mercoledì 24 luglio 2019

PER UN CORRETTO PROCESSO D'EVANGELIZZAZIONE DEI CINESI SUL NOSTRO TERRITORIO, di Vincenza Cinzia Capristo



PER UN CORRETTO PROCESSO D'EVANGELIZZAZIONE DEI CINESI SUL NOSTRO TERRITORIO
di Vincenza Cinzia Capristo 
 
 

PREMESSA

Se da circa un ventennio si parla di invasione cinese nella nostra economia, è da pochi anni che si pone attenzione su chi siano realmente i cinesi. La legge del mercato globalizzato sembra aver svuotato l’essenza stessa dell’individuo. La globalizzazione (come tutti i processi storici) non andrebbe intesa e non può essere limitata al solo aspetto economico, bensì come un processo di incontro-confronto tra diverse culture e, perciò, come un movimento di apertura culturale “al diverso”.
I recenti eventi internazionali hanno portato in auge il problema religioso, dal quale non si può prescindere parlando di globalizzazione e di processi transculturali. Tuttavia, se quando si parla di Medio Oriente (Paesi arabi) si fa sempre riferimento al problema religioso nell’orizzonte del confronto tra i tre grandi monoteismi (giudaico, cristiano e islamico), nel parlare di Estremo Oriente, Cina o Giappone, si fa spesso esclusivo riferimento “all’economia di mercato”.
Con il pontificato di Giovanni Paolo II è iniziata una nuova fase di avvicinamento tra la più grande Potenza cattolica del mondo e la Cina comunista. Se, nella prima parte del suo pontificato, i toni del Papa polacco verso la Cina erano ancora alquanto duri, è nella seconda parte che il rapporto si è fatto più costruttivo, ponendo le basi per un reale avvicinamento.
Il dialogo – interrotto nel 1952, subito dopo la presa di potere di Mao e l’allontanamento di tutti i missionari cattolici dal suolo cinese – in questi ultimi anni sembra aver ritrovato un possibile spiraglio, tanto da spingere la Santa Sede a riconsiderare la riapertura di rapporti diplomatici. Ma l’eventuale ripresa del dialogo tra la Cina e il Vaticano avrebbe ripercussioni molto rilevanti sia sugli equilibri della sfera internazionale, sia nella sfera interna degli Stati terzi. Le conseguenze politiche e giuridiche di un evento di tale portata investirebbero, in primis, il campo dei rapporti diplomatici stricto sensu, trattandosi di Stati sovrani che agiscono come soggetti indipendenti nell’ambito della comunità internazionale. In secondo luogo, gli Stati terzi si troverebbero nelle condizioni dover adattare le loro politiche settoriali nei rapporti con le comunità cinesi presenti sul proprio territorio.
Per rendersi conto di quanto sia importante il secondo aspetto della questione, è sufficiente osservare la massiccia ed estesa presenza delle comunità cinesi in quasi tutti i paesi
del mondo. La questione tocca, quindi, molto da vicino anche lo Stato italiano, il cui territorio ospita comunità cinesi in misura piuttosto consistente. Queste comunità si sono talmente radicate in alcune realtà del nostro Paese che, oltre a lavorarvi, si sono avvicinate e confrontate con confessioni religiose diverse da quelle professate nel paese d’origine.


Processo di evangelizzazione dei cinesi in Italia: il “caso” Prato

Negli anni ’30 del secolo scorso i missionari occidentali che operavano in Cina si domandavano se i cinesi fossero “refrattari” alla religione cristiana e, sulla base delle esperienze maturate con il contatto diretto in loco, concludevano che essi effettivamente lo fossero.
In quegli anni, però, l’evangelizzazione era correlata ad un “processo di colonizzazione”, che portava ad un’omogeneizzazione dei processi in tutti i paesi da “cristianizzare”. Ma i processi storici mutano e, con essi, i modi e gli strumenti dell’annuncio del Vangelo. Tuttavia, a distanza di un secolo, siamo ancora nelle condizioni di dover parlare di un “processo di evangelizzazione” in atto nei confronti degli esponenti del popolo cinese. Questa volta non solo nella lontana terra di Cina, ma “a casa nostra”. Le comunità cinesi presenti sul nostro territorio sono composte da “nuclei familiari allargati”, tipici della conformazione sociale di questo popolo, e si sono diffuse a macchia d’olio ritagliandosi fette di città in cui i loro profitti sono cresciuti insieme con le diffidenze degli autoctoni.
Ma conosciamo effettivamente i cinesi e le loro usanze, o siamo pieni di superate convinzioni? Nel 1933, Celso Costantini, I Delegato Apostolico della Santa Sede in Cina, avvertiva già sui rischi degli stereotipi: «Mi pare che certe idee sui cinesi, che si ripetono come un luogo comune tra gli stranieri, meritano una radicale revisione. In ogni caso, se mi ingannerò, sarà meglio che mi inganni pensando bene piuttosto che pensando male di questo immenso popolo»1. Tali parole dovrebbero risuonare come monito in vista di una convivenza pacifica tra i popoli e di un libero confronto interreligioso. Tuttavia, a distanza di più di mezzo secolo, possiamo affermare che tale ossservazione sia esplicativa di quanto poco negli anni sia effettivamente cambiato e di come spesso “l’altro” sia visto ancora come una “minaccia”. Pochi sanno, ad esempio, che i cinesi sono portati all’associazionismo: riunirsi è uno dei tanti modi per affermare la loro identità.
Per verificare se i cinesi che risiedono in Italia siano “refrattari” o meno alla religione cristiana, è stata condotta una piccola inchiesta in loco, precisamente presso la comunità cinese di Prato. Nella cittadina toscana è presente, infatti, una delle più nutrite comunità cinesi d’Italia2, all’interno della quale esiste un buon numero di cinesi cattolici praticanti, esattamente nella Parrocchia di S. Paolo. Pur non essendo ancora in presenza di una vera e propria fase d’evangelizzazione, quanto piuttosto di una fase di “pre-evangelizzazione”, si può comunque iniziare a studiarne i comportamenti in riferimento al problema religioso.
Seguendo un approccio scientifico, questi fedeli sono stati intervistati mediante un questionario predisposto ad hoc, scoprendo che, accanto ai neofiti, esiste anche un nucleo di “vecchi cristiani” provenienti da zone della Cina con una forte tradizione cattolica. Le statistiche estrapolate dai questionari ci forniscono dei dati apprezzabili. Sul totale delle famiglie intervistate, il 10% proviene dalla Cina già convertito, il 50% risulta essere stato convertito in Italia, mentre il restante 40% è in una fase di pre-evangelizzazione, ossia di primo accostamento al Vangelo cristiano. Stando ai dati forniti dalla Caritas, esistono a Prato ben 60 famiglie3 cattoliche. La maggior parte di essi ha ricevuto il battesimo, una minoranza ha raggiunto la comunione e la cresima. Inoltre, si attendono le due festività cristiane più importati, ossia Natale e Pasqua, per incrementare il numero dei battezzati.
Purtroppo, non si è potuto contare, per il computo esatto dei convertiti, sui dati forniti dal Comune di Prato che ha peraltro già svolto, sia sull’immigrazione sia sulle scuole del territorio pratese, una esaustiva ricerca. La seconda generazione adulta presente a Prato risulta ormai scollegata dalla realtà cinese d’origine, nonché da quella italiana e vive la sensibilità dell’immigrato. Al riguardo, come precisa il sociologo Adel Jabbar, «il mondo di questi soggetti (immigrati) è innanzi tutto un mondo “scosso”, poiché la loro identità rimane, almeno inizialmente, come incompiuta, sospesa tra il paese d’origine e il luogo d’arrivo»4. Il migrante lavora e non ha tempo per la pratica religiosa; non a caso, alla domanda: “Ogni quanto vieni in parrocchia?”, gli intervistati rispondono: “Quando non lavoro!”.
È, dunque, solo questo l’unico vero ostacolo all’evangelizzazione? La terza generazione d’immigrati sta intanto crescendo con “modelli” occidentali, ma non ancora con una coscienza e “valori” occidentali. È in questa terza generazione che si hanno le maggiori conversioni al cristianesimo; tuttavia, essa presenta, come la generazione precedente, due difficoltà oggettive per un pastore d’anime che intende evangelizzare: incontrarli e infondere fiducia.
Se tra i tanti luoghi comuni sulla comunità cinese vi è quello di attribuirgli l’appellativo di “chiusa”, una certa resistenza all’approccio interpersonale va correlata ad una sorta di diffidenza e riservatezza, insite nell’humus culturale cinese; non per questo tale atteggiamento deve essere letto come indisponibilità alla vita comunitaria. Anzi, a ben vedere, i cinesi sono così propensi ad associarsi che uno degli intervistati alla domanda: “Cosa ne pensi della religione cattolica?”, ha risposto: “Questa religione ha un valore positivo: la comunità”. Se i cattolici, in particolare dopo il Concilio Vaticano II, sottolineano il significato che la Chiesa è “comunione” e “comunità”, allora i cinesi di casa nostra non sono poi
così distanti da tale orizzonte. È da questo senso di “fare comunità” che si potrebbe, probabilmente, partire per avvicinare opportunamente due culture diverse.
Il campione di soggetti intervistati rientra in un’età compresa tra i 13 e i 49 anni, provenienti quasi tutti, eccetto una piccola sparuta minoranza, dalla regione di Zhejiang5. Frequentano con una certa regolarità la parrocchia; la domenica pomeriggio si ritrovano per la celebrazione della Santa Messa, si preparano ad essa leggendo un passo del Vangelo o della Bibbia, a cui segue la preparazione dei canti. I ragazzi cinesi spesso frequentano l’ora di religione senza un reale interesse verso il cristianesimo o qualsivoglia religione, piuttosto la considerano una normale ora di lezione; solo come ultima ratio alcuni di loro, come prevede la legislazione vigente in Italia in materia, non si avvalgono dell’ora di religione6.
Se la comunicazione nell’ambito delle istituzioni territoriali, come rivela lo stesso Adel Jabbar, almeno in alcuni settori, diventa una tappa quasi obbligata, non così avviene con l’istituzione ecclesiastica. Rimane forte l’attaccamento alla famiglia e alle tradizioni per cui la fede è trasmessa a livello familiare: dal marito alla moglie e viceversa, dai genitori ai figli. Nessuno di loro è diventato cattolico senza che almeno uno dei componenti familiari non sia o fosse stato cattolico (zii, sorelle o altri componenti familiari). Alla domanda: “Che ne pensi di questa religione cattolica?”, uno di questi ha risposto: “Se la famiglia crede, io credo”.
Coloro che arrivano dalla Cina già convertiti hanno notato una differenza tra la liturgia cinese e quella della Chiesa di Roma, evidenziando che i riti in Occidente sono più “originali”. Apprezzano una fede che sollecita l’uomo a non compiere il male e, secondo alcuni, la religione cattolica cristiana è portatrice di una forte “etica della persona”. Quest’ultima considerazione ha suscitato particolare attenzione poiché, ancora oggi, in Cina i diritti umani più elementari vengono negati. Tra i neofiti la maggior parte era atea ed una minoranza buddista. Tutti concordano nel dire che l’unica differenza tra Oriente ed Occidente è “l’ambiente”, inteso come clima più mite e migliore qualità della vita. Alla domanda se in Cina avessero conosciuto dei preti cattolici cinesi, una buona parte ha risposto di averli conosciuti ed aver incontrato anche dei vescovi cinesi. Non esiste per loro nessuna differenza tra “Chiesa clandestina” e “Chiesa ufficiale”, esiste soltanto una sola e vera Chiesa cattolica ossia quella riconosciuta dal Governo cinese; la questione sulla suddivisione tra Chiesa clandestina e Chiesa ufficiale sembra porsi solo in Occidente. Questa non distinzione è da ricercare nella tradizione culturale cinese.
Del resto, la Cina è stata da sempre terra di sette. I vari Governi cinesi che si sono succeduti fino ad oggi, sin dall’inizio della Repubblica nel 1912, hanno sempre cercato di colpire queste sette, quasi sempre segrete, e considerate fonti di superstizione. Numerosi pseudo-missionari o pseudo-chiese celavano, soprattutto all’inizio del XX secolo, organizzazioni clandestine che nulla avevano a che fare con la religione, pregiudicando l’operato missionario che molti preti occidentali svolgevano o avevano svolto tra le masse. Nel 1929, sotto il Governo di Chiang Kai-shek7, le scuole cattoliche fondate da missionari cattolici, ma anche quelle fondate dai protestanti, dovettero uniformarsi alle direttive governative e subire ispezioni, poiché sotto la nomenclatura “scuole cattoliche” spesso si celavano delle sette.
Ritornando all’inchiesta svolta a Prato, alcuni cinesi provenienti dal paese d’origine e con forti tradizioni cattoliche stanno cercando di formare una sorta di Apostolato laico tra le comunità cinesi, ciò permetterebbe un maggiore apporto all’evangelizzazione in atto nelle chiese italiane, oltre a far comprendere in maniera più chiara agli orientali le tematiche specifiche del cristianesimo. Pur essendo ancora lontani dal parlare di “interculturalismo” si può auspicare che, un giorno non troppo lontano, si possano concretizzare, in maniera non utopistica, quei valori di convivenza pacifica alla base della comunità internazionale sanciti dai vari Trattati internazionali.


Tematiche comuni nel processo di evangelizzazione in Cina e in Italia

Anche se l’attuale processo di evangelizzazione è ancora tutto da scrivere; tuttavia, come già accennato, esiste un nutrito gruppo di cattolici cinesi tra i quali la fede è stata tramandatada generazioni e che, giunti in Italia, non hanno rinunciato a professare il loro credo religioso. Nella ricerca si son potute riscontrare non poche analogie tra le difficoltà di molti cinesi cattolici giunti in Italia in questi ultimi venti anni, e le difficoltà incontrate nel processo di annuncio del Vangelo in Cina negli anni in cui Pio XI istituì la I Delegazione Apostolica, con la nomina di Celso Costantini a I Delegato Apostolico. Se la difficoltà della lingua cinese ha rappresentato, da sempre, una spinosa difficoltà per i missionari che si recavano in Cina a diffondere la parola di Cristo, anche per l’evangelizzazione sul nostro territorio il problema linguistico rappresenta un grosso handicap. Molti degli intervistati non parlano che il cinese e solo con pochi di loro si è potuto instaurare un proficuo dialogo.
Anche la nascita di un clero indigeno, questione che, negli anni ’20 del secolo scorso, aveva tenuto banco nel processo evangelico cinese per una vera e piena evangelizzazione in Cina, rappresenta ancor oggi, nel nostro paese, una questione di primaria importanza. Un clero indigeno costituiva allora, per la nascita di una Chiesa locale, la chiave di volta per comprendere la mentalità della gente del luogo e, grazie alla conoscenza linguistica, per colmare il vuoto di parole nella comunicazione contestuale dell’evangelizzazione tradizionale. Si deve sottolineare che oggi, laddove esistono parroci o suore di origine cinese, così come riscontrato a Prato, il processo di annuncio si è innescato senza difficoltà. Non è un caso che, in altre realtà italiane, l’assenza di clero indigeno ha impedito che i cinesi si accostassero alla religione cattolica e quindi alle chiese delle comunità territoriali di appartenenza8.
Un altro fattore importante dell’evangelizzazione degli anni ’30 del secolo scorso in Cina, e che può essere rapportato ad un nascente processo di evangelizzazione cinese in corso oggi sul nostro territorio, è costituito dalla presenza di un apostolato laico preparato e organizzato che, nel secolo scorso, dette vita alla nascita dell’Azione Cattolica cinese. La presenza di laici preparati e consapevoli era ed è certamente un modo per trainare nuove conversioni. Se i cinesi, come dicevamo, sono difficili da avvicinare, la presenza tra loro di cattolici laici cinesi costituirebbe sicuramente una forza propulsiva per il processo di evangelizzazione anche sul nostro territorio.
Se il mondo cattolico italiano s’interroga su un possibile dialogo con la Cina continentale, non dovrebbe sottovalutare che i cinesi nel mondo ormai globalizzato vivono anche in Italia, e che instaurare un rapporto amichevole con le comunità site sul nostro territorio, oggi più di ieri, potrebbe dare un apporto considerevole ad una possibile apertura della Chiesa cattolica con la più grande Potenza comunista del mondo.


Differenze sostanziali: la libertà religiosa

Se queste sono le analogie tra l’evangelizzazione in Cina e l’evangelizzazione dei cinesi immigrati nella nostra Penisola; sussistono invece delle differenze sostanziali, alcune delle quali derivanti dalla diversa attribuzione di significato, in Oriente rispetto all’Occidente, di alcuni concetti chiave che sovrintendono l’intero processo.
Infatti, si fa spesso riferimento alla “Costituzione” cinese, dimenticando che il concetto di Costituzionalismo nella Repubblica Popolare Cinese è fondamentalmente diverso da quello delle Democrazie costituzionali occidentali. La Costituzione della Repubblica Popolare Cinese è fondata, infatti, su un Documento Politico Programmatico. I diritti garantiti non sono inalienabili e intrinseci alla persona, ma vengono concessi dallo Stato. Anzi, il cittadino non possiede, né in teoria né in pratica, dei diritti, dal momento che il potere, nel
sistema cinese, non promana dal popolo sovrano, bensì dallo Stato che concede al popolo alcune libertà. L’attuazione del socialismo e del comunismo, fine contenuto in tutti i preamboli dei Documenti Politici Programmatici, risulta perciò prioritaria rispetto all’esercizio di qualsiasi diritto individuale.
Nell’ordinamento costituzionale italiano, invece, il popolo è sovrano ed i diritti fondamentali vengono espressamente riconosciuti e garantiti. Numerose sono le disposizione contenute nella nostra Costituzione, che pongono l’accento sui richiamati principi di sovranità e di garanzie dei diritti fondamentali. L’art. 1, comma 2, afferma «La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.»; l’art. 101 precisa «La giustizia è amministrata in nome del popolo.»; l’art. 2, poi, dispone «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Ancora, l’art. 3 dopo aver riconosciuto, nel primo comma, il c.d. principio di uguaglianza formale affermando solennemente che «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali», concretizza il detto principio, sancendo il c.d. principio di uguaglianza sostanziale, dichiarando, nel secondo comma che «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». I diritti di cui alle citate disposizioni vengono poi specificati negli artt. 13 e ss.
Senza alcuna pretesa di esaustività, ed a mero titolo esemplificativo, possiamo ricordare la tutela accordata alla inviolabilità della libertà personale (art. 13) e del domicilio (art. 14); alla libertà ed alla segretezza della corrispondenza (art. 15); al diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero; al libero associazionismo (art. 18); al diritto di adire l’Autorità Giudiziaria, ed in particolare il diritto alla difesa (art. 24) ed il diritto al giusto processo (art. 111); alle minoranze; alla capacità giuridica, alla cittadinanza ed al nome; alla proprietà (art. 22); al lavoro (art. 35 ed all’organizzazione sindacale (art. 39); alla Famiglia (art. 29); alla salute (art. 32); al diritto di istruzione (art. 34).
Inoltre, la nostra Costituzione, ed è ciò che qui più interessa evidenziare, prende in considerazione, tutelandola, la libertà religiosa. In particolare l’art. 8 dichiara: «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze». Gli artt. 19 e 20, poi, aggiungono «Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non ritratti di riti contrari al buon costume»; «Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività»9.
Queste disposizioni sono basilari e prioritarie quando si parla di “libertà religiosa”, soprattutto per evidenziarne le differenze su questo tema rispetto ad altre Nazioni.
In aggiunta, sul piano intraecclesiale bisogna registrare che, nel 1965, uno dei documenti del Concilio Vaticano II, “Dignitatis Humanae”, chiariva la posizione della Chiesa in tema di “libertà religiosa”. In esso l’attenzione veniva posta sul fatto che gli esseri umani sempre più consapevoli della propria dignità, oltre a voler decidere come in concreto esplicare la propria libertà in materia religiosa, potevano invocare una limitazione dei poteri delle pubbliche autorità, affinché tale libertà, come riconosciuta tanto ai singoli quanto alle associazioni, non fosse vanificata del tutto. Inoltre il documento in questione poneva l’attenzione sui diritti inviolabili della persona umana e sull’ordinamento giuridico della società. Il Concilio si esprimeva nei seguenti termini: «La persona umana ha il diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata. Inoltre dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana, quale si conosce, sia per mezzo della Parola di Dio rivelata che tramite la stessa ragione. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento giuridico della società»; in aggiunta: «il diritto alla libertà religiosa si fonda sulla dignità della persona umana, quale si conosce, sia per mezzo della Parola di Dio rivelata sia tramite la stessa ragione. Questo diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento giuridico della società»10. In sostanza, si stabiliva che la libertà religiosa doveva competere ai singoli individui anche quando agivano collettivamente.
Alle comunità di fedeli doveva essere riconosciuto il diritto di disciplinare con norme proprie sia l’esercizio del culto sia le modalità con le quali diffondere il proprio credo religioso, sia, infine, la vita delle proprie istituzioni, oltre che il diritto di educare, nominare e trasferire i propri ministri; di comunicare con le autorità e con le comunità religiose che dimoravano in altre regioni della terra, oltre il diritto di costruire edifici religiosi, di acquistare e di godere di un qualsiasi bene. Nel diffondere la propria fede religiosa e nell’introdurre propri riti religiosi si dovevano evitare comportamenti costrittivi o scorretti.
Infine, la libertà religiosa implicava il diritto di riunirsi e di associarsi liberamente, qualunque fosse il fine di queste associazioni: educativo, culturale, caritativo e sociale.
Il Concilio, poi, evidenziava quanto fosse necessario adoperarsi attivamente per il rispetto del diritto alla libertà religiosa, e quest’obbligo gravava sui singoli cittadini, sui gruppi sociali, sulle potestà civili, sulla Chiesa e, infine, sulle altre comunità religiose. L’autorità civile aveva il dovere di tutelare e promuovere i diritti inviolabili dell’uomo, con leggi giuste e con mezzi idonei, nonché tutelare la libertà religiosa, e creare le condizioni affinché detta libertà potesse in concreto essere esercitata. In aggiunta doveva essere garantita l’uguaglianza giuridica dei cittadini, evitando che per motivi religiosi, palesemente o in forma occulta, essa potesse essere pregiudicata. Da ciò discendeva la illegittimità di qualsivoglia imposizione di un determinato credo religioso ovvero il divieto di aderire ad una comunità religiosa.
Tuttavia, il diritto alla libertà religiosa incontrava dei limiti. Infatti, nell’esercizio di tutte le libertà si doveva osservare il principio della responsabilità personale e sociale: nell’esercitare i propri diritti i singoli esseri umani e i gruppi sociali dovevano avere riguardo tanto ai diritti altrui, quanto ai propri doveri verso gli altri e verso il bene comune. Inoltre, la società civile andava preservata dal pericolo che sotto il pretesto della libertà religiosa potessero compiersi atti illeciti, tutto questo doveva essere garantito dalla autorità civile, che doveva agire in modo corretto e non arbitrario, applicando le norme giuridiche del proprio ordinamento in modo equo e senza alcun intento discriminatorio. A conclusione, la “Dignitatis Humanae” ricordava quella norma non scritta secondo la quale: “Agli esseri umani va riconosciuta la libertà più ampia possibile, ed essa non può e non deve essere limitata, salvo che ciò non sia effettivamente inevitabile”.
Quindi, se spesso si parla di “libertà di culto” si deve tener presente che tale concetto non assume la stessa valenza in Cina rispetto al nostro Paese, o rispetto ai Paesi dove vengono riconosciute le norme del Diritto Canonico e sono praticate le indicazioni conciliari.
Oltretutto, se si mettono a confronto le varie “Costituzioni” adottate in Cina si riscontra che la “libertà di culto” è stata sempre garantita, sia durante il Governo della destra nazionalista sia con l’avvento della Repubblica Popolare di Mao Tse-tung nel 1949.
Successivamente al 1949, la posizione della religione nella Costituzione della Repubblica Popolare Cinese rimane sostanzialmente invariata. La libertà di “credo” religioso è stata sempre affermata, lo Stato ha sempre protetto le attività religiose “normali” fintanto che queste non si sono poste nelle condizioni di “sovvertire” o di “interferire” con gli interessi più importanti dello Stato. Il termine “normale” è riferito sia alla paura della nascita di sette sia al fatto che la Chiesa cattolica in Cina aveva cercato di interferire in settori chiave della società civile sottraendoli, dal punto di vista cinese, all’azione dello Stato; in particolare si fa riferimento all’educazione scolastica dei giovani cinesi. Non è un caso che uno dei primi atti del Governo di Mao fu quello di sottrarre la gestione delle scuole ai cattolici.
Un’ulteriore puntualizzazione a riguardo si ritrova nella Costituzione del 1978 che, dopo aver sancito la libertà in materia religiosa, precisa che si può credere, ma non propagare la religione. Del resto, Mao affermava che solo gli atei hanno il diritto e il dovere di propagare l’ateismo, essendo convinto sostenitore che il progresso della scienza avrebbe portato al perire delle religioni, senza bisogno di persecuzioni11.
Dal 1982 la Cina vive, in ogni caso, una nuova fase della propria storia, il Presidente Deng Xiaoping ha indirizzato la sua politica su istanze economiche del paese senza insistere sulla lotta di classe. Nella nuova Costituzione del 1982, l’art. 36 dispone: «i cittadini godono della libertà di credenza religiosa. Nessun Organo statale, né organizzazione pubblica, né individuo possono costringere i cittadini a credere, o a non credere, in una religione; né possono fare delle discriminazioni contro i cittadini che credono, o che non credono, in una religione. Lo Stato protegge le attività religiose normali. Nessuno può far uso della religione per sovvertire l’ordine pubblico, danneggiare la salute dei cittadini, o interferire nel sistema scolastico statale. Gli Enti religiosi e gli affari religiosi non sono soggetti ad alcuna dominazione straniera»12. Le successive modifiche costituzionali non hanno portato ad un sostanziale variazione in materia di “libertà di culto”.

Limitazioni oggettive alla diffusione del cristianesimo in Cina

Si deve, inoltre, ricordare che nel processo di evangelizzazione della Cina degli anni venti del XX secolo, e a ben vedere anche oggi, l’estensione territoriale cinese fu un fattore limitante questo, perché la notevole distanza tra le varie province portò ad uno scollamento tra l’autorità centrale e l’autorità locale.
In quegli anni la real-politique cinese non permetteva un unico sentire, soprattutto in materia religiosa, sia a causa della mancata unificazione della Cina, sia perché all’interno del Governo centrale non tutti i suoi componenti avevano la stessa veduta in materia religiosa. Infatti, le province dissidenti, in aperto contrasto con il Governo centrale, spesso non davano applicazione ai tanti provvedimenti che l’autorità centrale emanava, comportandosi in modo del tutto indipendente con quanto legiferato dal Governo centrale. Poteva così accadere che, da una parte si facessero delle concessioni e dall’altra, non curanti delle leggi in vigore, si applicassero misure restrittive. Se oggi la Cina è unificata (anche se rimane aperta la questione con Taiwan13) e in materia religiosa il Governo centrale ha chiarito la propria posizione, tuttavia, la sua estensione territoriale resta ancora un problema in un possibile nuovo spiraglio di cristianizzazione della Cina.
Ecco perché ancor oggi, a momenti di possibile apertura del Governo centrale cinese in materia religiosa, si sono avvicendati periodi di recrudescenza anti-religiosa da parte delle autorità locali con atti intimidatori nei confronti di missionari e preti stranieri sino a sfociare in carcerazioni e soprusi. Inoltre, se il mancato decollo del processo di evangelizzazione in Cina nello scorso secolo fu attribuito al mancato confronto e dialogo con le élites del Paese, oggi il processo di globalizzazione dovrebbe favorire maggiormente il dialogo, portando la Chiesa cattolica verso nuove sfide.
Un ulteriore punto su cui focalizzare l’attenzione, che sta a monte di tutti i vari dettami costituzionali sia di destra che di sinistra, è relativo alla visione che i cinesi hanno della “Chiesa”, dal punto di vista del suo potere politico, per cui l’ammissione di una “libertà di culto” implica sempre un eventuale riconoscimento dell’ente o dell’istituzione che a tale culto sovrintende. A questo proposito va da sé che due culture diverse, per conoscersi, devono saper accorciare le loro distanze, ma questo sino ad oggi non è avvenuto. Se esistono degli stereotipi sui cinesi da parte occidentale, ne esistono anche tra i cinesi nei confronti dell’Occidente. Tuttavia, se la Chiesa si è interrogata su come avvicinarsi alla Cina dal punto di vista della comunicazione religiosa, bisogna che faccia un ulteriore passo e chiarisca la propria posizione circa la “natura dualistica” di potere politico, da una parte, e potere spirituale dall’altro, mostrandosi effettivamente slegata da tutto ciò che in passato costituì un handicap per il processo di evangelizzazione. Il messaggio di scuse al popolo cinese di Giovanni Paolo II, nel 2001, andava già in tale direzione.
Come sosteneva nel Novecento Celso Costantini, “convertire i singoli è difficile, ma lo è ancor di più convertire una Nazione”. Butturini sostiene che, dopo il Concilio Vaticano II, la visione europeista della Chiesa è mutata: «Nel Concilio si pongono le premesse per una effettiva parità fra le chiese e le relative culture; almeno indirettamente il modello politico ed economico dell’Europa non è più l’unico»14. Bisogna, però, ricordare che, solo con il Sinodo del 1974, questo mutamento diviene osservabile.
Comunque in questi ultimi anni, ossia a cavallo tra il XX secolo e l’inizio del terzo millennio, si è fatta molta più strada rispetto al passato. Oggi il dialogo interreligioso si presenta come la gestione della diversità e il mondo cristiano come pluralista e pluralistico. Dopo un periodo di incertezza postconciliare, Giovanni Paolo II ha traghettato la Chiesa del terzo millennio, con una forte identità, verso una grande pluralità di realtà aggregate ed un forte senso del dialogo. Il mondo cristiano del nuovo secolo è pieno di nuove e molteplici sfide; una di queste potrebbe certamente essere rappresentata da una possibile riapertura di dialogo tra la Cina e la Santa Sede, ma una grossa scommessa per la Chiesa cattolica consisterebbe nel “convertire” e confrontarsi con i cinesi, a partire da quelli che vivono e lavorano sul nostro territorio.






Note:

1 - COSTANTINI Celso, Ultime Foglie, ricordi e pensieri, Unione Missionaria del Clero in Italia, Roma, 1954, p. 3.
2 - Prato è ormai diventata una delle città con più alta incidenza di cittadini stranieri. Tuttavia, come rileva la stessa Marsden i dati vanno letti cum grano salis, poiché i residenti privi di residenza anagrafica sono molto più numerosi di quelli che in realtà appaiono dai rapporti ministeriali o diffusi dal Dossier Caritas, o da altre pubblicazioni. Quindi il computo è decisamente inferiore. La comunità cinese presente in territorio pratese ha iniziato prima delle altre comunità straniere un proprio processo di stabilizzazione nella provincia. La crescita riguarda tutti i tipi di permesso di soggiorno e il tasso di incremento dei permessi di famiglia, per quanto rilevante, è inferiore a quello registrato tra gli altri gruppi. Nel suo insieme, lo sviluppo di questa comunità riguarda le presenze per lavoro subordinato e per famiglia, ma aumentano anche le presenze per lavoro autonomo. Si può rilevare una crescita esponenziale fino al 1997, seguito da un periodo di stagnazione fino al 2000 (la forte preponderanza di cittadini cinesi si è ridotta nell’arco di questo periodo per la consistente crescita degli altri gruppi di immigrati), ed infine una ripresa della crescita nel 2001. Il tasso d’incremento si è inevitabilmente ridotto al termine della regolarizzazione, scendendo, nel 2000, al di sotto del 10%. I dati sui residenti inclusivi di minori consentono solo una quantificazione parziale delle presenze, poiché molti di loro soggiornano regolarmente nel comune di Prato, senza acquisirvi la residenza. I residenti cinesi, alla data 30 giugno 2004, si concentrano nel centro o ad ovest della città, con una percentuale sul totale degli stranieri di 47,66% ad ovest e 46, 71% in centro; sul totale dei residenti 3,42% ad ovest e 7,20% in centro. MARSDEN Anna, La presenza straniera nella Provincia di Prato, Osservatorio provinciale sull’immigrazione, Febbraio 2001, p. 2. Centro Ricerche e Servizi per L’Immigrazione del Comune di Prato, a cura di MARSDEN Anna, GELLI Monica e PECCHIOLI Serena, Residenti stranieri nel comune di Prato, Novembre 2004. Centro Ricerche e Servizi per L’Immigrazione del Comune di Prato, a cura di MARSDEN Anna, I numeri della presenza straniera, Comune di Prato e Università di Firenze, Stati Generali della Città, Comune di Prato, 2002, pp. 1- 6. Centro Ricerche e Servizi per L’Immigrazione del Comune di Prato, a cura di MARSDEN Anna, I numeri della presenza straniera, Dicembre 2003, pp. 1-11. Centro Ricerche e Servizi per L’Immigrazione del Comune di Prato, La popolazione straniera residente a Prato e l’immigrazione cinese, a cura di MARSDEN Anna e GELLI Monica, Luglio 2004, p. 4.
3 - Si tratta in effetti di famiglie allargate nel senso più ampio del termine, comprendenti più nuclei familiari.
4 - JABBAR Adel, “Migranti, identità in evoluzione”, in «Aut&Aut», settimanale delle autonomie toscane, n. 48, novembre, Prato, 2002, p. 1.
5 - Non è un caso che gli intervistati provengano da questa regione, infatti dai dati forniti dal comune di Prato il maggior numero di cinesi presenti sul territorio pratese provengono da questa zona della Cina. Centro Ricerche e Servizi per L’Immigrazione del Comune di Prato, a cura di MARSDEN Anna, Edizione 1997-1998, p. 25. Centro Ricerche e Servizi per L’Immigrazione del Comune di Prato, a cura di MARSDEN Anna, Edizione 1998-1999, p. 25.
Centro Ricerche e Servizi per L’Immigrazione del Comune di Prato, a cura di MARSDEN Anna, Edizione 2000, p. 19.
Centro Ricerche e Servizi per L’Immigrazione del Comune di Prato, a cura di MARSDEN Anna, Edizione 2001, p. 19.
Centro Ricerche e Servizi per L’Immigrazione del Comune di Prato, a cura di MARSDEN Anna, Edizione 2002, p. 19.
Centro Ricerche e Servizi per L’Immigrazione del Comune di Prato, a cura di MARSDEN Anna, Edizione 2003, p. 20.
6 - Dai dati forniti fino al 2002, la loro presenza si concentra nelle scuole elementari e medie, ma risulta alquanto consistente pure nelle materne e superiori. Per l’anno scolastico 2004-2005 nelle scuole elementari su un totale di 967 stranieri 409 sono cinesi, tradotti in percentuale il 42,30%; gli alunni che iniziano sono 95, ossia 40,08 %, ma alla quinta classe arrivano solo in 67 ossia 41,36%. Nella scuola media su un totale 737, 397 sono cinesi, ossia il 53,87%; nelle tre classi il numero degli studenti è stazionario. Nelle scuole superiori, soprattutto istituti tecnici, iniziano, su un totale di 228, 126 studenti cinesi, ossia 55,26%, ma arrivano al diploma 1 su 24 studenti, ossia su un totale di 421 studenti 179 sono cinesi, ossia 42,52%. Centro Ricerche e Servizi per L’Immigrazione del Comune di Prato, a cura di MARSDEN Anna, I numeri della presenza straniera, Comune di Prato e Università di Firenze, Stati Generali della Città, Comune di Prato, 2002, p. 6. Centro Ricerche e Servizi per L’Immigrazione del Comune di Prato, a cura di MARSDEN Anna, Gli stranieri nelle scuole del Comune di Prato (Anno scolastico 2004-2005), Novembre 2004, 1-12.
7 - CAPRISTO Vincenza Cinzia, “Fondare la Chiesa” in Estremo Oriente, le Missioni cattoliche in Cina dal 1928 al 1946, Catanzaro, ed. Ursini, 2001, pp. 46-47.
8 - Il riferimento è alla comunità di Solofra, in Provincia di Avellino. Centro conciario del Sud, ha rappresentato per i cinesi un punto nevralgico nel settore della pelletteria. Tuttavia, non si è instaurato un dialogo tra la comunità cinese e le istituzioni sia politiche che religiose, ma piuttosto uno scollamento dovuto anche alla mancanza di un dialogo per le difficoltà della lingua. Conosco de visu la comunità solofrana per i contatti con Mons. Michele Alfano, parroco della Collegiata di S Michele. Ci risulta da fonti terze che a Napoli e nell’hinterland (soprattutto a San Giuseppe Vesuviano) esistono molti cinesi che si sono accostati alla comunità dei “Testimoni di Geova”.
9 - Costituzione della Repubblica italiana.
10 - Cf I Documenti del Concilio Vaticano II, edizioni Paoline, Roma 1965, pp. 598-616.
11 - ZANINI Giuseppe, Cristo in Cina (documenti di storia missionaria), editore Ghiandetti, Udine, 1982, pp. 187-188.
12 - LAZZAROTTO Angelo, La politica della Cina Comunista nei confronti della religione, in «Nuova Umanità», n. 33-35, Città Nuova Edizione PAMOM, Roma, 1984, pp. 83-84.
13 - CAPRISTO Vincenza Cinzia, “Chiesa Cattolica e mondo cinese: quale dialogo? Due epoche e due interventi pontifici a confronto”, «Vivarium», numero 1, gennaio-aprile, ed. Ursini, Catanzaro, 2005, pp. 109-120.
14 - BUTTURINI Giuseppe, “Da una Chiesa di missione ad una Chiesa missionaria”, (Quaderni C.U.A.M.M.), n. 16, Padova, 1985, pp. 1-57. RICCARDI Andrea, Intransigenza e modernità-la Chiesa cattolica verso il terzo millennio, ed. Laterza, Bari, 1996, pp. 92-107.



 



Fonte : scritti della dott.essa Vincenza Cinzia Capristo ; articolo pubblicato sulla rivista "Il Cerchio", N°64, Anno XIII, maggio/ottobre 2007, sito web www.cerchionapoli.it  .

* Vincenza Cinzia CAPRISTO ( e-mail: capristocinzia@libero.it )  è laureata in Scienze Politiche con indirizzo Internazionale alla “Cesare Alfieri” di Firenze, in Storia Politica e Diplomatica dell’Asia Orientale. Dal 2000 si occupa di storia del Cristianesimo in Cina, in particolare i suoi studi sono indirizzati ai secoli XIX e XX. Al suo attivo varie pubblicazioni su queste tematiche. Collabora per alcuni progetti di ricerca con l’Orientale di Napoli, l’Università Pontificia dell’Italia Meridionale di Napoli e altri centri di ricerca. È membro dell’Associazione Culturale Orientalia Parthenopea di Napoli www.orientaliaparthenopea.org .












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