vari Trattati internazionali.
Tematiche comuni nel
processo di evangelizzazione in Cina e in Italia
Anche se l’attuale
processo di evangelizzazione è ancora tutto da scrivere; tuttavia, come già accennato, esiste un
nutrito gruppo di cattolici cinesi tra i quali la fede è stata tramandatada generazioni e che,
giunti in Italia, non hanno rinunciato a professare il loro credo religioso. Nella ricerca
si son potute riscontrare non poche analogie tra le difficoltà di molti cinesi cattolici giunti
in Italia in questi ultimi venti anni, e le difficoltà incontrate nel processo di annuncio del Vangelo
in Cina negli anni in cui Pio XI istituì la I Delegazione Apostolica, con la nomina di Celso
Costantini a I Delegato Apostolico. Se la difficoltà della lingua cinese ha rappresentato,
da sempre, una spinosa difficoltà per i missionari che si recavano in Cina a diffondere la
parola di Cristo, anche per l’evangelizzazione sul nostro territorio il problema linguistico
rappresenta un grosso handicap. Molti degli intervistati non parlano che il cinese e
solo con pochi di loro si è potuto instaurare un proficuo dialogo.
Anche la nascita di un
clero indigeno, questione che, negli anni ’20 del secolo scorso, aveva tenuto banco nel
processo evangelico cinese per una vera e piena evangelizzazione
in Cina, rappresenta ancor oggi, nel nostro paese, una
questione di primaria importanza. Un clero
indigeno costituiva allora, per la nascita
di una Chiesa locale, la chiave di
volta per comprendere la mentalità della gente
del luogo e, grazie alla conoscenza
linguistica, per colmare il vuoto di
parole nella comunicazione contestuale
dell’evangelizzazione tradizionale. Si deve
sottolineare che oggi, laddove esistono parroci
o suore di origine cinese, così
come riscontrato a Prato, il processo di
annuncio si è innescato senza difficoltà. Non è
un caso che, in altre realtà
italiane, l’assenza di clero indigeno ha impedito che
i cinesi si accostassero alla religione cattolica
e quindi alle chiese delle comunità territoriali di appartenenza8.
Un altro fattore
importante dell’evangelizzazione degli anni ’30 del secolo scorso in Cina, e che può essere
rapportato ad un nascente processo di evangelizzazione cinese in corso oggi sul nostro
territorio, è costituito dalla presenza di un apostolato laico preparato e organizzato che, nel
secolo scorso, dette vita alla nascita dell’Azione Cattolica cinese. La presenza di laici
preparati e consapevoli era ed è certamente un modo per trainare nuove conversioni. Se i
cinesi, come dicevamo, sono difficili da avvicinare, la presenza tra loro di cattolici laici cinesi
costituirebbe sicuramente una forza propulsiva per il processo di
evangelizzazione anche sul nostro
territorio.
Se il mondo cattolico
italiano s’interroga su un possibile dialogo con la Cina continentale, non dovrebbe
sottovalutare che i cinesi nel mondo ormai globalizzato vivono anche in Italia, e che
instaurare un rapporto amichevole con le comunità site sul nostro territorio, oggi più di ieri,
potrebbe dare un apporto considerevole ad una possibile apertura della Chiesa cattolica con la
più grande Potenza comunista del mondo.
Differenze sostanziali:
la libertà religiosa
Se queste sono le
analogie tra l’evangelizzazione in Cina e l’evangelizzazione dei cinesi immigrati nella nostra
Penisola; sussistono invece delle differenze sostanziali, alcune delle quali derivanti dalla
diversa attribuzione di significato, in Oriente rispetto all’Occidente, di alcuni concetti chiave
che sovrintendono l’intero processo.
Infatti, si fa spesso
riferimento alla “Costituzione” cinese, dimenticando che il concetto di Costituzionalismo
nella Repubblica Popolare Cinese è fondamentalmente diverso da quello delle Democrazie
costituzionali occidentali. La Costituzione della Repubblica Popolare Cinese è fondata,
infatti, su un Documento Politico Programmatico. I diritti garantiti non sono inalienabili e
intrinseci alla persona, ma vengono concessi dallo Stato. Anzi, il cittadino non possiede,
né in teoria né in pratica, dei diritti, dal momento che il potere, nel
sistema cinese, non
promana dal popolo sovrano, bensì dallo Stato che concede al popolo alcune libertà.
L’attuazione del socialismo e del comunismo, fine contenuto in tutti i preamboli dei Documenti
Politici Programmatici, risulta perciò prioritaria rispetto all’esercizio di qualsiasi diritto
individuale.
Nell’ordinamento
costituzionale italiano, invece, il popolo è sovrano ed i diritti fondamentali vengono espressamente
riconosciuti e garantiti. Numerose sono le disposizione contenute nella nostra
Costituzione, che pongono l’accento sui richiamati principi di sovranità e di garanzie dei
diritti fondamentali. L’art. 1, comma 2, afferma «La
sovranità appartiene al popolo che la
esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.»;
l’art. 101 precisa «La
giustizia è amministrata in nome del popolo.»; l’art. 2, poi, dispone «La
Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come
singolo sia nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili
di solidarietà politica, economica e sociale».
Ancora, l’art. 3 dopo aver
riconosciuto, nel primo comma, il c.d. principio di uguaglianza formale affermando solennemente
che «Tutti i
cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge,
senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali»,
concretizza il detto principio, sancendo il c.d. principio di
uguaglianza sostanziale, dichiarando, nel secondo comma che «È compito della Repubblica
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la
libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e
l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e
sociale del Paese».
I diritti di cui alle citate disposizioni vengono poi specificati
negli artt. 13 e ss.
Senza alcuna pretesa di
esaustività, ed a mero titolo esemplificativo, possiamo ricordare la tutela accordata alla
inviolabilità della libertà personale (art. 13) e del domicilio (art. 14); alla libertà ed
alla segretezza della corrispondenza (art. 15); al diritto di manifestare liberamente il proprio
pensiero; al libero associazionismo (art. 18); al diritto di adire l’Autorità Giudiziaria, ed in
particolare il diritto alla difesa (art. 24) ed il diritto al giusto processo (art. 111); alle
minoranze; alla capacità giuridica, alla cittadinanza ed al nome; alla proprietà (art. 22); al
lavoro (art. 35 ed all’organizzazione sindacale (art. 39); alla Famiglia (art. 29); alla salute
(art. 32); al diritto di istruzione (art. 34).
Inoltre, la nostra
Costituzione, ed è ciò che qui più interessa evidenziare, prende in considerazione,
tutelandola, la libertà religiosa. In particolare l’art. 8 dichiara: «Tutte
le
confessioni religiose
sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica
hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino
con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per
legge sulla base di intese con le relative rappresentanze». Gli artt. 19 e 20, poi,
aggiungono «Tutti hanno diritto di
professare liberamente la propria fede religiosa in
qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o
in pubblico il culto, purché non ritratti di riti contrari al buon costume»; «Il
carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione non possono essere causa
di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la
sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività»9.
Queste disposizioni sono
basilari e prioritarie quando si parla di “libertà religiosa”, soprattutto per evidenziarne le
differenze su questo tema rispetto ad altre Nazioni.
In aggiunta, sul piano
intraecclesiale bisogna registrare che, nel 1965, uno dei documenti del Concilio Vaticano
II, “Dignitatis Humanae”, chiariva la posizione della Chiesa in tema di “libertà
religiosa”. In esso l’attenzione veniva posta sul fatto che gli esseri umani sempre più consapevoli
della propria dignità, oltre a voler decidere come in concreto esplicare la propria
libertà in materia religiosa, potevano invocare una limitazione dei poteri delle pubbliche
autorità, affinché tale libertà, come riconosciuta tanto ai singoli quanto alle associazioni, non
fosse vanificata del tutto. Inoltre il documento in questione poneva l’attenzione sui diritti
inviolabili della persona umana e sull’ordinamento giuridico della società. Il Concilio si
esprimeva nei seguenti termini: «La
persona umana ha il diritto alla libertà religiosa.
Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione
da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà
umana, così che in materia religiosa nessuno sia
forzato ad agire contro la sua coscienza né sia
impedito, entro debiti limiti, di agire in
conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in
forma individuale o associata. Inoltre
dichiara che il diritto alla libertà religiosa
si fonda realmente sulla stessa dignità
della persona umana, quale si conosce, sia
per mezzo della Parola di Dio rivelata che tramite
la stessa ragione. Questo diritto della
persona umana alla libertà religiosa deve essere
riconosciuto e sancito come diritto civile
nell’ordinamento giuridico della società»;
in aggiunta: «il diritto alla libertà religiosa si
fonda sulla dignità della persona umana, quale si
conosce, sia per
mezzo della Parola di
Dio rivelata sia tramite la stessa ragione. Questo diritto della persona umana alla
libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento
giuridico della società»10. In sostanza,
si stabiliva che la libertà religiosa doveva
competere ai singoli individui anche quando agivano collettivamente.
Alle comunità di fedeli
doveva essere riconosciuto il diritto di disciplinare con norme proprie sia l’esercizio
del culto sia le modalità con le quali diffondere il proprio credo religioso, sia, infine, la vita
delle proprie istituzioni, oltre che il diritto di educare, nominare e trasferire i propri
ministri; di comunicare con le autorità e con le comunità religiose che dimoravano in altre
regioni della terra, oltre il diritto di costruire edifici religiosi, di
acquistare e di godere di un
qualsiasi bene. Nel diffondere la propria fede religiosa e nell’introdurre propri riti religiosi si
dovevano evitare comportamenti costrittivi o scorretti.
Infine, la libertà
religiosa implicava il diritto di riunirsi e di associarsi liberamente,
qualunque fosse il fine di queste
associazioni: educativo, culturale, caritativo e sociale.
Il Concilio, poi,
evidenziava quanto fosse necessario adoperarsi attivamente per il rispetto del diritto alla libertà
religiosa, e quest’obbligo gravava sui singoli cittadini, sui gruppi sociali, sulle potestà civili,
sulla Chiesa e, infine, sulle altre comunità religiose. L’autorità civile aveva il dovere di
tutelare e promuovere i diritti inviolabili dell’uomo, con leggi giuste e con mezzi idonei, nonché
tutelare la libertà religiosa, e creare le condizioni affinché detta libertà potesse in concreto
essere esercitata. In aggiunta doveva essere garantita l’uguaglianza giuridica dei cittadini, evitando
che per motivi religiosi, palesemente o in forma occulta, essa potesse essere pregiudicata. Da
ciò discendeva la illegittimità di qualsivoglia imposizione di un determinato credo
religioso ovvero il divieto di aderire ad una comunità religiosa.
Tuttavia, il diritto
alla libertà religiosa incontrava dei limiti. Infatti, nell’esercizio di tutte le libertà si doveva
osservare il principio della responsabilità personale e sociale: nell’esercitare i propri diritti i
singoli esseri umani e i gruppi sociali dovevano avere riguardo tanto ai diritti altrui,
quanto ai propri doveri verso gli altri e verso il bene comune. Inoltre, la società civile andava
preservata dal pericolo che sotto il pretesto della libertà religiosa potessero compiersi atti
illeciti, tutto questo doveva essere garantito dalla autorità civile, che doveva agire in modo
corretto e non arbitrario, applicando le norme giuridiche del proprio ordinamento
in modo equo e senza alcun intento discriminatorio. A conclusione, la “Dignitatis Humanae”
ricordava quella norma non scritta secondo la quale: “Agli esseri umani va
riconosciuta la libertà più ampia possibile, ed essa non può e non deve essere limitata, salvo
che ciò non sia effettivamente inevitabile”.
Quindi, se spesso si
parla di “libertà di culto” si deve tener presente che tale concetto non assume la stessa
valenza in Cina rispetto al nostro Paese, o rispetto ai Paesi dove vengono riconosciute le norme
del Diritto Canonico e sono praticate le indicazioni conciliari.
Oltretutto, se si
mettono a confronto le varie “Costituzioni” adottate in Cina si riscontra che la “libertà di culto” è
stata sempre garantita, sia durante il Governo della destra nazionalista sia con l’avvento della
Repubblica Popolare di Mao Tse-tung nel 1949.
Successivamente al 1949,
la posizione della religione nella Costituzione della Repubblica Popolare Cinese rimane
sostanzialmente invariata. La libertà di “credo” religioso è stata sempre affermata,
lo Stato ha sempre protetto le attività religiose “normali” fintanto che queste non si sono
poste nelle condizioni di “sovvertire” o di “interferire” con gli interessi più importanti dello
Stato. Il termine “normale” è riferito sia alla paura della nascita di sette sia al fatto
che la Chiesa cattolica in Cina aveva cercato di interferire in settori chiave della società
civile sottraendoli, dal punto di vista cinese, all’azione dello Stato; in particolare si fa
riferimento all’educazione scolastica dei giovani cinesi. Non è un caso che uno dei primi
atti del Governo di Mao fu quello di sottrarre la gestione delle scuole ai cattolici.
Un’ulteriore
puntualizzazione a riguardo si ritrova nella Costituzione del 1978 che, dopo aver sancito la libertà
in materia religiosa, precisa che si può credere, ma non propagare la religione. Del resto,
Mao affermava che solo gli atei hanno il diritto e il dovere di propagare l’ateismo,
essendo convinto sostenitore che il progresso della scienza avrebbe portato al perire delle
religioni, senza bisogno di persecuzioni11.
Dal 1982 la Cina vive,
in ogni caso, una nuova fase della propria storia, il Presidente Deng Xiaoping ha indirizzato
la sua politica su istanze economiche del paese senza insistere sulla lotta di classe. Nella
nuova Costituzione del 1982, l’art. 36 dispone: «i
cittadini godono della libertà di credenza
religiosa. Nessun Organo statale, né organizzazione pubblica, né individuo possono
costringere i cittadini a credere, o a non credere, in una religione; né possono fare delle
discriminazioni contro i cittadini che credono, o che non credono, in una religione. Lo
Stato protegge le attività religiose normali. Nessuno può far uso della religione per
sovvertire l’ordine pubblico, danneggiare la salute dei cittadini, o interferire nel sistema scolastico
statale. Gli Enti religiosi e gli affari religiosi non sono soggetti ad alcuna
dominazione straniera»12.
Le successive modifiche costituzionali non hanno portato ad un
sostanziale variazione in materia di “libertà di culto”.
Limitazioni oggettive
alla diffusione del cristianesimo in Cina
Si deve, inoltre,
ricordare che nel processo di evangelizzazione della Cina degli anni venti del XX secolo, e a
ben vedere anche oggi, l’estensione territoriale cinese fu un fattore limitante questo, perché
la notevole distanza tra le varie province portò ad uno scollamento tra l’autorità centrale
e l’autorità locale.
In quegli anni la
real-politique cinese non permetteva un unico sentire, soprattutto in materia religiosa, sia a
causa della mancata unificazione della Cina, sia perché all’interno del Governo centrale non
tutti i suoi componenti avevano la stessa veduta in materia religiosa. Infatti, le province
dissidenti, in aperto contrasto con il Governo centrale, spesso non davano applicazione
ai tanti provvedimenti che l’autorità centrale emanava, comportandosi in modo del
tutto indipendente con quanto legiferato dal Governo centrale.
Poteva così accadere che, da
una parte si facessero delle
concessioni e dall’altra, non curanti
delle leggi in vigore, si
applicassero misure restrittive. Se oggi la Cina è
unificata (anche se rimane aperta
la questione con Taiwan13)
e in materia religiosa il Governo
centrale ha chiarito la propria
posizione, tuttavia, la sua
estensione territoriale resta
ancora un problema in un possibile nuovo spiraglio di
cristianizzazione della Cina.
Ecco perché ancor oggi, a momenti di
possibile apertura del Governo
centrale cinese in materia religiosa, si sono avvicendati periodi di
recrudescenza anti-religiosa da parte
delle autorità locali con atti intimidatori nei confronti di missionari e
preti
stranieri sino a sfociare in carcerazioni e soprusi. Inoltre, se il
mancato decollo del processo di evangelizzazione in Cina nello scorso
secolo fu attribuito al mancato confronto e
dialogo con le élites del Paese, oggi il processo di globalizzazione
dovrebbe favorire maggiormente il
dialogo, portando la Chiesa cattolica verso nuove sfide.
Un ulteriore punto su
cui focalizzare l’attenzione, che sta a monte di tutti i vari dettami costituzionali sia di
destra che di sinistra, è relativo alla visione che i cinesi hanno della “Chiesa”, dal punto di
vista del suo potere politico, per cui l’ammissione di una “libertà di culto” implica sempre un
eventuale riconoscimento dell’ente o dell’istituzione che a tale culto sovrintende. A
questo proposito va da sé che due culture diverse, per conoscersi, devono saper accorciare le loro
distanze, ma questo sino ad oggi non è avvenuto. Se esistono degli stereotipi sui
cinesi da parte occidentale, ne esistono anche tra i cinesi nei confronti dell’Occidente.
Tuttavia, se la Chiesa si è interrogata su come avvicinarsi alla Cina dal punto di vista della
comunicazione religiosa, bisogna che faccia un ulteriore passo e chiarisca la propria posizione
circa la “natura dualistica” di potere politico, da una parte, e potere spirituale
dall’altro, mostrandosi effettivamente slegata da tutto ciò che in passato costituì un handicap
per il processo di evangelizzazione. Il messaggio di scuse al popolo cinese di Giovanni Paolo
II, nel 2001, andava già in tale direzione.
Come sosteneva nel
Novecento Celso Costantini, “convertire i singoli è difficile, ma lo è ancor di più convertire
una Nazione”. Butturini sostiene che, dopo il Concilio Vaticano II, la visione europeista
della Chiesa è mutata: «Nel Concilio si pongono le premesse per una
effettiva parità fra le
chiese e le relative culture; almeno indirettamente il modello politico ed economico dell’Europa
non è più l’unico»14. Bisogna, però,
ricordare che, solo con il Sinodo del 1974, questo
mutamento diviene osservabile.
Comunque in questi ultimi anni, ossia a cavallo tra il
XX secolo e l’inizio del terzo millennio, si è fatta molta più strada rispetto al passato. Oggi il
dialogo interreligioso si presenta come la gestione della diversità e il mondo cristiano come
pluralista e pluralistico. Dopo un periodo di incertezza postconciliare, Giovanni Paolo II ha
traghettato la Chiesa del terzo millennio, con una forte identità, verso una grande
pluralità di realtà aggregate ed un forte senso del dialogo. Il mondo cristiano del nuovo secolo è pieno
di nuove e molteplici sfide; una di queste potrebbe certamente essere rappresentata da
una possibile riapertura di dialogo tra la Cina e la Santa Sede, ma una grossa scommessa
per la Chiesa cattolica consisterebbe nel “convertire” e confrontarsi con i cinesi, a partire
da quelli che vivono e lavorano sul nostro territorio.
Note:
1 - COSTANTINI Celso,
Ultime Foglie, ricordi e pensieri, Unione Missionaria del Clero in Italia,
Roma, 1954, p. 3.
2 - Prato è ormai
diventata una delle città con più alta incidenza di cittadini stranieri.
Tuttavia, come rileva la stessa Marsden i dati vanno
letti cum grano salis, poiché i residenti privi di residenza anagrafica
sono molto più numerosi di quelli che in realtà
appaiono dai rapporti ministeriali o diffusi dal Dossier Caritas, o da altre
pubblicazioni. Quindi il computo è
decisamente inferiore. La comunità cinese presente in territorio pratese ha
iniziato prima delle altre comunità
straniere un proprio processo di stabilizzazione nella provincia. La crescita
riguarda tutti i tipi di permesso di
soggiorno e il tasso di incremento dei permessi di famiglia, per quanto
rilevante, è inferiore a quello registrato tra
gli altri gruppi. Nel suo insieme, lo sviluppo di questa comunità riguarda le
presenze per lavoro subordinato e per
famiglia, ma aumentano anche le presenze per lavoro autonomo. Si può rilevare
una crescita esponenziale fino al
1997, seguito da un periodo di stagnazione fino al 2000 (la forte preponderanza
di cittadini cinesi si è ridotta nell’arco
di questo periodo per la consistente crescita degli altri gruppi di immigrati),
ed infine una ripresa della crescita
nel 2001. Il tasso d’incremento si è inevitabilmente ridotto al termine della
regolarizzazione, scendendo, nel 2000, al
di sotto del 10%. I dati sui residenti inclusivi di minori consentono solo una
quantificazione parziale delle presenze,
poiché molti di loro soggiornano regolarmente nel comune di Prato, senza
acquisirvi la residenza. I residenti
cinesi, alla data 30 giugno 2004, si concentrano nel centro o ad ovest della
città, con una percentuale sul totale degli
stranieri di 47,66% ad ovest e 46, 71% in centro; sul totale dei residenti 3,42%
ad ovest e 7,20% in centro. MARSDEN
Anna, La presenza straniera nella Provincia di Prato, Osservatorio
provinciale sull’immigrazione, Febbraio 2001, p. 2.
Centro Ricerche e Servizi per L’Immigrazione del Comune di Prato, a cura di MARSDEN Anna, GELLI
Monica e PECCHIOLI Serena, Residenti stranieri nel comune di Prato,
Novembre 2004. Centro Ricerche e
Servizi per L’Immigrazione del Comune di Prato, a cura di MARSDEN Anna,
I numeri della presenza straniera,
Comune di Prato e Università di Firenze, Stati Generali della Città, Comune di
Prato, 2002, pp. 1-
6. Centro Ricerche e
Servizi per L’Immigrazione del Comune di Prato, a cura di MARSDEN Anna,
I numeri della presenza straniera,
Dicembre 2003, pp. 1-11. Centro Ricerche e Servizi per L’Immigrazione del Comune
di Prato,
La popolazione straniera
residente a Prato e l’immigrazione cinese, a cura di MARSDEN Anna e GELLI
Monica, Luglio 2004, p. 4.
3 - Si tratta in effetti
di famiglie allargate nel senso più ampio del termine, comprendenti più nuclei
familiari.
4 - JABBAR Adel,
“Migranti, identità in evoluzione”, in «Aut&Aut», settimanale delle
autonomie toscane, n. 48, novembre, Prato, 2002,
p. 1.
5 - Non è un caso che gli
intervistati provengano da questa regione, infatti dai dati forniti dal comune
di Prato il maggior numero di cinesi
presenti sul territorio pratese provengono da questa zona della Cina. Centro
Ricerche e Servizi per
L’Immigrazione del Comune di Prato, a cura di MARSDEN Anna, Edizione 1997-1998,
p. 25. Centro Ricerche e Servizi per
L’Immigrazione del Comune di Prato, a cura di MARSDEN Anna, Edizione 1998-1999,
p. 25.
Centro Ricerche e
Servizi per L’Immigrazione del Comune di Prato, a cura di MARSDEN Anna, Edizione
2000, p. 19.
Centro Ricerche e
Servizi per L’Immigrazione del Comune di Prato, a cura di MARSDEN Anna, Edizione
2001, p. 19.
Centro Ricerche e
Servizi per L’Immigrazione del Comune di Prato, a cura di MARSDEN Anna, Edizione
2002, p. 19.
Centro Ricerche e
Servizi per L’Immigrazione del Comune di Prato, a cura di MARSDEN Anna, Edizione
2003, p. 20.
6 - Dai dati forniti fino
al 2002, la loro presenza si concentra nelle scuole elementari e medie, ma
risulta alquanto consistente pure nelle
materne e superiori. Per l’anno scolastico 2004-2005 nelle scuole elementari su
un totale di 967 stranieri 409 sono
cinesi, tradotti in percentuale il 42,30%; gli alunni che iniziano sono 95,
ossia 40,08 %, ma alla quinta classe
arrivano solo in 67 ossia 41,36%. Nella scuola media su un totale 737, 397 sono
cinesi, ossia il 53,87%; nelle tre classi
il numero degli studenti è stazionario. Nelle scuole superiori, soprattutto
istituti tecnici, iniziano, su un totale di 228, 126
studenti cinesi, ossia 55,26%, ma arrivano al diploma 1 su 24 studenti, ossia su
un totale di 421 studenti
179 sono cinesi, ossia 42,52%. Centro Ricerche e Servizi per L’Immigrazione del
Comune di Prato, a cura di MARSDEN
Anna, I numeri della presenza straniera, Comune di Prato e Università di
Firenze, Stati Generali della Città,
Comune di Prato, 2002, p. 6. Centro Ricerche e Servizi per L’Immigrazione del
Comune di Prato, a cura di MARSDEN
Anna, Gli stranieri nelle scuole del Comune di Prato (Anno scolastico
2004-2005), Novembre 2004, 1-12.
7 - CAPRISTO Vincenza
Cinzia,
“Fondare la Chiesa” in Estremo Oriente, le Missioni cattoliche in Cina dal 1928 al 1946,
Catanzaro, ed. Ursini, 2001, pp. 46-47.
8 - Il riferimento è alla
comunità di Solofra, in Provincia di Avellino. Centro conciario del Sud, ha
rappresentato per i cinesi un punto
nevralgico nel settore della pelletteria. Tuttavia, non si è instaurato un
dialogo tra la comunità cinese e le istituzioni sia politiche che religiose, ma piuttosto uno scollamento dovuto anche alla
mancanza di un dialogo per le
difficoltà della lingua. Conosco de visu la comunità solofrana per i
contatti con Mons. Michele Alfano, parroco della Collegiata
di S Michele. Ci risulta da fonti terze che a Napoli e nell’hinterland
(soprattutto a San Giuseppe Vesuviano)
esistono molti cinesi che si sono accostati alla comunità dei “Testimoni di
Geova”.
9 - Costituzione della
Repubblica italiana.
10 - Cf I Documenti del
Concilio Vaticano II, edizioni Paoline, Roma 1965, pp. 598-616.
11 - ZANINI Giuseppe,
Cristo in Cina (documenti di storia missionaria), editore Ghiandetti, Udine,
1982, pp. 187-188.
12 - LAZZAROTTO Angelo,
La politica della Cina Comunista nei confronti della religione, in «Nuova
Umanità», n. 33-35, Città Nuova
Edizione PAMOM, Roma, 1984, pp. 83-84.
13 - CAPRISTO Vincenza
Cinzia,
“Chiesa Cattolica e mondo cinese: quale dialogo? Due epoche e due interventi pontifici a confronto”,
«Vivarium», numero 1, gennaio-aprile, ed. Ursini, Catanzaro, 2005, pp. 109-120.
14 - BUTTURINI Giuseppe,
“Da una Chiesa di missione ad una Chiesa missionaria”, (Quaderni
C.U.A.M.M.), n. 16, Padova, 1985, pp.
1-57. RICCARDI Andrea,
Intransigenza e modernità-la Chiesa cattolica verso
il terzo millennio,
ed. Laterza, Bari, 1996, pp. 92-107.
Fonte : scritti della dott.essa
Vincenza Cinzia Capristo ; articolo pubblicato sulla rivista "Il Cerchio", N°64,
Anno XIII, maggio/ottobre 2007, sito web
www.cerchionapoli.it .
* Vincenza Cinzia
CAPRISTO ( e-mail:
capristocinzia@libero.it ) è laureata in Scienze Politiche con indirizzo
Internazionale alla “Cesare Alfieri” di Firenze, in Storia Politica e
Diplomatica dell’Asia Orientale. Dal 2000 si occupa di storia del Cristianesimo
in Cina, in particolare i suoi studi sono indirizzati ai secoli XIX e XX. Al suo
attivo varie pubblicazioni su queste tematiche. Collabora per alcuni progetti di
ricerca con l’Orientale di Napoli, l’Università Pontificia dell’Italia
Meridionale di Napoli e altri centri di ricerca. È membro dell’Associazione
Culturale Orientalia Parthenopea di Napoli
www.orientaliaparthenopea.org
.
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